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Nella prima età imperiale vi è la riduzione progressiva del peso culturale della poesia e della filosofia a vantaggio della retorica.

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Nella prima età imperiale vi è la riduzione progressiva del peso culturale della poesia e della filosofia a vantaggio della retorica. Tappa fondamentale fu il principato di Vespasiano che accordò cospicui privilegi a retori e grammatici fino ad istituire scuole di retorica pagate direttamente dallo Stato. Per seguire gli ultimi sviluppi del pensiero retorico greco occorre ricordare la formazione – in ambiente romano e nel I secolo a.C. – di due fondamentali indirizzi di pensiero, che si tradussero in corrispondenti indicazioni di stile e di lingua. Apollodoro di Pergamo (in Misia, 104-22 a.C. circa), precettore dell’imperatore Augusto, si avvicina alla conservatrice scuola «atticista», che additava un modello puro di lingua greca, secondo l’esempio dei grandi oratori attici dei secoli V e IV a.C. Essa consigliava dunque la mimesi, cioè l’imitazione degli autori, anche a livello linguistico secondo la teoria grammaticale dell’analogia (vedi p. 228). Questo indirizzo proponeva una retorica di genere dimostrativo e razionale, che procedesse chiara e senza pesanti artifici di stile. All’opposto indirizzo, denominato «asiano», si riferisce invece Teodoro di Gadara (in Palestina) – di una generazione successiva a quella di Apollodoro e precettore dell’imperatore Tiberio – che propone una retorica ispirata non alla dimostrazione razionale ma al pathos, alle emozioni suscitate dall’oratore. Lo stile asiano preferisce un’originalità compositiva senza modelli e la teoria linguistica della anomalia (vedi p. 228), ossia della mobilità della lingua che non è sempre uguale a se stessa ma può subire variazioni a seconda dell’utilizzo che ne viene fatto. Alla scuola di Apollodoro appartennero altri due retori greci vissuti a Roma nella seconda metà del I secolo a.C.: Dionigi di Alicarnasso (in Caria) e, a lui contemporaneo ed amico, Cecilio di Calatte (in Sicilia). Dionigi di Alicarnasso compose un trattato sull’imitazione retorica, ma soprattutto un’opera Sulla composizione delle parole, in cui diede ordine alla suddivisione sempre più fiorente e complicata delle figure retoriche, degli artifici stilistici. Fece delle figure l’elemento in base al quale giudicare lo stile concreto degli autori della letteratura greca, ispirandosi al principio aristotelico del

«giusto mezzo». In altre parole il bello stile non avrebbe dovuto avere né troppe né troppo poche figure, essere curato ma non artificioso. Invece dello stile storico di Tucidide e di quello fiorito di Isocrate, egli preferisce lo stile medio di Demostene. Al principio del giusto mezzo aristotelico si ispira anche Cecilio di Calatte, autore di un trattato contro l’esagerazione dello stile «sublime» e di un’opera sulle figure retoriche di cui non rimangono che frammenti. La ricerca di Cecilio si incentrò sulla sezione retorica che si occupa del reperimento delle tematiche da trattare nel discorso: a differenza di Aristotele, ritenne che essa dovesse servirsi più dei luoghi propri che dei comuni. La posizione di Cecilio contro l’esagerazione dello stile sublime, cioè solenne, alto e nobile, provocò la reazione del compositore anonimo del famoso trattato Sul Sublime. Quest’ultimo doveva appartenere alla cerchia di Teodoro di Gadara, poiché allo stesso modo considerava l’importanza retorica della passione, dei sentimenti suscitati dall’oratore attraverso lo stile

«sublime». Provocando emozioni l’oratore riesce infatti a nascondere al pubblico l’utilizzo degli artifici retorici: se questi fossero troppo evidenti, provocherebbero nell’uditore il sospetto di venire attraverso di essi adescato e raggirato. Ben venga quindi uno stile non omogeneo, caratterizzato talora dal

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raggiungimento delle vette del sublime, per ottenere il quale vi sono certo accorgimenti tecnici, ma occorre soprattutto una grandezza dell’animo che non può essere che innata.

ASIANESIMO ED ATTICISMO, ANALOGIA E ANOMALIA, APOLLODOREI E TEODOREI

Nei secoli III-I a.C. si delineano in campo retorico-stilistico due movimenti distinti, l'asianesimo e l'atticismo.

Per quanto paradossale possa sembrare, entrambi hanno come punto di riferimento la figura di Lisia (V sec.

a.C.). L'asianesimo nacque all'inizio dell'ellenismo (III a.C.) per opera di Egesia di Magnesia in Africa, prendendo appunto come modello lo stile di Lisia (denso, schematico, non indulgente a costruzioni artificiose). Nei due secoli successivi si venne però a creare un ribaltamento totale all'interno dell'asianesimo (anche per il fatto che fu adottato in prevalenza dai retori dell'Asia Minore, che introdussero nel dialetto attico termini ionici): si venne a creare uno stile opposto al precedente, ricercato, pieno di ornamenti retorici, ampolloso, "bombastico". Si intende per asianesimo questo stile, di cui peraltro esistono due varianti: quella esemplificata dal nipote di Seneca, Lucano, pienamente aderente ai canoni appena descritti, e quella rappresentata dallo stile di Seneca stesso, basato sull'utilizzo di frasi brevi e ad effetto e su una sintassi disarticolata (il cosiddetto asianesimo imperiale). Essi, pur così diversi, hanno in comune la ricerca del pathos e dell'effetto, ossia il fatto di far leva sull'emotività. Frattanto (I a.C.) si venne a creare una nuova corrente di retorica basata su Lisia, ossia sulla stringatezza della frase e sull'essenzialità del costrutto. Questa corrente di retorica è detta atticismo, e la sua caratteristica principale è quella di far leva sulla razionalità. Per assurdo, l'atticismo nacque a Roma, capitale della ricerca di un nuovo indirizzo letterario, e si diffuse subito nel mondo greco. Il suo massimo rappresentante è Giulio Cesare. Peraltro, bisogna ricordare che in Grecia per "atticismo" s'intende un fenomeno alquanto diverso, di tipo strettamente linguistico, consistente nell'adozione di un lessico attico puro, non inquinato da forme dialettali come la koinè, modellato sui grandi "classici" come Tucidide e Lisia; il massimo rappresentante di questo indirizzo purista è Luciano di Samòsata (II sec. d.C.). E' bene ricordare che lo stile di Cicerone non appartiene a nessuna di queste due correnti: esso è infatti detto rodiese (dal nome di Apollonio Molone di Rodi, maestro di Cicerone, che ne fu il fondatore), e si trova a metà strada tra asianesimo ed atticismo a livello di costruzione, ma non a livello cronologico. Lo stile rodiese infatti nacque nel II a.C. per mitigare gli eccessi dell'asianesimo di prima maniera, quando l'atticismo non era ancora nato. Nel I secolo a.C. si precisarono a questo riguardo due posizioni opposte: la prima fece capo al retore Apollodoro di Pergamo, la seconda a Teodoro di Gàdara, vissuto nella generazione successiva: • Apollodoro concepisce la retorica come una scienza esatta, dotata di canoni ben precisi. In campo linguistico Apollodoro è un seguace dell’analogia, teoria secondo la quale l'origine del linguaggio è convenzionale (deriva cioè dal nòmos) ed evolve secondo delle regole precise. • Teodoro invece concepisce la retorica come un'arte, una capacità insita nell'uomo, il quale può comporre la propria opera a seconda del proprio gusto personale. Scopo essenziale è suscitare pathos, emozione. I teodorei fanno ampio ricorso alla fantasia, intesa come forza

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irrazionale che possiede l'anima e che esce dai canoni del logos. In campo linguistico Teodoro è un seguace dell’anomalia, teoria che postula che il linguaggio sia un prodotto di natura (physis) ed evolva secondo l'uso dei parlanti. Sintetizzando, nel I secolo a.C. si crearono due filoni retorici ben distinti e contrapposti tra loro:

• quello degli apollodorei-atticisti-analogisti (orazione impostata secondo uno schema rigido e prestabilito, stile stringato ed asciutto, convinzione che la lingua segua delle regole, rifiuto della lingua corrente, rifiuto di parole nuove e di hapax); • quello dei teodorei-asiani-anomalisti (orazione come prodotto d'arte, non soggetta a schemi e regole, obbediente solo alle leggi della fantasia, convinzione che il linguaggio evolva secondo l’uso dei parlanti).

DIONIGI DI ALICARNASSO

Nasce ad Alicarnasso intorno al 60 a.C. Si trasferì a Roma nel 30 a. C. dove risiedette per 22 anni.

Dedicandosi allo studio e all’insegnamento della retorica . Le sue opere possono essere suddivise in due grandi blocchi. Una monumentale opera di argomento storico e scritti di argomento retorico letterario.

Della sua Storia antica di Roma, detta di solito Antichità romane (῾Ρωμαικὴ ᾿αρχαιολογία), in 20 libri, sono giunti a noi i primi 10 libri ed estratti dei rimanenti: doveva essere, secondo l'intenzione di Dionigi., modello di stile classico e narrazione completa di storia e di sapienza politica. Dionigi. la preparò nei 22 anni di dimora a Roma elaborando le sue numerose fonti (di preferenza i più recenti annalisti) che non è sempre facile individuare, dando l'impronta uniforme del suo stile e dei suoi criterî razionalistici e pragmatici.

Nonostante la preoccupazione retorica, l'incapacità di comprendere le istituzioni più antiche di Roma e l'interpretazione prosaicamente razionalistica delle antiche leggende, l'opera di Dionigi. è per noi importante perché conserva un materiale altrimenti perduto. Argomento della trattazione è la storia romana dalle origini al 264 a. C. e l’intenzione dell’autore era quella di saldare la propria narrazione con l’opera storica di Polibio. Lui stesso dice che ha scelto questo argomento per sfatare alcuni miti basati su

“racconti occasionali” sia per dimostrare gli esempi di virtù che offre Roma.

Dionigi non nasconde di aver concepito non una trattazione completa ma una selezione di episodi significativi e scelti in rispondenza agli scopi che l’autore intende perseguire, primo fra tutti dimostrare che Roma è città greca. Da ciò discende anche la scarsa attenzione dedicata da Dionigi al vaglio delle fonti, purchè coerenti con il proprio assunto centrale; egli infatti solitamente attinge al patrimonio della tradizione annalistica latina senza operare un autentico vagli critico.

Della vasta produzione retorica di Dionigi ci sono pervenuti, oltre tre lettere, una monografia dedicata a Dinarco, due saggi su Tucidide un breve trattato “sugli antichi oratori”. Ma particolare importanza riveste il saggio “sulla disposizione delle parole” in cui analizza la struttura del periodo nei maggiori poeti e prosatori greci con attenzione alla disposizione delle parole e all’ornatus retorico.

ANONIMO DEL SUBLIME

Il caso ha voluto che del trattato Del sublime (Περὶ Ὕψους), uno degli scritti più rilevanti della critica antica, non ci sia pervenuto il nome dell’autore: esso infatti risulta attribuito a "Dionisio o Longino", a dimostrazione del fatto che già nel X secolo, epoca alla quale risale il codice più antico che ci ha restituito il trattato (il Parisinus Graecus 2036), si era persa la memoria dell'autore. Il trattato è stato di recente

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assegnato ad Ermagora (A. Rostagni) o a Teone (I. Lana), retori del I secolo d.C., ma i nomi più ricorrenti sono quelli di Dionigi di Alicarnasso e Cassio Longino, eminenti retori di età imperiale, ragion per cui, talvolta, l'autore viene indicato come Pseudo-Longino. Tuttavia tutte queste attribuzioni sono per varie ragioni insostenibili, e le ultime due in particolare, perché Dionigi era su posizioni inconciliabili con quelle espresse nel trattato, mentre per Longino la difficoltà è di carattere cronologico: infatti nell'opera è ravvisabile un chiaro intento polemico nei confronti di Cecilio di Calatte, di indirizzo apollodoreo ed atticista, autore anch'egli di un trattato Del sublime, vissuto verso la fine del I secolo a.C.; e poiché Cassio Longino visse nel III secolo d.C., è difficile pensare ad una polemica a distanza di due secoli.

Chiunque egli fosse, l’anonimo autore, che al contrario di Cecilio era teodoreo e di indirizzo asiano, deve essere vissuto a Roma nella prima metà del I sec. d.C., come si deduce dalla dedica a Postumio Terenziano ed anche dal riferimento finale alla crisi dell’eloquenza, caratteristico di questo periodo.

Il trattato, che ci è conservato per circa due terzi, si propone di indicare le strade che conducono al sublime, definito come «l'eco di una grande anima», μεγαλοφροσύνης ἀπήχημα: memorabile definizione, che già di per sé esclude che alla sublimità si possa pervenire con i soli mezzi della tecnica. L'Anonimo ritiene non solo che per un'anima elevata e nobile sia possibile infondersi completamente in un'opera d'arte, ma anche che la letteratura sia in grado di modellare l'anima del fruitore: una concezione, come si vede, dinamica della fruizione estetica, che si distanzia nettamente dalla concezione statica del bello.

LA STORIOGRAFIA IN ETà IMPERIALE

La scomparsa pressoché totale della produzione storiografica d'età ellenistica – eccetto gli estratti abbastanza ampi delle Storie di Polibio – derivò dalla nuova impostazione assunta dagli storici imperiali.

Essi non proseguirono la tradizione ellenica (Erodoto, Tucidide, Senofonte, Polibio e Plutarco), elaborando sistemi complessi e articolate riflessioni o facendo ricorso a nuovi criteri metodologici, ma si dedicarono solamente alla compilazione di opere riassuntive, come epitomi e manuali sintetici, che poi si diffusero nelle scuole.

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Plutarco è uno degli scrittori più produttivi della Grecia antica, anche se la sua opera è stata dimenticata con l'avanzare del Medioevo cristiano. Per convenzione secolare, la sua opera viene divisa in due blocchi: "Vite parallele" e "Moralia". Le prime sono dedicate al suo amico e confidente Quinto Sosio Senecione, e sono composte da ventitre coppie di biografie, generalmente relative a un personaggio romano e a un personaggio greco. I "Moralia", invece, sono trattati di impostazione letteraria differente in cui Plutarco discetta di scienze naturali, religione, storia, filosofia, critica letteraria e arte, così chiamati poiché i primi quindici scritti riguardano unicamente argomenti filosofici ed etici.

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E’la definizione di un fenomeno culturale che caratterizza la produzione letteraria greca di età imperiale. Il nesso risale ad uno degli stessi esponenti di quel movimento, Flavio Filostrato., il quale lo coniò nell’Introduzione alle sue “Vite di sofisti”. Secondo lui bisogna riconoscere, oltre alla sofistica antica (inventata da Gorgia) un’altra sofistica che tratta di temi concreti desunti dalla storia iniziata da Eschine e Demostene; per questo “seconda” e non “nuova”.

Le tre forme canoniche di oratoria (giudiziaria, deliberativa, epidittica) continuarono a svolgere le loro funzioni. Assunse maggior rilievo l’oratoria fittizia, nata come esercizio scolastico e che diventò declamazione pubblica, senza alcuna finalità reale. Il pubblico non era più quello degli allievi ma quello delle folle che accorrevano nel bouleutèrion nell’odèon, nel teatro per ascoltare queste declamazioni.

TEMI: Il sofista era un conferenziere di successo che cercava di ottenere il successo e i temi erano comuni e patrimonio di un’educazione comune. L’attualità di questi temi riportavano l’oratore a situazioni fittizie appartenenti al passato quando c’era davvero qualcosa di importante da dire. Non erano estranee tematiche legate al mito o al mondo omerico.

La declamazione poteva essere letta o recitata. L’oratore cominciava con una sorta di “conversazione”

diàlexis

di tono non elevato seguita dalla declamazione vera e propria. Non era soltanto il contenuto della declamazione che colpiva l’uditorio quanto il modo in cui questo era espresso attraverso varietà di registri stilistici, modulazione della voce movimenti delle mani e del corpo.

Si aveva alta considerazione per i fatti di lingua e di stile: solecismi, barbarismi erano banditi. L’atticismo cui si tendeva era in realtà una sorta di manierismo che incorporava Tucidide, Demostene, Platone, insieme con Erodoto e con i poeti. Grande attenzione era prestata anche al ritmo.

Il ruolo dei sofisti deve essere anche considerato nell’ottica della loro collocazione sociale e politica: essi erano una parte importante delle aristocrazie urbane greche e appartenevano generalmente alle élites provinciali dell’impero. La loro mobilità li poneva a contatto con il potere centrale. Ne nascevano rapporti di familiarità tra sofista e imperatore (Aristide e Marco Aurelio, ad esempio)

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L’antesignano degli esponenti della seconda sofistica è senz’altro Dione di Prusa, soprannominato Crisostomo (“bocca d’oro”) per la sua grande eloquenza. Dopo gli studi si reca a Roma, ottenendo un notevole successo come conferenziere; caduto in disgrazia al tempo di Domiziano, conduce per alcuni anni la vita dell’esule, accostandosi alla filosofia cinica. Riabilitato sotto Nerva, ottiene la cittadinanza romana e acquista la stima dell’imperatore Traiano. Di lui si conserva un corpus di un’ottantina di opere (in alcuni casi però l’attribuzione è scorretta), in genere in forma di dialogo o discorso. Particolarmente rilevanti sono l’orazione 52, comparazione tra le tragedie dedicate a Filottete da ciascuno dei tre grandi tragici (noi abbiamo solo quella di Sofocle), e l’orazione 7, l’Euboico, in cui narra di un proprio naufragio sulle coste dell’Eubea: lì trova l’ospitalità da un cacciatore che gli fa conoscere le gioie della vita semplice, in uno scenario idilliaco che però non nasconde un quadro di sostanziale spopolamento delle zone rurali della Grecia.

Un corpus di una cinquantina di orazioni ci è tramandato anche ad opera di un altro importante sofista, Elio Aristide. Risultano particolarmente importanti l’Encomio a Roma, dove vengono celebrati la pax romana e il ruolo della cultura greca all’interno dell’impero, e soprattutto i sei Discorsi sacri, in cui l’autore redige una cronaca appassionata, visionaria e non priva di fanatismo dei due anni trascorsi presso il tempio di Asclepio a Pergamo, nei quali, praticando l’incubazione (ovvero dormendo all’interno del santuario, in attesa di apparizioni oniriche inviate dal dio, che non mancava di fornire prescrizioni mediche e rituali ben precise), riesce a guarire da una grave forma di nevrosi che l’ha colpito.

La figura senz’altro più importante della seconda sofistica è Luciano, nato a Samosata in Siria intorno al 120.

Nel Sogno afferma di provenire da una famiglia non ricca. Di famiglia sira, e originariamente messo a bottega presso uno scalpellino, Luciano decide di intraprendere la strada delle lettere, apprendendo

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magnificamente il greco nelle scuole sofistiche dell’Asia Minore e svolgendo con successo la carriera di retore. Viaggia molto, dalla Gallia all’Egitto, dall’Asia Minore all’Italia, ma trascorre gran parte della propria vita ad Atene, dove muore. Nella seconda fase della propria vita, come egli stesso racconta, sceglie di abbracciare la filosofia, dedicandosi in particolare al genere letterario del dialogo.

La sua cifra rimane comunque costante: Luciano, a partire da una competenza letteraria vastissima e da un’acuta intelligenza, mette sempre in discussione, in maniera caustica e brillante, tutte le convenzioni, i vezzi e i sedimenti della cultura del suo tempo. Come afferma egli stesso, vuole coniugare la commedia con il dialogo filosofico, finendo per creare un filone letterario innovativo. Nei suoi scritti, allegramente demolitori, finisce forse per essere, come è stato scritto, “l’autore più divertente della letteratura greca”.

Di lui è tramandato un corpus di circa 80 opere, una quindicina delle quali sono considerate spurie. Quelle autentiche riguardano una serie di generi e tematiche estremamente disparati. Alcuni sono tipici della produzione sofistica, come l’Elogio della mosca, caso esemplare di umoristico encomio paradossale. Molto famosi sono anche i Dialoghi, particolarmente accattivanti per la vivacità e la limpidezza dello stile.

Nei Dialoghi degli dèie nei Dialoghi marini vengono presentate scenette che ritraggono figure mitologiche in momenti di intimità, con tutte le loro gelosie, amori e pettegolezzi: si tratta di un elegante divertissement letterario che porta a compimento la trasformazione “borghese” delle divinità già presente, ad esempio, in alcune scene di Apollonio Rodio. I Dialoghi delle cortigiane presentano scene di vita quotidiana delle etère, a partire dagli schemi della commedia nuova (e difatti gli elementi scabrosi sono pressoché assenti), mentre i Dialoghi dei morti hanno un maggiore spessore etico e filosofico, come dimostra la presenza del filosofo cinico Menippo di Gadara, uno dei modelli di Luciano. In altre opere del corpus vengono messe alla berlina le tendenze irrazionali sempre più presenti nella società dell’epoca. Si possono ricordare il Philopseudes (“amante della menzogna”), dove l’umorismo lucianeo fa letteralmente a pezzi superstizioni e racconti sul soprannaturale che dovevano avere un’ampia circolazione, simile a quella delle odierne “leggende metropolitane” (tra i tanti, anche il prototipo della storia dell’“apprendista stregone”); la Morte di Peregrino, sulla fine teatrale di un discutibile “santone” che nel corso della vita aveva professato il cristianesimo e il cinismo; l’Alessandro, incentrato su un altro mago e ciarlatano, Alessandro di Abunotico.

Luciano esprime giudizi anche sul mondo della cultura. Condanna il vacuo collezionismo librario nel trattatello Contro un bibliofilo ignorante, e si scaglia contro la storiografia adulatoria dei suoi tempi nel Come si deve scrivere la storia. La ricerca ossessiva di glosse e termini rari e gli eccessi dell’atticismo sono condannati nel Giudizio delle vocali e nel Lessifane, caratterizzati da invenzioni umoristiche che possono ricordare Aristofane. Anche l’atteggiamento verso la dominazione romana, peraltro, è decisamente più freddo rispetto ad altri sofisti suoi contemporanei: ne è testimonianza il Nigrino, dove viene preso di mira il vacuo edonismo della vita romana. È significativo, inoltre, che Luciano abbia sentito il bisogno di giustificare nell’Apologia la sua accettazione di un incarico pubblico.

Nel corpus lucianeo, infine, sono presenti due opere che sembrano rivelare interesse per un genere letterario in gran voga all’epoca, quello del romanzo. Se l’attribuzione di Lucio o L’asino (la storia è quella che ricompare nelle Metamorfosi di Apuleio) è dubbia, sicuramente autentica è invece l’estrosa e irresistibile Storia vera (il titolo è chiaramente ironico), relazione di un viaggio mirabolante che condurrà il protagonista sulla luna e nel ventre di una balena, secondo quelli che diverranno veri e propri topoi della letteratura fantastica, dall’Ariosto a Collodi.

Uno dei temi preferiti di Luciano è la critica contro retori contemporanei. Luciano condanna l’ignoranza e l’arrivismo dei suoi “rivali”; il suo bersaglio è costituito dagli eccessi dell’atticismo. Ad esempio nel “Giudizio

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delle vocali” il sigma chiama in giudizio in tau davanti al tribunale delle vocali perché quest’ultimo tende a cacciarlo da tutte le parole e arriva a proporre termini che in attico non esistevano come bacilitta.

Altra critica è contro i falsi filosofi. Vengono accusati di incoerenza in quanto predicano moderazione e sobrietà ma vivono nel lusso e nell’adulazione dei più ricchi e dall’altro di litigiosità inconcludente e di essere incapaci di fornire una risposta alle grandi domande esistenziali dell’uomo.

Ad esse contrappone una propria filosofia “dell’uomo comune”, venata di elementi di ascendenza cinico- menippea che lui stesso riassume così nel Menippo “la vita dell’ignorante è la migliore e la più saggia;

quindi lascia di spiare il cielo, di strologare sui principi e i fini delle cose; manda alla malora i filosofi e i loro sillogismi che le son tutte baie; ed attendi solo a questo, usar bene il presente, passar ridendo sopra molte cose, non dare importanza a nulla”.

Se la prende anche con gli eccessi dell’ansiosa religiosità contemporanea e con i ciarlatani di professione che approfittano della debolezza e credulità della gente per arricchirsi.

La novella emerse come prodotto autonomo solo intorno al 100 a. C. quando Aristide di Mileto compose una raccolta di novelle erotiche intitolata Milhciakà attingendo al repertorio popolare e tradizionale della Ionia D’Asia. La sua opera ebbe grande fortuna. Il successo fece si che Milhciakà e fabulae milesiae diventassero dei titoli di genere applicabili ad ogni tipo di racconto erotico. La nostra fonte per la conoscenza di questo genere sono le novelle inserite nei romanzi di Petronio e di Apuleio: la materia amorosa è trattata con disincantato atteggiamento e i valori morali correnti escono ridicolizzati dal confronto con una realtà dominata dal desiderio sessuale e dal denaro.

Il romanzo: quando si parla di romanzo si fa riferimento ad un insieme di testi che esibiscono

caratteristiche sensibilmente diverse dal romanzo moderno. Una trattazione in prosa di ampia estensione la cui trama è caratterizzata dalla presenza costante di almeno due elementi: una coppia di innamorati che affronta varie vicissitudini e il viaggio.

La critica moderna si è concentrata soprattutto sul problema delle origini del genere. Rohde individuava l’ambiente d’origine del romanzo nella Seconda Sofistica e collegava il romanzo con la poesia erotica ellenistica e la letteratura di viaggio. Il romanzo avrebbe rielaborato retoricamente tematiche che già erano state proprie di questi due generi. Tale tesi fu smentita dalle scoperte papiracee tra le quali spicca un papiro contenente frammenti del cosiddetto Romanzo di Nino assegnato al II sec. a. C.

La ricerca sulle origini proseguì per tutta la metà del XX secolo e il romanzo su collegato di volta in volta con le ultime tragedie di Euripide, con la commedia nuova, con la novellistica orientale e la novella milesia, con la storiografia ellenistica, con l’epica. Un’ipotesi che non ha avuto molta fortuna è quella di interpretare la maggior parte dei romanzi come testi iniziatici che nasconderebbero un significato allegorico. Se tale ipotesi non può essere accolta, non va comunque sottovalutata l’importanza religiosa.

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Il nome “romanzo” risale al Medio Evo (XIII sec.) e designa le opere narrative di stile cavalleresco in lingua romanza (da cui il nome). I Greci designavano questo genere con nomi vaghi ed imprecisi: dihghma Polibio;dr£ma, kwmódia Fozio (IX d.C.); e ancora, in altre fonti, mÝqoj, ƒstorˆa, logoj.

A che tipo di pubblico era rivolto un genere letterario dotato di queste caratteristiche? Anche su questo gli studiosi sono in disaccordo. La sua natura paraletteraria sembrerebbe infatti indirizzarlo verso larghi strati popolari (genere “di consumo”): ma questa destinazione mal si accorda con il tono di fondo, fortemente letterario, e con lo sfoggio di erudizione e di retorica, che presuppongono un pubblico in grado di apprezzarne le caratteristiche colte; si potrebbe pensare ad una media borghesia con pretese di cultura e gusti artistici poco sofisticati, che conoscesse molto bene per lo meno Omero ed i tragici. Nel complesso si tratta per lo più di opere di evasione, che nascono forse dall'esigenza di trasfigurare in senso magico e favoloso una realtà divenuta, in seguito alla caduta dei valori connessi con la poéliv greca, troppo “comune”

e meschina: il viaggio, elemento onnipresente del genere, può essere assunto a simbolo stesso di questa volontà di evasione. Tutto ciò richiama alla mente fenomeni attuali, come l'interesse della piccola borghesia per il “bel mondo” dei rotocalchi scandalistici o la partecipazione emotiva delle casalinghe frustrate alle vicende dei serials televisivi. Siamo agli antipodi dell'epos, che rifletteva invece uno stile di vita reale.

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Molto dibattuta è la datazione di tali opere. Tra il II e il IV secolo si collocherebbero.

Le Storie di Cherea e Calliroe di Caritone di Afrodisia iniziano nel 413 a. C. a Siracusa. Calliroe, figlia di un generale siracusano, sposa Cherea. Reso folle di gelosia dagli altri pretendenti, Cherea colpisce Calliroe che viene creduta morta. I pirati rubano il sarcofago che contiene Calliroe e quando la ragazza rinviene la vendono come schiava al ricco Dionisio a Mileto. La ragazza è costretta a sposarlo nel frattempo Cherea era giunto a Mileto in cerca della moglie viene fatto schiavo di Mitridate satrapo della Caria. Anche Mitridate si innamora di Calliroe e cerca di strapparla a Dionisio che però denuncia Mitridate al re di Persia. Durante il processo persino il re si innamora di Calliroe e cerca di sedurla ma scoppia una ribellione in Egitto e il re parte per la guerra. Cherea parteggia per gli Egizi e dopo aver sconfitto il re libera Calliroe. il rientro a Siracusa in Un tripudio di folla conclude il romanzo.

Leucippe e Clitofonte: Il romanzo inizia con la presenza dell'autore che, scampato a una tempesta, giunge a Sidone dove osserva un quadro sul Ratto d'Europa. Mentre lo sta ammirando incontra Clitofonte, che gli racconta le sue avventure. Egli si era innamorato di Leucippe, e i due erano scappati insieme. Dopo un naufragio i due innamorati sono presi da una banda di briganti, ma per fortuna sono liberati poco dopo.

Clitofonte e Leucippe vanno ad Alessandria, ma lei è subito rapita dai pirati. Intanto Clitofonte si dispera, perché la crede morta; dopo un po' di tempo si sposa con una vedova di Efeso, Melite, ma i due non consumano il matrimonio perchè Clitofonte vuole essere fedele alla donna che ama. Per una coincidenza o una beffa del destino, Leucippe era schiava di Melite, ma né lei né Clitofonte sapevano l'uno della presenza dell'altro. Il marito di Melite, creduto morto, fa improvvisamente ritorno, facendo imprigionare Clitofonte per aver sposato sua moglie; egli riesce in ogni modo a scappare dalla prigione grazie all'aiuto di Melite, ma è ritrovato e catturato poco dopo. Mentre Clitofonte crede che Leucippe sia stata uccisa, la ragazza si rifugia in un tempio di Artemide, dove la vicenda riesce a concludersi positivamente una volta che Melite ha dimostrato la sua fedeltà al marito durante la sua lunga assenza. Il romanzo si chiude con i festeggiamenti per il matrimonio fra Leucippe e Clitofonte, ritornati a Tiro.

Storie efesiache di Anzia e Abrocome: Narrano l'amore del giovane Abrocome per Anzia. Poiché l'amore consuma i due giovani i genitori consultano l'oracolo di Apollo a colofone e vengono a sapere che le peripezie a cui i due giovani andranno incontro dopo il matrimonio avranno una felice risoluzione. La serie di incredibili avventure che coinvolge due giovani inizia subito dopo il matrimonio durante un viaggio in Egitto: Abrocome viene insediato prima dal pirata Corimbo e poi da Mantò, figlia del capo dei pirati. Anzia viene prima ceduta ad un capraio e poi venduta dei Mercanti cilici rapita dai pirati viene salvata da Un alto ufficiale di Cilicia che vuole sposarla. Anzia si avvelena ma la sua morte è solo apparente e cade nelle mani di una banda di predoni che avevano profanato la sua tomba. la ragazza viene venduta nuovamente ancora una volta è rapita dai pirati che la condannano a morte. Salvata dai soldati incappa nelle Ire della moglie del Comandante che si era invaghito di lei e viene venduta a un lenone di Taranto. Evita di prostituirsi fingendosi epilettica per poi finire, dopo essere stata venduta, a Rodi. La vicenda di Abrocome è parallela a quella di Anzia: venduto ad un vecchio soldato deve sfuggire alla sua vecchia e brutta moglie che pur di averlo uccide il marito. Abrocome fugge e la donna lo accusa dell'omicidio. Condannato sfugge due volte alla morte e il governatore d'Egitto mosso a pietà dalla sua storia lo libera per consentirle di cercare la sua amata. Dopo aver dimorato in Italia tornando ad Efeso si ferma a Rodi dove ritrova finalmente Anzia.

Le avventure pastorali di Dafni e Cloe: Il romanzo si apre con la descrizione di un quadro raffigurante una storia d'amore. L'autore narra allora la vicenda raffigurata: Dafni e Cloe sono figli di due famiglie ricche e nobili, ma, abbandonati da piccoli, sono stati allevati per tutta la vita dai pastori nell'isola di Lesbo. Cresciuti senza sapere cosa sia l'amore, i due a un certo punto scoprono di essere innamorati l'uno dell'altro. Cloe

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viene rapita, ma il dio Pan interviene e la libera. Dafni riesce a raggiungerla e la vita va avanti, con i due ragazzi sempre più attratti fra di loro, ma con un'ingenuità che impedisce loro di unirsi. I genitori di Cloe intanto decidono di darla in sposa a un ricco giovane; Dafni, disperato, si dà da fare e riesce a ritrovare suo padre, quello vero, e quindi scopre di essere ricco. Così, dopo molte peripezie, riesce a sposare Cloe, che in seguito scoprirà di appartenere ad una nobilissima famiglia di Mitilene. Dopo un matrimonio pastorale, i due hanno la possibilità di vivere nel lusso in una città, ma scelgono la vita libera e dura dei pastori e vanno a vivere in campagna.

Etiopiche: Il romanzo di Eliodoro racconta, con un'elaboratissima tecnica narrativa e molti spunti filosofici, la storia dell'amore di Teagene, nobile tessalo, per Cariclea, figlia del re Etiope, affidata in custodia al tempio di Apollo come sacerdotessa, perché, a differenza degli etiopi, è nata di carnagione bianca. I due si incontrano a Delfi e si innamorano non appena si vedono. Fuggiti per potersi sposare e vivere insieme, sono catturati dai briganti. Cadono successivamente nelle mani degli Etiopici, che li prendono come vittime da sacrificare per ringraziare Elios e Selene della loro vittoria sui Persiani. Quando i due stanno per essere sacrificati, Cariclea si fa riconoscere come loro principessa e figlia del Re d'Etiopia. Fa abolire i sacrifici di esseri umani e i due giovani possono finalmente sposarsi, divenuti sacerdoti di Elios e di Selene.

TEMATICHE E STRUTTURE:

Una caratteristica particolare evidente dei romanzi conservati è la loro omogeneità tematica; elementi costitutivi irrinunciabili sono l’innamoramento a prima vista dei protagonisti, la loro forzata separazione con conseguenti peripezie, il ricongiungimento finale e il lieto fine. Però per noi la conoscenza di tale genere è limitata. La relativa omogeneità dei cinque romanzi conservati si spiega con i criteri di selezione della tradizione bizantina che ha privilegiato moralistiche storie di amori puri e contrastati.

Prevale linearità di intrecci che non risente troppo né delle digressioni né delle scene costruite con tecnica drammatica. L’ambientazione è storica. AI personaggi è riservata un’ampia analisi psicologica.

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Gli autori più antichi sono caratterizzati da una sintassi piana e scorrevole e tendono ad evitare lo iato.

Filoni narrativi

Pur nella relativa scarsità dei resti a nostra disposizione, è abbastanza evidente che la narrativa antica conosceva almeno tre differenti tipologie di "romanzi", corrispondenti a tre veri e propri filoni; e precisamente:

a) un filone avventuroso;

b) un filone erotico-avventuroso "casto", caratterizzato dall'assenza pressoché assoluta dell’elemento sessuale;

c) un filone erotico-avventuroso "scabroso", in cui l’elemento sessuale è presente o addirittura predominante.

Il solo filone che ci sia noto con una certa precisione è il secondo, che, esso sì, presenta caratteristiche fisse e ripetitive.

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