• Non ci sono risultati.

Il deficit non ci salverà, serviranno risorse ingenti ma soprattutto interventi di qualità ▪

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "Il deficit non ci salverà, serviranno risorse ingenti ma soprattutto interventi di qualità ▪"

Copied!
6
0
0

Testo completo

(1)

1

Il deficit non ci salverà, serviranno risorse ingenti ma soprattutto interventi di qualità

▪ L’emergenza sanitaria inedita, coinvolge non solo l’Italia, ma il mondo intero e prefigura cupi scenari economici per un Paese fragile come il nostro

▪ Molto dipenderà da come evolverà la pandemia in termini di ampiezza e durata, ma i segnali anticipatori sembrano indicare una discesa ripida del Pil

▪ L’uscita dalla nuova crisi dipenderà dalle misure messe in atto, ma è resa più ardua da una debolezza che viene da lontano

▪ Da Lehman in poi, le crisi sono durate di più che negli altri grandi Paesi e l’Italia ne è uscita con valori più bassi di quelli con cui è entrata

▪ In un momento di estrema necessità, come quello attuale, ci sono bisogni che non possono essere disattesi, e il decreto-legge del 16 marzo 2020, ben li coglie in linea generale

▪ Ma bisogna fare grande attenzione a come si spenderà effettivamente, perché non è la Commissione europea che ci concede risorse, ma saranno i mercati quando ci presenteremo con nuove emissioni di titoli pubblici, e lo farà un Paese con un debito tra i più alti al mondo

▪ Due fattori dobbiamo tenere bene a mente: dal 1995 al 2017 ha avuto il triste primato del Paese che spende di più per interessi sul debito in rapporto al Pil; da metà degli Anni Novanta si è fatto deficit senza che questo avesse effetti benefici rilevanti sulla crescita

▪ Ecco quindi che per l’Italia si presenta, pur nella drammaticità del momento, una straordinaria occasione per fare ciò che sino ad oggi abbiamo stentato, interventi di qualità oltre che di quantità.

Nelle parole del Presidente della Repubblica “L’Italia sta attraversando una condizione difficile”, un’emergenza sanitaria inedita nell’ultimo secolo che prefigura scenari economici quantomeno foschi, se non cupi, per un Paese fragile come il nostro.

Dopo un inziale tentennamento sulle priorità, il governo ha finalmente deciso che l’emergenza sanitaria prevale, mettendo in campo 11 provvedimenti tra decreti-legge e decreti della Presidenza del Consiglio nei primi venti giorni di emergenza.

Mentre si redige questa newsletter è stato varato il decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, contenente interventi a sostegno delle imprese e delle famiglie.

L’impostazione appare adeguata nelle linee di azione individuate, ovvero: 1) misure a supporto del Sistema sanitario nazionale e della Protezione civile; 2) misure a sostegno del lavoro; 3) misure a sostegno della liquidità, anche attraverso un 4) rinvio delle scadenze fiscali; 5) misure specifiche le filiere più colpite nella fase iniziale dell’emergenza.

Per comprenderne l’efficacia bisognerà, in un primo momento, attendere la discussione parlamentare e le eventuali modifiche che ne deriveranno.

(2)

2

È chiaro che molto dipenderà da come evolverà la pandemia in termini di ampiezza e durata, nonché dalla durata ed entità delle misure di contenimento messe in atto.

Gli scenari che si prefigurano sono che la crisi economica da Covid-19 descriva una “V”, ovvero un rapido calo e una rapida ripresa, sul modello della crisi dei mutui subprime di fine 2007, con crollo nel 2008-2009 e successivo rimbalzo del 2010. Oppure, in alternativa, a “U” con un calo importante ma graduale, una più lunga recessione seguita da una ripresa, come si è osservato con la crisi dei debiti sovrani del 2011 e il successivo recupero del 2013-2014.

Al momento, i segnali anticipatori sembrano indicare una discesa ripida del Pil, ma bisognerà attendere almeno aprile per avere qualche certezza contabile.

Desta preoccupazione la condizione di fragilità in cui l’economia del nostro Paese versava già prima dell’emergenza coronavirus. Come indicato in una newsletter precedente, la caduta del Pil di fine 2019 (- 0,3%) si sommava ad una sostanziale stagnazione dei mesi precedenti, tale da prospettare per quest’anno un modesto +0,2% contro lo 0,6% prefigurato dal governo.

Ma la debolezza dell’economia italiana viene da lontano. Se si sofferma lo sguardo sulla cd “seconda repubblica”, ovvero dal 1994 in poi, l’Italia è il Paese (tra quelli più industrializzati) ad avere maturato il triste record di trimestri con il Pil in diminuzione, 33 fino a fine 2019, ovvero un terzo del totale; segue la Germania con 28, ma concentrati tra il 2000 e il 2009, e il Giappone con 27.

In ragione di questa debolezza da Lehman in poi, le crisi sono durate di più che negli altri grandi Paesi, e (V o U che fossero) si è usciti con valori più bassi di quelli con cui si è entrati; senza considerare che l’Italia è l’unico tra i grandi Paesi europei a non avere recuperato i livelli di Pil pre-2008.

Tabella n. 1 – Le recessioni nel periodo 1995-2019

n. trimestri Incidenza sul totale 1995-1999 2000-2009 2010-2019

Germania 28 27,7% 5 16 7

Spagna 18 17,8% 0 5 13

Francia 13 12,9% 0 7 6

Gran Bretagna 8 7,9% 0 5 3

Italia 33 32,7% 4 16 13

Giappone 27 26,7% 4 10 13

Stati Uniti 10 9,9% 0 7 3

UE28 11 10,9% 0 6 5

OECD 5 5,0% 0 5 0

Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Oecd

(3)

3 Grafico n. 1 – Pil a prezzi di mercato in volume (2010), corretto per effetti calendario e destagionalizzato, miliardi di euro, Italia

Grafico n. 2 – Pil a prezzi di mercato in volume (2010), corretto per effetti calendario e destagionalizzato, miliardi di euro, Italia a confronto

Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Eurostat

Il dibattito politico, anche in questo frangente, si è concentrato sulla quantità di risorse necessarie da impiegare per mitigare gli effetti della pandemia piuttosto che sulle misure.

Il Governo aveva inizialmente programmato un intervento di spesa per 12 miliardi di euro, con la possibilità di impegnare ulteriori risorse (oltre quelle previste in manovra di bilancio) fino a 25 miliardi di euro, se necessario. In fase di approvazione si è propeso per impegnare tutte le risorse, un pacchetto inziale pari all’1,1%, che salirà ad aprile quando è previsto un nuovo intervento.

Senza l’apporto di risorse europee, in fase di definizione, queste nuove uscite sarebbero finanziate con nuovo deficit per 20 miliardi di euro, portando il rapporto deficit/Pil dal 2,2% programmato fino al 3,3%.

Anche se con ogni probabilità si supererà anche questa soglia per effetto della caduta del Pil in corso d’anno.

È fuori di dubbio che in un momento di estrema necessità, come quello attuale, ci sono bisogni che non possono essere disattesi, e il decreto-legge approvato, ben li coglie in linea generale. Da una parte le spese sanitarie per rendere più gestibili gli effetti della pandemia, come l’arruolamento di nuovo personale sanitario, il potenziamento della dotazione di posti letto in terapia intensiva e nelle unità operative di pneumologia e di malattie infettive, l’erogazione di incentivi per la produzione e la fornitura di dispositivi medici.

Dall’altra le misure per i redditi delle famiglie che in una prospettiva di perdita dell’impiego limiterebbero i consumi pregiudicando la ripresa, dall’altra, ancora, la liquidità ad imprese che senza clienti potrebbero chiudere e far perdere potenziale produttivo e occupazionale e quindi compromettere il recupero del Pil.

Ma per un Paese altamente indebitato come il nostro bisogna fare grande attenzione a come si spenderà effettivamente, perché va sottolineato che le risorse nazionali messe in campo dal Governo prevedono l’emissione di nuovo debito che dovrà incontrare il gradimento dei risparmiatori, italiani o esteri che siano. Perché quando ci presenteremo con nuove emissioni di titoli pubblici non sarà la Commissione europea che ci concederà risorse, ma saranno i mercati. E la richiesta arriverà da un Paese

350.0 360.0 370.0 380.0 390.0 400.0 410.0 420.0 430.0

1995Q1 1996Q2 1997Q3 1998Q4 2000Q1 2001Q2 2002Q3 2003Q4 2005Q1 2006Q2 2007Q3 2008Q4 2010Q1 2011Q2 2012Q3 2013Q4 2015Q1 2016Q2 2017Q3 2018Q4 0.0

100.0 200.0 300.0 400.0 500.0 600.0 700.0 800.0

1995Q1 1996Q2 1997Q3 1998Q4 2000Q1 2001Q2 2002Q3 2003Q4 2005Q1 2006Q2 2007Q3 2008Q4 2010Q1 2011Q2 2012Q3 2013Q4 2015Q1 2016Q2 2017Q3 2018Q4

Italia Spagna

Germania Francia

Gran Bretagna

(4)

4

con un debito che vale il 134,8 del Pil, rapporto tra i più alti al mondo. Un rapporto che abbiamo saputo ridurre con grandi sacrifici durante buona parte della “seconda repubblica”, ma non dopo le ultime due crisi (subprime e debito sovrano), neppure negli anni di crescita dell’economia.

Grafico n. 3 – Rapporto debito/Pil nell’Unione europea (2018), valori percentuali

Grafico n. 4 – Rapporto debito/Pil nell’Unione europea, valori percentuali, Italia a confronto

Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Eurostat

Oramai è troppo tardi per rammaricarsi per il debito acquisito, ma non bisogna dimenticare che superata l’emergenza potremmo trovare più costoso e difficile ripagarlo se non si prenderanno decisioni concrete volte a spingere gli investimenti in grado di favorire una concreta ripresa dell’economia e di conseguenza del Pil. Decisioni che continuiamo a disattendere nonostante il periodo di tassi di interesse calmierati di anche l’Italia sta godendo dal 2012, dal ‘whatever it takes’ pronunciato dall’ex presidente della BCE, Mario Draghi, e dalle misure monetarie messe in campo.

Perché un dato che troppo spesso viene omesso dal dibattito sul deficit è che la mole di debito da rifinanziare ogni anno è considerevole, e comporta una spesa per interessi che si può definire esorbitante.

Il 2019, ad esempio, è stato l’anno in cui abbiamo raggiunto il minimo di spesa per interessi, pagando comunque 61,7 miliardi euro, pari al 3,5% del Pil, quasi una volta e mezzo la manovra economica di quell’anno.

Partendo da una spesa di 114 miliardi di euro del 1996 (11% del Pil) si è scesi sino ai 66 miliardi del 2014, per poi invertire il trend, che ha accelerato con la doppia crisi Lehman-debito sovrano, fino appunto all’intervento della BCE.

In rapporto al Pil, l’evoluzione della spesa per interessi sul debito dal 1995 ad oggi ci regala il non entusiasmante primato mondiale dal 1995 al 2017 siamo stati superati dagli Stati Uniti.

Nell’anno in cui abbiamo speso meno (il 2019) siamo stati comunque terzi nel mondo, e primi in Europa, per entità drenata dal bilancio pubblico.

8.4 21.0 22.3 32.6 34.1 34.2 35.0 36.4 38.8 45.8 48.9 49.4 52.4 59.0 61.9 63.6 70.2 70.4 74.0 74.8 80.4 85.9 85.9 97.6 98.4 100.0 100.6 122.2 134.8 181.2

ESTONIA LUXEMBOURG BULGARIA CZECHIA LITHUANIA DENMARK ROMANIA LATVIA SWEDEN MALTA POLAND SLOVAKIA NETHERLANDS FINLAND GERMANY IRELAND HUNGARY SLOVENIA AUSTRIA CROATIA EUROPEAN UNION-28 EURO AREA UNITED KINGDOM SPAIN FRANCE BELGIUM CYPRUS PORTUGAL ITALY GREECE

0 20 40 60 80 100 120 140

1995 1997 1999 2001 2003 2005 2007 2009 2011 2013 2015 2017

Euro area Germany

Spain France

Italy United Kingdom

(5)

5 Grafico n. 5 – Spesa per interessi/Pil, valori percentuali, Italia a confronto

Grafico n. 6 – Spesa per interessi/Pil nel 2019, miliardi di euro, Italia a confronto

Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Ameco-Commissione europea

Esiste anche un altro fattore di cautela nel decidere l’ammontare da spendere, nel nostro Paese dal 1995 si è fatto deficit senza che questo avesse effetti benefici rilevanti sulla crescita.

Tale punto, così come ha fatto Banca d’Italia, analizzando la dinamica del debito e le ricadute sulla crescita dall’Unità d’Italia al 2011, merita di essere approfondito. Dalla ricerca emerge come un aumento del debito non abbia determinato crescita economica, e come non sia stato positivo neppure l’impulso dato dalla riduzione del debito dagli anni Novanta al 2008.

Dal 1995 ad oggi, il nostro Paese ha speso in deficit il 3,3% del Pil, un valore non dissimile da altri grandi Paesi europei come la Francia (3,6%), Gran Bretagna (3,7%) o Spagna (3,8%). Ma l’Italia è il Paese che ha avuto il minore ritorno in termini di Pil, appena lo 0,6% di crescita media annua in quasi un quarto di secolo. In Francia la media è stata di 1 punto percentuale in più (+1,6%), di un punto e mezzo e oltre in Gran Bretagna (2,1%) e Spagna (2,2%).

Quella poca crescita economica registrata in Italia negli ultimi 25 anni si è dimostrata sostanzialmente indipendente dall’entità della spesa pubblica, come sembra dimostrare un coefficiente di correlazione prossimo allo zero (0,06), situazione simile solo a quella della Germania dove però si è speso meno (1,8%) e cresciuto di più (+1,4%). Diversa la situazione per Francia e Gran Bretagna invece la spesa in deficit

‘spiega’ quasi la metà del tasso di crescita (0,45).

0.0 2.0 4.0 6.0 8.0 10.0 12.0

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019

Euro area Germany

Spain France

Italy United Kingdom

Japan United States

0.0 0.1 0.2 0.2 0.2 0.2 0.3 0.3 0.4 0.5 0.5 0.8 0.9 1.2 1.2 1.6 1.8 1.9 2.1 2.4 2.6 2.6 3.4 4.7 5.6 5.9 6.3 6.5 7.0 9.3 19.1 28.0 29.2

36.3 55.7 61.7 79.9 754.6

ESTONIA MONTENEGRO NORTH MACEDONIA MALTA LUXEMBOURG LATVIA ALBANIA BULGARIA LITHUANIA CYPRUS ICELAND SLOVENIA SERBIA SLOVAKIA CROATIA CZECHIA NORWAY FINLAND SWITZERLAND DENMARK SWEDEN ROMANIA HUNGARY IRELAND GREECE AUSTRIA NETHERLANDS PORTUGAL POLAND BELGIUM TURKEY SPAIN GERMANY FRANCE UNITED KINGDOM ITALY JAPAN UNITED STATES

(6)

6 Grafico n. 7 – Evoluzione rapporto deficit/Pil e Pil dal 1995 (valori percentuali)

Grafico n. 8 – Coefficiente di correlazione (R2), tra rapporto deficit/Pil e Pil dal 1995

Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Eurostat

Ecco quindi che per l’Italia si presenta, pur nella drammaticità del momento, una straordinaria occasione per fare ciò che sino ad oggi è stato in qualche modo rinviato, interventi sull’economia di qualità oltre che di quantità.

Interventi che:

a) agiscano subito, in maniera adeguata;

b) vengano spiegata bene ai mercati che dovranno finanziarla senza chiedere interessi troppo elevati (salvo interventi della Commissione europea ancora da definire);

c) si concentrino su aspetti congiunturali e non aggravino strutturalmente il bilancio dello Stato, ad esempio con nuove uscite pensionistiche anticipate, taglio delle tasse permanente o sostegni al reddito a tempo più o meno indeterminato come il Reddito di cittadinanza.

Altro punto essenziale è tornare a fare riforme che aiutino nel medio periodo quella crescita che è mancata da troppi anni, e qui chi compra il nostro debito aspetterà il DEF a metà aprile. Quel Documento di Economia e Finanza che delinea gli obiettivi di bilancio pluriennale dello Stato e delimita l'ambito entro cui costruire il bilancio annuale e che tra le sue parti fondanti ha il Piano nazionale di riforma, dove sono anticipate le principali riforme programmate, i tempi previsti per la loro attuazione e la compatibilità con gli obiettivi di finanza.

Restiamo sotto osservazione anche al di là della pandemia da coronavirus.

-2.8 -1.8

-3.8 -3.6 -3.3 -3.7

1.6 1.4 2.2

1.6 0.6

2.1

-4 -3 -2 -1 0 1 2 3

Euro area Germania Spagna Francia Italia Gran Bretagna Deficit/Pil (1995-2018) ∆ PIL (1995-2019)

0.06 0.07

0.33 0.36

0.45 0.45

0 0.05 0.1 0.15 0.2 0.25 0.3 0.35 0.4 0.45 0.5

Italia Germania Spagna Euro area Francia Gran Bretagna

Riferimenti

Documenti correlati

impianto termico, consolidamento scala, impianti elettrici cond., sist.. facciate

 è pervenuta dalla UOC di medicina nucleare la richiesta di manutenzione della cella schermata per la preparazione di radiofarmaci marca Iteco modello 11008/1;.  è pervenuta

Il comma 7-ter, che qui maggiormente interessa, così recita: “L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito,

Con le stesse somme (8,6 miliardi) stanziate nelle decretazioni governative per ogni mese in cui le misure (cassa integrazione ordinaria ed in deroga,

Negli anni 2006-2017 si riscontra un miglioramento della qualità dell’aria nelle 14 città esaminate con una lieve riduzione della media delle concentrazioni annuali (ed in alcuni

Modelli innovativi di comunicazione, fruizione e promozione del patrimonio artistico e culturale, mirati alla maggiore valorizzazione dei territori... • Atelier

È stato, inoltre, più volte evidenziato come le risorse del Recovery Fund non possano essere impegnate per una riduzione del carico fiscale (ad esempio con un