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Le prove nel processo tributario - prima parte

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Le prove nel processo tributario - prima parte

di Antonino Pernice

Pubblicato il 15 maggio 2010

un’esaustiva guida alle prove ammissibili nel processo tributario

1. PREMESSA.

Nel processo il giudice cerca di ricostruire avvenimenti contestati; le parti avanzano delle ipotesi, il giudice accoglie quella più plausibile.

In campo tributario l’A.F. che si afferma creditrice del contribuente è tenuta a provare i fatti costitutivi della pretesa azionata.

Tuttavia, spesso la legge ribalta sul contribuente, attraverso le presunzioni, l’onere della prova.

2. DISCIPLINA.

(2)

“Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento (art.2697 c.c., 1^ c. – Onere della prova).

Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti sui cui l’eccezione si fonda (2^ c.)”.

“Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale” (art.111, 2^ c., Cost. – Norme sulla Giurisdizione).

“Le commissioni tributarie, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all’ente locale da ciascuna legge d’imposta (art.7, 1^ c., d.lgs. 546/92 – Poteri delle commissioni tributarie).

Le commissioni tributarie, quando occorre acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità, possono richiedere apposite relazioni ad organi tecnici dell’amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici compreso il Corpo della G. di F., ovvero disporre consulenza tecnica (2^ c.).

Non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale (4^ c.)”.

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“Il giudice può richiedere d’ufficio alla P.A. le informazioni scritte relative ad atti e documenti dell’amministrazione stessa, che è necessario acquisire al processo (art.213 c.p.c. – Richiesta d’informazioni alla pubblica amministrazione)”.

“L’A.F. deve assicurare l’effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui destinati. A tal fine essa provvede comunque a comunicarli nel luogo di effettivo domicilio del contribuente, quale desumibile dalle informazioni in possesso della stessa amministrazione o di altre amministrazioni pubbliche indicate dal contribuente, ovvero nel luogo ove il contribuente ha eletto domicilio speciale ai fini dello specifico procedimento cui si riferiscono gli atti da comunicare. Gli atti sono in ogni caso comunicati con modalità idonee a garantire che il loro contenuto non sia conosciuto da soggetti diversi dal loro destinatario. Restano ferme le disposizioni in materia di notifica degli atti tributari (art.6, 1^ c., L.212/2000 – Conoscenza degli atti e semplificazione).

L’amministrazione deve informare il contribuente di ogni fatto o circostanza a sua conoscenza dai quali possa derivare il mancato riconoscimento di un credito ovvero l’irrogazione di una sanzione, richiedendogli di integrare o correggere gli atti prodotti che impediscono il riconoscimento, seppure parziale, di un credito (2^ comma).

L’A.F. assume iniziative volte a garantire che i modelli di dichiarazione, le istruzioni e, in generale, ogni altra propria comunicazione siano messi a disposizione del contribuente in tempi utili e siano comprensibili anche ai contribuenti sforniti di conoscenze in materia tributaria e che il contribuente possa adempiere le obbligazioni tributarie con il minor numero di adempimenti e nelle forme meno costose e più agevoli (3^ comma).

Al contribuente non possono, in ogni caso, essere richiesti documenti ed informazioni già in possesso dell’A.F. o di altre amministrazioni pubbliche indicate dal contribuente. Tali documenti ed informazioni sono acquisiti ai sensi dell’art.18, commi 2 e 3, della L.241/1990, relativi ai casi di accertamento d’ufficio di fatti, stati e qualità del soggetto

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interessato dalla azione amministrativa (4^ comma).

Prima di procedere alle iscrizioni a ruolo derivanti dalla liquidazione di tributi risultanti da dichiarazioni, qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, l’A.F. deve invitare il contribuente, a mezzo del servizio postale o con mezzi telematici, a fornire i chiarimenti necessari o a produrre i documenti mancanti entro un termine congruo e comunque non inferiore a trenta giorni dalla ricezione della richiesta. La disposizione si applica anche qualora, a seguito della liquidazione, emerga la spettanza di un minor rimborso di imposta rispetto a quello richiesto. La disposizione non si applica nell’ipotesi di iscrizione a ruolo di tributi per i quali il contribuente non è tenuto ad effettuare il versamento diretto. Sono nulli i provvedimenti emessi in violazione delle disposizioni di cui al presente comma (5^

comma)”.

“Salvo i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero (art.115 1^ c., c.p.c. – Disponibilità delle prove).

Può, tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (2^ comma)”.

“Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti” (art.116 c.p.c., 1^ c. – Valutazione delle prove).

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“Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell’articolo seguente” (Comma 2^)..

“Le presunzioni sono le conseguenze che la legge (art.2728 c.c.) o il giudice (art.2729 c.c.) trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato (art.115 c.p.c.) (art.2727 c.c. – Nozione di presunzioni)”.

“Le presunzioni legali (quelle stabilite dalla legge) dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite (art.2728 c.c. – Prova contro le presunzioni legali)”.

“Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice (art.116 c.p.c.), il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti (art.2729, 1^

c., c.c. – Presunzioni semplici).

Le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni (2^ comma).

3. IL PROCESSO.

L’Attore è di norma l’Ente impositore, a cui compete di provare la pretesa azionata.

Spesso la legge accorda all’A.F. agevolazioni probatorie, come le presunzioni, le quali ribaltano a favore del Fisco l’onere della prova (inversione dell’onere della prova, che così resta

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in capo al contribuente se vuole discolparsi dal pagare le imposte contestate).

Nel processo tributario, come nel giudizio civile, opera il principio secondo cui chi vuole fare valere un diritto deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento (art.2697, 1^ comma, c.c.).

Viceversa, chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti, ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto, deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda (art.2697, 2^ c., c.c.).

Secondo la Cass. n.13665 del 05.11.01, n.18710 del 23.09.05, l’A.F., che vanti un credito nei confronti del contribuente, è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa.

L’A.F. conserva la veste di attrice sostanziale nella controversia del rapporto giuridico d’imposta.

Conseguentemente, laddove intenda contestare l’inesistenza o la natura fittizia di determinate operazioni imponibili poste in essere dal soggetto passivo è onerata della dimostrazione circa la falsità delle fatture afferenti dette operazioni allegando dati, elementi, riscontri ed indizi atti ad escluderne la veridicità oggettiva e soggettiva (Cass. n.24201 del 26.09.08).

Incombe sull’A.F. l’onere di provare, anche attraverso presunzioni, l’inattendibilità della documentazione aziendale che intende contestare (inesistenza delle operazioni documentate con fatture), la quale, in mancanza di prova contraria, costituisce uno strumento idoneo a dimostrare l’esistenza delle operazioni ivi riportate (Cass. n.18650 del 08.07.08).

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La Cass. Sent. n.951 del 16.01.2009, in materia di contenzioso tributario ed onere della prova, ha affermato che “nel caso in cui l’A.F. contesti al contribuente l’antieconomicità di un’operazione realizzata, spetta al contribuente stesso l’onere di dimostrarne la liceità fiscale. Il giudice tributario, in questi casi, non può limitarsi a valutare la regolarità della documentazione cartacea prodotta”.

In merito al principio di ripartizione dell’onere della prova nel processo tributario, la Cass, con la sentenza nr.21317 del 06.10.2009, in relazione alla contestazione ad un contribuente, da parte della G. di F., circa l’esistenza di costi e la conseguente indeducibilità dei componenti negativi ai fini reddituali, ha affermato che la prova dell’aumento di reddito è a carico dell’A.F. anche nel caso in cui la pretesa tributaria si manifesti con la negazione di costi.

3.1 La formazione della prova nel processo.

L’attività istruttoria, nel rito civile, è preordinata all’acquisizione degli elementi di fatto a base dei provvedimenti giudiziari a definizione del processo, al fine di assicurare effettività al principio di certezza dei rapporti giuridici e di consentire al giudice la formazione di un suo giudizio sia di diritto sia di fatto.

La formulazione del giudizio di diritto comporta l’individuazione nelle norme applicabili ai fatti in controversia e la loro interpretazione al fine di accertarne le conseguenze stabilite dalla stessa norma.

Invece, la formulazione del giudizio di fatto comporta l’accertamento o la ricostruzione della verità o della falsità dei fatti in controversia in relazione alle norme effettivamente

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applicabili.

Questo permette al giudice di esprimere un giudizio circa l’esistenza o l’inesistenza sui fatti in controversia (anche se non era presente alla loro verificazione).

Secondo le disposizioni contenute nell’art.111 Costituzione ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. Il principio del giusto processo si realizza se permette di addivenire, il più possibile, ad un giudizio di verità dei fatti oggetto della controversia accaduti in passato.

Il diritto alla prova è un diritto, garantito dalla Costituzione, e, consiste nell’osservanza del principio del contraddittorio in modo da dedurre prove a sé favorevoli ovvero contrastare quelle a sé sfavorevoli (diritto di difesa).

“Ogni qual volta si nega o si limita alla parte il potere processuale di rappresentare al giudice la realtà dei fatti ad essa favorevole, ovvero le si restringe il diritto di esibire i mezzi rappresentativi di quella realtà, le si rifiuta in pratica quella stesa tutela” (Corte Cost. n.53 del 17.05.1966).

La prova giuridica è sia l’iter procedimentale dimostrativo dell’esistenza di un fatto, sia il suo risultato conclusivo atto a rappresentare al giudice l’esistenza o l’inesistenza dei fatti affermati o negati dalle parti a sostegno del proprio diritto di difesa.

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Quindi, l’oggetto della prova è costituito da fatti dedotti dalle parti.

Il mezzo di prova è sia la fonte della prova, sia i diversi procedimenti preordinati all’acquisizione dei mezzi di prova, volti a dimostrare sia l’esistenza dei fatti principali (diretti:

fatti costitutivi, impeditivi, modificativi od estintivi), sia dei fatti secondari (indiretti, da cui è possibile evincere l’esistenza dei fatti principali) oggetto della controversia, salvo che siano incontestabili.

3.2 L’onere della prova.

Secondo le disposizioni contenute nell’art.115 c.p.c. (Disponibilità delle prove), “salvi i casi previsti dalla legge il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero.

Può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”.

Pertanto, al giudice è inibito il non liquet, cioè il rifiuto di giudicare, che è equivalente al diniego di giustizia, per mancanza di accertamento del fatto.

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Dunque, il giudice non può né rifiutare il giudizio, né limitarsi ad un giudizio provvisorio, per riavviarlo allorquando la parte ottenga la disponibilità delle prove.

Al giudice è imposto di giudicare sempre sulle domande propostegli, a prescindere che egli abbia o meno prove sufficienti per farlo.

L’obbligo del giudice di decidere anche in difetto di prova deriva dalla regola del giudizio della c.d. distribuzione dell’onere della prova fra le parti, in base alla quale il giudice che rileva la carenza di prova su un determinato fatto, deve stabilire su quale parte incombeva il predetto onere, per dedurne la soccombenza su quel punto della parte onerata con esito vittorioso della controparte.

Vige il principio dispositivo in base al quale incombe sulle parti l’onere di fornire la prova.

Comunque, il giudice può trarre il proprio convincimento dalla documentazione comunque acquisita al fascicolo.

In base all’art.2697 c.c. (Onere della prova), “chi vuol fare valere un diritto in giudizio, deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.

Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto sia modificato o estinto deve

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provare i fatti sui cui l’eccezione si fonda”.

L’art.163 c.p.c. (Contenuto della citazione), prevede che “la domanda si propone mediante citazione a comparire in udienza fissa.

L’atto di citazione deve contenere:

1.

l’indicazione del tribunale davanti al quale la domanda è proposta;

2.

il nome, il cognome e la residenza dell’attore, il nome, il cognome, la residenza o il domicilio o la dimora del convenuto e delle persone che rispettivamente li rappresentano o li assistono. Se attore e convenuto è una persona giuridica, un’associazione non riconosciuta o un comitato, la citazione deve contenere la denominazione o la ditta, con l’indicazione dell’organo o ufficio che ne ha la rappresentanza in giudizio;

3.

la determinazione della cosa oggetto della domanda;

4.

l’esposizione dei fatti o degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni;

5.

l’indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l’attore intende valersi e in particolare dei documenti che offre in comunicazione;

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6.

il nome e il cognome del procuratore e l’indicazione della procura, qualora questa sia stata già rilasciata;

7.

l’indicazione del giorno dell’udienza di comparizione”.

3.3 Le diverse tipologie di prove nel processo.

In riferimento alla fonte si distinguono:

prove tipiche se previste dalla legge, altrimenti sono prove atipiche.

In riferimento al fine perseguito si distinguono:

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prove dirette se sono preordinate alla dimostrazione della veridicità di quanto sostenuto dall’attore o dal convenuto, altrimenti sono prove contrarie quelle volte a dimostrare la falsità del fatto dedotto;

prove storiche o dirette se sono tese a rappresentare direttamente un fatto principale;

prove critiche o indirette se hanno lo scopo di dimostrare l’esistenza di un fatto secondario da cui deriva in via induttiva il fatto principale (presunzioni semplici).

In campo fiscale, l’accertamento tributario può fondarsi, oltre che su prove dirette della falsità o incompletezza dei dati contabilizzati e dichiarati dal contribuente, anche su dati ed elementi di natura indiziaria “prove indirette-presuntive”.

In generale, la nozione di presunzione è un argomento con il quale da un fatto certo se ne deduce un altro incerto, salvo che venga provato il contrario.

“Le presunzioni sono la conseguenza che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato” (art.2727 c.c. – Nozione di presunzione).

Quindi, per prova presuntiva si intende il procedimento logico induttivo ed inferenziale che permette di risalire ad un fatto ignoto da un fatto noto in base ad un processo di logica consequenzialità.

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“Le presunzioni legali dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite. (art.2728 c.c. – Prova contro le presunzioni).

“Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti. Le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni” (art.2729 c.c. – Presunzioni semplici).

La prova per presunzioni semplici ha gli stessi limiti previsti per la prova testimoniale.

Pertanto, consegue che:

laddove la legge esclude la prova testimoniale, le presunzioni non sono ammesse;

ovvero, alla prova per presunzione si può fare ricorso nelle ipotesi in cui la legge non escluda la prova testimoniale;

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tuttavia, non è inibito al giudice il ricorso alle presunzioni nelle ipotesi in cui non è ammessa la prova testimoniale, ma, è ammessa la prova orale (Cass.

n.294/1987; n.23692/2004).

Pertanto, si ha la distinzione tra:

1.

presunzioni legali iuris et de iure od assolute, se individuate direttamente dalla legge. Per esse il ragionamento induttivo logico è parametrato dalla norma; per cui il fatto ignoto è dimostrato se sussistono i presupposti stabiliti dalla norma.

2.

presunzioni semplici, quelle non previste dalla legge, le quali devono essere ammesse dal giudice solo se (le presunzioni = indizi) hanno i requisiti della gravità, precisione e concordanza. Sono quelle ricavate ed apprezzate dal giudice (art.2729, c.c.). Le presunzioni senza i detti requisiti vengono definite presunzioni semplicissime.

Le presunzioni legali si distinguono in:

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assolute (iuris et de iure) se non ammettono la prova contraria. Hanno, quindi, rilievo sostanziale, in quanto integrano direttamente la fattispecie con effetto giuridico;

relative (iuris tantum) se ammettono la prova contraria. Quindi, quelle relative e semplici hanno rilievo sul piano probatorio.

Nel caso di presunzioni legali, è sufficiente fare riferimento alle risultanze probatorie acquisite ed alla previsione normativa che ne conferisce rilievo di presunzione legale, specificando, in caso di presunzione relativa, se la prova contraria sia stata o meno fornita e, in caso affermativo, esponendo le motivazioni per cui si ritiene che detta prova contraria sia o meno idonea a superare l’effetto probatorio stabilito dalla norma.

Invece, nel caso di presunzioni semplici o semplicissime (non legali), è necessario esplicitare in modo puntuale, argomentata e logicamente consequenziale, le ragioni per cui si ritiene che gli elementi presuntivi utilizzati siano idonee a comprovare i fatti o le situazioni che si intende dimostrare. Per esse il giudice “non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti” (art.2729 c.c.):

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La gravità riguarda la consistenza dell’elemento presuntivo, che deve avere un peso rilevante per dimostrare il fatto ignoto, in modo che l’ipotesi logica che se ne trae risulti quella più probabile e più attendibile (tale da rendere verosimili le conseguenze derivanti dal fatto noto);

la precisione attiene alla esattezza, specificità e concretezza che l’elemento presuntivo deve esprimere (indiscutibile e certo nella sua oggettività);

la concordanza indica la coerenza e la non contraddittorietà degli elementi presuntivi utilizzati, che devono condurre ad una conseguenza univoca (gli indizi si devono muovere tutti nella stessa direzione).

Secondo la Cass. n.4168 del 22.03.01, “la gravità si riferisce al grado di convincimento che le presunzioni sono idonee a produrre; a tal fine, non si esige che l’esistenza del fatto ignoto, dedotta per presunzione, assuma un grado di certezza assoluta, essendo sufficiente una ragionevole certezza (anche probabilistica). Con la precisione, si esige che gli elementi di base (fatti noti), ed il percorso che essi seguono, non siano vaghi od indefiniti, bensì ben determinati nella loro realtà storica. Con la concordanza, la norma prescrive che la prova deve essere fondata su una pluralità di elementi di base, convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto”.

I requisiti di precisione, gravità e concordanza non sono previsti per le presunzioni semplicissime, utilizzabili quando si adotta il metodo induttivo puro, il quale può essere fondato

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su presunzioni di minore spessore dimostrativo, comunque immune da profili di arbitrarietà, indeterminatezza e contraddittorietà.

Le prove indirette, come per le prove dirette, si possono acquisire con l’esercizio dei poteri istruttori previsti dalla legge, quali i poteri di accesso, ispezione, ricerca, verificazioni, rivelazioni dirette, controlli incrociati, inviti, richieste di questionari, esecuzione di indagini finanziarie, ecc.

Le prove possono essere documentali e testimoniali.

“La prova documentale è costituita dal documento, che è “qualsiasi oggetto idoneo e destinato a fissare in qualsiasi forma, anche non grafica, la percezione di un fatto storico al fine di rappresentarlo in avvenire” (Converso A.G.M., 1997), che è disciplinata dal codice civile nel Capo II, Titolo II, Libro VI.

Può essere costituita sia da documenti cartacei che non cartacei; sia in originale che in copia fotostatica.

L’atto pubblico e la scrittura privata sono prove documentali tipiche precostituite, cioè costituite prima del processo al fine di dare certezza alle pattuizioni tra i soggetti.

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Il documento scritto deve avere i requisiti di idoneità del contenuto a provare un dato fatto e la sottoscrizione del soggetto da cui proviene. Altrimenti, si ha un non-documento.

La fattura quietanzata, a mezzo dell’annotazione “pagato” o simili apposta sulla fattura ha valore di scrittura privata.

La fattura commerciale, avuto riguardo alla sua formazione unilaterale ed alla funzione di far risultare elementi relativi all’esecuzione di un contratto, si inquadra fra gli atti giuridici a contenuto partecipativo, consistendo nella dichiarazione indirizzata all’altra parte di fatti concernenti un rapporto commerciale già costituito.

Pertanto, la fattura costituisce un valido elemento di prova di quanto in essa contenuto se non viene contestata dall’altra parte.

Le scritture contabili obbligatorie delle imprese soggette a registrazione, anche se mancano di sottoscrizione, costituiscono una prova libera. Esse hanno efficacia probatoria liberamente apprezzabile sia a favore che contro colui a cui sono riconducibili, nei soli rapporti commerciali fra imprenditori.

Le prove testimoniali si distinguono in:

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dirette dell’attore: dedotte dall’onerato chiamato all’onere di provare i fatti principali in contestazione;

dirette contrarie: dedotte dal convenuto per dimostrare il contrario di quanto assunto dall’attore;

indirette contrarie: volte a dimostrare il contrario di quanto dedotto con la prova diretta, ma con la dimostrazione di circostanze per contrastare quanto dedotto dall’attore.

4. POTERI ESERCITABILI D’UFFICIO DALLE COMMISSIONI TRIBUTARIE.

La disciplina è dettata dall’art.7, d.lgs. 546/92 (Poteri delle Commissioni tributarie) in base al quale: “1. Le commissioni tributarie, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all’ente locale da ciascuna legge d’imposta.

2. Le commissioni tributarie, quando occorre acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità, possono richiedere apposite relazioni ad organi tecnici dell’amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici compreso il Corpo della Guardia di finanza, ovvero disporre consulenza tecnica.

[3. E` sempre data alle commissioni tributarie facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia.] (Il presente comma è stato abrogato dall’art.3-bis, D.L. 30.09.2005, n. 203, con decorrenza dal 03.12.2005).

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4. Non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale. (E’ manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art.7, c. 4, sollevata in riferimento agli artt 3, 24, e 76 della Costituzione (C.cost. 30.06 – 03.07 1998, n. 249).

5. Le commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano, in relazione all’oggetto dedotto in giudizio, salva l’eventuale impugnazione nella diversa sede competente. (Non sono manifestamente fondate le questioni di legittimità costituzionale del presente provvedimento sollevate in riferimento all’art 102, secondo comma, e alla VI disposizione transitoria della Costituzione (C.cost. 20.04 – 23.04 1998, n. 144)”.

Quindi, le Commissioni tributarie hanno poteri istruttori limitati ai fatti dedotti dalle parti;

ciò significa che sono prive di autonome facoltà di indagine per le situazioni estranee ad essi.

Il giudice tributario non può comunque supplire, con l’esercizio dei propri poteri istruttori, all’inerzia delle parti (Cass. sez. trib. 09.05.2003, n. 7129, Corte Cost. 29.03.2007, n. 109) e tantomeno a quella dell’Ufficio finanziario che ha l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa fiscale ( CTC 3438/1992; Corte Cost. 29.03.2007, n. 109).

Tuttavia, la Cassazione negli ultimi anni ha riconosciuto al giudice tributario il potere (discrezionale) di acquisire dati e documenti non tempestivamente prodotti dalle parti (Cass.

sez. trib. N.1930 del 10.02.2001; Cass. 23.12.2000, n. 16171).

Secondo un altro orientamento, invece, la necessità di dovere acquisire un atto per poter pronunciare la sentenza comporta l’obbligo per il giudice di ordinare all’ufficio finanziario il deposito dello stesso in qualunque fase del processo (Cass. 10.11.2000, n. 14624; Cass. sez.

trib. 25.05.2002, n. 7678). Una volta raccolta, la prova è poi legittimamente utilizzabile dalla Commissione tributaria indipendentemente dalla sua provenienza (Cass. n.15312 del 29.11.2000).

Però si evidenzia che gli orientamenti evidenziati devono ora tener conto della circostanza che è stato abrogato il comma 3 dell’art. 7, cioè la facoltà propria del giudice tributario di ordinare di sua iniziativa alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione sulla controversia.

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Pertanto, è stata soppressa la facoltà di ordinare ex officio alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia.

Ciò deve indurre gli uffici a prestare la massima attenzione affinché gli atti, i fatti e i comportamenti assunti nel processo tributario siano debitamente documentati.

Resta salva in ogni caso la facoltà, per ciascuna delle parti, di chiedere al giudice di ordinare il deposito di documenti non conosciuti in possesso della controparte.

È da dire che l’abrogazione del 3^ c., dell’art.7 delimita, invero, la portata dell’art.24, 2^

comma, d.lgs. 546/92, in base al quale “l’integrazione dei motivi di ricorso, resa necessaria dal deposito di documenti non conosciuti … per ordine della commissione …”.

Tale disposizione va interpretata nel senso che il potere istruttorio di ordinare il deposito di documenti può essere esercitato dal giudice tributario soltanto a seguito della preventiva istanza di una delle parti processuali e non più, come in precedenza, d’iniziativa della stessa commissione.

La ratio della modifica in commento va individuata nella volontà del legislatore di rimettere all’iniziativa delle parti l’andamento del processo, rafforzando il carattere dispositivo del processo tributario.

In tal senso si è recentemente espressa la Cassazione, sentenza n.366, del 01.01.06, ove è stato innanzitutto ribadito che l’abrogato comma 3 dell’art.7 “costituisce una norma eccezionale che non può essere utilizzata come rimedio ordinario per sopperire alle lacune probatorie delle parti dal momento che il giudice tributario non è tenuto ad acquisire d’ufficio le prove a fronte del mancato assolvimento dell’onere probatorio salvo che sia impossibile o sommamente difficile esercitarlo (Cass. n. 8439/2004 e Cass. n. 7678/2002)”.

Partendo da tale premessa, la Suprema Corte ha poi precisato che “diversamente risulterebbe violato il principio dispositivo … su cui si regge il processo tributario” e che, pertanto, “non a caso la recente miniriforma sul contenzioso approvata con la conversione in legge del D.L. n.

203/2005 ha soppresso … la disposizione in parola eliminando così una possibile limitazione al principio di legalità consacrato sul piano probatorio dall’art.2697 del codice civile …”.

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Anche la Circ. 10/E del 13.03.06, ha affermato che, a seguito della modifica normativa, il giudice potrà sempre ordinare alle parti di depositare documenti ritenuti necessari ma solo se la parte ne farà istanza.

Sul punto la Corte Cost. n.109 del 29.03.2007, ritiene comunque applicabile al processo tributario l’art. 210 c.p.c. tramite il quale il giudice può ordinare la produzione di documenti anche nei confronti dei terzi previa istanza di parte.

La Cass. n.5776 del 08.05.2000, ha affermato che, ai sensi dell’art.7 d.lgs. 546/92, che assegna alle Commissioni tributarie ampi poteri istruttori (con la sola esclusione, fra le prove ammissibili, del giuramento e dell’assunzione di testimoni), i giudici tributari di merito possono acquisire, prescindendo dagli accertamenti dell’ufficio, gli elementi di decisione, di cui compiono una valutazione autonoma rispetto all’assunto dell’ufficio.

L’efficacia vincolante del giudicato penale non opera nel processo tributario, considerate le diverse peculiarità dei due processi. Ad esempio, nel processo tributario non sono ammesse prove testimoniali (Cass. n.17057 del 26.07.06).

Secondo alcuni, il divieto della prova testimoniale esclude che possano essere utilizzate nel processo tributario le dichiarazioni rese dai terzi (ad esempio, alla Guardia di finanza, all’Ufficio delle imposte, ecc.); per altri, invece, tali dichiarazioni sono ammesse e vanno valutate alla stregua di semplici indizi (CTR Lombardia, sez. XXXIII, n.223 del 29.11.2000).

In merito la Cass. n.14427 del 22.12.99, ha ritenuto prove sufficienti della pretesa impositiva le dichiarazioni di terzi raccolte nell’attività istruttoria dagli Uffici finanziari e dalla Guardia di

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finanza.

La Cass. n.2610 del 08.03.2000 ha poi precisato che le dichiarazioni assunte dalla Guardia di Finanza vanno comunque vagliate dai giudici tributari e non possono avere valore di prova solo perché il contribuente non afferma e non documenta di aver subito forme di coartazione.

La Cass. n.3526 dell’11.03.2002, ha confermato tale principio, affermando che le dichiarazioni raccolte dalla Guardia di finanza e da essa incorporate nel processo verbale di constatazione non sono testimonianze nè testimonianze rese in sede penale, ma informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative che non hanno di per sé efficacia di prova.

Secondo la CTR Umbria sez. VI, n.562 del 10.10.2000, è pienamente ammissibile nel processo tributario la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, vale a dire un documento che deve considerarsi dichiarazione di terzo. Secondo Cass. n.5927 del 15.04.2003, tale dichiarazione ha il valore probatorio degli elementi indiziari e come tale deve essere valutata dal giudice.

4.1 Eliminazione della norma che consentiva alla C.T. di esercitare di ufficio il potere di ordinare alle parti il deposito di documenti necessari per la decisione.

Il 3^ comma dell’art.7, d.lgs. 546/92 (eliminato dall’art.3-bis D.L. 203 del 30.09.05), consentiva alla C.T. di esercitare d’ufficio il potere di ordinare alle parti il deposito di documenti necessari per la decisione.

La sua eliminazione deriva dalla valorizzazione costituzionale della terzietà del giudice rispetto alle parti, per far prevalere la verità che scaturisce dal confronto tra le parti.

(25)

Il giudice può esercitare i suoi poteri istruttori soltanto nel caso di impossibilità di una parte di produrre documenti in quanto sono in possesso dell’altra.

“In tema di contenzioso tributario, a fronte del mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del soggetto onerato, il giudice tributario non è tenuto ad acquisire d’ufficio le prove in forza dei poteri istruttori attribuitigli dall’art.7, d.lgs. 546/92 (che va interpretato alla luce del principio di terzietà sancito dall’art.111 Cost.), in quanto tali poteri sono meramente integrativi dell’onere probatorio principale e vanno esercitati, al fine di dare attuazione al principi costituzionale della parità delle parti nel processo, soltanto per sopperire all’impossibilità di una parte di esibire documenti in possesso dell’al’altra parte (Cass, n.6946 dell’11.03.08; n.14091 del 18.06.07).

“Tra i documenti che possono essere richiesti ai contribuenti, ricoprono una notevole importanza le scritture contabili, la regolare tenuta delle quali è imposta dalla legge come obbligo per molti contribuenti. Il rifiuto di esibire i documenti richiesti può essere interpretato dal giudice in senso negativo alla parte, in applicazione dell’analogo principio dettato nelle norme del processo civile (art.116 e 118 c.p.c.) (Circ. 98/E/II-3-1011 del 23.04.96).

Secondo la Cass. n.13201 del 09.06.09, “la C.T. non può esercitare di ufficio il potere di ordinare alle parti il deposito di documenti necessari per la decisione (ex art.7, 3^ c., d.lgs.

546/92) neppure quando la parte interessata non abbia tempestivamente prodotto la documentazio

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