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Andrea Palladio: un architetto, un uomo

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Università Adulti/Anziani di Cornedo Dispensa del corso Andrea Palladio (2019)

Andrea Palladio: un architetto, un uomo

Luca Trevisan

Accademia Olimpica di Vicenza Università di Verona

«Da naturale inclinatione guidato mi diedi ne i miei primi anni allo studio dell’Architettura: e perche sempre fui di opinione che gli Antichi Romani come in molt’altre cose, cosi nel fabricar bene habbiano di gran lunga avanzato tutti quelli, che dopo loro sono stati; mi proposi per maestro, e guida Vitruvio: il quale è solo antico scrittore di quest’arte; & mi misi alla investigatione delle reliquie de gli Antichi edificij, le quali mal grado del tempo,

& della crudeltà de’ Barbari ne sono rimase: & ritrovandole di molto maggiore osservatione degne, ch’io non mi haveva prima pensato; cominciai à misurar minutissimamente con somma diligenza ciascuna parte loro: delle quali tanto divenni sollecito investigatore [...], che poi non una, ma più e più volte mi son trasferito in diverse parti d’Italia, & fuori per potere

intieramente da quelle, quale fusse il tutto, comprendere, & in disegno ridurlo».

Andrea Palladio, I Quattro Libri dell’Architettura, Venezia 1570, I, Proemio à i Lettori, p. 5.

«di me stesso non posso prometter altro, che una lunga fatica, e gran diligenza, & amore, ch’io ho posto per intendere, &

praticare quanto prometto; s’egli sarà piaciuto à Dio, ch’io non m’habbia affaticato indarno; ne ringratierò la bontà sua con tutto il cuore; restando appresso molto obligato à quelli, che dalle loro belle inventioni, & dalle esperienze fatte, ne hanno lasciato i precetti di tal’arte; percioche hanno aperta più facile, & espedita strada alla investigatione di cose nuove, e di molte (mercé loro) habbiamo cognitione che ne sarebbono peraventura nascoste».

Andrea Palladio, I Quattro Libri dell’Architettura, Venezia 1570, I, Proemio à i Lettori, p. 6.

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L’avventura umana di Andrea Palladio si apre sul finire del 1508 a Padova, dov’è battezzato il 30 di novembre. Era figlio del mugnaio e piccolo artigiano Pietro “della Gondola” (soprannome che la tradizione suole attribuirgli per il possesso di una modesta imbarcazione con la quale si spostava lungo i canali padovani) e di una certa Marta detta la «zota» in quanto claudicante.

Dopo i primi anni vissuti nel burrascoso scenario della guerra di Cambrai – presa quasi senza colpo ferire nel 1509, la città euganea è in seguito nel corso del conflitto più volte messa sotto assedio, bombardata, occupata dagli imperiali e infine riconquistata dalle truppe della Serenissima – Andrea fu nel 1521 affidato dal padre alla bottega padovana del lapicida Bartolomeo Cavazza di Sossano. La scelta fu in buona parte determinata da motivi pratici: la crisi cambraica che dal 1517 andava risolvendosi aveva lasciato una città che necessitava di urgenti riparazioni edilizie, per le quali la presenza di competenti architetti, scultori e tajapiera risultava importantissima. La decisione, dunque, di Pietro “della Gondola” di avviare il figlio alla professione del tagliapietra, fornendogli una formazione adeguata, matura indubbiamente dalla valutazione del contesto locale di quegli anni, che avrebbe garantito a un lapicida la serenità di guadagni forse non vertiginosi, ma per certo sicuri e duraturi.

L’apprendistato presso la bottega padovana non si protrarrà tuttavia a lungo. Solamente due anni più tardi, nel 1523, Andrea risulta registrato a Vicenza, dove si era recato insieme al padre sottraendosi all’impegno preso con Bartolomeo Cavazza. Non è dato di sapere se a determinare l’allontanamento e la rottura del contratto fossero stati i dissapori nati da mai chiariti contrasti tra il maestro e l’allievo, come vorrebbe la tradizione, o se invece la risposta all’enigma sia da ricercare, più semplicemente, nelle esigenze di trasferimento di Pietro “della Gondola”. Sta di fatto che il Cavazza fece a quel punto di tutto per riprendere sotto la sua tutela il giovane Andrea, stipulando un accordo per tre anni ancora più vantaggioso per il discepolo rispetto a quello siglato nel 1521.

A quel punto il Nostro decise effettivamente di tornare a Padova, ma già l’anno appresso (1524) egli fece ritorno – e questa volta in via definitiva – a Vicenza, dove s’iscrisse alla locale fraglia dei murari e tagliapietra e dove venne generosamente accolto nella bottega di Giovanni di Giacomo da Porlezza e Girolamo Pittoni (detta di Pedemuro per la sua ubicazione nei pressi delle mura medievali della città), riuscendo a proseguire la sua formazione di lapicida nell’atelier più accreditato del centro berico.

Pare che a garantire per lui in questa circostanza fosse lo scultore Vincenzo Grandi – testimone di nozze di Pietro “della Gondola” e padrino di battesimo di Andrea – che a Padova, sullo scadere del XV secolo, era in buoni rapporti di vicinato e di stima reciproca con Giacomo da Porlezza, il padre del titolare della bottega vicentina.

È dunque attraverso la bottega di Pedemuro che Andrea – all’epoca ancora pressoché sconosciuto – riceve i suoi primi incarichi, tra i quali si rammentino almeno il portale dei Servi (recante la data 1531) e la chiamata (verso la seconda metà degli anni trenta) a Lonedo di Lugo per la villa Godi.

Tutto questo nel momento stesso in cui Giangiorgio Trissino provvedeva – sulla scorta di un grafico di Sebastiano Serlio che l’artista riteneva fosse la replica del progetto della raffaellesca villa Madama a Roma – al rinnovo della villa di Cricoli, dove la tradizione avrebbe voluto vedere il

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determinante incontro tra il Nostro e il celebre letterato e mecenate vicentino, che di fatto dovette invece avvenire in altra circostanza.

Ad accorgersi delle doti di questo apprendista fu infatti inizialmente proprio il Trissino che, valutate le capacità e le propensioni nei confronti del linguaggio classico di questo giovane allievo della bottega di lapicidi più affermata della città (all’interno della quale «da naturale inclinatione guidato» si stava qualificando come esperto di architettura), e colta la possibilità di formare in lui un grande artista in grado di rinnovare il panorama urbano locale, decise di investire su Andrea conferendogli una formazione teorica adeguata. Bisognava ora affiancare ai primi rudimenti pratici appresi in bottega gli insegnamenti derivanti dalla cultura classica, attraverso lo studio dell’antico. Era dunque necessario intraprendere un viaggio formativo a Roma, dove il Nostro – secondo una prassi consueta agli architetti di quel periodo – si recò una prima volta accompagnato dal Trissino nel 1541.

Se con l’architettura degli antichi Andrea era entrato in contatto anche in città più vicine (Padova, Verona, Pola, ma pure – ovviamente – nella stessa Vicenza), l’esperienza archeologica romana e il confronto diretto con Vitruvio furono determinanti per quanto riguarda la maturazione dell’artista, che oramai, smessi i panni dell’artigiano, iniziò ad essere designato dai documenti come architetto.

Fu verosimilmente sempre il Trissino ad introdurlo nei contesti eruditi del tempo, come il circolo umanistico di Alvise Cornaro a Padova. Stava maturando insomma un artista in grado di assorbire e rielaborare in modo nuovo e personale stimoli diversi, che seppe poi fondere insieme in esiti originali privilegiandone alcuni a scapito di altri, senza mai rimanere insensibile alle novità che di volta in volta declinava in base ai propri interessi e alle esigenze della committenza. Fu attraverso questa sensibilità che determinanti per la formazione di Andrea divennero non solo gli antichi, ma anche – e in misura tutt’affatto che secondaria – i contemporanei Raffaello, Bramante, Michelangelo, Sebastiano Serlio, Giulio Romano, Michele Sanmicheli e Jacopo Sansovino.

È nel corso di quegli anni (per la prima volta nel 1539) che Andrea di Pietro “della Gondola” inizia a firmarsi con un nome nuovo, altisonante, che alludeva alla cultura classica: “Palladio”. A

“ribattezzarlo” e ad investirlo di un’inattesa responsabilità pare fosse ancora una volta Giangiorgio Trissino. Costui stava a quel tempo scrivendo un poema intitolato La Italia liberata da Gotthi, che avrebbe visto la luce a Roma, dopo una lunga gestazione, solo nel maggio del 1547. In questo racconto figura un angelo messaggero di nome Palladio che si ritiene possa aver suggerito al gentiluomo l’appellativo dell’architetto. Un nome che implicava la rinascita anche a Vicenza della cultura antica, attraverso la quale sarebbe stato possibile trasformare una città intera da gotica (qual’era, effettivamente, prima dell’approdo tra i Berici di Andrea, sulla scorta degli influssi stilistici veneziani) a classica. E se è pur vero che Andrea, al termine dei suoi anni, non riuscì ad attuare un programma che si possa definire precisamente e completamente di carattere urbanistico, è altrettanto vero che la sua renovatio urbis, sul piano della percezione e del mutamento di un clima culturale e artistico, fu effettivamente reale. Un rinnovamento, peraltro, che seppe estendersi ben al di là dei confini cittadini, allargandosi sul territorio e pervenendo a trasformarne il valore semantico attraverso l’innesto di nuove abitazioni rurali – le ville – di assoluta magnificenza.

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L’imposizione di questo nome, dunque, che fu avvenimento per certo assai gradito al Nostro il quale subito iniziò a firmarsi Palladio (e la testimonianza del gradimento parrebbe suffragata dagli stessi nomi classicheggianti scelti per i figli avuti da Allegradonna, sposata nel 1534: Leonida, Marcantonio, Orazio, Zenobia e Silla), non va liquidata unicamente come vicenda di carattere, per così dire, esclusivamente anagrafico, ma va intesa nella sua più intima essenza sociale: fu, in se stessa, l’adesione formale a un programma ideologico che era stato verosimilmente indicato al Palladio dal Trissino e nel quale l’artista dovette riconoscersi.

Rimane, al di là di questo, il fatto che fino alla metà degli anni quaranta Andrea Palladio non era ancora un nome particolarmente famoso nel panorama vicentino. A parte alcuni interventi edilizi anche di indiscusso rilievo – si è accennato alla villa per i Godi, ma si aggiungano il palazzo urbano per i Civena o quello per i Thiene a Santo Stefano (progettato forse a seguito di un disegno di Giulio Romano nella prima metà della decade) – mancava ancora al Nostro una significativa commissione di carattere pubblico per un edificio di grande impatto e risonanza. L’occasione si presentò tuttavia di lì a poco e riguardò la necessità di ristrutturare il medievale Palazzo della Ragione di Vicenza che versava in preoccupanti condizioni statiche. Dopo il vaglio e il conseguente, sistematico rifiuto dei progetti presentati da nomi autorevoli (Jacopo Sansovino, Sebastiano Serlio, Giulio Romano e Michele Sanmicheli) Palladio concorse nel 1546, ottenendo – grazie anche alla firma di Giovanni da Porlezza (il vecchio, e ben noto, titolare della bottega di Pedemuro) a garanzia della bontà e dell’affidabilità del disegno, e grazie soprattutto all’appoggio incondizionato di alcuni esponenti della nobiltà vicentina (bastino i nomi di Girolamo Chiericati e Giovanni Alvise Valmarana) – l’approvazione quasi all’unanimità da parte del Consiglio. Si decretava l’apertura del cantiere della cosiddetta Basilica Palladiana, che avrebbe impegnato a lungo l’architetto (i lavori terminarono solo nel 1614, ben oltre la sua morte) consentendogli di poter contare per tutta la vita su di un modesto ma sicuro salario fisso mensile.

Non vi è dubbio che questo fu pertanto un momento di autentica svolta nella carriera professionale del Nostro. Iniziava quella lenta, ma concreta trasformazione della provinciale e veneziana Vicenza in una sorta di nuova Roma antica. Crederanno a questo fermento ideologico numerosi esponenti dell’aristocrazia locale, i quali si accorsero del Palladio – o più banalmente si decisero a convocarlo – solo dopo l’avvio dei lavori della Basilica. Tra questi figura, ad esempio, lo stesso Girolamo Chiericati che aveva sostenuto Andrea in Consiglio, e che nel 1550 gli commissiona la costruzione del nuovo palazzo di famiglia all’Isola, superbo capolavoro dell’architettura urbana, mentre solo un anno prima Iseppo Porto aveva iniziato ad erigere, su progetto del Nostro, la propria residenza, dando il via ad un susseguirsi di fabbriche palladiane che interessarono non solo la città, come si diceva, ma anche la terraferma, dove un maggior dinamismo si stava manifestando con la costruzione delle ville per i Caldogno e i Saraceno (1548 ca.) o per i Poiana (1550 ca.).

Ne consegue l’occasione di entrare in contatto con circuiti culturali diversi e di più ampio respiro, come provano i legami via via più frequenti con famiglie dell’aristocrazia veneziana per le quali progettò splendide ville ai primi anni cinquanta: i Cornaro, i Pisani, gli Emo, i Badoer, i Foscari, i Barbaro. Molti di loro rappresentarono il tramite per l’ingresso di Palladio a Venezia, dove tuttavia la committenza pubblica e privata risultava alquanto riluttante ad accogliere il suo nuovo

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linguaggio nel contesto urbano, come provano i diversi progetti (sintomatico, in tal senso, il caso del ponte di Rialto) che gli vennero rifiutati. Nella capitale, in sostanza, Palladio si trovò a lungo a lavorare quasi esclusivamente per committenti religiosi (celeberrime, ad esempio, le chiese di San Giorgio e del Redentore) in cantieri ai margini della città, mentre secondari rimasero sempre i suoi interventi pubblici, anche quando la morte (1570) del Sansovino – che pur comportò una maggiore presenza di Andrea in laguna, dove in effetti decise di stabilirsi – parve garantirgli uno spazio che invece indugiava ad aprirsi.

Proprio con Daniele e Marcantonio Barbaro il Palladio, morto ormai Giangiorgio Trissino (1550), strinse in quegli anni un rapporto di reciproca stima e fiducia, oltre che di collaborazione. Fu Daniele ad invitare l’architetto ad accompagnarlo a Roma nel 1554 (dopo il primo viaggio del 1541, Palladio vi si era recato ancora nel 1545 e nel 1547, e forse anche nel 1549) per compiere di prima mano le ultime verifiche per l’impegnativa edizione dei Dieci Libri dell’Architettura di Vitruvio commentata dallo stesso Barbaro, nella quale aveva coinvolto pure il Nostro perché fornisse le illustrazioni al volume (progetto avviato da qualche anno e dato alle stampe nel 1556). E appare indubbio che l’occasione del viaggio romano del 1554 costituisse il presupposto anche per la realizzazione da parte di Andrea di due volumetti di carattere descrittivo che egli avrebbe pubblicato in quello stesso anno con il titolo di Lantichità di Roma e di Descritione de le chiese di Roma.

Emerge l’immagine di un Palladio teorico: un architetto non solo dedito alla prassi progettuale e alla conseguente attività direzionale di cantiere, ma intimamente immerso nelle problematiche della trattatistica cinquecentesca. E non è un caso che proprio in quegli anni egli cominciasse la stesura – poi rimasta interrotta a livello di appunti sciolti per essere ripresa più avanti – del suo trattato, che sarebbe stato pubblicato a Venezia solo nel 1570 sotto il titolo de I Quattro Libri dell’Architettura. Il testo, semplice e diretto, corroborato da un vasto impianto iconografico che consente al volume di essere un pratico bagaglio di precetti non solo per gli studiosi e gli intenditori, ma anche (e soprattutto) per gli altri architetti nello specifico, passa in rassegna, in una sorta di elogio della cultura classica, gli ordini architettonici, le tecniche e i materiali costruttivi, per giungere a un’analisi capillare dei monumenti dell’antichità studiati e misurati a Roma e fonte d’ispirazione per l’architetto. Un posto a parte – ed è forse il momento più interessante dell’opera – occupano le fabbriche palladiane che Andrea decise di inserire ed illustrare, dando delucidazioni sul sito, i committenti, il progetto e così via, ed accompagnando le solitamente brevi descrizioni con piante e alzati. Che non si tratti dei disegni originari dei vari monumenti è fatto ormai ben noto e ampiamente chiarito dalla critica. L’intenzione del Palladio nei Quattro Libri è puramente didascalica e didattica: raffigurando ogni edificio come una sorta di tipo valido per la formazione di altri architetti, Andrea perviene ad eliminare tutte le imperfezioni ed irregolarità dei suoi palazzi dovute per lo più alla necessità di fare i conti con le preesistenze o con la natura del sito, e raffigura i propri monumenti non come li aveva progettati originariamente, ma sottoposti al vigile filtro di una rielaborazione ideale a posteriori.

Lo spessore dell’opera palladiana – tanto quella teorica (il trattato), quanto quella espressamente esecutiva (le architetture) – assicura al Maestro un posto di indiscusso rilievo nel contesto architettonico del Rinascimento, proiettandolo, ben al di là dell’ambito veneto, su di un

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palcoscenico d’attenzione internazionale. La fortuna che ebbero i Quattro Libri soprattutto a partire dalla morte del Palladio, congiuntamente alle ispezioni dirette ai monumenti lasciati dal Nostro da parte di visitatori e architetti determinò una diffusione dei modelli palladiani inizialmente in Inghilterra, ma in seguito in tutta Europa e poi nel mondo (paradigmatico il successo negli Stati Uniti d’America), dando il via a un fermento culturale ed artistico che la storia dell’arte inquadra col termine di palladianesimo.

Non v’è alcun rischio di essere smentiti nell’affermare che Andrea Palladio fu l’architetto giusto al posto e al momento giusto, in grado di sbalzarsi come figura centrale e rappresentativa per il proprio secolo. La definizione è vera tanto se si tengono in considerazione gli interventi nella sua città di adozione, quanto per l’impegno assunto nella terraferma della Repubblica Veneta con la realizzazione delle numerose ville. Il vasto favore incontrato a Vicenza – città che nel Quattrocento, varrà la pena rammentarlo, era stata caratterizzata dall’innesto di numerosi edifici di stile gotico- fiorito alla veneziana – dev’essere infatti in parte inteso anche come risposta di una società all’istanza di rinnovo urbano quale unico strumento per ribadire la propria identità e sancire un’autonomia culturale che per motivi di dipendenza politica stentava ad affermarsi. Il ricorso, dunque, al magniloquente apparato scenografico palladiano permetteva di trasformare la facies cittadina sopprimendo l’architettura gotica sotto il peso di quella classica, ma si traduceva altresì in una ricerca di riscatto – quando non apertamente di opposizione – nei confronti dell’egemonia veneziana, cui tuttavia, e la nobiltà vicentina soprattutto di stampo filo-imperiale ne era ben consapevole (tanto che si rivolgeva a simili espedienti di carattere artistico), non era possibile sottrarsi. Il ricorso all’architettura quale veicolo per un messaggio di valenza politica era, in questi termini, l’unica via possibile, e Palladio rappresentava a quel tempo – spesso suo malgrado, senza cioè che si tenesse conto dei più nobili principi teorici che muovevano invece il suo dialogo e la sua ricerca nei confronti dell’antico – la carta migliore da potersi giocare.

Sino agli ultimi anni di vita l’architetto diede prova del suo costante stimolo alla sperimentazione.

All’interno del comune denominatore del linguaggio classico, Andrea non rimase mai identico a se stesso, dimostrando un continuo e pressante desiderio di innovazione non solo nei confronti di quanto lo aveva preceduto, ma nel contesto della sua stessa produzione. Sicché l’ultimo Palladio, sia pur fedele ai principi dell’arte edilizia degli antichi e coerente con i presupposti del lessico pittorico tipicamente veneto che aveva da sempre caratterizzato le sue architetture, risulta sensibilmente diverso non solo rispetto alle fabbriche della giovinezza, ma anche rispetto alle ricerche formali condotte nel periodo della prima maturità. Lo stanno a testimoniare alcuni edifici vicentini progettati e messi in opera tra la fine degli anni sessanta e il decennio successivo, da palazzo Barbaran da Porto, alla loggia del Capitaniato, a palazzo Porto in piazza Castello.

L’interesse nei confronti dell’ordine gigante – inizialmente previsto anche per il Barbaran, ma poi abbandonato per le modeste dimensioni della via antistante l’immobile – diviene in questo periodo assai evidente, così come il gusto per un decorativismo vibratile dei prospetti che non conosciamo nei più sobri e rigorosi palazzi palladiani realizzati sino a quel momento, la cui linearità vien ora per certi versi scardinata dagli esiti emersi a palazzo Barbaran o nella loggia del Capitaniato. Si tratta, peraltro, di ricchissime decorazioni a stucco che non di rado recano significati allegorici e celebrativi, come testimonia l’esaltazione della battaglia di Lepanto in cui erano stati sconfitti gli

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atavici nemici Turchi (1571) immortalata proprio sul voltatesta della casa del capitanio. Il riferimento all’antico in sostanza rimane, ma viene rimeditato in una dimensione formale che giunge a lambire i confini dell’anticlassico.

La presenza di Palladio a Vicenza in quegli anni si fa in realtà sempre meno frequente, risultando l’architetto intento a seguire più da vicino cantieri e interessi in laguna, dove s’era peraltro trasferito a vivere in una piccola abitazione presso Santa Maria Formosa. Non pare avesse invece mai posseduto casa a Vicenza, secondo quanto lascerebbe intendere il reddito esiguo che si ricava dai campioni d’estimo dell’epoca, che evidenziano la condizione di un uomo che visse del suo lavoro senza tuttavia arricchirsi. Sono tempi difficili, gravati dal peso degli anni e funestati, per giunta, dalla tragica notizia della morte di due figli ai primi mesi del 1572: Leonida e Orazio.

A Vicenza tornerà per certo negli ultimi mesi della sua vita, chiamato dall’Accademia Olimpica – della quale era stato nel 1555 uno dei soci fondatori – per la progettazione di un teatro all’antica.

Sul successo dell’iniziativa (avviata tra la fine del 1579 e lo schiudersi del 1580) nessuno nutriva dubbi, sia per i lunghi studi di Andrea sulle strutture teatrali della classicità, sia per le sue precedenti esperienze progettuali in materia per altri analoghi edifici provvisori. Ne uscì un teatro letteralmente magnifico, destinato ben presto a divenire un simbolo della città riuscendo così a soddisfare i desideri della classe colta vicentina che vedeva con esso concretizzarsi definitivamente il sogno a lungo vagheggiato (e non solo a Vicenza, verrebbe da dire) di riportare in vita il teatro antico. Terminato (1585) solamente dopo la morte del Palladio, esso suggella nel migliore dei modi una carriera contrassegnata da importanti successi professionali e sembra costituire una sorta di canto del cigno del grande architetto.

Andrea si spegneva quasi improvvisamente in circostanze oscure il 19 agosto 1580, finché era impegnato sui due fronti dell’Olimpico e del tempietto Barbaro a Maser. Buona parte dei suoi amici, colleghi, committenti e conoscenti era fuori città a causa della stagione estiva (molti si trovavano in quei giorni in villeggiatura). Dopo le frettolose e poco partecipate esequie si provvide pertanto alla sepoltura nella tomba che il figlio Silla aveva acquistato nella chiesa vicentina di Santa Corona solo due anni prima. Calava così il sipario sull’esistenza terrena dell’uomo, ma rimanevano accese le luci sulla ribalta del patrimonio culturale lasciato dall’architetto, a testimoniare il valore del suo indicibile spettacolo di pietra.

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Prof. Luca Trevisan

Accademico Olimpico Ordinario Università di Verona

luca.trevisan@univr.it

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