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TEXTBOOK
ENGLISH:
POETRY
I L
S ONETTO
Content and Language Integrated Learning
Prof. Pierangelo Filigheddu
1. LETTURA
A che serve la Poesia?
— A che serve la poesia? — mi chiede mio nipote Stefano.
Caro Stefano, se devo essere sincero, la mia risposta è che tu hai proprio ra- gione: la poesia non serve a nulla!
Ma è proprio in questa sua totale «non-utilità», in questo suo «non-servire» a niente e a nessuno, che sta tutta la sua forza, e dunque la necessità della sua esistenza: essere un punto interrogativo in un mondo che ha una risposta a tutte le domande, un mistero in un universo di spiegazioni e libretti d’istruzioni che pretendono di dare una risposta a tutto; essere bellezza senza scopo, e per di più gratuita, tra uomini convinti che tutto abbia un prezzo.
No! — dice la poesia — Non è così! E rifiuta come un bimbo capriccioso di dare altre spiegazioni. Ti regalo immagini, non ti basta? Puoi fare con esse quello che vuoi: lascia che a volte ti colpiscano dove fa più male; lascia, quando meno te lo aspetti, che ti regalino inaspettate rivelazioni, o anche che ti lascino indifferente. Va bene così.
La poesia non ha aspettative precise, ma ti attende ovunque. Non ha una pa- tria, non ha un luogo fatto solo per lei.
Poesia sono le enormi bolle di sapone che produce un uomo di mezza età sulle strade di Berlino con l’aiuto di una strana attrezzatura, evidentemente fabbricata da sé. Ogni volta che lo incontro, sempre in posti diversi, mi fermo a guadare le strane forme che egli sa creare, e che svaniscono nel cielo in pochi secondi.
Questa è la poesia: quell’attimo esatto in cui penso a nulla.
Noi non conosciamo la natura della poesia e non dobbiamo conoscerla. È una grande attrice che sa travestirsi in modi sempre nuovi e sorprendenti: oggi eroina tragica, domani il grande cappello giallo e viola di una vecchia su una panchina sotto la pioggia.
La Poesia sta lì, in mezzo alla vita, come le grandi statue sull’isola di Pasqua, di cui non riusciamo a comprendere il significato. Semplicemente stanno là, e ci guardano.
Forse la vera domanda non è chi sono loro, ma chi siamo noi.
2. STUDIO
Come è fatta una poesia?
1. IL VERSO
Tutti sappiamo riconoscere una poesia, quando la incontriamo sul nostro libro di testo: mentre le fiabe e i racconti vanno a capo quando decide il tipografo (e la dimensione della pagina, la poesia va a capo quando decide il poeta.
È il poeta che sceglie quale lunghezza deve avere ciascuna riga: ogni riga è chiamata verso, e la lunghezza di ciascuna riga è chiamata metro, che nella lingua greca significava «misura». La metrica è invece lo studio del metro, os- sia della misura del verso poetico e del modo in cui i versi sono legati tra loro.
Come si misura la lunghezza del verso? Non certo in centimetri o pollici! An- che perché la poesia è nata molto prima dell’invenzione della stampa, e dunque ha inizialmente avuto una diffusione soprattutto orale. Era anche accompagnata dalla musica, solitamente dal suono della lira (una specie di piccola arpa con pochissime corde), e per questo la poesia è chiamata anche lirica.
La misura del verso deve quindi per forza basarsi sulla lunghezza dei suoni, e dunque delle sillabe fonetiche.
Esempio: nel verso Nel mezzo del cammin di nostra vita si contano 11 sillabe fonetiche: Nel-mez-zo-del-cam-min-di-no-stra-vi-ta.
Diremo quindi che si tratta di un verso della misura di undici sillabe, il cui nome in Italiano è endecasillabo.
Vediamo di seguito alcuni esempi di versi diffusi nella lingua italiana.
VERSO SILLABE NOME
No! 1 Monosillabo
Si sta 2 Bisillabo
Le foglie 3 Trisillabo (ternario)
Su gli alberi 4 Quadrisillabo (quaternario)
Come d’autunno 5 Quinario
Dagli atrii muscosi 6 Senario
Rosseggia l’orizzonte 7 Settenario
Quant’è bella giovinezza 8 Ottonario Il giorno fu pieno di lampi 9 Novenario Soffermàti sull’arida sponda 10 Decasillabo Sempre caro mi fu quest’ermo colle 11 Endecasillabo
Esistono poi i cosiddetti versi doppi, versi più lunghi che nascono dall’unione di due versi più brevi, come il doppio quinario, doppio senario, doppio settenario, doppio ottonario ecc.
I versi si distinguono in parisillabi (numero pari di sillabe) e imparisillabi (numero dispari di sillabe).
I versi parisillabi hanno un andamento più ripetitivo, come in una filastrocca o in una cantilena, perché gli accenti cadono spesso nello stesso punto in ogni verso. I versi imparisillabi hanno un andamento più libero e discorsivo, perché possono essere accentati in modo più vario. Per questo i versi preferiti dai poeti sono il settenario e l’endecasillabo: due versi imparisillabi. L’endecasillabo, inoltre, è anche il verso che più somiglia all’antico esametro latino.
2. LA STROFA
I versi raramente appaiono da soli. Molto più spesso sono legati tra loro in gruppi di versi che chiamiamo strofe.
Una strofa prende il nome dal numero di versi che la compongono.
Due versi insieme formano un distico, tre versi una terzina e così via, come nella tabella che segue:
NUMERO DEI
VERSI NOME DELLA STROFA 2 Distico
3 Terzina 4 Quartina 6 Sestina 8 Ottava
Le strofe sono legate tra loro da suoni simili che possiamo distinguere in ri- me, assonanze, consonanze.
Si ha una rima quando in due parole sono uguali tutte le lettere che appaiono dopo l’ultimo accento.
Fanno rima: tr-éno con fr-éno, aud-ácia con perspic-ácia, ma per via del diverso accento audacia non fa rima con farmac-ìa.
Se invece dopo l’accento sono uguali non tutte le lettere, ma solo le vocali, allora abbiamo una assonanza, come tra m-érlo e b-éllo, oppure tra b- árca e c-ása.
Se sono invece uguali le sole consonanti, allora abbiamo una consonanza, come tra t-èrra e t-òrre, oppure tra fr-étta e distr-átto.
Rima Assonanza Consonanza
Forse perché della fatal quiete tu sei l’immago a me sì cara vieni o Sera! E quando ti corteggian liete le nubi estive e i zeffiri sereni
Carnevale vecchio e pázzo s’è venduto il materàsso
Qual è quel cane ch’abbaiando agógna, e si racqueta poi che ‘l pasto morde, ché solo a divorarlo intende e pùgna,
Esistono diversi schemi di rime, e per meglio studiarli è bene indicare la rima di ciascun verso con una lettera dell’alfabeto, come nell’esempio seguente:
Forse perché della fatal quiete A tu sei l’immago a me sì cara vieni B o Sera! E quando ti corteggian liete A le nubi estive e i zeffiri sereni B
Come si può adesso facilmente vedere, lo schema metrico della precedente quartina è di tipo ABAB. Questo tipo di rima è chiamata rima alternata.
Nella tabella seguente possiamo osservare alcuni schemi tra i più usati nella poesia italiana:
SCHEMA NOME
ABAB Rima alternata
ABBA Rima incrociata
AABB Rima baciata
ABC CBA Rima invertita, o specchiata
ABA BCB CDC … Rima incatenata
3. STORIA
Come nasce il sonetto
La storia comincia nel 1194, quando l’imperatore (Enrico VI) e la regina di Si- cilia (Costanza d’Altavilla) mettono al mondo il loro erede Federico di Svevia.
Qualche anno dopo, sia Enrico che Costanza muoiono, e il piccolo Federico viene affidato al Papa (Innocenzo III) affinché provveda alla sua educazione.
Quando, all’età di 26 anni, Federico viene eletto imperatore, egli si ritrova ad essere allo stesso tempo sia Imperatore che Re di Sicilia (per via della madre Costanza).
Dovendo scegliere un luogo in cui risiedere, Federico sceglie di restare in Si- cilia, e da lì esercitare anche i suoi diritti di Imperatore col nome di Federico II di Svevia.
Federico si rivela un grande re e imperatore, certamente uno dei più prepara- ti e colti che mai siano esistiti. Parla molte lingue ed è un maestro in molte di- scipline. Questo perché era stato educato alla corte del Papa: il luogo in cui era praticamente concentrata tutta la cultura e le conoscenze dell’età medievale.
La Sicilia del Duecento era però un territorio assai frammentato. Il regno si estendeva da Napoli a Palermo e ospitava popolazioni di diversissima cultura e origine. C’erano città arabe e normanne, greche e latine, si parlavano tante di- verse lingue e molte città erano in guerra l’una con l’altra.
Federico decide di fare del suo regno una nazione unita e con leggi accettate da tutti. Per far questo, stabilisce innanzitutto che la Sicilia debba avere una so- la lingua, e tra il greco, l’arabo, il normanno e il latino sceglie il volgare sici- liano, un dialetto di origine romana che non tutti comprendevano, ma che era comunque originario di quella terra.
Per facilitarne la diffusione organizza un po’ dappertutto delle popolarissime gare poetiche, dove poeti di corte si confrontano declamando componimenti lirici in volgare siciliano.
Uno dei suoi cortigiani, Jacopo da Lentìni, inventa un nuovo tipo compo- nimento che ha il pregio di essere assai breve, così da consentire a un maggior numero di poeti di gareggiare, ma nonostante ciò è abbastanza complesso da mostrare le capacità poetiche di ciascun concorrente.
Questa nuova forma poetica è composta da due quartine e due terzine di endecasillabi, variamente rimate, e poiché era sempre accompagnato dal suono di una musica, prende il nome di sonetto.
Il sonetto rappresenta una sorta di miracolo letterario: non solo ha attraver- sato indenne tutta la storia della letteratura italiana fino ai giorni nostri, ma si è anche diffuso in tante altre letterature. Così che non c’è praticamente poeta al mondo che non abbia composto almeno un sonetto, e ancora oggi c’è chi con- tinua a scriverne.
Ma come è fatto un sonetto?
Abbiamo detto che è composto da due quartine e da due terzine, e che i versi sono tutti endecasillabi, cioè di undici sillabe. Ma qual è il suo schema metrico?
Per quanto riguarda le due quartine sono ammessi soltanto lo schema alter- nato e quello incrociato:
ABAB ABAB oppure ABBA ABBA
Per quanto riguarda invece le due terzine esistono invece diverse possibilità:
Rima alternata CDC DCD Rima ripetuta CDE CDE Rima invertita CDE EDC Rima incatenata CDC ECE
Quando un componimento poetico riunisce in sé tutte queste caratteristiche, allora diciamo che si tratta di un sonetto.
LETTURA
Leggiamo un sonetto
Alla sera
di UGO FOSCOLO
Forse perché della fatal quïete tu sei l’imago a me sì cara vieni o sera! E quando ti corteggian liete le nubi estive e i zeffiri sereni,
e quando dal nevoso aere inquïete tenebre e lunghe all’universo meni sempre scendi invocata, e le secrete vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme che vanno al nulla eterno; e intanto fugge questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
O sera, forse giungi a me così gradita perché sei l’immagine della pace eterna! Sia quando ti accompagnano
liete le nubi estive e i venti tiepidi primaverili, sia quando dall’aria nevosa protendi
all’universo tenebre lunghe ed inquiete,
scendi sempre da me invocata e sai raggiungere dolcemente le zone più segrete del mio cuore.
I miei pensieri grazie a te vagano fino all’idea della morte e intanto il tempo malvagio passa e porta con sé le schiere di preoccupazioni per le quali si consuma con me;
e mentre contemplo la tua pace, o sera, si acquieta anche il mio animo tormentato.
A sinistra possiamo leggere l’originale di Ugo Foscolo. A destra leggiamo la parafrasi, ossia una sorta di versione in prosa che spiega il significato di cia- scuna parola.
Il primo lavoro che dobbiamo fare è controllare che la poesia sia un vero so- netto. Per far questo ci dobbiamo chiedere:
- i versi sono tutti endecasillabi?
- lo schema metrico è quello tipico del sonetto?
Appurato che si tratta di un sonetto, potremmo soffermarci sulle principali fi- gure retoriche e di suono presenti.
Le più comuni figure retoriche sono:
la SIMILITUDINE - es: Marco è forte come un leone; Maria è bella come Venere
se dalla SIMILITUDINE elimino il «come», ottengo:
la METAFORA – es: Marco è un leone; Maria è una Venere
Nel sonetto esaminato è una metafora dire: «ti corteggian liete le nubi esti- ve», (le nuvole estive ti seguono come persone in un corteo), ma anche le «orme che vanno al nulla eterno», ossia il «sentiero» che conduce verso l’aldilà. Ma an- che lo spirito che «dorme» è una metafora.
Tra le figure di suono riconosciamo l’ALLITTERAZIONE, ossia una presenza ri- petuta di una particolare lettera, solitamente una consonante.
Nei versi: «dorme | quello spirto guerrier ch’entro mi rugge» possiamo no- tare una ALLITTERAZIONE della lettera «r», che dà un suono caratteristico al finale di questo sonetto.
Un’altra importante figura presente è l’ENJAMBEMENT, che consiste in un al- lungamento del periodo sintattico fino al verso successivo. In altre parole, la frase non finisce insieme al verso, ma continua nel verso che segue.
In questo sonetto sono presenti molti ENJAMBEMENTS, ai versi 1-2; 2-3; 3-4;
5-6; 7-8; 9-10; 10-11; 11-12; 13-14.
L’uso dell’enjambement diventa più frequente dopo l’invenzione della stampa (1450 ca). Prima di essa, il ritmo era importantissimo per poter meglio memorizzare il testo. Ma con la comparsa del libro a stampa la memorizzazione non è più necessaria, e il verso può finalmente distendersi fino a legarsi con i versi successivi.