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Il vino è il più certo, e (senza paragone) il più efficace consolatore. Dunque il vigore; dunque la natura. (Giacomo Leopardi, Zibaldone)

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Il vino è il più certo, e (senza paragone) il più efficace consolatore.

Dunque il vigore; dunque la natura.

(Giacomo Leopardi, Zibaldone) A Guglielmo Pesi, professore

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Simone Bartoli Andrea Turi

Il vino di San Jacopo

Facce e luoghi del vino pistoiese

Fotografie di Lorenzo Baroncelli

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Testi: Andrea Turi, Simone Bartoli Critica enologica: Simone Bartoli Fotografie: Lorenzo Baroncelli Impaginazione: Nilo Benedetti

© 2019, Settegiorni Editore info@settegiornieditore.it

Stampa: GF PRESS, Serravalle Pistoiese ISBN 978-88-97848-

Avvertenza

Al fine di rendere più agevole la lettura, le cantine visitate sono state divise secondo un criterio geografico. La sequenza all’interno di ogni capitolo invece segue l’ordine cronologico delle visite.

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al Lettore

Le pagine che seguono sono il risultato di un viaggio attraverso le cantine della provincia di Pistoia, un inventario iniziato nell’agosto del 2017 e concluso nel marzo del 2019.

Quello che viene proposto al Lettore è un racconto che intreccia la vita di persone, luoghi e culture in un tempo ben determinato.

In questo lasso di tempo la situazione può essersi modificata e, nel limite del possibile, gli autori hanno cercato di eliminare tutto quel che nel frattempo aveva subito un cambiamento.

Invariata, invece, è rimasta la passione di queste persone, fatto che fa ben sperare in un arricchimento qualitativo e quantitativo del patrimonio vinicolo pistoiese.

Buona lettura.

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Rilassatevi.

Raccogliete le idee, contate fino a dieci e provate a elencare il nome di cinque cantine italiane. Piutto- sto semplice, direte.

Allora rendiamo il gioco più difficile; rilassatevi di nuovo e ripetetelo stavolta pronunciando ad alta voce il nome di tre aziende vinicole pistoiesi.

Silenzio, per lo più.

In molti falliranno il test ma non c’è da preoccu- parsi. Riferito agli uomini, un aforisma dello scrit- tore Gesualdo Bufalino asseriva, infatti, che fosse più facile amare gli altri piuttosto che sé stessi e che “degli altri, si conosce il meglio”. Il discorso si estende a tutti i campi della quotidianità e resta valido anche quando si parla di vino, argomento che ci spinge sovente a divenire esperti conoscito- ri, amanti, primi sostenitori e promotori di ciò che proviene da lontano palesando, al contempo, in- genua ignoranza per quel che, invece, abbiamo nel giardino di casa.

Così sempre più spesso accade che conosciamo le etichette più o meno ambite e costose della Borgo- gna o della zona di Bordeaux; i grandi nomi dei vi- gnerons d’oltralpe; i vini delle cantine più note della

penisola italiana; elenchiamo a menadito produzio- ne vinicole di regioni lontane ma, in tutto questo sapere, mostriamo una scarsa dimestichezza con la realtà che ci circonda. Così anche Pistoia – città e provincia – cerca il piacere del gusto in prodotti forestieri dimenticando di come il vino sia stato un ottimo prodotto della sua tradizione agricola che è da far risalire a oltre un millennio fa.

Nel 1988, in un saggio pubblicato sul «Bullettino storico pistoiese» dal titolo La coltivazione della vite nel territorio pistoiese nell’alto medioevo,1 lo storico Natale Rauty scriveva che nelle pergamene relative agli anni che vanno dal 700 al 1000 è documenta- ta una generalizzata diffusione della viticoltura sul territorio facente capo a Pistoia. Gli archivi relativi al periodo tra l’VIII e il XI secolo, infatti, custodi-

1. Natale Rauty, La coltivazione della vite nel territorio pistoiese nell’alto medioevo in Società pistoiese di storia patria,

«Bullettino storico pistoiese», anno XC, terza serie, XXIII, Pistoia 1988, pp. 5-31. La prima attestazione di una vinea la si ritrova in una cartula offertionis datata 8 settembre 748 che attesta una donazione comprendente tam case avitacionis quam et case masaricie, seo casalia, vinea, terra, pratis, pascuis, silvis, salectis, sationibus.

INTRODUZIONE

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scono ben 170 attestazioni di

vigne specificatamente ricordate in atti di vendita, di donazione localizzate tutte, salvo poche eccezioni, nella vallata dell’Ombrone e nella pianura di destra dell’Ombrone.

La fascia di territorio suburbano interessata dai vi- gneti è quella compresa tra le isoipse di 50 e 100 me- tri, nelle prime leggere pendici collinari a nord della città, ma anche nella pianura a sud, lungo l’alveo dell’Ombrone2

e particolarmente significativa agli occhi dello sto- rico è

la presenza di vigne nel suburbio di Pistoia, alcune addirittura in prossimità delle mura, come quella di Ripalta, fuori dalla porta di Sant’Andrea, o altra fuo- ri porta Gaialdica, probabilmente nel luogo ancora oggi detto “Vignaccia”.

Le altre zone del territorio pistoiese in cui nel Me- dioevo si trova una certa concentrazione delle vigne sono le valli dell’Agna e della Bure, ampie e soleg- giate, asciutte e in lieve pendenza, disposte con an- damento nord-sud, caratteristiche che permettevano al vino prodotto su questi terreni di essere di qualità ben superiore rispetto a quello proveniente dalla pia- nura del Bisenzio. Fa notare ancora Rauty che

la maggior parte delle vigne di queste vallate si trova proprio all’interno della fascia collinare, compresa tra i 100 e i 300 metri di altitudine, che oggi è definita 2. Ivi, p. 10.

come area di produzione del vino Chianti.3

Indifferentemente dalle dimensioni, molte unità poderali dell’epoca avevano piantato una vigna.

Questa abitudine trova

la sua giustificazione in una serie di diverse motiva- zioni: il carattere sacrale che la liturgia cristiana ave- va attribuito al vino;4 la relativa facilità dell’impianto della vigna anche da parte di un solo lavoratore, senza l’aiuto del bestiame da lavoro; la produttività della vite che si prolunga per molte decine di anni; la possibilità di usare il vino come merce di scambio per ottenere al- tri prodotti agricoli, soprattutto in caso di carestia; ed infine l’importante ruolo che il vino aveva nella dieta alimentare dell’uomo medievale.

Nell’opera I vini italiani nel Medioevo pubblicata a Firenze nel 1984 (in particolare in due capitoli titolati Vini medievali delle colline lucchesi e della Valdinievole che ritornano alla ribalta e Vecchi vini del contado pistoiese (secoli XIV-XV)), il fiorentino Federigo Melis si è occupato diffusamente del vino pistoiese nel Medioevo, l’età dell’oro della Storia della città e dei suoi territori.

3. Ivi, p. 13.

4. Per tutti gli enti ecclesiastici, chiese, monasteri, ospizi la prima preoccupazione fin dalla loro fondazione era quella di poter disporre con una certa facilità di vino il cui uso liturgico era indispensabile per il rito sacrificale della Messa.

La produzione vinicola degli enti ecclesiastici, tuttavia, serviva soltanto in piccola parte a tali esigenze di culto mentre una quantità maggiore era usata per la mensa comune dei canonici o dei monaci. Ivi, pp. 19-20

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Il Melis ricompone un quadro storico che si presen- ta quanto mai assortito e variegato, con numerose località impegnate nella produzione vinicola e che in tale ambito erano emerse sino a farsi un nome.

Una di queste era le regione della

Valdinievole [ch]e continua per il nostro punto di vi- sta, addentrandosi nella vallata del principale torrente Pescia, laddove diviene meno angusta (la Valleriana).

In quei giorni lontani, la cittadina di Pescia pareva essere il mercato vinicolo più importante e florido (nel XV secolo la produzione si aggirava intorno ai 21 mila barili) tra Firenze e Pisa

appunto perché in essa si annodavano le strade che ancor oggi corrono sotto le colline e scendono da quella di Montecarlo, oltre ad una quarta, quella pro- veniente dalla Valleriana.

Nella stessa area, probabilmente per la sua miglior esposizione, era il borgo di Vellano ad avere mag- gior rilievo

massimamente per i suoi vermigli di cui troviamo molti barili nelle cantine Datini di Prato e di Firenze e non pochi presso altri consumatori.5

I documenti consultati da Melis riportano precise indicazioni di origine e fanno menzione “di tutti gli ameni paesini adagiati sulle colline che si dispie- gano ad anfiteatro tra Pieve a Nievole e Borgo a

5. Federigo Melis, I vini italiani nel Medioevo, Le Monnier, Firenze 1984, p. 151.

Buggiano”, striscia centrale della valle in cui scorre la Nievole la cui produzione caratteristica è il bian- co Trebbiano; il gradimento per questi vini, buoni, dolci et morvidi,6 così come dei fini Trebbiani di Massa e Cozzile, proseguirà negli anni sino ad arri- vare alla nostra contemporaneità.

La Pistoia vinicola, però, non era (e non è) soltanto Valdinievole. Anche il versante settentrionale del Montalbano, infatti, si caratterizzava per la produ- zione di eccellenti vini bianchi quali il Bianco Al- bano di San Baronto e il Trebbiano di Quarrata;

particolarmente apprezzato, poi, era il rosso di Tiz- zana7 mentre la rurale Agliana legava il nome della cittadina ad un proprio vino che, però, rimaneva poco apprezzato.8

In pianura si allevavano su sostegni vivi due uve bianche, la Burianese e la Affricogna, piante che da- vano raccolti abbondanti. La produzione nel pisto- iese era generalmente elevata: nel 1285, nel saggio La vitivinicoltura nella Toscana medievale, Giuliano Pinto ci informa che Pistoia, allo scopo di control- lare strettamente il mercato vinicolo, impose a sette comuni del suo contado – quelli dove le eccedenze in vino erano maggiori, vale a dire Serravalle, Car- mignano, Artimino, Bacchereto, Montale, Marlia- na e Casore – la consegna di 760 cogni di vino. Tre secoli più tardi, nel 1569, stando alla relazione del

6. Nella descrizione di Andrea di ser Calvano riportata in Paolo Nanni, Dalla terra alla tavola nella Valdinievole medievale in Erbe, carni e pesce. L’alimentazione nella Valdinievole medievale e moderna, Firenze 2016, p. 16.

7. Luigi Lotti, Storia della Civiltà Toscana, Le Monnier, Firenze 2001, p. 519.

8. F. Melis, I vini italiani..., op. cit., pp. 161-162.

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commissario fiorentino Giovan Battista Tebaldi, nel pistoiese si producevano circa 215 mila barili di vino l’anno, pari a 85.000 ettolitri.9

Oggigiorno, il panorama vinicolo appena presen- tato è profondamente mutato e tra le moltissime località della provincia che in passato hanno legato il proprio nome all’ottima produzione, molte sono cadute nell’oblio se non proprio estinte oppure sono state nel tempo riassorbite sotto l’univoca e impersonale etichetta di Chianti. Dice ancora Me- lis a riguardo:

il lettore correrà con il pensiero alla diffusione che continua senza soste, dell’appellativo di Chianti il quale ha raggiunto persino le colline pisane, sperso- nalizzando tutti i vini in esso via via riuniti.

Mario Soldati, da acuto osservatore qual era, affer- merà che “tutto il vino toscano sembra che diventi Chianti, a un certo momento”.10

Il Chianti, infatti, abbraccia oggi la quasi totalità del- la regione11 e negli anni ha subito varie divisioni in sotto-zone fino ad arrivare all’attuale geografia: Clas- sico, Colli senesi, Colli fiorentini, Colli aretini, Col- line pisane, Montespertoli, Rufina e Montalbano.

Insieme alla Valdinievole, infatti, tutt’oggi il Mon- talbano, territorio complesso, denso di storia e te-

9. Giuliano Pinto, La Vitivinicoltura nella Toscana Medievale, pp. 34-35 in Zeffiro Ciuffoletti (a cura di), Storia del vino in Toscana. Dagli Etruschi ai nostri giorni, Edizioni Polistampa, Firenze 2000.

10. Mario Soldati, Vino al vino. Alla ricerca dei vini genuini, Bompiani, Milano 2017, p. 108

11. Escluse le province di Livorno, Grosseto e Massa-Carrara.

stimonianze,12 resta una delle zone di riferimento dell’atlante vinicolo della provincia di Pistoia e, data la limitata estensione dell’area, le caratteri- stiche dei vini della zona sono precise e ben defi- nibili: vini sapidi, freschi, con una nota comune sulla frutta che si fa sentire e capaci di conservare la propria personalità legandola a quella dei luoghi del suo territorio. Come sostiene Gino Fuso Car- mignani, uno dei tre autori de L’Urlo del vino, il

“Montalbano [è] paragonabile ad una musica da cantautore”,13 capace di ritagliarsi un apprezza- mento di nicchia piuttosto che le ovazioni in piedi delle grandi platee. Eppure, a ben vedere, il vino pistoiese non avrebbe niente da invidiare a quelli più noti e famosi.

Quello che manca, però, è la capacità di farsi lar- go sul mercato, in primis, paradossalmente, quello locale. Già a metà degli anni ’80 il già citato Melis pose un interrogativo che metteva a nudo il vero problema che i nostri vini devono affrontare:

12. Specificatamente per il Montalbano, il ritrovamento di vasi di vino all’interno di alcune tombe etrusche e l’assegnazione da parte di Cesare ai suoi veterani, tra il 50 e il 60 a.C., di talune terre tra l’Arno e l’Ombrone coltivate fin da allora a vite, ci riporta un bel po’ indietro nel tempo.

Uno dei primi documenti sulla produzione vinicola e olearia di queste colline giunge invece qualche secolo più tardi, sotto il dominio, dei Franchi, nell’anno 804 d.C. La produzione di vino sulle pendici del Montalbano è testimoniata fin dal XIII secolo quando veniva portato come tributo alla mensa dei vescovi di Pistoia.

13. AA.VV., L’urlo del vino, viaggio per emozioni tra vigne e vignaioli dell’alta Toscana, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca 2015, p. 89.

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quali cantine e quali cantine di ristoranti, special- mente se lontani da quei centri, annoverano oggi una bottiglia - o del vino corrente, sfuso – di bianco della Valdinievole? Ben pochi.

Risposta netta, chiara, inequivocabile e capace di indurre a riflessione: la via per riportare in auge dei vini già tanto apprezzati nel passato dovrebbe, quindi, passare per la denominazione di vino tipico e un marchio che sia riconoscibile, oltre che sulla sempre troppo poco sperimentata idea di fare siste- ma in modo che i produttori possano non soltanto vendere il proprio vino ma il vino della provincia di Pistoia.

Su questo ultimo aspetto caratterizzante dell’essere pistoiese, Cristina Privitera, penna de La Nazione, ha scritto che

a Pistoia è difficile fare squadra. Terra di contrap- posizione, di ironia tagliente, “etrusca nello spirito”

(Giovanni Michelucci), dissacrante e irriverente, pre- ferisce distruggere e allontanare piuttosto che unire e costruire.14

Eppure, qualcosa sembra muoversi in direzione ostinata e contraria e, dopo essere stata Capitale della Cultura italiana nel 2017, adesso Pistoia vuol farsi conoscere anche nel mondo vinicolo italiano e non solo. Per questo, alcuni produttori pistoiesi si sono mossi e hanno dato un nome a una volon- tà comune e nobile – quella di promuovere il ter- ritorio e il suo vino - con la nascita dell’iniziativa collettiva #IlovePTWine, un’idea di Fattoria Betti

14. Cristina Privitera, Pistoia, in «Il Mulino», 6/2017, p. 32.

e Casalbosco divenuta successivamente “intesa” a cinque che si pone l’obiettivo di fare rete, concet- to che troppo spesso è fuggito impotente davanti a una realtà pervasa piuttosto da egoismi e gelosie che da spirito di collaborazione e mani tese.

Tornado in argomento dopo questa doverosa diva- gazione, dal punto della superficie vinata, la provin- cia di Pistoia è una cenerentola in Toscana e la sua produzione non omogenea; in vigna, dominano i vitigni della tradizione anche se non manca qual- che concessione agli internazionali Cabernet Sau- vignon e Merlot.

Il “re” indiscusso è il Sangiovese, il più importante vitigno di uva rossa italiana e toscana che rappre- senta la base per la vinificazione del Chianti, del Nobile di Montepulciano e del Brunello di Mon- talcino. Jens Priewe nel suo Vino. Una cultura mon- diale informa il lettore che, nonostante le prime no- tizie su questa varietà si hanno per la prima volta in Toscana nel 1772, molti fattori lasciano pensare che il Sangiovese fosse noto in Italia da più di 2000 anni e venisse coltivato già dagli etruschi.15 A que- sto si aggiungono il fruttifero e rustico Canaiolo, il Colorino, il Ciliegiolo.

Tra i vitigni a bacca bianca a primeggiare è il Trebbiano, la denominazione italiana della varietà Ugni Blanc, una delle varietà più diffuse al mondo che – nel giudizio dello stesso Priewe – è, però,

“senza pretese, mediocre, poco espressiva”.16 Nel pistoiese, il Trebbiano coesiste con la Malvasia che produce, in genere, vini semplici e alcolici, mentre

15. Jens Priewe, Vino. Una cultura mondiale, Bolis Edizioni, Milano 2002, p.59.

16. Ivi, p. 65.

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non manca qualche recente comparsa di Vermen- tino.

Ed anche se la Toscana è terra vocata ai vini rossi, fino a poco tempo fa Trebbiano e Malvasia erano utilizzati anche nel Chianti, in percentuali sì basse ma tali da rendere il vino più scarico di tannini e di colore e più fresco al palato rispetto ad oggi dove vengono preferiti gli internazionali Merlot e Cabernet che, invece, lo appesantiscono allonta- nandolo dai solchi della tradizione e dalle tavole quotidiane del consumatore e insieme snaturan- done la natura di vino a tutto pasto rendendolo, al contempo, un vino da tavole buone e modaiolo.

Ma cos’è la moda se non un modo di vivere, di pensare e di essere legato a un’epoca o a una so- cietà, per sua stessa essenza effimera, passeggera, fuggevole che, parola di Coco Chanel, “fatta per andare fuori moda?”.

Federico Minghi, blogger, vignaiolo creativo e am- basciatore del tuscan style, parla a proposito delle bottiglie pistoiesi come di

vini beverini: come sapete vengo da un territorio ric- co di vini, vengo da Siena ed intorno a me ho i grandi vini: Chianti, Brunello e Nobile. Tutti i giorni bevo bene, come si dice in Toscana, ma vengo sempre vo- lentieri a Pistoia perché ho scoperto una realtà inte- ressantissima.

Questi vini, per me, sono interessanti perché – detta alla toscana – sono beverini, si bevono con grande piacere, sono vini conviviali e sono importanti anche per un mercato giovane.

Questa loro freschezza in bocca che io ritrovo è vin- cente ed è vincente anche la scelta di far scoprire un territorio attraverso i vini perché in un bicchiere c’è

una storia e un territorio. E questo si respira. Il vino fa da traino alla scoperta del territorio e dei propri gioielli che a Pistoia certo non mancano.

Nel nostro viaggio abbiamo scoperto molte aziende sconosciute anche agli addetti del settore che quasi si nascondevano per timidezza come se temessero il giudizio di sedicenti esperti ma che nel loro piccolo scrigno custodivano veri e propri gioielli.

In provincia coesistono piccoli produttori – che ancora utilizzano il vecchio torchio con la saggezza e l’esperienza delle generazioni passate – che azien- de più strutturate dove, invece, vengono utilizzate apparecchiature moderne e si punta ai grandi nu- meri; in entrambi i casi, però, la produzione vini- cola rimane prevalentemente legata al nome di una famiglia che si tramanda l’onere e l’onore di por- tare avanti una tradizione la cui memoria si perde nei secoli.

Perché, in fondo, come sostenuto da Lorenzo Lam- berti in un articolo pubblicato su AffariItaliani.it:

la sensazione, alla fine, è quella di aver scoperto un nuovo angolo d’Italia nel quale si possono scoprire grandi tesori. Sì, in Toscana, c’è, eccome, anche Pi- stoia.

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20 giugno 2017

L’appuntamento è per le 12,30 al ristorante vegano L’AlberoVita di via Sant’Andrea, ma il girovagare che sembra eterno per le vie di Pistoia rende ineso- rabile la comunicazione telefonica del ritardo.

Invano cerco di posteggiare la macchina seguendo un ostinato tragitto di speranza: giù da piazza Maz- zini (Piazza San Francesco, nella dicitura ortodos- sa), svolta a destra in viale Matteotti, un centinaio di metri e subito a destra in via Carlo Goldoni e, poi, tenendo la mancina, via Cosimo Trinci fino a piazza del Carmine.

Niente.

E allora il giro si ripete ancora e ancora fino a che – di nuovo in via Trinci – la fortuna mi assiste e mette un freno al mio peregrinare cittadino.

“Piccioletta e ben murata” nella Cronica trecente- sca di Dino Compagni, la città del poeta Cino e del cantore Casella1 mi è sempre sembrata ostile e indifferente sin dai tempi del liceo.

1. Casella da Pistoia, musico e cantore (sec. XIII), morto pri- ma della primavera del 1300, protagonista del secondo canto del Purgatorio (vv. 76-117).

Certo, però, spigolosa o no che sia, Pistoia è un gioiello ed è bella anche da via Cosimo Trinci. Ba- sta alzare un attimo gli occhi per scorgere cupole e campanili sparsi qua e là. Nelle vicinanze, poi, si trovano l’Ospedale del Ceppo e le sue celeberrime ceramiche opera di Giovanni della Robbia, il San Mercuriale, Piazza del Duomo, San Bartolomeo mentre sull’angolo dove via delle Pappe incontra via degli Armeni e via del Carmine il mio amico Pino vende il tè.

Un vizio che mi porto dietro da tempo è quello di sapere a chi o cosa rimanda la toponomastica di una città. Lo faccio, mi rendo conto all’improv- viso, ovunque; so, ad esempio, chi è il Francesco Camici ricordato in una via nei pressi dello stadio comunale, ma non so niente di questo Cosimo Trinci. Il fatto che – in provincia – la sola città capoluogo abbia dedicato a costui una via lascia pensare che sia roba di Pistoia, come direbbero nel- la piana.

Lo schiamazzare dei bambini che nel verde del rin- novato Giardino Volante di Villa Capecchi scor- razzano sotto l’occhio più o meno vigile di mamme e nonne richiama la mia attenzione, distraendomi.

Via Sant’Andrea

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Guardo e passo, curandomi poco di loro e, anzi, ac- celero l’incedere perché sono in colpevole ritardo.

Piazza del Carmine, la salita di via delle Belle e, poi, tenendo la destra ecco via Sant’Andrea dove Simo- ne mi aspetta per parlare di un progetto editoria- le sul vino pistoiese anticipato da alcuni messaggi scambiati su Facebook. Questo incontro è il primo dopo gli anni passati gomito a gomito sui banchi del liceo scientifico “Amedeo di Savoia Duca d’A- osta”; Lorenzo non c’è, fotografa a Milano, ma è già al corrente di tutto e ha dato il benestare a che questo lavoro si faccia.

Non siamo certo i primi ad occuparci di vino.

Nel corso dei secoli, infatti, i più grandi scritto- ri ne hanno parlato e scritto. Nell’antica Grecia, a esempio, Omero parlando dei felici risultati otte- nuti dalla coltivazione della vite – quella pianta che Francesco Lawley vuole “sia stata creata dalla Prov- videnza per sostituire il suo prodotto certo a quello meno sicuro di altre culture”2 – lo qualificava come una bibita divina mentre Platone – benché ne con- dannasse l’uso senza misura – lo riteneva uno dei più bei doni degli Dei; nel 50 a.C. Strabone e i suoi contemporanei parlavano di una grande quantità di vigneti di cui oggi non rimane traccia.

A Roma, invece, Catone e Marco Terenzio Var- rone si occuparono dei metodi di vinificazione dei loro tempi. La letteratura latina, negli anni, ci ha reso anche testimonianza del fatto che tutta l’ltalia era coperta di vigneti, dalla Gallia Cisalpina – che dava vini mediocri – fino alle regioni meridionali che ne producevano di eccellenti. Si citano come

2. F. Lawley, Manuale del vignajuolo o modo di coltivare le viti e fare il vino, Bettini Libraio-Editore, Firenze 1865, p. 3.

ottimi i vini del veronese, quelli dell’Etruria e i bianchi di Spoleto.

In tempi più prossimi alla modernità la parte scientifica ha preso maggiore sviluppo e vigore, e così trattati sulla viticoltura hanno fatto luminosi progressi. Il già citato Lawley scrive che non sono mancati in Italia scrittori

che abbiano somministrati precetti preziosissimi su questa cultura, come Malenotti, Vincenzo Tanari, Villifranchi, Giovan Battista Soderini, il pievano Paoletti, il conte Carlo Verri, Ricci, Lomeni, Trinci, Dandolo, Acerbi, Gallesio, ed in ultimo De Blasiis e Pirovano. L’Acerbi tentò d’intraprendere una Sino- nimia classificando e descrivendo un numero di viti coltivate nel suo vigneto, detto la Palazzina, presso Castel Goffredo; Gallesio lasciò un’opera pregevo- lissima, la Pomona Italiana, descrivendoci 26 specie di viti d’Italia, con figure colorito. Né questi sono i soli scrittori che in Italia annoveriamo; molti altri se ne trovano citati negli Atti delle nostre accademie come autori di utili e belle memorie; di queste la sola Accademia dei Georgofili ne pubblicò 78 interessan- tissime.

Tra Lomeni e Dandolo, fa un timido capolino an- che il nome di Cosimo Trinci. Agronomo pistoiese del 1700, il Trinci dette alle stampe L’Agricoltore sperimentato, opera letteraria di precetti agrari tra le più apprezzate e citate anche in epoche successive alla sua pubblicazione, avvenuta a Lucca nel 1726 per i tipi di Salvatore e Giandomenico Marescan- doli.3 Il successo che ebbe l’opera è da ricercarsi

3. Nel 2018 è avvenuta una ristampa ad opera della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia e Opificio Toscano

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nella semplicità con cui si insegnava agli agricoltori dell’epoca la gestione dei campi,

la maniera più sicura di conoscere, piantare, allevare o condurre fino dalli più teneri anni età per età alla lor perfezione alcune Piante più utili, e necessari al vivere umano.

Non i primi a occuparci di vino, abbiamo poc’anzi avvertito il lettore, ma i primi a parlare del nostrum vino e del suo territorio. A Pistoia,

città di Toscana situata sulla via Clodia, alle falde dell’Appennino, la cui posizione nel centro di questa bella Provincia è una delle più felici non tanto per la salubrità dell’aria, che per l’abbondanza dei generi necessari alla vita, e d’ogni maniera di naturali pro- duzioni,4

non mancano certo i buoni vini. Manca, piuttosto, la consapevolezza di averli ed è venuta meno, forse, la volontà di farli, vinta dall’attraente voglia di fare altro.

C’è, inoltre, da fare i conti con un’inesorabile sen- tenza popolare che si ripercuote sull’autostima del vino pistoiese deprimendolo ulteriormente e che

di Economia, Politica e Cultura cura di Galileo Magnani, Cosimo Trinci. Agricoltore Sperimentato, Gli Ori, Pistoia. Il seguente capitolo fa riferimento anche all’edizione L’agricoltore sperimentato ovvero regole generali sopra l’agricoltura, il modo di preparare, e feminare le Terre, di piantare e coltivare le viti, di far vino di ogni sorta, all’uso di Toscana, Francia ec., Girolamo Dorigoni, Venezia 1763.

4. Così inizia Guida di Pistoia per gli amanti delle belle arti con notizie degli architetti, scultori e pittori pistoiesi di Francesco Tolomei, volume stampato nel 1821.

vuole che queste non siano zone vocate al vino.

Non è come per le vicine Carmignano e Montecar- lo, lì sì che fanno i’vvino bono, si sente dire.

Una bugia popolare che va smascherata in qualche modo. Già nelle pagine del Manuale del Vignajuolo si indicava come

sperabile che i proprietarj, lasciando da parte i pregiu- dizi, riguardino come arte nobilissima l’occuparsi di questo ramo d’industrìa agricola, si venga a stabilire fra noi, la nuova classe dei vignajuoli, e si possa in tal modo offrire alla nazione una nuova e vasta sorgente di ricchezza.5

Supero veloce la chiesa di Sant’Andrea, la prima cattedrale di Pistoia, così come il tentativo di qual- che militante di convincermi a votare per il sinda- co uscente Samuele Bertinelli. Pistoia è sull’orlo di una crisi identitaria, politica e di nervi ma se ne accorgerà soltanto qualche giorno dopo con la

sconfitta bruciante del centrosinistra alle ultime co- munali: dopo oltre settant’anni di amministrazioni

“rosse” a governare Pistoia è il centrodestra. Quel fortino si è sgretolato insieme alla capacità del par- tito monolite, il Partito Comunista Italiano e i suoi epigoni – inossidabile collante di appartenenza e di identità ma anche attore di forte controllo sociale grazie alla rete di decine e decine di case del popolo – di stare efficacemente tra la sua gente, di conoscerne disagi e aspirazioni, di comprendere che è afflitta qui più che altrove dalla mancanza di lavoro, dalla perdi- ta di ricchezza e di benessere, dall’assenza di prospet- tive positive per le nuove generazioni.6

5. F. Lawley, Manuale del vignajuolo..., op. cit., p. 8.

6. C. Privitera, Pistoia, op. cit., p. 34.

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Mettere una croce su una scheda, d’altronde, lode- vole la definizione di Fabio Calabrese, “non è un matrimonio, è una scelta tattica sempre revocabile”.7 Entro nel ristorante, saluto Simone, mi siedo. Da- vanti a un piatto di risotto al limone e caponata di verdure innaffiati da un bicchiere di Passerina, poco pistoiese ma fresco e ben abbinato alle porta- te, si discute sulle modalità di lavoro. Vagliata per abbandonarla l’idea di realizzare un atlante del pa- norama vinicolo locale, si forma la consapevolezza che il modo migliore di affrontare la tematica sia quella che si rifà al diario – scritto e fotografico – di viaggio. Da via Sant’Andrea, quindi, nasce l’idea di un itinerario in provincia alla scoperta del vino di Sa’Jacopo, i suoi luoghi e le sue facce, fermi nella convinzione che Pistoia – la città dove

svettano la grande cupola del Vasari, il campanile alto e snello, la compatta città medievale arroccata su un leggero colle: un profilo inconfondibile e intatto nella Toscana dei comuni, immerso in una cinta di verde a perdita d’occhio, un mare di piante ornamentali di tut- te le fogge, figlie dei vivai che occupano a centinaia la pianura8

e la sua provincia debbano essere conosciute anche per il vino.

7. Fabio Calabrese, Sulle barricate in «Il Borghese», anno XVIII, n. 5, maggio 2018, p. 13.

8. Cristina Privitera, Pistoia, op. cit., p. 31.

Riferimenti

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