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Le cause di esclusione del reato

Autore: Edizioni Simone | 24/08/2016

Cause di giustificazione o scriminanti, consenso dell’avente diritto, esercizio di un diritto, adempimento di un dovere, legittima difesa, stato di necessità. L’errore e il reato aberrante.

Per la esistenza di un reato non basta la sussistenza di un comportamento umano cosciente e volontario conforme alla descrizione della nonna incriminatrice. È altresì necessario che non ricorrano cause soggettive od oggettive di esclusione del reato, cioè situazioni (espressamente previste dalla legge) in presenza delle quali un fatto che normalmente costituisce reato va esente da pena.

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Esaminiamole nei paragrafi che seguono.

Le cause oggettive di esclusione del reato

Le cause oggettive di esclusione del reato sono comunemente denominate «cause di giustificazione» o «scriminanti».

L’esistenza di una causa di giustificazione esclude l’antigiuridicità del fatto, cioè il contrasto di esso con un precetto dell’ordinamento giuridico (in quanto lo giustifica) e, quindi, esclude il reato. La loro rilevanza è obiettiva, per cui sono valutate «a favore dell’agente anche se da lui non conosciute o da lui per errore ritenute inesistenti» (art. 59, comma 1, c.p.).

Le cause di giustificazione previste dalla legge sono le seguenti.

Il consenso dell’avente diritto (art. 50 c.p.)

Il consenso del titolare del bene o del diritto protetto dalla norma esclude la illiceità di un fatto che normalmente arrecherebbe offesa a quel bene o a quel diritto in quanto viene a priori a cadere la possibilità di un danno.

Il consenso, a norma dell’art. 50, deve:

avere ad oggetto un diritto disponibile. Secondo la dottrina più recente debbono ritenersi indisponibili i diritti appartenenti alla collettività, nonché i beni dell’individuo che sono tutelati indipendentemente dalla sua volontà, perché riconosciuti di interesse pubblico;

essere prestato validamente dal soggetto capace e titolare di tale diritto.

Legittimato a prestare il consenso è colui che, altrimenti, sarebbe il soggetto passivo del reato, sempre che abbia capacità di intendere e di volere al momento della manifestazione del consenso. Quanto alla capacità di agire, si discute in dottrina sul limite di età richiesto per il suo acquisto;

sussistere al momento del fatto. Il consenso deve essere espresso con volontà non viziata da errore, violenza o dolo, e deve essere lecito (non contrario a nonne imperative, all’ordine pubblico e al buon costume) e

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attuale (cioè esistente al momento del fatto).

L’esercizio di un diritto (art. 51 c.p.)

Il titolare di un diritto, nell’esercizio di esso, può compiere alcuni atti che normalmente costituiscono reato, rimanendo immune da pena.

Il fondamento di tale scriminante va rinvenuto nella logica considerazione che, se l’ordinamento ha attribuito ad un soggetto un diritto e, quindi, la facoltà di agire nell’esercizio di esso in un certo modo, l’azione riconosciuta non potrà certamente integrare un fatto illecito (esempio: il giornalista che riferisce obiettivamente fatti che ledono l’onore di una persona non commette il reato di diffamazione, perché esercita un diritto riconosciutogli dalla legge).

Nell’ambito dei diritti l’esercizio dei quali è scriminato, la dottrina individua, oltre al diritto di cronaca giornalistica ed alla disciplina familiare, anche il diritto di critica ed i cd. offendicula. In particolare, questi ultimi sono mezzi a tutela della proprietà atti ad offendere. La giurisprudenza ammette, entro determinati limiti, l’uso degli offendicula.

Presupposti della scriminante sono:

l’esistenza di un diritto;

che il diritto sia esercitato dal suo titolare;

che l’esercizio di esso non superi i limiti imposti dalla sua natura e dalla esistenza di diritti altrui;

L’adempimento del dovere (art. 51 c.p.)

Nella ipotesi in esame, il comportamento del soggetto non costituisce reato in quanto

lo stesso non aveva alcuna facoltà di scelta, ma era tenuto a porlo in essere dovendo adempiere ad un dovere; del fatto risponderà il superiore gerarchico che ha impartito l’ordine (art. 51 comma 2).

Il dovere può derivare:

da una norma giuridica (ad esempio: il soldato che uccide in guerra non

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commette il delitto di omicidio):

da un ordine dell’Autorità: ordine è qualsiasi manifestazione di volontà che un superiore rivolge ad un inferiore gerarchico affinché tenga un determinato comportamento. Presupposto della scriminante è l’esistenza, tra il superiore e l’inferiore, di un rapporto di subordinazione di diritto pubblico. L’ordine, inoltre, deve essere legittimo, tanto sotto il profilo sostanziale quanto sotto quello formale.

Per il primo tipo di legittimità devono esistere i presupposti richiesti dalla legge.

L’ordine può essere disatteso solo se manifestamente criminoso.

Per la legittimità formale dell’ordine è invece richiesto che:

il superiore abbia la competenza ad emetterlo;

l’inferiore abbia la competenza ad eseguirlo;

siano state rispettate le procedure e le formalità di legge previste per la sua emissione.

Un caso particolare di attività giustificata da una norma giuridica è quello dell’uso legittimo delle armi (art. 53 c.p.).

Possono invocare tale scriminante i pubblici ufficiali e quei soggetti che su legale richiesta del p.u. gli prestino assistenza. La legge ha, dunque, previsto una “riserva di competenza” a favore del pubblico ufficiale relativamente ai casi in cui è legittimo il ricorso alle armi. La richiesta di assistenza è legale quando è fatta nei limiti e nei casi previsti dagli artt. 652 c.p. e 380 c.p.p.

Le condizioni perché si possa invocare la scriminante sono le seguenti:

che il soggetto sia determinato dal fine di adempiere un dovere del proprio ufficio;

che il soggetto sia costretto a far uso delle anni dalla necessità (l’uso delle armi costituisce “extrema ratio” di respingere una violenza, vincere una resistenza, impedire la consumazione dei delitti di cui all’ultimo inciso dell’art. 53.

Quanto alla resistenza è discusso se in essa rientri, oltre quella attiva, anche la passiva quale l’inerzia o la fuga per impedire al pubblico ufficiale di adempiere LUI dovere di ufficio (ad es. dimostranti che bloccano il traffico ferroviario sedendosi

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sulle rotaie).

L’art. 53 comma 3 c.p. richiama altri casi in cui la legge autorizza l’uso delle armi o di altri mezzi di coazione fisica.

Legittima difesa (art. 52 c.p.)

Purché vi sia un pericolo attuale per il proprio od altrui diritto, derivante da una aggressione ingiusta da parte di un terzo, il soggetto può reagire compiendo in danno dell’aggressore una azione che normalmente costituisce reato, sempre che tale reazione sia assolutamente necessaria per salvare il diritto minacciato e sia proporzionata all’offesa (esempio: il soggetto che uccide per difendersi da chi gli si sta scagliando contro armato di coltello e con evidente intenzione omicida). È talvolta ammessa la legittima difesa anticipata.

Requisiti dell’aggressione perché ricorra la scriminante sono:

oggetto dell’offesa deve essere un diritto;

l’offesa deve essere ingiusta, cioè contraria al diritto;

il pericolo minacciato deve essere attuale;

il pericolo non deve essere stato determinato volontariamente dall’agente.

Agli stessi fini la reazione deve essere:

costretta;

necessaria;

proporzionata all’offesa: proporzione che secondo la dottrina più recente deve sussistere tra il male minacciato e quello inflitto.

Peraltro, a seguito dei correttivi operati sulla previsione dalla L. 13-2-2006, n. 59, è stata introdotta una ipotesi nella quale, in deroga alla regola generale anzidetta, la sussistenza del rapporto di proporzione tra la reazione dell’aggredito e l’offesa minacciata viene presunta ex lege (dunque sottratta alla valutazione del giudice), nel caso in cui il fatto avvenga nel domicilio dell’aggredito o nel suo luogo di lavoro (per tale intendendosi ogni luogo in cui si eserciti una attività commerciale, professionale o imprenditoriale). In particolare, si esclude la punibilità di chi, legittimamente presente in uno dei luoghi appena indicati, usi un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere la propria o

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altrui incolumità, ovvero i beni propri o altrui, nel caso in cui non vi sia desistenza e sussista un pericolo d’aggressione.

Nell’interpretare tale correttivo normativo, la Cassazione ha precisato che esso riguarda solo il concetto di proporzionalità, fermi restando i presupposti dell’attualità dell’offesa e della inevitabilità dell’uso delle armi come mezzo di difesa della propria o dell’altrui incolumità (Cass. 2-5-2007, n. 16677);

Stato di necessità (art. 54 c.p.)

Ricorrendo il pericolo attuale di un danno grave alla persona (il cui concetto è stato esteso, in armonia con quanto stabilito dall’art. 2 della Costituzione, a quelle situazioni che minacciano solo indirettamente l’integrità fisica del soggetto, riferendosi alla sfera dei beni primari collegati alla personalità) e purché la situazione cli pericolo non sia stata causata dallo stesso agente (con dolo o per colpa), il soggetto può compiere in danno di un terzo un’azione che normalmente costituisce reato, sempre che questa sia assolutamente necessaria per salvarsi e sia proporzionata al pericolo, e sempre che il soggetto non abbia un particolare dovere di esporsi al pericolo stesso (esempi tipici: l’alpinista che, per salvarsi, taglia la corda che lo lega al compagno sospeso nel vuoto e che rischia di trascinarlo con sé nel baratro; il naufrago che fa annegare un suo compagno in quanto la zattera su cui si trova non può sostenere il peso di più di una persona).

Perché ricorra lo stato di necessità occorre, dunque:

l’esistenza di una situazione di pericolo attuale, da cui possa derivare un danno grave alla persona la quale non lo abbia causato né sia tenuto ad esporvisi;

un’azione lesiva assolutamente necessaria per salvarsi e proporzionata al pericolo.

L’ultimo comma dell’art. 54 statuisce che, se lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo;

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Errore sulle cause di giustificazione (art.

59 c.p.)

L’errore sulle scriminanti è disciplinato specificamente dall’art. 59 c.p., il quale, conformemente alla disciplina dettata per l’errore sul fatto, stabilisce che: «Se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo».

Per l’operatività della scriminante putativa è necessario che l’agente supponga di trovarsi in una situazione di fatto tale che, ove sussistesse realmente, egli eserciterebbe un diritto, adempirebbe un dovere giuridico, si troverebbe in uno stato di necessità o di legittima difesa.

Qualora, invece, il soggetto agente ritenga erroneamente esistente una scriminante, in realtà non prevista dalla legge, il suo è un errore sul precetto, e come tale penalmente irrilevante.

Così, andrà assolto, perché il fatto non costituisce reato, colui che uccida una persona credendo di essere assalito da un malvivente, qualora il suo errore non sia colposo e qualora nella sua condotta non si ravvisi un eccesso di legittima difesa (nel qual caso risponderà per omicidio colposo ex artt. 59, comma 3, e 55 c.p.).

Se però, pur sussistendo tutti i presupposti per il ricorrere di una causa di giustificazione, l’agente colposamente ne travalichi i limiti (eccesso colposo) «Si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo» (art. 55 c.p.).

Cause di giustificazione non codificate

La dottrina ritiene che possa farsi ricorso al procedimento analogico per individuare altre cause di giustificazione non contemplate espressamente dalla legge.

Sono state individuate le seguenti ipotesi:

informazioni commerciali: allorché tali informazioni vengano fornite

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dietro richiesta a più persone e per il contenuto siano offensive dell’altrui reputazione (esempio: il signor X suole non far fronte ai suoi impegni), formalmente ricorrerebbero gli estremi del reato di diffamazione (art. 595):

il fatto, tuttavia, non è punibile in base all’art. 51, trattandosi di facoltà riconosciuta da una norma consuetudinaria o implicita nella tutela dell’attività commerciale ex art. 41 Cost.;

trattamento medico-chirurgico: per la liceità dell’attività medico- chirurgica diretta a circoscrivere o guarire gli effetti di una malattia o ad eliminare o ridurre una deformità si ritiene necessario il consenso del paziente (o consenso presunto nel caso dell’infortunato operato urgentemente in stato di incoscienza). Il fondamento di tale scriminante è da ricercare nel fatto che l’attività medico-chirurgica risponde ad un interesse sociale;

attività sportiva: il danno prodottosi fortuitamente nel corso di un’attività sportiva violenta, pur nel pieno rispetto delle regole del gioco, non può dirsi scaturente da atto illecito.

Il fondamento di tale scriminante non risiede nella consuetudine e neppure nel consenso dell’offeso (perché vi osta l’art. 5 cod. civ.), ma, secondo BETTIOL, allorché si abbia a soddisfare un dato interesse che si ritiene proprio di tutta la collettività (come il potenziamento fisico della gioventù attraverso lo sport), occorre anche assumere il rischio della lesione di un interesse individuale relativo alla integrità fisica.

Cause soggettive di esclusione del reato

Sono le cd. «Scusanti» che fanno venir meno la colpevolezza, cioè l’elemento soggettivo del reato. Il fatto materiale posto in essere dal soggetto rimane antigiuridico ma, mancando l’elemento soggettivo (dolo o colpa), esso non costituisce reato e, quindi, non è punibile.

a) Determinano l’esclusione del nesso psichico (coscienza e volontà dell’azione ex art. 42 c.p.):

1) incoscienza indipendente dalla volontà: si ha in tutti i casi in cui il soggetto pone in essere un fatto costituente reato in stato di totale incoscienza che non può farsi risalire alla sua volontà, neppure a titolo di colpa (es.: azioni che il soggetto compie agitandosi in preda al delirio di una malattia);

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2) forza maggiore (art. 45 c.p.): consiste in una forza esterna all’uomo che per il suo potere superiore determina inevitabilmente il soggetto all’azione, anche contro la sua volontà (es.: un operaio, intento a lavorare su un’impalcatura che, sbalzato al suolo da un violentissimo colpo di vento, cadendo cagiona la morte di un passante schiacciato dal peso del suo corpo);

3) costringimento fisico (art. 46 c.p.): è un’ipotesi di forza maggiore in virtù della quale l’autore del reato è la longa manus di altro soggetto che è l’unico responsabile del reato (es.: chi è costretto con la forza a premere il grilletto di una pistola, uccidendo altra persona).

b) Determinano la mancanza di dolo o colpa:

1) il caso fortuito (art. 45), allorché si verifica, per effetto del comportamento dell’agente, un evento da lui non voluto, né da lui causato per imprudenza o negligenza (es.: un automobilista procedendo nel pieno rispetto delle norme sulla circolazione stradale investe un ciclista che, colpito da un malore, gli taglia improvvisamente la strada senza che lui possa far niente per evitare l’investimento);

2) l’errore sul fatto costituente reato (art. 47): consiste in una inesatta percezione della realtà del soggetto che, pertanto, ritiene di porre in essere un fatto concreto diverso da quello vietato dalla norma penale.

L’errore

L’errore può incidere

sul processo di formazione della volontà, la quale nasce, quindi, viziata da una falsa rappresentazione della realtà: cd. errore-motivo;

sulla fase esecutiva del reato, cioè sul momento in cui la volontà viene attuata: si parla, in tal caso, di errore-inabilità, che si ha nel cd. reato aberrante.

A sua volta, l’errore-motivo si distingue in:

errore sul divieto, che cade sulla nonna che prevede il fatto;

errore sul fatto, che cade sul fatto previsto dalla norma.

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Come osserva MANTOVANI, nell’errore sul divieto l’agente vuole un fatto identico a quello previsto dalla norma incriminatrice, credendo che esso non sia vietato: egli erra, quindi sulla qualificazione penale del fatto; viceversa, nell’errore sul fatto, l’agente vuole un fatto diverso da quello incriminato, ed erra, quindi, sulla corrispondenza del fatto alla fattispecie penale.

Pertanto, mentre l’errore sul divieto non esclude nel soggetto la coscienza dell’offensività del fatto, e quindi il dolo, l’errore sul fatto fa venir meno la volontà del fatto criminoso: qualora però l’errore sul fatto sia dovuto a colpa, l’agente risponderà del fatto se questo è previsto come delitto colposo.

L’errore sul divieto (o sul precetto) si ha quando il soggetto si rappresenta, vuol e realizza un fatto materiale che è perfettamente identico a quello vietato dalla norma penale, ma che egli, per errore, crede non costituisca reato.

L’errore sul divieto può derivare:

dalla ignoranza o erronea interpretazione della legge penale;

dalla ignoranza o erronea interpretazione della legge extrapenale, richiamata dalla norma penale, quando non si traduca anche in un errore sul fatto.

L’errore sul precetto è penalmente irrilevante, a meno che non sia inevitabile:

infatti l’art. 5 c.p., nel testo modificato recentemente dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 364/1988, prevede che «l’ignoranza della legge penale non scusa, tranne che si tratti di ignoranza inevitabile».

L’errore sul fatto si ha quando il soggetto, che può anche conoscere con precisione la norma penale, crede di realizzare un fatto diverso da quello vietato dalla norma penale (art. 47 comma 1).

L’errore sul fatto può derivare:

da un errore di fatto che consiste in una mancata o imperfetta percezione di un dato della realtà sensibile, per effetto del quale il soggetto agente ritiene di porre in essere un fatto concreto diverso da quello vietato dalla norma penale. Esso può cadere sugli elementi positivi e negativi del reato;

da un errore sulla legge extrapenale richiamata dalla legge penale

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laddove per legge extrapenale si intende una norma diversa da quella penale e da quest’ultima richiamata ai fini della determinazione della fattispecie criminosa; sono tali, ad esempio, le norme civilistiche concernenti la proprietà, rilevanti per la definizione del concetto di altruità della cosa nei reati contro il patrimonio. Inoltre, l’errore sulla legge extrapenale può tradursi in:

un errore sul precetto, che non esclude la responsabilità penale (salvo che, come si è detto, non sia inevitabile);

un errore sul fatto, che esclude la responsabilità penale quando è scusabile;

da un errore su una norma sociale richiamata dalla legge penale.

Concludendo, l’errore sul fatto esclude il dolo e, quando sia scusabile, anche la colpa; quando invece l’errore sul fatto è inescusabile, l’agente risponde a titolo di colpa, se il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo.

Il reato aberrante

È un’ipotesi di errore nell’esecuzione del reato.

Aberratio ictus: ricorre quando il reo, per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato (es. il proiettile deviando colpisce un soggetto anziché un altro) o per altra causa (es. nel momento in cui l’agente preme il grilletto la persona presa di mira cade e viene colpito altro soggetto) cagiona offesa a persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta. Il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere.

Quando poi, oltre alla persona diversa, sia colpita anche quella alla quale l’offesa era diretta, il colpevole soggiace alla pena stabilita per il reato più grave aumentata fino alla metà.

Aberratio delicti: si ha quando il reo, per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato o per altra causa, cagiona un evento diverso da quello voluto (Es. Tizio vuole ammazzare Caio e gli spara contro ma, mentre tira, Caio cade e il proiettile colpisce materie infiammabili provocando un incendio). Il colpevole risponde dell’evento non voluto a titolo di colpa (sempre che il fatto sia previsto dalla legge come delitto colposo; nell’es. Tizio risponderà di incendio colposo). Se il colpevole realizza poi anche l’evento voluto, si applicano le norme sul concorso di reati.

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Dalla dottrina, infine, è stata creata una terza figura di «aberratio», la cd.

aberratio itineris causarum (o aberratio causae), che si verificherebbe quando per errore nella fase consumativa la successione causale si sia svolta in maniera diversa da quella prevista dall’agente. È il caso di chi, volendo ammazzare un soggetto mediante annegamento, lo scaraventa nel fiume, ma il soggetto muore perché batte la testa contro un sasso.

In questo caso, però, nessun effetto produce la diversa successione causale in quanto il soggetto risponderà sempre per omicidio doloso.

Diverso è il discorso per quanto riguarda i cd. reati a forma vincolata, in relazione ai quali le modalità del!’ azione causale costituiscono elementi essenziali. In queste ipotesi, difatti, pur sussistendo il dolo, l’agente non è punibile, non avendo realizzato la condotta tipica prevista e sanzionata dall’ordinamento.

Il reato putativo

Ricorre quando l’agente commette un fatto che non costituisce reato, credendo erroneamente che esso costituisca reato (art. 49 c.p.; ad es.: il soggetto crede di commettere furto, ma in realtà la cosa asportata è propria).

Il reato putativo, in realtà, è un fatto lecito del tutto indifferente per il diritto penale, quindi il suo autore non è punibile a meno che concorrano nel fatto gli elementi costitutivi di un reato diverso, nel qual caso risponderà di quest’ultimo (es.: un soggetto, credendosi imprenditore, ritiene di commettere bancarotta;

anche se il soggetto non è passibile di bancarotta, tuttavia, se nel fatto ricorrono gli estremi del!’ appropriazione indebita risponderà ugualmente di tale reato).

Nonostante la dimostrata pericolosità sociale, il giudice non può irrogare nei confronti del soggetto attivo una misura di sicurezza, mentre può irrogarla nei confronti dell’autore di un reato impossibile.

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