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Parere sull'interpretazione delle norme che disciplinano “il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali generali alla luce del particolare 'status' che al magistrato la Costituzione e le norme attribuiscono”.

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Parere sull'interpretazione delle norme che disciplinano “il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali generali alla luce del particolare 'status' che al magistrato la Costituzione e le norme attribuiscono”.

(Delibera del 22 ottobre 2009)

Il Consiglio superiore della magistratura, nella seduta del 22 ottobre 2009, ha adottato la seguente delibera:

«Con delibera del 13 novembre 2007 il Comitato di presidenza ha disposto l'apertura di una pratica in merito alla nota dell'8 novembre 2007 (Prot. 59863/2007) con la quale il Ministro della giustizia ha chiesto al Consiglio superiore della magistratura un parere sulla interpretazione delle norme che disciplinano “il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali generali alla luce del particolare 'status' che al magistrato la Costituzione e le norme attribuiscono”.

Ai fini del conferimento di questi incarichi, la norma che viene in rilievo è l'art. 19 del D.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, secondo cui il procedimento per il conferimento dell'incarico dirigenziale deve corrispondere allo schema procedimentale previsto ed alle limitazioni oggettive e soggettive che la singola Pubblica amministrazione soffre per il conferimento degli incarichi.

Per quanto riguarda i magistrati, il procedimento finalizzato al conferimento degli incarichi dirigenziali trae origine, per un verso, dalla disciplina dell'attività propria del Ministero della giustizia - in relazione alla quale esula dalla competenza del Consiglio superiore della magistratura il fornire un parere sulla interpretazione delle norme applicabili - per l'altro dallo status proprio di coloro che appartengono all'Ordine giudiziario.

Limitatamente a questo secondo profilo deve essere ribadito che la vicenda relativa al conferimento dell'incarico dirigenziale ad un magistrato ordinario continua ad essere regolata dalle speciali norme di settore, ivi incluse quelle che disciplinano i limiti temporali e numerici all'organico dei magistrati destinati a funzioni diverse da quelle giudiziarie. In particolare, essa deve essere inquadrata nell'ambito della più generale normativa riguardante il collocamento fuori ruolo di magistrati.

La destinazione dei magistrati allo svolgimento di funzioni amministrative presso il Ministero della giustizia è ancora oggi disciplinata dagli artt. 196 ss. del R.d. 30 gennaio 1941 n. 12, sui quali è poi intervenuto, a seguito dell'istituzione del Consiglio superiore della magistratura, l'art.

15 della legge 24 marzo 1958 n. 195.

A mente del primo comma di questa norma, “il Ministro, previo assenso degli interessati, fa le necessarie richieste nominative, nei limiti dei posti assegnati al Ministero, al Consiglio superiore della magistratura, il quale, ove non sussistano gravi esigenze di servizio, delibera il collocamento fuori ruolo dei magistrati richiesti”.

La norma prevede dunque, accanto alla richiesta del Ministro e l'assenso dell'interessato, un atto autorizzatorio del Consiglio superiore della magistratura, preordinato alla valutazione dell'eventuale insussistenza di “gravi esigenze di servizio”. Detta disposizione deve coordinarsi con la più generale definizione normativa dell'istituto del collocamento fuori ruolo, che si rinviene nell'art. 58 del Testo unico degli impiegati civili dello Stato (norma applicabile ai magistrati in forza dell'art. 276 del r.d. n. 12 del 1941), ove si stabilisce che “il collocamento fuori ruolo può essere disposto per il disimpegno di funzioni dello Stato o di altri enti pubblici attinenti all'interesse dell'amministrazione che lo dispone e che rientrano nei compiti istituzionali dell'amministrazione stessa”.

Per il profilo funzionale, il collocamento fuori ruolo, non diversamente dall'istituto della aspettativa, pure preordinato al possibile conferimento di incarichi dirigenziali ai magistrati da parte del Ministro della giustizia (v. in particolare l'art. 23 bis del d.lgs. n. 165 del 2001, così come modificato dall'art. 7 della legge 15 luglio 2002 n. 145), incide sul rapporto di servizio, comportando una modifica dell'attività lavorativa consistente, appunto, nell'instaurazione temporanea di un rapporto del magistrato con amministrazione diversa da quella di appartenenza.

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La ratio dell'istituto risponde a criteri di buona amministrazione: il collocamento fuori ruolo consente ad un ente pubblico di avvalersi dell'opera di un dipendente di altra amministrazione, per lo svolgimento di attività che non rientrano tra i compiti di quest'ultima e che, tuttavia, sono attinenti ai suoi interessi istituzionali. Pertanto, il collocamento fuori ruolo indirettamente soddisfa anche un interesse dell'ente di appartenenza e per questa ragione singole disposizioni di legge prevedono la possibilità del collocamento fuori ruolo per determinate categorie di dipendenti.

Il Consiglio superiore è dunque chiamato in ogni caso di collocamento fuori ruolo del magistrato, compreso quando questi è chiamato dal Ministro della giustizia ad un incarico dirigenziale, ad una specifica comparazione delle “gravi esigenze di servizio” (art. 15, legge n.

195/1958) rispetto alle esigenze dell'Istituzione richiedente. In tali termini, il provvedimento di autorizzazione al collocamento fuori ruolo organico del magistrato rientra formalmente nelle attribuzioni che la Carta costituzionale assegna al Consiglio superiore della magistratura.

Il Consiglio ha, quindi, proceduto a regolare la materia relativa alla autorizzazione del collocamento dei magistrati fuori del ruolo organico, in forza di specifici interventi di normazione secondaria. La materia è oggi regolamentata dal paragrafo XXII della circolare n. 12046, dell'8 giugno 2009 al fine di disciplinare organicamente l'istituto e di valorizzare le predette prerogative costituzionali volte a preservare i valori della giurisdizione e la funzionalità degli uffici giudiziari.

A norma del punto 2 dell'indicato paragrafo “… il Consiglio potrà respingere la richiesta di collocamento fuori ruolo nelle ipotesi in cui l'incarico da conferire al magistrato non corrisponda ad un interesse dell'amministrazione della giustizia”.

Dalla normativa primaria e secondaria richiamata si evince che il collocamento fuori ruolo si pone come vicenda “straordinaria” del rapporto di servizio del magistrato, il quale, per un arco temporale determinato e in ossequio a specifiche limitazioni poste dalla circolare n. 12046 del 2009, può utilmente prestare la propria attività in rami diversi dell'organizzazione statale - e quindi prestare incarichi dirigenziali presso il Ministero della giustizia - fermo restando che l'attività fuori ruolo deve in ogni caso presentare attinenza con l'attività propria giudiziaria in maniera tale da corrispondere ad un interesse dell'amministrazione della giustizia. La valutazione discrezionale di esclusiva spettanza del Consiglio superiore della magistratura è dunque diretta a verificare che l'attività da svolgersi fuori ruolo sia attinente “all'interesse dell'amministrazione che lo dispone”

ovvero rientri “nei compiti istituzionali dell'amministrazione stessa”.

Nel caso di collocamento fuori ruolo dei magistrati per conferimento di incarichi dirigenziali presso il Ministero della giustizia la valutazione in merito alla sussistenza dell'interesse dell'amministrazione che lo dispone è sempre positiva, in considerazione del fatto che è interesse di questo Consiglio, per così dire, “prestare” la professionalità acquisita da magistrati nell'esercizio della giurisdizione al fine di dirigere ed organizzare Dipartimenti e Direzioni generali del Ministero della giustizia, contribuendo a determinare quella osmosi tra sensibilità giurisdizionali e capacità dirigenziali, necessaria sia per lo svolgimento dell'attività giudiziaria, sia per lo svolgimento di attività amministrative in grado apicale presso il Ministero della giustizia.

Pur tuttavia, devono ritenersi applicabili, anche in questi casi, le norme della richiamata circolare che pongono limiti ai collocamenti fuori ruolo quale anzitutto la norma secondo la quale

“i collocamenti fuori ruolo non possono essere autorizzati prima del conseguimento della seconda valutazione di professionalità” (art. 3).

Inoltre, “prima di essere autorizzato ad un nuovo collocamento fuori ruolo, il magistrato deve rimanere in ruolo per almeno cinque anni; se il periodo trascorso fuori ruolo è inferiore ai cinque anni, il magistrato deve rimanere in ruolo un periodo almeno pari a quello trascorso fuori ruolo, e comunque non inferiore a tre anni” (art. 3 ult. comma). Questa norma non si applica se l'incarico dirigenziale richiesto dal Ministro della giustizia è quello di Capo di dipartimento presso il Ministero della giustizia (art. 4).

Inoltre, la durata complessiva del periodo fuori ruolo, pur se si tratti di incarico dirigenziale,

“non può ... superare il periodo massimo complessivo di dieci anni, nell'arco del servizi” (art. 4), tenuto conto che “il periodo trascorso fuori ruolo antecedentemente alla data del 31 luglio 2007

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(data dell'entrata in vigore della L. 30 luglio 2007 n. 111) non è computato ai fini della determinazione della durata massima del periodo fuori ruolo consentito nell'arco della carriera”

(art. 5).

Ed ancora “non può essere autorizzato il collocamento fuori ruolo di un magistrato che sia impegnato nella trattazione di procedimenti, processi o affari tali che il suo allontanamento possa nuocere al regolare funzionamento dell'ufficio, ovvero quando quest'ultimo presenti un indice di scopertura dell'organico superiore al 20%” (art. 6).

Quanto alle modalità procedimentali “il magistrato può essere collocato fuori ruolo solamente se ha comunicato al CSM il suo assenso con atto scritto. L'assenso è revocabile, con la stessa forma, sino a che non sia avvenuta l'immissione in possesso nell'ufficio. In tale caso, il collocamento fuori ruolo si considera ad ogni effetto come mai avvenuto” (art. 9, lett. a).

Nella delibera di collocamento fuori ruolo il C.S.M. specifica l'attività alla quale il magistrato è chiamato, il soggetto o l'autorità in favore dei quali l'attività dev'essere svolta, la durata dell'incarico e la durata del collocamento fuori ruolo. A tal fine, il Ministro della giustizia deve specificare quale incarico dirigenziale venga affidato al magistrato nell'ambito del suo Ministero e la durata dello stesso.

La vicenda contraria del ricollocamento in ruolo (che comprende il caso anche della cessazione dell'aspettativa ex art. 23 bis del D.lgs. n. 165/01) è invece contemplata dal secondo comma dell'art. 15 della legge n. 195/58, per cui “quando il magistrato cessa dalla destinazione al ministero, il Ministro ne dà comunicazione al Consiglio superiore per i provvedimenti di sua competenza, facendo le proposte, che riterrà opportune, per la destinazione agli uffici giudiziari”.

La legge prevede dunque che la restituzione alle funzioni giudiziarie avvenga “quando il magistrato cessa dalla destinazione al ministero”.

Il par. XXXIII della circolare n. 12046, deliberata in data 8 giugno 2009, nel disciplinare appunto il “richiamo in ruolo dei magistrati destinati a funzioni diverse da quelle giudiziarie” dà concreta attuazione al citato art. 15 prevedendo, al primo comma, che “il magistrato collocato fuori dal ruolo organico della magistratura presso il Ministero della giustizia … che, per qualsiasi causa (richiesta dell'Autorità conferente, a domanda, scadenza naturale dell'incarico se a termine), cessi dalla destinazione all'ufficio cui era stato assegnato, deve senza indugio chiedere il ricollocamento in ruolo, inoltrando apposita domanda al Consiglio superiore della magistratura”.

Pertanto, anche in ipotesi di incarichi dirigenziali presso il Ministero della giustizia, in caso di cessazione dell'incarico per qualsiasi causa, sia essa connaturata alla scadenza del termine di durata, sia dipendente da recesso del magistrato o revoca del Ministro, questi ne deve dare comunicazione al C.S.M. e lo stesso magistrato deve “senza indugio” chiedere il ricollocamento in ruolo, che deve avvenire secondo i criteri e le modalità puntualmente descritti nei successivi commi della stessa norma regolamentare, peraltro attuativa dell'art. 50 del D.lgs. 5 aprile 2006 n. 160.

Dal quadro normativo emerge dunque un regime differenziato per il provvedimento di destinazione del magistrato a funzioni amministrative e, specificamente, ad incarichi dirigenziali presso il Ministero della giustizia, che necessita dell'autorizzazione del Consiglio superiore (in assenza del quale deve intendersi tamquam non esset) e per quello di restituzione alle funzioni giudiziarie, nel qual caso la vicenda si esaurisce - quanto all'incarico dirigenziale - con la semplice richiesta del Ministro o nella correlata iniziativa dell'interessato, mentre al Consiglio superiore della magistratura competono solo le attività dirette alla concreta riammissione in ruolo del magistrato (con individuazione dell'ufficio ad quem, secondo i criteri indicati nella circolare n. 12046/09).

Non vi è dubbio, però, che in entrambi i casi il primo atto della sequenza procedimentale è la determinazione del Ministro della giustizia di avvalersi del magistrato per uno specifico incarico dirigenziale (attraverso la “richiesta nominativa”) ovvero di ricollocarlo in ruolo, non essendo in questa seconda ipotesi necessaria l'adozione di un atto ad hoc (la scelta può risultare dalla stessa richiesta del Ministro al Consiglio superiore della magistratura di provvedere al ricollocamento in ruolo del magistrato).

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Questo procedimento necessita di alcuni adattamenti quando il magistrato sia stato assegnato al Ministero della giustizia per espletare non semplici funzioni amministrative, ma l'incarico di dirigente generale, secondo quanto previsto dall'art. 18, secondo comma, del D.lgs. 30 luglio 1999 n. 300, per cui “agli uffici dirigenziali generali istituiti all'interno del dipartimento, sono preposti i dirigenti di cui all'articolo 23 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n, 29 ... ed i magistrati della giurisdizione ordinaria” (la novità della norma risiede, a ben vedere, nella cessazione della tradizionale “riserva” in favore dei magistrati delle funzioni di direttore generale).

L'ipotesi presenta differenze rispetto a quella generale, perché l'abilitazione ad un ufficio apicale (qual è la direzione generale, pur nell'ambito di un'organizzazione di dipartimenti) richiede un provvedimento di predisposizione idoneo a connotare il rapporto di servizio nei sensi e nei termini previsti dal provvedimento, come può desumersi dal tenore letterale dalla norma (“agli uffici dirigenziali generali ... sono preposti ...”) e da considerazioni di ordine sistematico (con questo atto si instaura il nesso di immedesimazione organica tra l'ufficio ed il suo titolare e si consente al secondo di imputare all'ente le proprie azioni e violazioni).

Ma queste ultime sono vicende che esulano dalla competenza del Consiglio superiore a fornire un parere sulla interpretazione delle relative norme.».

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