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Capitolo 5 Diagnosi e Principi di Trattamento delle Fratture

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Diagnosi e Principi di Trattamento

delle Fratture

5.1 DIAGNOSI

L’anamnesi e la sintomatologia clinica indicano facilmente la presenza di una frattura che deve, comunque, essere confermata tramite esame radiografico in almeno due proiezioni ortogonali (Brinker et al., 1996).

L’anamnesi è in genere riferibile ad una zoppia senza appoggio dell’arto, immediatamente dopo un trauma che, in alcuni casi, resta ignoto al proprietario (Johnson & Hulse, 2004c).

Durante l’esame clinico si possono rilevare segni di certezza e segni di

probabilità (Mancini & Morlacchi, 2002).

I segni di certezza sono rappresentati da:

-

crepitazione per attrito reciproco delle superfici di frattura;

-

mobilità preternaturale per la motilità della leva scheletrica.

Si tratta di segni che possono rilevarsi mobilizzando cautamente l’arto traumatizzato facendo attenzione a non scomporre una frattura non scomposta. L’assenza di questi segni, tuttavia, non autorizza ad escludere la frattura potendo essi mancare in caso di frattura “ingranata”.

I segni di probabilità sono:

-

atteggiamento, spesso caratteristico, di difesa o di riposo dell’arto traumatizzato;

-

deformità per accorciamento, angolazione o rotazione del segmento scheletrico in esame;

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-

dolore spontaneo, accentuato dalla palpazione profonda o dalla percussione (dolore provocato);

-

ecchimosi, spesso caratteristica per sede, estensione e momento di comparsa;

-

tumefazione locale, per stravaso ematico;

-

impotenza funzionale o limitazione grave della motilità attiva e passiva o della deambulazione, per il dolore prodotto dal movimento dei frammenti. Alcuni di questi sintomi possono mancare od essere relativamente modesti, e il loro sommarsi contribuisce a rafforzare il sospetto diagnostico.

Quando si sospetta una frattura, comunque, devono essere effettuate due radiografie tra di loro ortogonali che comprendano le articolazioni prossimale e distale rispetto alla presunta sede della stessa, in modo da valutare il coinvolgimento articolare e il grado di rotazione dei frammenti. (Burk & Ackerman, 1998; Toal & Mitchell, 2002).

Per posizionare in modo appropriato l’animale, è necessario, il più delle volte sedarlo o anestetizzarlo in modo da ottenere una corretta immagine radiografica e alleviare il dolore; si evita, inoltre, l’ulteriore danno tissutale per una più facile gestione del paziente (Toal & Mitchell, 2002; Brunetti & Petruzzi, 2005). La sedazione, ovviamente, deve essere effettuata solo dopo aver accertato che non esistano controindicazioni, come shock, ipotensione e grave dispnea; vanno, inoltre, effettuati radiogrammi del torace per valutare le eventuali alterazioni polmonari. Sarebbe anche opportuno eseguire un profilo ematochimico per valutare le condizioni dell’animale e per determinare se vi siano concomitanti danni o lesioni dell’apparato renale e di quello epatobiliare (Johnson & Hulse, 2004c).

Radiograficamente, una frattura è rappresentata dall’interruzione della normale continuità dell’osso e può essere riconoscibile come linea (o linee)

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più radiolucenti, oppure come linea sclerotica o ancora come zona di sovrapposizione dei frammenti (Toal & Mitchell, 2002).

L’esame radiografico permette di individuare e caratterizzare correttamente la maggior parte delle fratture (Brunetti & Petruzzi, 2005). Talvolta, però, può esserci una frattura ma con distrazione minima dell’osso che rende difficile il riconoscimento radiografico (Toal & Mitchell, 2002).

Le cause che possono determinare una mancata visualizzazione radiografica di una frattura sono:

-

radiogrammi di cattiva qualità;

-

linee di frattura non tangenziali al fascio di raggi;

-

fratture corticali da stress recenti;

-

minimo allontanamento dei monconi, come nelle fratture delle fisi;

-

sovrapposizione con altre strutture anatomiche.

Immagini radiografiche ripetute nel tempo, ottenute con l’uso di tecniche appropriate o proiezioni oblique, possono in questi casi essere d’aiuto (Toal & Mitchell, 2002; Brunetti & Petruzzi, 2005).

Una linea di frattura più evidente può essere apprezzata dopo una o due settimane dal trauma grazie a fenomeni di rimaneggiamento che nel frattempo si sono verificati, oppure si possono notare eventuali reazioni periostali (Toal & Mitchell, 2002; Brunetti & Petruzzi, 2005).

5.2 TRATTAMENTO

Quando dobbiamo trattare un soggetto traumatizzato, la necessità primaria è quella di salvaguardare la vita del paziente, per cui la riparazione dei tessuti ed il ripristino della funzione sono secondari. Nel caso in cui siano presenti uno stato di shock, emorragie, o ferite a carico dei tessuti molli, questi vanno trattati con precedenza (Brinker et al., 1996).

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L’esame di un animale con una frattura o una sospetta frattura deve includere (Brinker et al., 1996):

1. la valutazione dello stato di salute generale;

2. la determinazione di quali tessuti od organi vicini alla frattura od in altre parti del corpo siano stati danneggiati ed in che grado;

3. un accertamento di altre eventuali fratture o lussazioni in altre parti del corpo;

4. una valutazione precisa della frattura o delle fratture.

La riduzione e la fissazione della frattura devono essere effettuate, comunque, non appena le condizioni del paziente lo permettano, in quanto il procrastinarle rende la riduzione più difficoltosa a causa della contrazione spastica dei muscoli che contrasta le manualità di riduzione, e dell’ispessimento infiammatorio dei tessuti molli (Brinker et al., 1996). La maggior parte delle fratture dovrebbe essere quindi riparata entro 5-7 giorni dal trauma, per evitare complicazioni intra e post-operatorie; quest’ultime possono ritardare la guarigione della frattura e, talvolta, portare anche al fallimento dell’osteosintesi stessa. La precocità dell’intervento, inoltre, può velocizzare il ripristino della piena funzionalità dell’arto; è stato dimostrato che protrarre la riparazione chirurgica oltre le 48 ore è dannoso per il processo di riparazione (Romeo et al., 2003).

In attesa dell’intervento chirurgico, il management pre-operatorio prevede l’immobilizzazione temporanea del segmento osseo fratturato in modo da evitare complicazioni, come l’esposizione di fratture chiuse (Romeo et al., 2003). Le lesioni instabili, a maggior ragione, devono essere immobilizzate in modo da ridurre l’ulteriore danneggiamento dei tessuti molli ed alleviare il senso di disagio e il dolore al paziente (Johnson & Hulse, 2004a).

Per fornire un sostegno temporaneo agli arti lesi o come metodo primario di stabilizzazione di una frattura si possono usare bendaggi rigidi (Johnson & Hulse, 2004a).

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5.2.a Scelta dei metodi di trattamento delle fratture

La scelta della tecnica da adottare per una determinata frattura non deve essere effettuata solo basandosi sull’osservazione della configurazione della stessa, altrimenti si corre il rischio di incorrere in errori (Johnson & Hulse, 2004a).

È importante, invece, attuare una valutazione dei paramentri meccanici, biologici e clinici che influiscono in modo significativo sull’esito della terapia.

Sulla base di questi parametri è possibile mettere a punto un sistema di valutazione delle fratture basato su un punteggio (che varia da 1 a 10), utile per la scelta degli impianti da utilizzare. L’estremità più bassa della scala corrisponde ai fattori meccanici, biologici e clinici che non favoriscono la rapida unione dell’osso ed il recupero della funzionalità, mentre al capo opposto si trovano quelli che favoriscono gli stessi processi (Johnson & Hulse, 2004a).

Fattori meccanici

I fattori meccanici (figura 5.2.a1) che infuiscono sulla guarigione dell’osso e sul recupero funzionale sono rappresentati dal numero di arti lesi, dalla taglia e dal livello di attività del paziente, nonché dalla possibilità di realizzare una fissazione che consenta un’adeguata distribuzione dei carichi fra la colonna ossea e gli impianti (Johnson & Hulse, 2004a).

La riducibilità della frattura condiziona in modo determinante la scelta del tipo di osteosintesi.

Le fratture riducibili sono quelle in cui la soluzione di continuo determina la formazione di due elementi ossei e quelle con grandi frammenti a farfalla che possono essere immobilizzati con fili di cerchiaggio o viti compressive; esse permettono quindi, una volta ricostruita la corticale, di alleviare le sollecitazioni che gravano sugli impianti ortopedici.

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Le fratture con molteplici frammenti di grandi dimensioni o numerosi piccoli frammenti, che non possono essere immobilizzate con gli impianti, sono considerate irriducibili; in questo caso gli impianti sopportano l’intero carico dell’arto fino alla formazione del callo e devono quindi garantire stabilità per un lungo periodo di tempo. Aumentano in questo modo le probabilità di complicazioni legate ai mezzi di fissazione (Johnson & Hulse, 2004a).

Figura 5.2.a1: Fattori meccanici da prendere in considerazione per

determinare il punteggio di valutazione delle fratture (Johnson & Hulse, 2004a).

Il consolidamento di ogni frattura rappresenta il fattore determinante fra l’allentamento degli impianti e la guarigione delle fratture.

Le complicazioni sono più frequenti quando gli impianti sono sottoposti a sollecitazioni ed a carichi pesanti subito dopo l’intervento. Poiché gli animali devono scaricare il proprio peso su almeno tre arti, quando sono lesi più arti o in presenza di zoppie preesistenti a carico di un altro arto, è impossibile

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evitare nel periodo postoperatorio il carico del sistema formato da osso fratturato ed impianto. I cani di grossa taglia o molto attivi sono quindi maggiormente predisposti all’allentamento prematuro o al cedimento degli impianti (Johnson & Hulse, 2004a).

Anche il grado di distribuzione dei carichi fra impianti e colonna ossea influisce sulla frequenza delle complicazioni. La distribuzione ideale si ha quando gran parte della forza viene trasmessa assialmente lungo l’arto, come in caso di fratture trasversali od oblique corte. Quando invece il carico viene trasmesso da un segmento osseo ad un altro attraverso gli impianti piuttosto che attraverso al colonna ossea, l’allentamento e il cedimento alla fatica sono più comuni. Le fratture molto comminute che non possono essere ridotte anatomicamente possono di conseguenza andare incontro a questo tipo di complicazione (Johnson & Hulse, 2004a).

Fattori biologici

Numerosi sono i fattori biologici da valutare nella scelta del metodo di trattamento di una frattura (figura 5.2.a2). Molti di questi sono già stati trattati nella discussione delle proprietà biomeccaniche dell’osso e dei tempi di guarigione clinica delle fratture.

Figura 5.2.a2: Fattori biologici da prendere in considerazione per determinare

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L’età dell’animale, ad esempio, è un’importante fattore da prendere in considerazione in quanto, in caso di animali giovani che presentano tempi di guarigione rapidi, il sistema di fissazione sarà sottoposto a sollecitazione per un breve periodo. Al contrario, in un animale anziano l’impianto dovrà svolgere questa funzione fino alla formazione del callo osseo che avviene in un tempo più prolungato (Johnson & Hulse, 2004a).

Occorre, inoltre, prendere in considerazione l’esposizione o meno della frattura e l’entità del trauma. Le fratture esposte causate da traumi molto violenti sono accompagnate da significative lesioni dei tessuti molli e da una notevole comminuzione dell’osso. L’unione dei capi di frattura richiederà un periodo di tempo lungo, perché prima deve avvenire la guarigione dei tessuti molli. Di conseguenza, il sistema osso-impianto deve avere un’elevata rigidità iniziale per consentire la rivascolarizzazione e la guarigione dei tessuti, ed essere rigido per fungere da sostegno fino alla formazione del callo osseo. Nelle fratture non esposte o causate da un lieve trauma il danno dei tessuti molli è minore e l’unione ossea procede più rapidamente (Johnson & Hulse, 2004a).

Un altro fattore che influenza la valutazione biologica è la necessità o meno di una riduzione a cielo aperto. Se il focolaio di frattura viene esposto, si verifica un danno vascolare iatrogeno. Il ruolo del chirurgo risulta per questo importante nel ridurre al minimo il danneggiamento dei tessuti molli circostanti durante le riduzioni a cielo aperto.

Il tipo di osso colpito e la localizzazione della lesione sono altri fattori importanti; le fratture che avvengono in un segmento osseo con limitata copertura da parte dei tessuti molli (fratture del radio e della tibia) presentano più frequentemente consolidamenti ritardati o altre complicazioni rispetto a fratture di omero o femore. Come già affermato in precedenza, le fratture dell’osso spongioso delle regioni metafisarie o epifisarie guariscono più rapidamente di quelle diafisarie (Johnson & Hulse, 2004a).

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Fattori clinici

I fattori clinici (figura 5.2.a3) da prendere in considerazione nella scelta del trattamento di una frattura sono:

1) la disponibilità e la capacità del cliente di soddisfare le esigenze postoperatorie del proprio animale;

2) la prevista collaborazione del paziente dopo l’intervento; 3) la funzionalità postoperatoria dell’arto.

Figura 5.2.a3: Fattori clinici da prendere in considerazione per determinare il

punteggio di valutazione delle fratture (Johnson & Hulse, 2004a).

Se un cliente non è disponibile o capace di impegnarsi per il tempo necessario nella gestione dei sistemi di stabilizzazione che richiedono un impegno postoperatorio moderato od intenso (come i bendaggi rigidi o i fissatori esterni), è preferibile utilizzarne altri che limitano questo compito, come placche e viti (Johnson & Hulse, 2004a).

Per quanto riguarda il paziente, gli animali molto attivi o incontrollabili non sono buoni candidati all’applicazione di sistemi di stabilizzazione esterni o a bendaggi rigidi.

Bisogna inoltre prevedere quale sarà la ripresa funzionale dell’arto nel periodo postoperatorio. Dato che lo scopo del trattamento delle fratture è il rapido ritorno alla normalità della parte lesa, la scelta degli impianti deve

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tener conto della capacità del paziente di adattarsi al disagio durante la guarigione.

Se si ritiene che la durata del periodo di tempo necessario all’unione ossea sia rapida (meno di 6 settimane), la “comodità del paziente” ha un’importanza relativa. Quando invece si presume che questa non sia precoce (più di 8 settimane) è preferibile optare per impianti comodi, come placche da osteosintesi, in modo da ridurre le preoccupazioni del cliente e prevenire le patologie da frattura (Johnson & Hulse, 2004a).

Atrofie muscolari, contratture tendinee e rigidità articolari, associate al prolungato disuso causato dalla scelta non corretta degli impianti, possono infatti portare ad un insuccesso anche dopo l’unione ossea, in quanto non si arriva ad un recupero funzionale dell’arto (Johnson & Hulse, 2004a).

5.2.b Caratteristiche biomeccaniche degli impianti di fissazione

L’obbiettivo nel trattamento di una frattura è di promuoverne la guarigione, mantenendo o ripristinando l’allineamento dei monconi, evitando la immobilizzazione articolare e permettendo il recupero della funzione muscolare onde evitare l’insorgenza della “malattia da frattura” (Ghera et al., 2006).

È necessario per questo ottenere una frattura stabile che permetta il processo di consolidazione; una sintesi ossea si definisce “rigida” quando neutralizza i movimenti in corrispondenza del focolaio di frattura (Ghera et al., 2006). La stabilizzazione delle fratture può avvenire attraverso diversi impianti: ingessature, steccature, fissatori esterni lineari o circolari, chiodi centromidollari, placche ossee, chiodi bloccati, viti da compressione, cerchiaggi o emicerchiaggi (Radasch, 1999).

La tecnica di fissazione deve neutralizzare adeguatamente le forze intrinseche ed estrinseche che vengono generate fino a che le proprietà meccaniche e strutturali dell’osso vengono ripristinate. Una inadeguata neutralizzazione di

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queste forze può condurre a non unioni, unioni ritardate, malunioni ed osteomieliti (Radasch, 1999).

Gli impianti di stabilizzazione delle fratture hanno diverse capacità di neutralizzare queste forze e spesso è necessario utilizzarli in associazione (Radasch, 1999). La tabella seguente indica le proprietà dei diversi impianti (Radasch, 1999; Boudrieau, 2001).

Impianti Forze neutralizzate

Ingessature/steccature flessione, rotazione Chiodo endomidollare:

di Steinmann liscio inchiodamento multiplo chiodo bloccato

flessione

flessione, in parte rotazione flessione, rotazione,compressione Cerchiaggi: cerchiaggio

completo Emicerchiaggio

scivolamento, se multipli flessione e rotazione scivolamento

Placche da: neutralizzazione compressione

Sostegno

Fissatore esterno lineare flessione, rotazione, compressione, scivolamento

Fissatore esterno circolare flessione, rotazione, compressione, scivolamento

Viti ossee nessuna

Valutazione radiografica postriduzione

Qualsiasi metodo sia stato scelto per la stabilizzazione della frattura, è indispensabile effettuare l’esame radiografico al fine di valutare: la qualità della riduzione della frattura, l’allineamento e il contatto dei capi di frattura e il corretto posizionamento degli impianti, ponendo cura nell’esame del

flessione, rotazione, compressione, scivolamento

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numero e tipo di fissatori e ai loro rapporti con le parti fratturate e ridotte (Burk & Ackerman, 1998; Johnson & Hulse, 2004a; Brunetti & Petruzzi, 2005).

La riduzione della frattura deve assicurare un contatto dei monconi almeno del 50%, minimo accettabile per una adeguata guarigione, anche se un’estensione maggiore dell’area di contatto è preferibile (Toal & Mitchell, 2002; Brunetti & Petruzzi, 2005).

L’allineamento dei monconi e la rotazione devono essere attentamente valutati. Un perfetto allineamento anatomico è desiderabile ma non possibile in ogni tipo di frattura. La rotazione del moncone distale è un fattore importante che può avere serie conseguenze se non viene precocemente identificato e corretto (Toal & Mitchell, 2002; Brunetti & Petruzzi, 2005). Per quanto riguarda i mezzi di fissazione, ne va valutato il posizionamento e la capacità di mantenere la riduzione e prevenire la mobilità durante la guarigione. L’alterazione di una di queste caratteristiche, se diagnosticata precocemente, può evitare l’insorgenza di complicazioni disastrose (Toal & Mitchell, 2002; Brunetti & Petruzzi, 2005).

I chiodi centromidollari devono abbracciare lo spazio della frattura adeguatamente, devono essere di calibro adeguato all’osso e non devono penetrare l’articolazione (Toal & Mitchell, 2002; Brunetti & Petruzzi, 2005). I cerchiaggi vanno posizionati contro la corticale con minimo spazio tra sé e l’osso (Toal & Mitchell, 2002; Brunetti & Petruzzi, 2005).

Per quanto attiene le placche, quelle troppo grandi possono determinare “stress protection” dell’osso con conseguente atrofia e demineralizzazione, mentre placche troppo piccole possono favorire instabilità nella sede di frattura determinando ritardi di consolidamento o non unioni come sequele (Toal & Mitchell, 2002; Brunetti & Petruzzi, 2005).

Figura

Figura 5.2.a1:  Fattori meccanici da prendere in considerazione per
Figura 5.2.a2:  Fattori biologici da prendere in considerazione per determinare
Figura  5.2.a3:  Fattori  clinici  da  prendere  in  considerazione  per  determinare  il

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