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di Floriana Bulfon

Nel documento SPECIALE UCRAINA In trincea (pagine 90-94)

Le donne della Carnia realizzano a mano berretti e calzini. Nell’altra pagina: donne friulane lavorano a maglia durante la Festa del calzino

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re in relazione la nostra comunità. Si sono creati piccoli laboratori nelle val-li in cui le donne più anziane traman-dano la loro conoscenza: un filo di la-na che unisce culture differenti e tiene viva la memoria», spiega Paolo Agosti-nis, primario di medicina interna all’o-spedale di Tolmezzo. E così ragazzine venute dalla città si ritrovano ad ascol-tare nonne che non sono mai uscite da questi monti: si fanno insegnare come realizzare a mano calzini e berretti di lana. Il loro motto è quello di una leg-genda africana che racconta di un in-cendio: «Il re della foresta, il leone, e tutti i grandi animali, fuggivano lonta-no dalle fiamme. Un piccolo colibrì, invece, con una goccia d’acqua nel becco volava verso le fiamme. Il leone gli gridò: “Credi di poter spegnere l’in-cendio con la tua goccia d’acqua?!”.

Senza fermarsi il colibrì rispose:

Foto: Paolo Agostinis

Storie

noi c’era solo un po’ polenta e spesso neanche quella, tanto che dovevamo allungarla con le patate». 

Oggi il Friuli è un’oasi di benessere.

Nonna Rosalba ha figli sistemati e una nipote laureata ma non dimentica chi ha bisogno di aiuto. Usa la sapienza delle sue mani con i ferri per confezio-nare calzettoni di lana, che vengono venduti per finanziare un programma di sviluppo in Africa. «Non ho mai la-sciato la Carnia e non conosco quei pa-esi. Ma so cosa significa non possedere nulla e questo mi basta».

Rosalba è una delle volontarie che sostengono il progetto “Fiesta dal Cjal-cin” (Festa del Calzino ndr), un’iniziati-va nata nel 2017 in Val Pesarina dove Rosalba vive. «È un evento per racco-gliere fondi destinati ad aiutare altre persone costruendo pozzi d’acqua po-tabile, ma è anche un modo per

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a memoria della miseria non si cancella. È una lezione pe-renne, incisa nell’anima per tutta la vita: ti insegna che la solidarietà è l’unica risorsa per andare avanti. Rosalba Polzot ha 89 anni, gli occhi vispi incorniciati da capelli di ne-ve: è nata e cresciuta in Carnia, tra montagne aspre e boschi monumenta-li. Ha visto la guerra, con i tedeschi che avevano consegnato questa terra ai fe-roci cavalieri cosacchi: «Le ragazzine come me si arrampicavano su sentieri e mulattiere per rifornire di cibo, medi-cine e munizioni i partigiani». Ma so-prattutto Rosalba ha vissuto la fame:

«Accompagnavo le bestie al pascolo e per guadagnare qualcosa consegnavo il pane nelle case dei ricchi. Avevo il gei (la gerla ndr) sulle spalle con il profu-mo delle pagnotte appena sfornate. Io però non potevo permettermele: per

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La memoria e l’impegno

“Faccio la mia parte”». 

Quando nonna Rosalba ascolta le storie dei migranti africani è come se si specchiasse. «Mio padre è morto gio-vane, a soli quarant’anni, e mi sono ri-trovata orfana che ero piccolina. È sta-ta dura. Quando poi mi sono sposasta-ta, mio marito Remo è andato a lavorare in Francia come carpentiere. Sono ri-masta qui ad aspettarlo mentre cre-scevo i nostri figli. È la nostra storia, com’è possibile dimenticarla?». Quelle calze di lana che oggi sostengono i vil-laggi della Tanzania sono parte dell’i-dentità delle montagne friulane. «Fa-cevamo su e giù dalla montagna con il gei (la gerla ndr) sulle spalle per porta-re il fieno alle mucche, ma le mani era-no libere. Così camminavi e sferruzza-vi: sciarpe, cappelli, maglioni. Non c’e-ra tempo da perdere». Lo facevano tutte le donne, d’ogni età. Il fidanzato come pegno d’amore non regalava un anello ma il gugjet: un monile a forma di cuore, fissato alla cintura, con una cavità che nelle salite proteggeva il fianco dai ferri della maglia. 

«La prima cosa che imparavi a fare erano i calzini, perché mica si compra-vano e la maggior parte delle persone non possedeva scarpe adatte al freddo.

Adesso per questo progetto io e altre

vecchiette lo insegniamo a ragazze gio-vanissime». Aiutano l’Africa e riscopro-no le loro radici.

«La povertà non s’insegna all’uni-versità», nota il dottor Agostinis:

«Quando entri nella quotidianità di queste persone comprendi l’impor-tanza di beni essenziali come l’acqua pulita. Per questo costruiamo i pozzi».

Quattro li hanno realizzati nell’isola di Pemba, in Tanzania, un altro in Benin.

Non solo, da anni in collaborazione con la fondazione Ivo de Carneri di Mi-lano e un gruppo di giovani medi-ci portano avanti corsi per aiutare gli infermieri e i pochi medici locali: «Cer-chiamo di insegnare a fare diagnosi attraverso l’interpretazione dei sinto-mi e dei segni clinici ed ecografici, non disponendo spesso di altri strumenti diagnostici se non il microscopio, e so-prattutto di mettere in campo misure per prevenire le patologie».

La mancanza di acqua potabile ad esempio causa malattie parassitarie, tifo, colera. «Sulla causa della nostra malattia un solo sguardo ai nostri cen-ci ti direbbe di più» si legge in “Discor-so di un lavoratore a un medico” di Bertolt Brecht. E Agostinis ne è con-vinto: «La causa della tubercolosi non è il bacillo, come ti insegnano, ma la

povertà e la malnutrizione che per-mettono al bacillo di provocare la ma-lattia». Agostinis crede che l’egoismo della nostra società sia diventato auto-lesionista. «Penso ai vaccini contro il Covid-19. Li neghiamo all’Africa e pro-teggiamo i brevetti che arricchiscono Big Pharma più della vita di un conti-nente. Poi però le varianti del virus na-te in questi Paesi lasciati senza difese rendono più feroce la pandemia in tut-to l’Occidente. Guardate cosa sta ac-cadendo con Omicron...». 

L

a malattia non bada al colore della pelle. Il progetto è dedica-to anche alla memoria di An-drea Menis, ucciso in Friuli da un morbo rarissimo che normalmente si riscontra soltanto in Africa: il tumore di Burkitt causato dal virus di Epstein Barr. Da noi in genere causa la mono-nucleosi, ma nei Paesi poveri lo stesso virus determina un linfoma incurabile, proprio quello che ha colpito Andrea.

La famiglia ha voluto che dal sacrificio di Andrea sbocciasse una speranza e ha contribuito al finanziamento per la costruzione dei pozzi nell’isola di Pem-ba. Sulla fontana del villaggio di Rui c’è la foto di Andrea e una scritta in lingua friulana: «mandi amis no us cognos’

Durante la Festa del calzino a Osais, in Friuli. Nella foto al centro: bambini corrono verso il nuovo pozzo sull’isola di Pemba, in Tanzania

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Storie

Foto: Paolo Agostinis

I calzini e i berretti realizzati dalle donne della Val Pesarina, nella Carnia, vengono donati alla Fondazione Ivo de Carneri e proposti al pubblico

ma jo sai che un got di aghe je in podè di cujet â la veustra s êt e fa su i vuestris siums» («ciao amici, non vi conosco ma so che una goccia d’acqua può pla-care la vostra sete e accendere i vostri sogni», ndr). Non lontano nella scuola N’Dagoni, un altro pozzo permette a 1.600 studenti di bere e lavarsi. Nel vil-laggio di Mtamba è stato realizzato in-vece un pozzo grazie al supporto di un’altra famiglia carnica, quella di Gia-da Maieron, avvocata attenta ai più de-boli scomparsa prematuramente. Ago-stinis mostra le foto e si commuove ri-cordando Yahya, l’ingegnere di Pemba che ha installato la pompa e l’impianto solare che l’alimenta: «È morto per Co-vid-19, tutti i mesi mi ha inviato lo stato d’avanzamento dei lavori. Ora se ne oc-cupa Nayha, una sua collaboratrice». 

Adesso le bambine di quei villaggi non devono più alzarsi all’alba e cam-minare per ore prima di riempire le taniche con l’acqua per cucinare. Non rischiano più, a piedi scalzi nella luce ancora debole, di essere attaccate dalle vipere. La stessa marcia che un tempo toccava alle loro coetanee in Carnia per raggiungere la sorgente.

Un altro mondo, che sembra così di-stante mentre invece nonna Rosalba lo ricorda bene.

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ndavamo a servire o sotto padrone già a 10 anni. Io ho iniziato fa-cendo la bambinaia, a 14 anni ero già emigrata in cotonificio a Gallarate. Ho ripreso le scuole medie a 25 anni, alle serali, poi il corso da in-fermiera e alla fine sono orgogliosa: mi sono presa la laurea in Sociologia e an-che in Teologia».  Nives Baldacconi ha 75 anni ed è una caposala in pensione, sempre in prima linea dal terremoto di Norcia allo tsunami in Sri Lanka con gli ospedali da campo degli Alpini e il cap-pello con la penna nera consegnato dal suo papà.  Agostinis la chiama «valore aggiunto», dalle missioni in Africa alla Carnia, perché Nives coordina tutte le volontarie. Porta la lana a Luce Mec-chia, 93 anni e i ricordi della guerra; a Fides Martin che ha trovato un modo per far rivivere suo figlio, a Vilma Mon-tenuovo che a 102 anni continua a sfer-ruzzare davanti allo spolert (stufa a le-gna ndr) e recupera i fili scartati perché non si butta via niente.  «Molte si senti-vano inutili e la pandemia ha creato ancora più solitudine. Altre sono nelle case di riposo. Così invece si sono ritro-vate unite da una doppia catena di soli-darietà», dice Nives. 

Una solidarietà che è anche lirica.

Prima di Natale per tre giorni nella ne-ve della Val Pesarina ci si mobilita per chi sta nella siccità dell’Africa. Uno dei momenti più partecipati è la lettura dei versi di Pierluigi Cappello, il poeta friulano che proprio il dottor Agostinis ha assistito nella lunga malattia. «Ho soltanto i miei occhi nei vostri e l’alle-gria dei vinti e una tristezza grande», ha scritto nella sua poesia “Parole po-vere”. Lui, «un uomo di montagna, aperto alle ferite», spesso ricordava la faglia aperta dal terremoto del 1976: il prima e il dopo di quello stare in bilico per sempre. Una parte del Friuli rima-sta sepolta e l’urgenza di recuperare l’essere parte di una comunità perché:

«Se dico io e individuo il mio io più profondo, in realtà dico noi».

«Nelle foto di quei villaggi africani vedo tantissimi bambini. Sorridono tutti. Mi fanno ripensare al borgo in cui sono cresciuta, pieno di bambini. An-che noi avevamo pochissimo e bastava una patata per renderci felici», ricorda nonna Rosalba. 

Ora in questi paesi tra i monti ri-mangono spesso solo vecchi ed è sempre più difficile incontrare un sor-riso. E siamo noi che stiamo

diven-tando il deserto. Q

© RIPRODUZIONERISERVATA

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