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Le modifiche al sistema delle impugnazioni nella Legge n. 134/2021

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Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752 Direttore responsabile: Antonio Zama

Le modifiche al sistema delle impugnazioni nella Legge n. 134/2021

Changes to the system of appeals in Law no. 134/2021

17 Febbraio 2022 Vincenzo Giuseppe Giglio

Abstract

Lo scritto è focalizzato sui principi e criteri direttivi previsti dalla Legge delega n. 134/2021 per la modifica dell’appello, del ricorso per cassazione e delle impugnazioni straordinarie.

The paper focuses on the guiding principles and criteria envisaged by the Delegation Law no. 134/2021 for the modification of the appeal, the appeal in cassation and extraordinary appeals.

Sommario

1. I contenuti della legge delega 1.1 Norma di riferimento

1.2 Ambiti interessati dalle modifiche 2. Le proposte della Commissione Lattanzi 3. Il commento

Summary

1. The contents of the Delegation Law 1.1 Reference article

1.2 Areas affected by the changes

2. The proposals of the Lattanzi Commission 3. The comment

1. I contenuti della legge di riforma

1.1 Norma di riferimento

L’art. 1, comma 13, Legge n. 134/2021, contiene i principi e i criteri direttivi ai quali dovrà ispirarsi il legislatore delegato per le modifiche al codice di procedura penale nelle materie dell’appello, del ricorso per cassazione e delle impugnazioni straordinarie.

1.2 Ambiti interessati dalle modifiche

(2)

La lettera a) del citato comma 13 impone a pena di inammissibilità che con l’atto di impugnazione siano depositate la dichiarazione o l’elezione di domicilio ai fini della notifica dell’atto introduttivo del giudizio di impugnazione. È fatta comunque salva l’applicazione della disciplina prevista dall’art. 1, comma 7, lettera h), secondo la quale il processo in assenza è possibile solo quando esistono elementi idonei a dare certezza del fatto che l’imputato è a conoscenza della pendenza del processo e che la sua assenza è dovuta a una sua scelta volontaria e consapevole.

La lettera b) abroga gli artt. 582, comma 2[1], e 583[2] c.p.p. e prevede che la disciplina del deposito degli atti di impugnazione sia coordinata con quella che regola in via generale il deposito di qualsiasi atto procedimentale.

La lettera c) determina l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa.

La lettera d) richiede una disciplina dei rapporti tra l’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione e l’azione civile esercitata nel processo penale, nonché i rapporti tra la medesima improcedibilità dell’azione penale e la confisca disposta con la sentenza impugnata. Richiede anche il conseguenziale adeguamento della disciplina delle impugnazioni per i soli interessi civili.

La lettera e) sancisce l’inappellabilità della sentenza di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità.

Lo stesso fa la lettera f), prevedendo l’inappellabilità della sentenza di non luogo a procedere nei casi di cui alla lettera c).

La lettera g) prevede che il giudizio di appello si svolga ordinariamente con rito camerale non partecipato, facendo tuttavia salva la facoltà della parte appellante, e in ogni caso dell’imputato o del suo difensore, di chiedere di partecipare all’udienza.

La lettera h) dispone l’eliminazione delle preclusioni attualmente previste dall’art. 599-bis, comma 2, c.p.p.

[3]

La lettera i) prevede l’inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità dei motivi quando nell’atto manchi la puntuale ed esplicita enunciazione dei rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto espresse nel provvedimento impugnato.

La lettera l) prevede la modifica dell’art. 603, comma 3-bis, c.p.p. nel senso che, ove sia appellata una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale sia limitata ai soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio di primo grado.

La lettera m) dispone che i ricorsi per cassazione vengano ordinariamente trattati con un contraddittorio esclusivamente cartolare e quindi senza l’intervento dei difensori. Fa comunque salva, tranne che nei casi per i quali l’art. 611 c.p.p. prevede il procedimento camerale, la facoltà delle parti di chiedere la discussione in pubblica udienza o in camera di consiglio partecipata. Nei medesimi casi, la Suprema Corte può disporre d’ufficio tali forme alternative di trattazione. È infine previsto che la stessa Corte, ove intenda dare al fatto una definizione giuridica diversa, instauri preventivamente il contraddittorio nelle forme previste per la celebrazione dell’udienza.

(3)

La lettera n) rende possibile al giudice chiamato a decidere una questione concernente la competenza per territorio di rimettere, su istanza di parte o d’ufficio, la decisione alla Corte di cassazione , che provvede in camera di consiglio. Prevede ancora il divieto di riproporre la medesima questione nei gradi successivi a carico della parte che non abbia chiesto la rimessione alla Corte di cassazione. Pone infine a carico del giudice di legittimità che abbia rilevato l’incompetenza l’onere di trasmettere gli atti al giudice competente.

La lettera o) introduce infine un mezzo di impugnazione straordinario davanti alla Corte di cassazione al fine di dare esecuzione alla sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo, proponibile dal soggetto che abbia presentato il ricorso, entro un termine perentorio. Attribuisce alla Corte di cassazione il potere di adottare i provvedimenti necessari e disciplinare l’eventuale procedimento successivo. Prevede il coordinamento tra questo rimedio e la rescissione del giudicato, individuando per quest’ultima una coerente collocazione sistematica, e con l’incidente di esecuzione di cui all’articolo 670 c.p.p.

2. Le proposte della Commissione Lattanzi[4]

Il comparto delle impugnazioni della giustizia penale italiana così com’è non funziona.

Lo afferma a chiare lettere la relazione conclusiva della Commissione Lattanzi alle pagine 33 e ss.

Aporie sistemiche, controlli sia di merito che di legittimità gravemente inefficienti e lacunosi, un’imbarazzante durata media del giudizio di secondo grado (calcolata dall’ultimo rapporto CEPEJ[5]

in 851 giorni a fronte di una media europea di 155) con un accumulo crescente di arretrato (circa 261.000 a fine 2019, cifra più che doppia rispetto alla capacità di smaltimento annuo delle Corti di appello sicché l’azzeramento delle pendenze richiederebbe oltre due anni di tempo con l’impossibile condizione aggiuntiva di lavorare in assenza di nuove sopravvenienze): ognuno di questi elementi rende le impugnazioni una zavorra sistemica che concorre in modo rilevante all’inefficienza complessiva della giustizia penale italiana.

È quindi ineludibile un ampio progetto riformatore ispirato tanto dalla costituzionalizzazione del canone del contraddittorio come essenza del giudizio penale, quanto dai principi di derivazione sovranazionale, sia eurounitaria che convenzionale.

Occorre anche tener conto del diverso peso ordinamentale del potere di impugnazione dell’accusa pubblica e dell’imputato: privo di copertura costituzionale il primo e dunque più agevolmente limitabile (non essendo una proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’azione penale); protetto dall’art. 24 Cost. il secondo e quindi non facilmente riducibile.

L’appello dovrebbe pertanto acquisire la fisionomia di strumento di controllo nel merito della sentenza di primo grado a favore dell’imputato e di mezzo generale di esercizio del diritto di difesa.

Per contro, i controlli di legalità, legittimità e razionalità esercitabili dal pubblico ministero dovrebbero trovare il loro sbocco più appropriato nel ricorso per cassazione.

(4)

Quanto alle persone che hanno subito in via diretta gli effetti pregiudizievoli del reato, non osta alla razionalizzazione della giustizia penale il mantenimento della potestà di esercizio dell’azione risarcitoria nel processo penale. Si assicurerebbe in tal modo che costoro possano approfittare dei vantaggi che derivano dalla collocazione dell’azione medesima nel processo penale (ad esempio, giovandosi dei risultati cognitivi acquisiti dall’accusa pubblica e non dovendo anticipare le spese del procedimento in quanto poste a carico dell’Erario), ma non li si può esentare, per contro, dai pregiudizi conseguenti all’accessorietà del tema civile a quello penale. Se quindi va escluso l’appello del pubblico ministero, uguale inappellabilità dovrebbe essere prevista per la parte civile, essendole sufficiente il riconoscimento del ricorso ex art. 606 c.p.p. cui segue, in caso di annullamento con rinvio, l’attribuzione della cognizione al giudice civile d’appello.

La generalità della funzione difensiva dell’appello non sarebbe contraddetta o indebolita dalla previsione di inappellabilità delle sentenze di condanna a pena detentiva sostituita con il lavoro di pubblica utilità o a pena pecuniaria e di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa.

Al tempo stesso, sarebbe necessario che questa tipologia di impugnazione diventi uno strumento di controllo a critica vincolata sulla scia di un processo di razionalizzazione già avviato dalla giurisprudenza e consolidato da pregresse riforme. Al giudice di secondo grado dovrebbe quindi essere assegnata la cognizione non più dei punti della decisione di primo grado cui si riferiscono i motivi di impugnazione ma della fondatezza dei motivi stessi, con la previsione aggiuntiva della sanzione di inammissibilità ove questi risultino privi della necessaria specificità.

Un ulteriore elemento di riflessione riguarda l’opportunità di introdurre anche in appello il giudice monocratico: l’utilità dell’innovazione consisterebbe in un possibile (ma non scontato) aumento della produttività ma si perderebbe per contro il valore essenziale della collegialità; si potrebbe comunque, ispirandosi a una recente riforma d’Oltralpe, prevedere ordinariamente l’assegnazione al giudice monocratico consentendogli tuttavia, sia ad istanza di parte che d’ufficio, di rimettere il giudizio al giudice collegiale.

Sul versante procedimentale l’esigenza di assicurare la conclusione del giudizio di secondo grado in tempi ragionevoli consiglia l’attivazione del contraddittorio orale solo a richiesta dell’imputato o del suo difensore.

Un’uguale attenzione riformatrice è necessaria per il giudizio di legittimità così da restituire centralità alla funzione nomofilattica della Corte suprema, possibile solo se questa sia posta nelle condizioni di svolgere il suo ruolo in termini di effettività.

Dovrebbe derivarne l’applicazione generalizzata della trattazione con contraddittorio scritto per tutti i procedimenti, anche quando la decisione impugnata sia stata pronunciata in esito al dibattimento. Sarebbe comunque garantito un adeguato temperamento attribuendo al ricorrente e alle parti (e allo stesso giudice, d’ufficio) la facoltà di ottenere la trattazione orale a richiesta, fatta eccezione per i casi disciplinati dall’art.

611 c.p.p.

Sarebbe ancora opportuno, sulla scorta dell’indirizzo interpretativo espresso dalla Corte EDU nella decisione Drassich c. Italia dell’11 dicembre 2007, precludere al giudice di legittimità riqualificazioni “a sorpresa” della contestazione. Il rimedio da adottare, ove il giudice ritenga possibile la riqualificazione, dovrebbe essere l’attivazione di un contraddittorio preventivo.

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Si imporrebbe poi un intervento che ottimizzi la procedura da seguire per lo smaltimento dei ricorsi assegnati alla settima sezione penale della Corte di cassazione[6]: dovrebbero essere tutti decisi senza formalità, quale che sia la causa di inammissibilità rilevata, restituendo così alla sezione la sua funzione di filtro rispetto alle impugnazioni puramente dilatorie.

Eventuali valutazioni scorrette potrebbero essere ovviate con la previsione di un contraddittorio posticipato attivabile a richiesta del ricorrente cui sarebbe concessa la facoltà, esercitabile entro un termine perentorio, di opporsi motivatamente all’ordinanza di inammissibilità e recuperare così il contraddittorio cartolare.

L’opposizione non avrebbe efficacia sospensiva ma resterebbe salva la possibilità per il collegio di sospendere l’esecuzione per gravi ragioni.

Sempre alla settima sezione dovrebbero essere assegnati i ricorsi palesemente fondati sulla base di dati o principi incontrastati.

Sarebbe ugualmente utile un meccanismo incidentale di rinvio alla Corte per la definizione delle questioni sollevate riguardo alla competenza per territorio.

Occorrerebbe infine disciplinare normativamente la materia dell’esecuzione delle sentenze della Corte EDU, affidando alla Corte di cassazione la loro delibazione preliminare cui dovrebbe seguire un annullamento senza rinvio (ove serva soltanto modificare la pena o assolvere in tutto o in parte il ricorrente vittorioso a Strasburgo) oppure un annullamento con rinvio (quando sia invece indispensabile riaprire il processo). La Corte suprema potrebbe in ogni caso sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna interessata dalla decisione dei giudici dei diritti umani che abbia individuato un problema di portata generale dell’ordinamento nazionale.

La riforma dovrebbe infine chiarire il rapporto tra il nuovo rimedio straordinario e la rescissione del giudicato, oggi disciplinata dall’art. 629-bis.

3. Il commento

È nella comune consapevolezza che la riforma della giustizia penale e l’abbreviamento dei suoi tempi di definizione fossero un imperativo categorico per il nostro Paese per ragioni in primo luogo economiche.

Lo riconosce esplicitamente la relazione del Massimario della Corte di cassazione sulla Legge 134/2021[7].

A sua volta, la relazione della Commissione Lattanzi – lo si è accennato – ha rimarcato l’abnorme durata media dei nostri giudizi di appello, superiore di circa 700 giorni alla media europea.

Era chiaro quindi che la riforma del sistema delle impugnazioni dovesse concorrere in modo sostanziale a quell’imperativo.

Era altrettanto chiaro – basti qui il richiamo all’ultimo inciso del primo comma dell’art. 1 della Legge 134 – che il raggiungimento dell’obiettivo primario dovesse essere assicurato nel rispetto di due ineludibili passaggi: la speditezza del processo penale doveva essere accompagnata dalla sua contestuale semplificazione e razionalizzazione; nessuna riforma poteva prescindere dal rispetto delle garanzie difensive.

Alla chiarezza delle premesse non è tuttavia seguito un disegno riformatore complessivamente coerente.

Viene anzitutto in rilievo l’appello.

La Commissione Lattanzi, come si è visto, ha proposto di esaltarne la natura di strumento eminentemente difensivo sulla base della differente quotazione ordinamentale del potere di impugnazione attribuito alle due parti essenziali del processo.

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Al tempo stesso però, quasi a temperare l’audacia di questa riconfigurazione, ha suggerito di « strutturare l’appello quale impugnazione a critica vincolata, prevedendo i motivi per i quali, a pena di inammissibilità, può essere proposto».

Il legislatore ha scartato entrambe le proposte sicché il perimetro dell’appellabilità rimane sostanzialmente immutato riguardo alla legittimazione, alle decisioni impugnabili e ai vizi denunciabili, fatta eccezione per i casi regolati dall’art. 1, comma 13, lettere c), e) ed f), la cui marginalità esclude che possano concorrere significativamente alla riduzione dell’arretrato cronico e della durata media dei giudizi di appello.

Ciò che più conta, si è persa un’occasione di chiarezza.

C’era, in altri termini, la possibilità di definire con maggiore nettezza non solo la natura dell’appello ma anche, e di conseguenza, lo spazio complessivo dell’accusa e dell’accusato nel processo penale e un migliore equilibrio tra l’una e l’altro. Se infatti, come ha osservato recentemente la Consulta[8], l’asimmetria strutturale tra i due antagonisti essenziali del processo è giustificata dai loro differenti interessi processuali, e se proprio per questo sono legittime disparità di poteri in talune fasi, è per ciò stesso necessario un riequilibrio in altre fasi.

Il legislatore delegante non ha inteso cogliere l’occasione e, probabilmente per contrappeso, ha cestinato l’appello come impugnazione a critica vincolata[9].

Ne è derivata una situazione bizzarra: alla proposta contraddittoria della Commissione Lattanzi (sì all’appello come impugnazione riservata all’imputato ma sì anche alla sua considerevole limitazione ai soli motivi indicati dal legislatore delegato) è seguita l’impasse del legislatore che, stretto tra spinte conflittuali, si è mosso secondo una logica conservativa di sostanziale salvaguardia dell’esistente.

Rimaste al palo le questioni essenziali, sono invece passate modifiche su temi specifici.

La prima (art. 1, comma 13, lettera a) impone opportunamente il deposito, insieme all’atto di impugnazione, della dichiarazione o dell’elezione del domicilio presso il quale sarà indirizzare la notifica della citazione a giudizio. Anche in questo caso, tuttavia, l’assenza dell’imputato precluderà la prosecuzione del giudizio se manchi la certezza che costui sappia della pendenza del processo e sia rimasto assente volontariamente e consapevolmente.

L’abrogazione degli artt. 582, comma 2 e 583 c.p.p. (art. 1, comma 13, lettera b) impedirà la presentazione dell’atto di appello presso uffici giudiziari diversi da quello che ha emesso il provvedimento impugnato e la sua spedizione con telegrammi o raccomandate. Il deposito telematico diverrà conseguentemente la modalità standard dell’impugnazione.

Occorrerà chiarire (art. 1, comma 13, lettera d), ove l’azione penale diventi improcedibile per il superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione, quali conseguenze ne deriveranno all’azione civile esercitata in sede penale e alla confisca disposta dal giudice di primo grado.

La vaghezza dei criteri di delega sul punto renderà prevedibilmente arduo il lavoro del legislatore delegato.

Una conferma empirica delle difficoltà che lo aspettano si ha attraverso la lettura del paragrafo 10 della già citata relazione del Massimario.

Vi si premette come fatto scontato che «La dichiarazione di improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata del giudizio di impugnazione comporta la caducazione della sentenza, sia essa di condanna o di assoluzione, nonché delle misure cautelari personali, reali e delle pene accessorie»

.

(7)

Subito dopo sono prospettati i molteplici problemi che insorgerebbero nel caso di un giudicato parziale (art.

624 c.p.p.). I relatori, sempre attingendo alla giurisprudenza delle Sezioni unite penali, elencano varie possibili ipotesi: il processo cumulativo oggettivo nel quale l’improcedibilità per alcuni capi di imputazione non dovrebbe travolgere il giudicato e il titolo esecutivo formatisi sui residui reati a condizione che non siano connessi in modo sostanziale con i primi; il processo cumulativo soggettivo per il quale, disposto l’annullamento parziale in relazione a taluni imputati, la sopravvivenza del giudicato parziale di condanna di altri coimputati sarebbe possibile solo ove si sia formato un titolo esecutivo tale da coprire sia l’accertamento della responsabilità che la determinazione della pena e, in ogni caso, non connesso logicamente e giuridicamente con le parti annullate (lo stesso varrebbe per un’assoluzione non connessa in modo essenziale con le parti annullate); la formazione di un giudicato parziale in punto di affermazione della responsabilità accompagnata dall’annullamento relativo al trattamento sanzionatorio acquisterebbe autorità di cosa giudicata (purché non connessa in modo essenziale alle statuizioni annullate) ma non potrebbe permettere la formazione di un titolo esecutivo; l’annullamento parziale limitato a pene accessorie, misure di sicurezza e confische che non abbiano natura di misure di sicurezza non osterebbe alla formazione del giudicato in punto di responsabilità e del conseguente titolo esecutivo sicché la pena principale sarebbe eseguibile.

Situazioni, tutte queste, magmatiche e perplesse anche in presenza dei possibili percorsi interpretativi indicati dal Massimario senza poi contare che la cennata vaghezza della delega, se non trovasse equilibrati correttivi nei decreti legislativi che la attueranno, finirebbe per consegnare alla giurisdizione spazi creativi oltre misura.

Sono destinate a venire meno (art. 1, comma 13, lettera h) le attuali preclusioni soggettive ed oggettive all’accesso al concordato anche con rinuncia ai motivi di appello.

L’istituto ha storicamente funzionato tanto da essere paradossalmente utilizzato di fatto anche nel lungo periodo tra la sua abrogazione ad opera della Legge n. 125/2008 e la sua reintroduzione nella versione attuale ad opera della Legge n. 103/2017[10].

L’innovazione avrà verosimilmente un impatto complessivamente positivo sulla durata media dei giudizi poiché, se da un lato potrebbe incentivare un maggior numero di appelli finalizzati ad ottenere in secondo grado accordi più vantaggiosi di quelli ottenibili con l’omologo strumento dell’applicazione della pena su richiesta previsto per il primo grado, dall’altro la rimozione delle preclusioni, particolarmente di quella relativa alla lista sempre più affollata dei delitti contemplati dall’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p., indurrà molti appellanti ad avvalersi dell’opportunità concessagli dall’art. 599-bis.

Sarà modificato (art. 1, comma 13, lettera l) anche l’art. 603, comma 3-bis, c.p.p.[11] nel senso di limitare la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale alle sole prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio di primo grado.

Ancora, sono passate senza troppe fibrillazioni due modifiche che pure paiono avere un notevole impatto:

lo svolgimento ordinario del giudizio di appello con il rito camerale non partecipato (ma l’appellante e in ogni caso l’imputato e il suo difensore hanno la facoltà di chiedere ed ottenere la partecipazione all’udienza); l’obbligo di specificità dei motivi, da intendersi come puntuale ed esplicita enunciazione dei rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto espresse nel provvedimento impugnato, e la sanzione dell’inammissibilità per i motivi che ne siano privi.

Non è facile, una volta di più, comprendere la coerenza dei cambiamenti.

(8)

Il rito camerale non partecipato (art. 1, comma 13, lettera g) comporterà probabilmente una riduzione dei tempi medi di definizione dei giudizi di secondo grado ma imporrà sicuramente un prezzo significativo proprio alla parte le cui garanzie dovrebbero essere rispettate.

Si consideri che, già nell’attuale regime normativo, è emersa in più casi la prassi, a cura dei giudici relatori dei collegi d’appello, di predisporre prima dell’udienza bozze identiche o simili al dispositivo di una sentenza. Come è comprensibile, i difensori degli imputati, venuti a conoscenza della circostanza, hanno vivacemente protestato e alla loro reazione è seguita la sostituzione dei relatori. Ciò nondimeno, i dirigenti degli uffici giudiziari interessati cui competono poteri di organizzazione e vigilanza hanno invariabilmente negato o minimizzato la portata della prassi, sostenendo che gli schemi di dispositivo sarebbero legittimati da linee guida del CSM o protocolli d’intesa stipulati dalla Corte di cassazione e, ove diffusi, consentirebbero un significativo aumento della produttività delle corti di secondo grado[12].

È assai verosimile che questa tendenza si accentuerebbe a dismisura se i collegi d’appello, isolati dalle parti nel momento conclusivo del giudizio, sentissero di poter decidere in solitudine.

Proprio per questo i difensori degli imputati chiederanno sistematicamente di essere presenti in udienza, con ciò riducendo al lumicino i vantaggi che il legislatore si attende dalla loro assenza, e i collegi e i loro presidenti tenderanno a loro volta a restringere lo spazio difensivo perché solo così potranno aumentare il numero di giudizi per udienza.

E dunque contraddittori ridotti all’osso, efficientismo anziché efficienza, garanzie difensive sempre più ridotte a pure petizioni di principio.

Non un grande affare.

Merita un’attenta analisi anche la previsione del vizio di “aspecificità” (art. 1, comma 13, lettera i), neologismo assai brutto ma ormai penetrato nello slang giuridico, dei motivi d’appello.

Nel documento dell’UCPI citato nella nota n. 9 non si nascondono le preoccupazioni dell’avvocatura penalista associata per possibili derive interpretative volte a dilatarne indebitamente la portata[13].

È un allarme piuttosto fondato se si prendono in considerazione i più consolidati indirizzi espressi dalla giurisprudenza di legittimità e il peso crescente degli oneri descrittivi e dimostrativi addossato ai ricorrenti [14].

Il rischio potenziale segnalato dall’UCPI è ancora più preoccupante se si considera l’obiettivo primario della Legge 134, cioè la riduzione di almeno un quarto dell’attuale durata media dei processi penali. È chiaro che, ove gli si attribuisse un peso preponderante rispetto agli altri parametri, l’aumento delle dichiarazioni di inammissibilità in appello sarebbe un ottimo grimaldello per contribuire efficacemente alla sua realizzazione.

Il giudizio in cassazione, a sua volta, non è stato interessato da novità dirompenti.

Il contraddittorio esclusivamente cartolare diventa lo standard (art. 1, comma 13, lettera m): di certo un arretramento rispetto all’attuale regime ma di natura più formale che sostanziale, se si considera che già oggi gli interventi orali dei difensori sono vivacemente disincentivati dai presidenti dei collegi di legittimità e comunque rigorosamente contingentati quanto alla durata.

Non è passata la proposta, che pure fino a un certo punto dell’iter parlamentare aveva resistito, di svincolare da ogni formalità la trattazione di tutti i ricorsi assegnati alla settima sezione penale.

È stato correttamente introdotto, in esecuzione del principio affermato a Strasburgo nella decisione Drassich c. Italia, il contraddittorio preventivo ove il collegio decidente ipotizzi la riformulazione della contestazione.

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Altrettanto correttamente è stata introdotta una nuova impugnazione straordinaria per l’esecuzione delle sentenze della Corte EDU.

Non c’è da attendersi dunque nel complesso alcun miglioramento significativo del disposition time e del clearance rate nella fase di legittimità.

Non solo: l’auspicio della Commissione Lattanzi volto a restituire autorevolezza al giudizio di legittimità e alla sua funzione nomofilattica e di conseguenza a stabilizzare il diritto e rendere prevedibili le decisioni è stato declinato nel modo più angusto e riduttivo possibile, cioè rendendo ancora più asfittico il confronto tra i collegi decidenti e le parti.

Sarebbe stata al contrario necessaria un’analisi profonda delle ragioni alla base dell’inarrestabile aumento delle pronunce di inammissibilità (mai inferiori al 61% dei ricorsi decisi nel decennio 2010/2019, hanno raggiunto il 71,6% nel 2020).

Si sarebbe dovuto riflettere sui tanti indirizzi interpretativi che hanno imposto oneri dimostrativi sempre più gravosi alle parti, e in primo luogo all’imputato, creando così barriere difficilmente valicabili e una forte distanza tra il giudice di legittimità e il cuore del processo.

Ma questo non è stato fatto.

Anche per questo verso un’occasione sprecata.

[1] Si tratta della disposizione che consente alle parti private e ai difensori di presentare l’atto di impugnazione anche nella cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trovano, se tale luogo è diverso da quello in cui fu emesso il provvedimento, ovvero davanti a un agente consolare all’estero.

[2] È l’articolo che regola la spedizione dell’atto di impugnazione. La norma consente alle parti e ai difensori di proporre l’impugnazione con telegramma o con atto da trasmettersi a mezzo di raccomandata alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato.

[3] L’articolo disciplina l’istituto del concordato anche con rinuncia ai motivi d’appello. Il suo secondo comma ne vieta l’applicazione nei procedimenti per i delitti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, i procedimenti per i delitti di cui agli articoli 600-bis, 600-ter, primo, secondo, terzo e quinto comma, 600- quater, secondo comma, 600-quater.1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600-quinquies, 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies del codice penale, nonché quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza.

[4] La Commissione è stata nominata dalla ministra della Giustizia, Professoressa Marta Cartabia, con decreto del 16 marzo 2021 allo scopo di «elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato, attraverso la formulazione di emendamenti al Disegno di legge A.C. 2435, recante Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello

». È stato designato a presiederla il Dr. Giorgio Lattanzi, già presidente della Corte costituzionale.

[5] Il CEPEJ (Commissione europea per l’efficienza della giustizia) è un organismo tecnico del Consiglio d’Europa. Pubblica ogni due anni un rapporto sullo stato della giustizia dei Paesi membri di tale organizzazione internazionale. L’ultimo risale al 2020 ed è diviso nella parte prima che contiene il rapporto vero e proprio e nella parte seconda che contiene le schede individuali dei Paesi la cui amministrazione della giustizia è stato oggetto di analisi.

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[6] La settima sezione, come stabilito nel decreto istitutivo del primo presidente della Suprema Corte del 6 maggio 2013, è competente per la definizione dei ricorsi per i quali il consigliere delegato all’esame preliminare, ai sensi dell’art. 610 c.p.p., abbia rilevato una causa di inammissibilità.

[7] A pagina 2 si legge che: «la riduzione, nella misura del 25%, dei tempi di durata dei giudizi penali è stata prevista dalla Commissione Europea tra le condizioni per l’erogazione all’Italia dei fondi NextGeneration EU e quale obiettivo del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza)».

[8] Ci si riferisce alla sentenza n. 34/2020 che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 593 c.p.p., come sostituito dall’art. 2, comma 1, lettera a), D. lgs. 11/2018, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27, 97 e 111 Cost., dalla Corte d’appello di Messina. Vi si legge che « Il processo penale è caratterizzato, infatti, da una asimmetria “strutturale” tra i due antagonisti principali.

Le differenze che connotano le rispettive posizioni, «correlate alle diverse condizioni di operatività e ai differenti interessi dei quali, anche alla luce dei precetti costituzionali, le parti stesse sono portatrici – essendo l’una un organo pubblico che agisce nell’esercizio di un potere e a tutela di interessi collettivi;

l’altra un soggetto privato che difende i propri diritti fondamentali (in primis, quello di libertà personale), sui quali inciderebbe una eventuale sentenza di condanna – impediscono di ritenere che il principio di parità debba (e possa) indefettibilmente tradursi, nella cornice di ogni singolo segmento dell’iter processuale, in un’assoluta simmetria di poteri e facoltà. Alterazioni di tale simmetria – tanto nell’una che nell’altra direzione (ossia tanto a vantaggio della parte pubblica che di quella privata) – sono invece compatibili con il principio di parità, ad una duplice condizione: e, cioè, che esse, per un verso, trovino un’adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del pubblico ministero, ovvero in esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale, anche in vista del completo sviluppo di finalità esse pure costituzionalmente rilevanti; e, per un altro verso, risultino comunque contenute – anche in un’ottica di complessivo riequilibrio dei poteri, avuto riguardo alle disparità di segno opposto riscontrabili in fasi del procedimento distinte da quelle in cui s’innesta la singola norma discriminatrice avuta di mira».

[9] Nel documento del 16 luglio 2021, divulgato dalla Giunta dell’Unione delle camere penali italiane per esprimere la sua posizione sulla riforma Cartabia, è contenuto un significativo passaggio: «va nel complesso accolto con soddisfazione l’abbandono dell’idea, da sempre propugnata dalla magistratura italiana ed in un primo momento fatta propria dalla bozza Lattanzi, di trasformare l’appello penale in un giudizio cosiddetto “a critica vincolata”, così trasfigurandolo da giudizio sul fatto a giudizio sull’atto.

Sebbene la delega sulla richiesta specificità dei motivi meriti a nostro avviso una decisa rivisitazione idonea a risolvere residue ambiguità, occorre riconoscere che si tratta di un risultato di inequivoco valore politico, seppure evidentemente compensato con il corrispondente abbandono della idea di reintrodurre il divieto di appello del Pubblico Ministero».

[10] Per una riassunzione anche storica dell’istituto, della sua capacità deflattiva e dei rilievi critici alle preclusioni si rinvia, tra i molti, a F. Giunchedi, Il concordato anche con rinuncia ai motivi di appello, in Archivio Penale, 11 aprile 2019 e a N. Pascucci, Il ritorno del concordato in appello, tra esigenze processuali e timori di malfunzionamento, in Diritto Penale Contemporaneo, 11/2017.

[11] La sua attuale formulazione prevede che «Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale».

(11)

[12] Sia consentito, per il resoconto e il commento di un recente episodio di tal genere, il rinvio a V. Giglio e F. Radi, Pre-giudizi veneziani, in Percorsi Penali, n. 1/2020. Appare utile ricordare che il presidente della seconda sezione penale della Corte di appello di Venezia, le cui dichiarazioni giustificative sono riportate nello scritto, è al tempo stesso componente della Commissione Lattanzi. Sia ulteriormente consentito, per la documentazione di un secondo episodio, il rinvio a V. Giglio, Sentenze precompilate: le sentenze senza giudizio di Venezia e Napoli, in Filodiritto, 7 giugno 2021.

[13] Vi si legge testualmente: «La previsione di cui all’art. 7, lett. h bis): «prevedere la inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità dei motivi, quando nell’atto manchi la puntuale ed esplicita enunciazione dei rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto espresse nel provvedimento impugnato». Pur ispirato ad approdi giurisprudenziali già consolidati, esso -così formulato- lascia margini a pericolose ambiguità idonee a riproporre (in sede di decreti delegati) il tentativo di trasfigurazione dell’appello in giudizio sull’atto e non sul fatto».

[14] Si rinvia, per una rassegna degli indirizzi interpretativi sull’aspecificità e sulle loro conseguenze a V.

Giglio, L’esito di inammissibilità nel giudizio penale di legittimità, in Diritto Penale e Uomo, 7 luglio 2021, e agli Autori ivi citati.

TAG: Percorsi penali, riforma Cartabia, Commissione Lattanzi

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