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Depressione cronica con invalidità: spetta l’accompagnamento?

Autore: Redazione | 25/01/2019

Per ottenere l’assegno di accompagnamento da parte dell’Inps è necessario dimostrare di essere nella condizione di non poter badare a se stessi e di svolgere le comuni attività della vita quotidiana.

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Quando si pensa a una persona con una invalidità che percepisce anche l’assegno di accompagnamento si immagina un anziano incapace di camminare da solo, di norma su una sedia a rotelle, che necessita di un badante o di chiunque altro che, in ogni ora del giorno, gli stia accanto per prendersene cura. Ma la legge non richiede necessariamente una invalidità di tipo fisico. Per ottenere l’accompagnamento si può anche dimostrare una patologia psichica come, ad esempio, un disturbo depressivo o manifestazioni psicotiche. In ogni caso, è bene che la documentazione medica attesti il grave stato di invalidità che da tale patologia deriva. Una invalidità che deve essere totale e impedire di svolgere i compiti più elementari della vita quotidiana. L’ordinanza della Cassazione depositata lo scorso 24 gennaio [1] dimostra come non per ogni caso di depressione cronica con invalidità spetta l’accompagnamento.

Con invalidità al 100% mi spetta l’accompagnamento?

Non capita di rado che si presentino, allo studio degli avvocati, figli di persone anziane che, pur avendo ricevuto il riconoscimento di una invalidità al 100%, si sono però viste rigettare la richiesta dell’assegno di accompagnamento da parte dell’Inps. Di qui la volontà a impugnare i provvedimenti di diniego. Ma le possibilità di vittoria di un eventuale ricorso non sono così scontate. Perché mai, seppur riconosciuta la totale invalidità, non viene anche erogato il contributo per la badante? Perché, in base alla nostra legge c’è bisogno di qualcosa in più. In particolare, per ottenere l’indennità di accompagnamento sono necessari i seguenti requisiti:

inabilità totale (ossia al 100%) per minorazioni fisiche o psichiche;

impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore oppure, in alternativa, di compiere gli atti quotidiani della vita e la conseguente necessità di un’assistenza continua.

Il secondo requisito è, dunque, quel “qualcosa in più” che, oltre alla semplice invalidità al 100%, viene richiesto dalla normativa. La patologia deve essere tale da non consentire al disabile di autogestirsi nella quotidianità pratica (lavandosi e facendo la spesa, ad esempio), sia per una ragione di tipo fisico (collegata, ad esempio, alla deambulazione), che di tipo psichico.

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In passato la Cassazione ha scritto che [2]:

«Ai fini del riconoscimento dell’indennità di accompagnamento, l’art. 1 della legge n. 18 del 1980, richiede la contestuale presenza di una situazione di invalidità totale, rilevante per la pensione di inabilità civile ai sensi dell’art. 12 della legge n.

118 del 1971 e, alternativamente, dell’impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore oppure dell’incapacità di compiere gli atti quotidiani della vita con necessità di assistenza continua, requisiti, quindi, diversi dalla semplice difficoltà di deambulazione o di compimento di atti della vita quotidiana con difficoltà (ma senza impossibilità). La capacità del malato di compiere gli elementari atti giornalieri va intesa non solo in senso fisico, ossia come mera idoneità ad eseguirli materialmente, ma anche come capacità di intenderne il significato, la portata e l’importanza, anche ai fini della salvaguardia della propria condizione psico-fisica, dovendosi parametrare la stessa non sul numero degli elementari atti giornalieri, ma, soprattutto, sulle loro ricadute in termini di incidenza sulla salute del malato e sulla sua dignità come persona, sicché anche l’incapacità di compiere un solo genere di atti può, per la rilevanza di questi ultimi e l’imprevedibilità del loro accadimento, attestare la necessità di una effettiva assistenza giornaliera».

Dunque, in tema di indennità di accompagnamento, la capacità del malato di compiere gli elementari atti giornalieri deve intendersi non solo in senso fisico, cioè come mera idoneità ad eseguire in senso materiale detti atti, ma anche come capacità di intenderne il significato, la portata, la loro importanza anche ai fini della salvaguardia della propria condizione psico-fisica.

L’indennità è compatibile con lo svolgimento di un’attività lavorativa ed è concessa anche ai minorati che abbiano fatto domanda dopo il compimento del sessantacinquesimo anno di età.

Depressione: spetta l’accompagnamento?

La legge apre la possibilità del riconoscimento dell’accompagnamento anche a chi non ha problemi fisici (deficit motori), ma solo una malattia mentale e psicologica. Tuttavia si deve trattare di una malattia talmente grave da non consentire di lasciare da solo l’invalido nel corso della giornata, perché altrimenti ne andrebbe della sua stessa sicurezza o sopravvivenza. La valutazione della commissione dell’Inps deve insomma attestare che vi è la necessità di una

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assistenza continua per compiere gli atti della vita quotidiana.

In questo, il ruolo principale viene giocato appunto dalla valutazione medica e, in caso di ricorso al tribunale contro il provvedimento di diniego, dal consulente tecnico nominato dall’ufficio (il cosiddetto CTU). La perizia insomma ha valore dirimente. Di tanto abbiamo già parlato in Ricorso per accompagnamento disabile:

come e quando farlo.

Nel caso in oggetto deciso dalla Cassazione, alla luce delle valutazioni medico legali fatte sul ricorrente, i giudici hanno ritenuto che il grave disturbo depressivo cronico, accompagnato da manifestazioni psicotiche non fosse talmente importante da giustificare l’accompagnamento: non era cioè a rischio lo svolgimento delle “comuni attività della vita quotidiana” da parte del richiedente.

Così la Corte ha rigettato il ricorso dell’inabile, negandogli l’indennità di accompagnamento.

Depressione e malattia psichica: conta il caso concreto

Come detto, tutto si gioca in base alle effettive condizioni dell’invalido. Ad esempio in un altro caso [3] la Cassazione ha riconosciuto l’accompagnamento in favore di un uomo che a seguito di un grave trauma commotivo versava in condizione di deficit mnemonico e disorientamento topografico oltre a rallentamento ideativo e della fluenza verbale. In quella sede la Corte ha ribadito ancora una volta come, ai fini dell’attribuzione dell’indennità di accompagnamento, la nozione di «incapacità a compiere gli atti quotidiani della vita» comprende chiunque il quale, pur potendo spostarsi nell’ambito domestico o fuori, non sia per la natura della malattia in grado di provvedere alla propria persona o ai bisogni della vita quotidiana, ossia non possa sopravvivere senza l’aiuto costante del prossimo, riferendosi la nozione di soggetti che “abbisognano di un’assistenza continua”, anche a coloro che, a causa di disturbi psichici, non siano in grado di gestirsi autonomamente per le necessità della vita quotidiana.

L’indennità di accompagnamento può essere riconosciuta anche in favore di un minore in tenera età, purché si accerti che egli richieda un’assistenza diversa, più intensa per tempi e modi, di quella necessaria per un bambino sano della stessa età, sicché è possibile che determinate infermità, riguardanti il grado di

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intelligenza e di maturazione psicologica, benché congenite – non richiedano, nella prima fascia d’infanzia, in cui tutti i soggetti hanno un’autonomia limitata – prestazioni di assistenza maggiori rispetto a quelle necessarie per gli individui sani, sì da giustificare il riconoscimento del beneficio [4].

Note

[1] Cass. ord. n. 2101/19 del 24.01.2019. [2] Cass. sent. n. 19545/2016. [3] Cass.

sent. n. 546/2015. [4] Cass. sent. n. 25258/2014.

Sentenza

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – L, ordinanza 19 dicembre 2018 – 24 gennaio 2019, n. 2101 Presidente Curzio – Relatore Doronzo Rilevato che: la

Corte d'appello di Catanzaro, con sentenza pubblicata in data 22/12/2015, ha confermato la sentenza del Tribunale di Crotone che aveva rigettato la domanda

diretta al riconoscimento dell'indennità di accompagnamento, ingiustamente revocata, a Gi. Va.; la Corte territoriale ha ritenuto, sulla scorta della documentazione sanitaria e dopo aver disposto la rinnovazione delle indagini peritali, che la ricorrente, affetta da «disturbo depressivo maggiore ricorrente grave con manifestazioni psicotiche, cronico senza recupero interepisodico (completo)», non versa nella condizione di avere necessità di assistenza continua per compiere gli atti quotidiani della vita; contro la sentenza la Va. propone ricorso

per cassazione e formula un unico motivo, cui resiste con controricorso l'Inps; la proposta del relatore sensi dell'art. 380 bis cod.proc.civ. è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza camerale non partecipata;

la ricorrente ha depositato memoria. Considerato che: il motivo di ricorso è fondato sull'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5, cod.proc.civ. e con esso la parte censura la sentenza nella parte in

cui ha omesso di considerare l'obiettiva inconciliabilità tra gli stati patologici diagnosticati e lo svolgimento delle comuni attività della vita quotidiana; assume

inoltre che la Corte d'appello avrebbe omesso di esaminare la sua eccezione secondo cui, per il D.M. 2 agosto 2007, sarebbero escluse dalle visite di controllo sulla permanenza dello stato invalidante le malattie mentali dell'età evolutiva, tra

cui quella da cui ella è affetta; il motivo è nella sua intera articolazione

inammissibile; la censura di omesso esame dell'eccezione riguardante la violazione da parte dell'Inps del decreto ministeriale del Ministero dell'Economia e delle Finanze del 2 agosto 2007 è inammissibile alla luce del principio in forza del quale,

qualora siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l'avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del

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principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni

già comprese nel "thema decidendum" del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio (da ultimo, Cass. ord. 09/08/2018, n. 20694); deve aggiungersi che l'omessa pronuncia

su alcuni dei motivi di appello, e, in genere, su una domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio, integra una violazione dell'art. 112 cod. proc.

civ., che deve essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 4, dello stesso codice, mentre è inammissibile ove il vizio sia dedotto

come violazione dell'art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ. (Cass.

27/10/2014, n. 22759; Cass. ord. 16/03/2017, n. 6835), salvo che nell'illustrazione del motivo non si faccia esplicito riferimento alla nullità della sentenza, circostanza

questa non ricorrente nel caso in esame; non sussiste il denunciato difetto di motivazione, ai sensi della nuova formulazione dell'art. 360, comma 1., n. 5, c.p.c.

(come modificato dall'art. 54, comma 1., lett. b) D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv.

con modifiche in legge 7 agosto 2012 n. 134), applicabile al caso di specie per effetto della disposizione transitoria contenuta nello stesso art. 54, comma 3., secondo cui la norma si applica ai ricorsi per cassazione contro provvedimenti pubblicati dopo 11 settembre 2012 ( quindi al caso in esame); la sentenza è sorretta da una motivazione non solo formalmente esistente come parte del documento, ma compiuta e coerente, con preciso riferimento alle risultanze istruttorie, si da consentire di individuare con chiarezza la «giustificazione del decisum»; neppure è riscontrabile il denunciato «omesso esame» di cui al nuovo testo dell'art. 360, n. 5, c.p.c., il quale deve riguardare un fatto storico, principale o

secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione e che abbia carattere decisivo (vale a

dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia);

tale situazione non ricorre nel caso in esame, avendo la corte esaminato compiutamente il quadro patologico da cui la ricorrente è affetta, per concludere che ella «è capace di svolgere attività quale lavarsi da sola, andare a fare la spesa,

avere cura della propria abitazione non solo in senso fisico, ma anche come capacità di intendere l'importanza è il significato degli atti stessi anche ai fini della

salvaguardia della propria condizione psico-fisica»; la ricorrente dissente da tale giudizio senza tuttavia lamentare alcuna palese devianza dalle nozioni correnti

della scienza medica, la cui fonte va indicata, né l'omissione di accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi; la censura risolve così in un mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico formale, che si traduce, quindi,

in una inammissibile critica del convincimento del giudice (giurisprudenza consolidata: v. da ultimo, Cass. 6/11/2018, n. 28209; Cass. 23/10/2017, n. 24959;

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Cass. 20/3/2013, n. 7041; Cass. 22 gennaio 2013, n. 1472; Cass. 03/02/2012, n.

1652); quanto alla certificazione medica datata 21/9/2015 del Dipartimento di salute mentale di Crotone che non sarebbe stata esaminata dal giudice, al di là del difetto di specificità del motivo, dal momento che la parte la parte non ne trascrive

il contenuto, deve rilevarsi che, secondo quanto si legge nello stesso ricorso, la stessa è stata comunque esaminata dal CTU in sede di risposta alle

controdeduzioni inviate dal legale della ricorrente ed è stata ritenuta irrilevante ai fini di un diverso giudizio sanitario (pag. 6 del ricorso), sicché non è neppure

ipotizzabile il denunciato omesso esame, avendo il giudice fatto proprie le conclusioni del consulente e, quindi, anche le sue valutazioni sulla irrilevanza della

certificazione; conclusivamente, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;

nessun provvedimento sulle spese deve adottarsi in ragione della dichiarazione di esonero resa ai sensi dell'art. 152 disp.att. cod.proc.civ.; risulta inoltre che la parte

è stata ammessa al gratuito patrocinio, sicché non sussistono presupposti per il versamento dell'ulteriore somma pari a quella già versata a titolo di contributo

unificato (Cass. 05/06/2017, n. 13935). P.Q.M. La Corte dichiara il ricorso inammissibile. Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del D.Lgs. n. 115 del 2002 dà atto

della non sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il

ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

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