La Riparazione delle Fratture
La guarigione delle fratture è il processo biologico che si attiva, dopo la distruzione di tessuto cartilagineo od osseo, per ripristinare la continuità tissutale necessaria allo svolgimento di queste strutture (Johnson & Hulse, 2004a).
Poiché la locomozione è vitale per la sopravvivenza, la natura ha fornito meccanismi di riparazione che uniscono le fratture e rendono un animale in grado di ritornare alla piena funzione (Hulse & Hyman, 2005).
La frattura è, infatti, una lesione che tende spontaneamente a riparare con formazione di tessuto osseo neoformato (Mancini & Morlacchi, 2002), il “callo osseo” che rappresenta l’espressione finale di un complesso insieme di reazioni a cascata, strettamente connesse ed interdipendenti (Biggi, 2006). Ad esso però si perviene a condizione che vengano assicurati il contatto reciproco delle superfici di frattura, l’immobilità dei frammenti ossei e un’adeguata vascolarizzazione dei frammenti stessi (Mancini & Morlacchi, 2002).
McKibbin (1978) ci ha fatto capire come il tessuto osseo possieda una caratteristica del tutto peculiare, essendo l’unico in grado di riparare una lesione non con una cicatrice, bensì con la completa ricostruzione morfologica ed architettonica del tessuto leso.
3.1 TEMPI DI GUARIGIONE CLINICA DELLE FRATTURE
Si riconoscono fattori favorevoli (Newton, 2001) in grado di influenzare la velocità di consolidamento osseo ed in particolare:
L’immobilizzazione rigida, indipendentemente dal tipo di fissazione Fratture localizzate alle estremità del raggio osseo, dove sono presenti
Minimo grado di interessamento dei tessuti molli Assenza di infezioni nel focolaio di frattura
L’età dell’animale, in quanto la velocità di guarigione è maggiore negli
animali giovani
La riparazione delle fratture, comunque, procede in maniera logica anche in presenza di un certo grado di instabilità del focolaio di frattura, proseguendo verso un continuum di modificazioni cellulari e vascolari, che esitano nella produzione di collagene e sali minerali (Newton, 2001).
Nella maggior parte dei casi, tale processo segue le classiche tappe della guarigione delle fratture (fase infiammatoria, fase riparativa, fase di rimodellamento). In caso di fissazione estremamente rigida, si osserva, invece la guarigione per prima intenzione (Newton, 2001).
In condizioni ideali di adeguata immobilizzazione, l’osso consolida secondo una correlazione lineare con l’età dell’animale: i soggetti immaturi possiedono tempi di guarigione inferiori rispetto agli adulti e questi, a loro volta, richiedono tempi di guarigione inferiori ai soggetti anziani, come indicato nello schema seguente (Newton, 2001):
Animali scheletricamente immaturi guarigione rapida 3-6 settimane Animali scheletricamente maturi guarigione meno rapida 5-8 settimane Animali anziani guarigione lenta 7-12 settimane
Le fratture, indipendentemente dall’età del paziente, presentano tempi di consolidamento più lunghi qualora intervengano condizioni sfavorevoli sia locali (a livello del focolaio di frattura), sia sistemiche, quali (Newton, 2001):
Fattori locali: immobilizzazione insufficiente
apporto vascolare insufficiente mancato contatto tra i monconi
infezione
grave lesione dei tessuti molli
Fattori sistemici: stato di nutrizione scadente, inedia
corticosteroidi
farmaci antinfiammatori non steroidei alcuni antibiotici
età (la guarigione è più lenta negli animali anziani).
3.2 MECCANISMI DI RIPARAZIONE DELLE FRATTURE
L’unione ossea può verificarsi con due differenti meccanismi di riparazione: la cicatrizzazione diretta (ricostruzione osteocondrale) e la cicatrizzazione indiretta (formazione del callo intermedio). L’efficacia dell’impianto nel fornire stabilità (fattori meccanici), unita all’ambiente biologico a livello della superficie della frattura, determina se un’unione ossea si verifica direttamente o indirettamente (Johnson & Hulse, 2004a; Hulse & Hyman, 2005).
Cicatrizzazione diretta
La guarigione diretta o per prima intenzione è poco frequente da riscontrarsi in quanto è prerogativa di fratture non comminute, anatomicamente ridotte e stabili in seguito alla fissazione, trattate con placche DCP (placche da compressione dinamica), ove il grado di movimento è inferiore al 2%. Non richiede la formazione di callo esterno, in quanto non è presente instabilità meccanica (Citi et al., 2005; Hulse & Hyman, 2005).
Il processo è mediato a livello microscopico, da una unità composta da osteoclasti, osteoblasti e capillari, definita come unità osteonale che attraversa la linea di frattura ed unisce a ponte i monconi (Hulse, Hyman, 2005). Viene classificata come ricostruzione osteonale primaria o secondaria.
Per quanto riguarda la ricostruzione osteonale primaria, questa si verifica con allineamento anatomico dei monconi e un’assoluta stabilità; si divide a sua volta in cicatrizzazione per contatto e cicatrizzazione dello spazio.
La prima si verifica nelle zone del contatto con la corticale dell’osso ed è caratterizzata dal rimodellamento osteonale attraverso il piano di frattura (figura 3.2.a). Gli osteoclasti formano delle “punte di lancia” (coni taglienti) alle estremità dei canali haversiani prossimi alla linea di frattura e aumentano progressivamente, preparandosi alla formazione di nuovo osso (figura 3.2.1). Gli osteoblasti rivestono le cavità da riassorbimento e secernono l’osteoide, che viene mineralizzata per ottenere l’osso. Il riassorbimento osseo e la formazione di osso si verificano contemporaneamente (Johnson & Hulse, 2004a; Hulse & Hyman, 2005).
La cicatrizzazione dello spazio, definita anche come gup healing, si verifica nelle fenditure di piccoli frammenti tra le zone di contatto (figura 3.2.a). Sebbene l’osso non sia in diretta apposizione, l’assoluta stabilità è fornita dalle zone di contatto su entrambi i lati della frattura. Inizialmente, la fenditura viene riempita da vasi sanguigni e da tessuto connettivo lasso. Dopo circa due settimane l’apporto vascolare è stabilito, mentre gli osteoblasti depositano l’osso lamellare perpendicolarmente allo spazio tra i monconi rendendo questa area meccanicamente inferiore. Nell’arco di tre-quattro settimane, i coni taglienti incrociano il piano di frattura per unire il nuovo osso lamellare che, col tempo, diviene orientato longitudinalmente ristabilendo l’integrità anatomica e meccanica della corteccia (Johnson & Hulse, 2004a; Hulse & Hyman, 2005).
Figura 3.2.a: Tipi di cicatrizzazione primaria (Hulse & Hyman, 2005).
Il rimodellamento dei sistemi haversiani può verificarsi anche con un callo ed è chiamato ricostruzione osteonale secondaria. Questo tipo di cicatrizzazione si verifica con un chiodo ed un cerchiaggio metallico per la stabilizzazione delle fratture oblique lunghe così come con placche e fissatori esterni che non forniscono la stabilità necessaria per ridurre la deformazione nello spazio della frattura ad un livello necessario per un deposito diretto di osso. Nelle zone di instabilità si verifica il riassorbimento dell’osso alle estremità dei monconi, l’allungamento dello spazio della frattura e la riduzione dello sforzo interframmentario; contemporaneamente, la formazione di un callo esterno stabilizza le estremità dei monconi. Se lo spazio della frattura è piccolo, la ricostruzione dei sistemi haversiani della corteccia procede come per la cicatrizzazione dello spazio; se lo spazio è troppo ampio, se l’apporto vascolare è alterato o se la deformazione interframmentaria non consente la sopravvivenza di tessuto osseo, si verifica una cicatrizzazione indiretta dell’osso (Hulse & Hyman, 2005).
Cicatrizzazione indiretta
In presenza di instabilità meccanica a livello del focolaio di frattura, il processo di guarigione avviene mediante la produzione di un callo esterno che funge da struttura meccanica di supporto. Il consolidamento con formazione di callo rappresenta il naturale processo di guarigione indiretta indotta dal trauma e dall’instabilità meccanica (Aron, 2001).
I tessuti che possono sopravvivere nell’ambiente della frattura sono inizialmente depositati e, di conseguenza, predispongono lo spazio della frattura per la sopravvivenza delle cellule ossee (Hulse & Hyman, 2005). Istologicamente, si riconoscono due quadri di cicatrizzazione indiretta (Toal & Mitchell, 2002):
1) unione dei frammenti attraverso tessuto connettivo fibroso che poi si trasforma in osso, che viene quindi formato senza precursore cartilagineo (ossificazione intramembranosa);
2) formazione di callo che matura attraverso tessuto di granulazione, cartilagine, cartilagine mineralizzata e, infine, sostituzione con osso (ossificazione encondrale).
Arbitrariamente, il processo di guarigione indiretta viene suddiviso in fasi (infiammazione, callo molle, callo duro e rimodellamento), ciascuna delle quali continua in quella successiva (Aron, 2001).
L’infiammazione inizia al momento dell’insorgenza della frattura e persiste fino alla formazione di tessuto fibroso o della cartilagine. Al momento della frattura, i vasi sanguigni vengono lacerati, con formazione di un’emorragia ed un ematoma (Hulse & Hyman, 2005). Quest’ultimo sembra inviare dei segnali alle molecole dotate della capacità di dare inizio alla cascata infiammatoria che risultano di importanza critica per la guarigione delle fratture. Tra queste troviamo: l’interleuchina-1, l’interleuchina-6, il fattore beta di trasformazione della crescita ed il fattore di crescita di derivazione piastrinica (Johnson & Hulse, 2004a).
Il danneggiamento dei vasi sanguigni provoca un’alterazione dei meccanismi fisiologici cellulari e la morte di osso e tessuti molli; in questa fase si osservano vasodilatazione ed essudazione plasmatica che determina edema e migrazione di leucociti polimorfonucleati e macrofagi (reazione infiammatoria aspecifica). Come conseguenza si ha il riassorbimento e l’allontanamento dei tessuti necrotici e, contemporaneamente, si forma una nuova rete vascolare in grado di supplire alle necessità metaboliche del tessuto in via di riparazione (Marchetti et al, 1986; Aron, 2001).
La reazione infiammatoria si continua poi in un seconda fase specifica dovuta all’irritazione continua dei tessuti indotta dai movimenti che si verificano tra i frammenti. Questa reazione, proporzionale alla quantità di movimento “controllato” nel focolaio di frattura, è quella che ottimizza le varie funzioni dell’ambiente che influenza la formazione del callo (Marchetti et al, 1986). In particolare si hanno modificazioni di:
ambiente chimico: si modifica per il maggior apporto di materiale nutritizio ed il rapido trasporto dei prodotti del loro metabolismo; c’è inoltre una modificazione del pH ed aumenta la pressione di ossigeno;
ambiente termico: si rileva un aumento della temperatura nella regione della frattura che favorisce più alti livelli metabolici ed una maggiore attività cellulare;
ambiente elettrico: l’effetto prodotto dalla deformazione dell’osso sotto carico, fa nascere polarità positive o negative che da un lato influenzano la distribuzione di ioni, ottimizzando l’ambiente chimico, e dall’altro inducono la formazione e l’orientamento dei tessuti nel callo di riparazione (Marchetti et al, 1986).
Le cellule di origine mesenchimale che intervengono nella riparazione delle fratture sono pluripotenti e possono differenziarsi in osteoblasti, fibroblasti od osteoblasti (Toal & Mitchell, 2002); la maggior parte di queste cellule
raggiunge il focolaio veicolata dai capillari del tessuto di granulazione dando origine al callo molle (Aron, 2001; Hulse, Hyman, 2005).
Quest’ultimo è formato da tessuto fibroso o fibrocartilagine a seconda delle condizioni microambientali locali. Il tessuto fibroso, che necessita di un’elevata tensione di ossigeno, si forma alla periferia del callo esterno, dove l’apporto di sangue è abbondante; verso il centro del callo, invece, l’apporto di sangue è limitato per cui si forma fibrocartilagine che viene prodotta in condizioni di bassa tensione di ossigeno (Aron, 2001; Hulse & Hyman, 2005). Si riconoscono tre regioni fondamentali (Marchetti et al, 1986; Marchetti et al, 1991) all’interno del callo osseo (figura 3.2.b):
Figura 3.2.b: Schematizzazione delle 3 regioni del callo osseo: P=periferico; Ce=centrale; Co=contatto (Marchetti et al, 1986).
- la zona del callo di contatto: si forma aderente all’osso corticale vitale
in ambedue i frammenti, sia in sede periferica sottoperiostale, che nel canale midollare. La vascolarizzazione è garantita dall’arteria midollare e dal sistema vascolare periostale; questa zona del callo si forma sempre, senza bisogno di condizioni favorenti.
- la zona del callo centrale: fronteggia i frammenti estendendosi dal
centro alla periferia del fuso; non viene vascolarizzata fino agli stadi finali della guarigione.
- la zona del callo periferico: si trova alla periferia del fuso a partire
dalla zona di contatto sottoperiosteo. Rappresenta la regione più attiva e funzionalmente efficace per il processo di consolidazione ed il suo strato più superficiale rappresenta il nuovo foglietto periostale; la vascolarizzazione giunge esclusivamente dai tessuti molli circostanti.
La grandezza del callo è determinata da molti fattori: tipo di frattura, grado di stabilità, ampiezza del gap di frattura e vascolarizzazione da parte dei tessuti molli circostanti (Toal & Mitchell, 2002).
Per quanto riguarda il grado di movimento, maggiore è l’instabilità e più grande è il diametro del callo interno ed esterno, perché l’aumento del diametro dei tessuti incrementa la capacità dell’osso di resistere alla curvatura (Johnson & Hulse, 2004a; Hulse, Hyman, 2005).
In particolare, la zona del callo centrale e del callo periferico si formano solo in presenza e proporzionalmente al movimento tra i monconi di frattura. Le sollecitazioni meccaniche non devono, comunque, superare certi limiti (strain tolerance). Il controllo della quantità di movimento, affinché rimanga nell’ambito dello strain tolerance, è affidato al dolore che vi provvede con un meccanismo automatico di bio-feedback (Marchetti et al 1986; Marchetti et al, 1991).
Entrambi i tessuti del callo molle, ossia il tessuto fibroso e la cartilagine, hanno sufficienti proprietà meccaniche per unire con un ponte la frattura, ma non per diminuire la deformazione locale ad un livello che favorisca la sopravvivenza degli osteoblasti (Hulse & Hyman, 2005). Comunque, la regione centrale del callo è, in questa fase, ad elevato contenuto fluido e questo consente di resistere alle forze di compressione e di assorbire gli stress distribuendoli su un’ampia superficie. In questo modo, anche in presenza di sollecitazioni elevate, le forze distribuite sui singoli settori sono minime (Marchetti et al 1986; Marchetti et al, 1991).
Per aumentare ulteriormente la rigidità dell’ambiente della frattura, comincia la mineralizzazione che rappresenta l’inizio del callo duro. Nella fibrocartilagine, la mineralizzazione della matrice progredisce dalla estremità dei monconi al centro dello spazio di frattura, mentre nel tessuto fibroso si verifica tra le fibre collagene per diventare fibre ossee. La calcificazione di questi tessuti determina maggior robustezza e rigidità strutturale che limita la deformazione dello spazio a livelli accettabili, al fine di consentire l’inizio della formazione di osso. La fibrocartilagine va incontro ad ossificazione endocondrale durante la quale l’osteoide è depositato sull’impalcatura di cartilagine e di fibre ossee mineralizzati. Il tessuto fibroso e la fibrocartilagine mineralizzati vengono così gradualmente sostituiti per formare osso spugnoso che assicura una rigidità e robustezza strutturale sufficiente ad un ritorno funzionale dell’arto, una volta completata la formazione del ponte di unione. A questo punto l’osso cicatrizzato possiede un diametro maggiore del normale e può essere deformato. La struttura spugnosa non è tuttavia permanente, ma nei mesi e anni successivi, attraverso la fase del rimodellamento, l’osso spugnoso viene sostituito da osso lamellare longitudinalmente orientato (Hulse & Hyman, 2005); in questa fase, infatti, si verifica il riassorbimento osteoclastico dell’osso meccanicamente non utile, mentre altro tessuto osseo viene deposto parallelamente alle linee di tensione delle forze. Il risultato finale è un osso di forma simile all’originale o con forma diversa, ma in grado di svolgere al meglio la sua funzione biomeccanica (Aron, 2001).
3.3 VALUTAZIONE RADIOGRAFICA DELLA GUARIGIONE DELLE FRATTURE
L’esame radiografico, oltre che per la diagnosi, è fondamentale per la valutazione dell’evoluzione di una lesione traumatica nel tempo (Brunetti & Petruzzi, 2005).
Durante gli studi di follow up sarebbe importante mantenere gli stessi paramentri di esposizione individuati correttamente per la prima radiografia. Sarebbe inoltre utile, quanto possibile, rimuovere gessature, steccature o bendaggi che possono interferire con la valutazione radiografica; se questo non è possibile devono essere effettuate le giuste correzioni dei parametri di esposizione (Toal & Mitchell, 2002).
Un esame radiografico deve essere eseguito sia nel caso di riduzione manuale della frattura sia nel caso di intervanto chirurgico. Il compito di un follow up radiologico di routine è quello di valutare e monitorare il progredire dei processi di guarigione della frattura e di evidenziare la possibile comparsa di complicazioni (Brunetti & Petruzzi, 2005); questa valutazione può essere facilitata comparando la radiografia corrente con quelle precedenti, ossia quella dell’immediato postoperatorio e quelle più recenti (Toal & Mitchell, 2002).
Nella valutazione delle fratture e della loro evoluzione bisogna sempre prendere in esame diversi fattori (Toal & Mitchell, 2002; Citi et al., 2005) che possono essere ricordati con l’acronimo ABCDS (Alignment, Bone, Cartilage, Device, Soft tissue):
- l’allineamento dei capi ossei (Alignment): tutti i frammenti ossei devono essere comparati, nella loro posizione spaziale, con i radiogrammi precedenti, per mettere in evidenza alterazioni della riduzione, dell’allineamento o rotazione, soprattutto quando sono stati impiegati chiodi centromidollari. - l’osso (Bone): tutte le parti ossee devono essere studiate per valutarne il coinvolgimento nella cicatrizzazione; tutti i frammenti devono essere al loro posto, ricordando che quelli devascolarizzati conservano i margini netti più a lungo degli altri e nel tempo possono essere rivascolarizzati e reinglobati nei fenomeni di cicatrizzazione o ischemizzarsi definitivamente, determinando la formazione di un sequestro con persistenza dei margini netti ed incremento della radiopacità.
La radiopacità e l’archittettura dell’osso stesso devono essere valutate per cogliere gli aspetti radiologici iniziali di un’osteomielite o di un’atrofia da disuso.
La formazione di callo deve essere attentamente valutata per cogliere eventuali segni di un ritardo di consolidamento, di un cedimento della sintesi o altri segni premonitori di una non corretta evoluzione dei fenomeni riparativi.
- la cartilagine (Cartilage): la cartilagine è valutabile attraverso lo studio dello spazio articolare; si può rilevare una non corretta riduzione, l’eventuale migrazione nel cavo articolare di mezzi di sintesi endomidollare ed aree litiche subcondrali o proliferazioni periostali che possono indicare l’instaurarsi di un’artrite settica o di una malattia articolare degenerativa. - i mezzi di sintesi (orthopedic Device): devono essere studiati attentamente per valutare eventuali segni di cedimento o di movimento, visibili come dislocazioni o aree osteolitiche intorno ad essi.
- i tessuti molli (Soft tissues): la tumefazione e la presenza di aria nei tessuti generalmente scompaiono nell’arco di pochi giorni (7-10 giorni). Valutando la densità e lo spessore dei tessuti molli si può rilevare l’atrofia delle masse muscolari, che è in genere visibile come diminuzione della radiodensità e diminuzione del diametro della regione in esame. Aumenti della radiopacità sono invece rilevabili in caso di calcificazioni distrofiche, miositi ossificanti, calcificazione dell’ematoma, osteomieliti o sarcomi indotti dal mezzo di ostesintesi.
La cadenza delle riprese radiografiche di controllo viene stabilita avendo presenti il tipo di riparazione avviata e la sua rispondenza ai principi della corretta fissazione scheletrica, nonché la sintomatologia clinica dell’animale trattato. Qualsiasi variazione nelle condizioni del malato (per esempio difficoltà o riluttanza ad usare l’arto, tumefazione insorta rapidamente, dolore, comparsa di secrezione), richiede un’immediata riconsiderazione della
situazione e in questo procedimento tutte le radiografie che riguardano il periodo postoperatorio, o comunque eseguite per controllo dell’andamento della cicatrizzazione ossea, devono essere accuratamente esaminate, per accertare la progressione della guarigione o la comparsa di complicanze (Burk & Ackerman, 1998). In linea di massima, vengono effettuate radiografie immediatamente dopo la riduzione della frattura, in seguito ad ogni modificazione degli impianti, e ogni tre o quattro settimane per valutarne la riparazione (Toal & Mitchell, 2002; Brunetti & Petruzzi, 2005).
Nell’unione ossea diretta, radiograficamente non si nota formazione del callo periostale, c’è perdita graduale della radiopacità dei capi ossei e una progressiva scomparsa della linea di frattura. La frattura guarirà residuando una scarsa o nulla presenza di tessuto osseo neoformato che modificherà poco il profilo dell’osso (Citi et al, 2005). Il ristabilimento della continuità della corticale e della cavità midollare avviene velocemente (Toal & Mitchell, 2002).
La riparazione indiretta rappresenta la forma più frequente di consolidazione di una frattura; durante la prima settimana i margini divengono meno netti per il movimento interframmentario, il riassorbimento del tessuto osseo necrotico e la vascolarizzazione interna (Toal & Mitchell, 2002). Nelle successive due settimane, si rileva bene la reazione attiva periostale. Questa, negli animali in accrescimento, si manifesta precocemente, cioè a 3-5 giorni dal trauma (Burk & Ackerman, 1998). L’iniziale callo periostale è poco mineralizzato e possiede margini irregolari; risulta adeso alla corticale di ciascun frammento. Nella quarta-quinta settimana, la mineralizzazione della matrice connettivale alla periferia del focolaio forma un involucro solido che ponteggia la rima di frattura; il callo appare liscio e più radiopaco e si assiste alla graduale scomparsa della radiotrasparenza a livello del focolaio (Marchetti et al 1986; Marchetti et al, 1991; Toal & Mitchell, 2002). Dopo le 12 settimane il callo esterno va incontro a rimodellamento con ricostruzione della continuità della
corticale e cavità midollare. Il processo finale può richiedere mesi o anni (Toal & Mitchell, 2002).
3.4 GUARIGIONE CLINICA
Per unione clinica si intende il momento durante la riparazione di una frattura in cui i mezzi di fissazione o stabilizzazione possono essere rimossi e l’animale può ritornare alla normale attività (Toal & Mitchell, 2002).
È difficile stabilire quale sia il momento ottimale; la decisione viene solitamente presa in base alla combinazione dei rilievi clinici, radiografici e alla storia clinica. In generale, gli impianti possono essere rimossi quando si rilevano i segni radiografici della formazione del ponte di tessuto osseo sopra la frattura o quando scompare la linea di frattura senza formazione di callo, a seconda che il processo di guarigione avvenga in modo indiretto o diretto; inoltre, alla palpazione l’arto deve risultare stabile e non dolente (Toal & Mitchell, 2002; Johnson & Hulse, 2004a).
I tempi approssimativi di guarigione clinica in fratture diafisarie non complicate in relazione ai mezzi di fissazione e all’età sono riportati nella tabella 3.4.a (Toal & Mitchell, 2002):
Età dell’animale
Fissazione scheletrica esterna e
chiodi endomidollari Osteosintesi con placca
Inferiore ai 3 mesi 2-3 settimane 4 settimane
Tra 3 e 6 mesi 4-6 settimane 2-3 mesi
Tra 6 e 12 mesi 5-8 settimane 3-4 mesi
Maggiore a 1 anno 7-12 settimane 5-8 mesi
Tabella 3.4.a: Tempi di guarigione clinica in fratture diafisarie non complicate in relazione ai