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DISPENSA DI DIRITTO CIVILE V (Con traccia per l esercitazione)

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DISPENSA

DI DIRITTO CIVILE V

(Con traccia per l’esercitazione)

CORSO INTENSIVO AVVOCATO 2019 a cura dell’avv. Giulio Forleo

www.jurisschool.it

www.ildirittopenale.blogspot.com

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2 INDICE

Premessa……….Pag. 3

Traccia assegnata nella precedente dispensa………..………..4

Possibile soluzione parere..……… 5

Schema risolutivo atto………...…………10

Compensatio lucri cum damno ed emotrasfusioni……….13

Consenso informato del paziente e casi di urgenza………21

Responsabilità della struttura sanitaria………..33

Diffamazione a mezzo stampa………..40

Immissioni e danno non patrimoniale……….50

Precoce emancipazione dei minori e responsabilità genitori……….56

Responsabilità genitore per fatto del minore e coabitazione……….60

Responsabilità civile e nesso di causalità……….64

Soggetto responsabile in caso di danno arrecato da animali………74

Responsabilità scuola e attività sportiva………78

Responsabilità dell’hosting provider………..85

Attività produzione farmaci e responsabilità civile……….107

Danno da adulterio e responsabilità padroni o committenti………..112

Danno biologico terminale e catastrofale: lucidità della vittima……….124

Altre massime………..130

Traccia per l’esercitazione……….131

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Premessa Gentili ragazze/i,

come per il modulo di diritto penale, con quest’ultima dispensa l’obiettivo è quello di fare il punto sulle molteplici tematiche affrontate, nel tentativo di individuare le più recenti sentenze della Cassazione che potrebbero essere assunte a modello per redigere le tracce delle prove d’esame.

Particolare attenzione è stata dedicata ai profili del risarcimento dei danni da illecito aquiliano.

Sono molto soddisfatto dal percorso che avete fatto e che ho cercato di rendere sempre più difficile per farvi abituare alle difficoltà che potreste incontrare in sede d’esame.

Ricordatevi di fare affidamento solamente sulle vostre capacità e di puntare molto sul metodo acquisito in questi mesi di preparazione.

Nei prossimi giorni cercherò di rispondere a tutte le richieste di chiarimenti che mi avete inoltrato.

Per chi non riuscirà a svolgere la prova assegnata in questo modulo, caricherò nei prossimi giorni lo schema risolutivo sia dell’atto che del parere.

Resto sempre a vostra disposizione per chiarire gli ultimi dubbi.

Buono studio e in bocca al lupo!

Roma lì 03.12.2019

Avv. Prof. Giulio Forleo

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TRACCIA ATTO ASSEGNATA NELLA PRECEDENTE DISPENSA

In data 24.8.2018, in vista di un’importante mostra, Mevio consegnava al restauratore Caio una statua di un famoso scultore contemporaneo, acquistata all’asta per la cifra di 100.000,00 euro e scheggiatasi accidentalmente qualche giorno prima. Visionata l’opera, Caio riferiva a Mevio di avere bisogno di almeno tre mesi per portare a termine il lavoro di restauro.

Dopo tre settimane, il 17.9.2018, Caio subiva una violenta rapina a mano armata nel proprio negozio, nel corso della quale venivano sottratte varie opere d’arte al cui restauro stava lavorando e, tra queste, anche la statua di proprietà di Mevio.

Avendo le telecamere del negozio registrato tutta la rapina, Caio provvedeva immediatamente a denunziare il reato alle forze di polizia giudiziaria.

Sperando nel recupero dei beni da parte degli organi inquirenti, Caio non segnalava la rapina ai proprietari delle opere sottratte, pur avendo attivato l’assicurazione per il sinistro occorso.

Non riferiva nulla neppure a Mevio, il quale lo chiamava settimanalmente per avere notizie sull’andamento del restauro.

Nei primi giorni di dicembre, avvicinandosi la mostra, Mevio si recava personalmente presso il negozio di Caio e, in questa occasione, veniva a conoscenza non solo della perdita della statua avvenuta mesi prima, ma anche della circostanza che, qualche settimana prima, era stata disposta l’archiviazione del procedimento penale attivato con la denuncia.

Mevio chiedeva, dunque, a Caio il ristoro del valore del bene sottratto e della perdita di visibilità della mostra, conseguente all’assenza del pezzo di maggior pregio artistico.

Di tutta risposta, Caio declinava ogni responsabilità per l’accaduto e negava qualsiasi risarcimento, essendo dipesa la perdita del bene unicamente dalla rapina a mano armata, alla quale non poteva validamente opporsi.

Preoccupato per la risposta ricevuta, Mevio si rivolge al vostro studio legale al fine di ottenere tutela ai propri diritti.

Il candidato, premessi brevi cenni sugli istituti coinvolti, rediga:

- parere legale motivato sulla vicenda;

- l’atto giudiziario ritenuto più opportuno.

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POSSIBILE SOLUZIONE PARERE

Viene richiesto parere legale motivato da parte di Mevio in merito alle possibili azioni da intraprendere per tutelare i propri diritti in relazione alla perdita della statua di sua proprietà, affidata al restauratore Caio per riparare alcune scheggiature e sottratta dal suo locale a seguito di una rapina a mano armata.

In particolare, è necessario indagare le conseguenze della condotta omissiva di Caio, il quale, nonostante fosse a conoscenza dell’importanza della statua per la mostra organizzata da Mevio e che si sarebbe tenuta a breve, non si preoccupava minimamente di informare quest’ultimo della perdita del bene, impedendogli così sia di partecipare all’archiviata indagine penale sia di riorganizzare per tempo l’organizzata esposizione.

A fronte, inoltre, della richiesta di ristoro dei danni subiti, avanzata Mevio, Caio declinava ogni responsabilità per l’accaduto e negava qualsiasi risarcimento, non essendo la perdita a lui imputabile.

La principale questione giuridica da affrontare, per valutare la fondatezza della pretesa di Mevio, attiene alle conseguenze, in termini di risarcimento del danno, della omessa comunicazione ex art. 1780 c.c., da parte del depositario, della perdita della detenzione del bene depositato, anche se avvenuta per causa a lui non imputabile.

A tal uopo, risulta necessario un esame preliminare della disciplina del contratto di deposito e della sua estensibilità a quei contratti, come quello di specie, in cui il deposito del bene (ed il conseguente obbligo di custodia) rappresenti un’obbligazione accessoria ad un’altra principale.

Il contratto di deposito è quel negozio, non soggetto ad alcun particolare onere formale, con il quale una parte riceve dall’altra una cosa mobile con l’obbligo di custodirla e di restituirla in natura (art. 1766 c.c.). Indiscussa è tanto la sua natura reale quanto la presunzione di gratuità dello stesso.

A differenza di tutti gli altri contratti in cui una parte riceve un bene altrui con l’obbligo di restituirlo al termine del rapporto (quali ad esempio il contratto d’appalto e d’opera), nel contratto di deposito l’attività di custodia costituisce la vera e propria ragion d’essere del negozio. Nelle altre tipologie contrattuali, invece, la dazione non avviene al fine di custodire il bene, ma per ulteriori e varie ragioni di tipo economico, essendo la custodia comunque un momento necessario affinchè il contratto possa assolvere alla propria funzione.

Tanto nel contratto di deposito quanto nelle altre fattispecie, la custodia viene considerata oggetto di un dovere di protezione discendente direttamente dagli artt. 1175 e 1375 c.c.. In tale ottica viene altresì letto l’obbligo di avviso, sotto pena di risarcimento del danno, della perdita del bene per causa non imputabile al depositario, di cui all’art. 1780 c.c.. Tale norma è evidentemente finalizzata porre il depositante in condizione di assumere iniziative dirette al

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recupero del bene ed eventualmente ad agire nei confronti del terzo che si sia reso responsabile della sua sottrazione.

Secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, l'ambito oggettivo della disposizione “de qua” si estende anche ai contratti nei quali l'obbligo di custodia non costituisce l'obbligazione principale. Infatti "L'art. 1780 c.c., in forza del quale il depositario, per ottenere la liberazione dalla propria obbligazione, è tenuto a fornire la prova che l'inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile, trova applicazione anche quando l'obbligazione della custodia e della riconsegna formi parte di un contratto misto nel quale confluiscano le cause del deposito e di altro contratto, come nel caso dell'affidamento di un'autovettura ad un'officina per la riparazione, in cui l'obbligo di custodia e di restituzione assume funzione accessoria, in quanto finalizzato all'adempimento dell'obbligazione principale" (Cass. n. 10956/2010).

Non altrettanto pacifiche sono le conseguenze giuridiche della mancata denunzia al depositante della perdita del bene sul diritto al risarcimento del danno, prestandosi l’art. 1780 c.c. ad una duplice interpretazione.

Secondo una prima lettura, il depositario che non proceda tempestivamente alla denunzia potrebbe essere ritenuto responsabile solo dei danni che il depositante ha subito per causa specifica della mancata denunzia.

Logico presupposto di tale assunto è che la denuncia al depositante non costituisce condizione di liberazione del depositario dalla responsabilità per la restituzione della cosa, ma oggetto di un'ulteriore obbligazione che deriva dal rapporto di deposito come conseguenza dell'estinzione dell'obbligazione primaria.

Secondo un’altra lettura, invece, si potrebbe ritenere che il depositario, che perda la detenzione della res depositata per causa a lui non imputabile, sia tenuto a versare al depositante il valore della stessa, qualora non abbia tempestivamente denunciato a quest'ultimo il fatto per cui non ha più la detenzione. In tal modo la liberazione dall'obbligo della restituzione è subordinata, oltre che al fatto non imputabile, anche alla tempestiva denuncia della sottrazione da parte di quest'ultimo, pena il risarcimento del danno per equivalente.

Tale ambiguità normativa ha fatto susseguire - in giurisprudenza - interpretazioni contrastanti sugli effetti della previsione normativa dell'obbligo del depositario di denunziare immediatamente al depositante il fatto che ha determinato la perdita del bene.

Secondo la giurisprudenza di legittimità più risalente (ex multis Cass. civ. n. 775/1948; Cass.

Civ. 339/1959; Cass. civ. 658/1966; Cass. civ. 2193/1974) il depositario, che perda la detenzione della res per causa a lui non imputabile, è tenuto a versare al depositante il valore della stessa, qualora non abbia tempestivamente denunciato a quest'ultimo il fatto per cui non ha più la detenzione.

In tal modo il giudice di legittimità subordinava la liberazione dall'obbligo della restituzione, oltre che al fatto non imputabile, anche alla tempestiva denuncia della sottrazione da parte di

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quest'ultimo, pena il risarcimento del danno per equivalente.

Secondo le argomentazioni poste alla base di tale risalente indirizzo della Cassazione, la disposizione di cui all'art. 1780 c.c., sarebbe unica e inscindibile, nel senso che per l'esonero del depositario da ogni responsabilità richiederebbe, oltre alla prova della non imputabilità della perdita, che libera il custode dall'obbligo di restituire il bene, anche l'immediata denuncia del fatto al depositante come requisito oggettivo, cui è subordinata l'esenzione dal risarcimento del danno rappresentativo della restituzione per equivalente.

Un significativo cambiamento si rinviene con la sentenza n. 203 del 17.1.1978 e la sentenza n. 8541 del 1991 che hanno affermato che l'art. 1780 c.c., comma 1, ove stabilisce che il depositarlo, perduta la detenzione della cosa per fatto a lui non imputabile, è tenuto al risarcimento del danno nel caso in cui non provveda a denunciare immediatamente al depositante il predetto fatto, va inteso nel senso che quel danno comprende esclusivamente i pregiudizi che siano conseguenza immediata e diretta dell'omessa o ritardata denuncia.

E ciò perchè questa interpretazione si armonizza con il principio generale sul nesso di causalità in materia di danni posto dall'art. 1223 c.c., laddove invece, facendo nascere dall'osservanza dell'obbligo dell'immediata denunzia una responsabilità per danni comprensiva, in ogni caso, del valore della cosa in custodia, si verrebbe a spezzare il rapporto causale tra il fatto colposo (costituito dalla mancata denuncia) e l'evento dannoso, il che contrasta anche con il significato logico del citato primo comma dell'art. 1780. Pertanto l'indicato danno può identificarsi con il valore della cosa depositata solo se il depositante dimostri che la perdita definitiva di esso sia dipesa dall'inosservanza dell'obbligo di denuncia, come avviene in qualsiasi azione per danni, che richiede appunto la prova non solo del fatto colposo o doloso, ma anche del nesso eziologico tra il fatto stesso ed il danno.

Successivamente con la sentenza n. 16950 del 2003 la Cassazione ha affermato che l'art. 1780 c.c., comma 1, dispone che se la detenzione è tolta al depositario in conseguenza di un fatto a lui non imputabile, egli è liberato dall'obbligazione di restituire la cosa, ma deve sotto pena di risarcimento del danno, denunziare immediatamente al depositante il fatto per cui ha perduto la detenzione. La norma, nel caso in cui il depositario perde la detenzione della cosa per causa a lui non imputabile, mentre lo esonera dal doversi attivare per recuperarla, alla obbligazione di restituirla, che altrimenti avrebbe, sostituisce quella di rendere edotto immediatamente il depositante del fatto per cui ha perso la detenzione. Il depositarlo, dunque, ha l'obbligo contrattuale di dare al depositante le notizie necessarie per porlo in condizioni di rientrare nella materiale disponibilità della cosa e se non lo fa è soggetto a risarcirgli i danni che dal proprio inadempimento gli possono derivare.

Orbene, quando l'obbligato non tiene il comportamento atteso e si verifica per l'altra parte una situazione pregiudizievole che il comportamento dovuto avrebbe reso possibile evitare, in tanto è possibile escludere che il danno sia conseguenza del comportamento mancato, in

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quanto si possa ritenere che il danno si sarebbe prodotto egualmente.

Di recente, la Cassazione si è nuovamente espressa al riguardo, non optando né per l'uno né per l'altro orientamento.

Secondo la Suprema Corte, la norma contenuta nell'art. 1780 c.c., comma 1, obbliga il depositario a denunciare al depositante immediatamente il fatto in conseguenza del quale ha perduto il bene depositato presso di lui e se non lo adempie è soggetto a risarcirgli i danni che dal proprio inadempimento gli sono derivati.

Questo "dovere di avviso" deve essere configurato come un obbligo di protezione del depositante, particolarmente esposto ai rischi del contratto, accessoria o principale che sia l'obbligazione di custodia, avuto riguardo al suo interesse all'adempimento del contratto e alle modificazioni dell'originaria situazione di fatto in conseguenza di fatti non imputabili - nella specie impossibilità sopravvenuta della prestazione, art. 1256 c.c. - in modo da consentirgli, in attuazione del generale principio di buona fede, in tempo utile di compiere gli atti necessari al recupero del bene ovvero di agire contro il responsabile della sottrazione.

In virtù di ciò ha affermato che "Anche nel contratto di prestazione di opera in cui l'obbligo di custodia è accessorio e strumentale all'adempimento della prestazione, il mancato adempimento dell'obbligo del depositario di denunziare immediatamente al depositante il fatto per cui ha perduto la detenzione - art. 1780 seconda parte primo comma cod. civ. - anche qualora non interferisse con l'estinzione dell'obbligazione per impossibilità sopravvenuta non imputabile al debitore della prestazione, ma fosse fonte di un autonomo obbligo risarcitorio in sostituzione dell'originario di restituzione del bene, obbliga il depositante a risarcire al depositario i danni che siano conseguenza immediata e diretta della perdita del bene e che perciò possono anche consistere nel valore dello stesso, avuto riguardo a tutte le circostanze dedotte nel caso concreto ed all'art. 1780 c.c., comma 3, che prevede che il depositante ha diritto di ricevere ciò che in conseguenza del fatto stesso il depositario abbia conseguito e subentra nei diritti spettanti a quest'ultimo". (Cassazione civile sez. III, 19/01/2018, n.1246).

Ciò chiarito, premesso che la rapina è costantemente ritenuta dalla giurisprudenza una causa di forza maggiore liberatoria per il depositario, è evidente come nel caso prospettato da Mevio, egli avesse tutto l’interesse ad ottenere la restituzione del bene in occasione della mostra che si sarebbe tenuta a breve, mentre Caio, pur essendo stato rapinato nel mese di settembre, colpevolmente non lo ha informato di tale circostanza, lasciando che egli ne venisse a conoscenza solo i primi giorni di dicembre, in prossimità della mostra e quando la denuncia era ormai stata archiviata dall’Autorità giudiziaria penale.

In altre parole, l’omessa denuncia ha di fatto impedito a Mevio di partecipare alla procedura in sede penale ed ha creato un grave problema per la mostra, visto il venir meno del pezzo di punta ed il poco tempo per riorganizzare l’esposizione. L’aver denunciato i fatti all’Autorità e alla propria assicurazione non libera certamente Caio dalle sue responsabilità.

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In considerazione di quanto detto e del recente orientamento della giurisprudenza, deducendo l’omessa denunzia di perdita del bene, Mevio potrà citare in giudizio Caio al fine di ottenere il risarcimento del danno emergente pari al valore della statua, anche surrogandosi nei confronti dell’assicurazione di Caio, ed il lucro cessante derivante dal minor introito e dai maggiori costi da sostenere per la mostra, in cui doveva essere esposta l’opera d’arte.

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SCHEMA RISOLUTIVO ATTO

Ai fini di un corretto svolgimento del parere assegnato occorreva approfondire i seguenti punti.

1. Considerato il valore della causa, certamente superiore a 100.000,00, il giudice competente va individuato nel Tribunale. Non essendoci riferimenti territoriali, bisognava lasciare in bianco la sede.

L’atto da proporre è evidentemente un Atto di citazione.

2. Nella parte in fatto, ripercorrere in maniera dettagliata gli avvenimenti, evidenziando che:

- Mevio consegnava a Caio la statua al fine di restaurarla;

- dopo tre settimane, Caio subiva una violenta rapina a mano armata nel proprio negozio nella quale veniva sottratta anche la statua di proprietà di Mevio;

- Caio non provvedeva ad informare Mevio della perdita del bene;

- Venuto a conoscenza della perdita del bene e dell’archiviazione della denuncia, Mevio chiede a Caio il ristoro del valore del bene sottratto e della perdita di visibilità della mostra;

- Caio declinava ogni responsabilità per l’accaduto e negava qualsiasi risarcimento, non essendo la perdita a lui imputabile.

3. Formulare titoletto “Sulla responsabilità di Mevio e sul Risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1780 c.c.”

3.1 Indicare subito che, non avendo adempiuto all’obbligo di denunziare immediatamente al depositante il fatto per cui aveva perduto la detenzione della statua, ai sensi dell’art. 1780 seconda parte primo comma cod. civ., Caio è obbligato a risarcire a Mevio i danni derivati a quest’ultimo come conseguenza immediata e diretta della perdita del bene, anche se determinata da causa non imputabile al depositario.

3.2 Sviluppare i richiesti brevi cenni in relazione al contratto di deposito e procedere ad illustrare le similitudini tra tale tipologia contrattuale (in cui l’attività di custodia costituisce la vera e propria ragion d’essere del contratto) e quelle in cui (come nel caso di specie) l’obbligo di custodia rappresenti solo un’obbligazione accessoria rispetto a quella principale.

3.3 Soffermarsi sulla disciplina della perdita (per causa non imputabile al depositario) della res depositata e, dopo aver riportato il contenuto dell’art. 1780 c.c., specificare che, secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, l'ambito oggettivo di tale norma si estende anche ai

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contratti nei quali l'obbligo di custodia, come quello in oggetto, non costituisce l'obbligazione principale. Infatti "L'art. 1780 c.c., in forza del quale il depositario, per ottenere la liberazione dalla propria obbligazione, è tenuto a fornire la prova che l'inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile, trova applicazione anche quando l'obbligazione della custodia e della riconsegna formi parte di un contratto misto nel quale confluiscano le cause del deposito e di altro contratto, come nel caso dell'affidamento di un'autovettura ad un'officina per la riparazione, in cui l'obbligo di custodia e di restituzione assume funzione accessoria, in quanto finalizzato all'adempimento dell'obbligazione principale" (Cass. n. 10956/2010).

3.4 Analizzare le conseguenze giuridiche della mancata denunzia al depositante della perdita del bene sul diritto al risarcimento del danno, anche nelle ipotesi in cui la perdita non sia imputabile al depositario. In proposito riferire come, di recente, la Cassazione si è espressa al riguardo, affermando che la norma contenuta nell'art. 1780 c.c., comma 1, obbliga il depositario a denunciare al depositante immediatamente il fatto in conseguenza del quale ha perduto il bene depositato presso di lui e se non adempie a tale obbligo è soggetto a risarcirgli i danni che dal proprio inadempimento gli sono derivati.

Questo "dovere di avviso" deve essere configurato come un obbligo di protezione del depositante, particolarmente esposto ai rischi del contratto, accessoria o principale che sia l'obbligazione di custodia, avuto riguardo al suo interesse all'adempimento del contratto e alle modificazioni dell'originaria situazione di fatto in conseguenza di fatti non imputabili - nella specie impossibilità sopravvenuta della prestazione, art. 1256 c.c. - in modo da consentirgli, in attuazione del generale principio di buona fede, in tempo utile di compiere gli atti necessari al recupero del bene ovvero di agire contro il responsabile della sottrazione.

In virtù di ciò ha affermato che "Anche nel contratto di prestazione di opera in cui l'obbligo di custodia è accessorio e strumentale all'adempimento della prestazione, il mancato adempimento dell'obbligo del depositario di denunziare immediatamente al depositante il fatto per cui ha perduto la detenzione - art. 1780 seconda parte primo comma cod. civ. - anche qualora non interferisse con l'estinzione dell'obbligazione per impossibilità sopravvenuta non imputabile al debitore della prestazione, ma fosse fonte di un autonomo obbligo risarcitorio in sostituzione dell'originario di restituzione del bene, obbliga il depositante a risarcire al depositario i danni che siano conseguenza immediata e diretta della perdita del bene e che perciò possono anche consistere nel valore dello stesso, avuto riguardo a tutte le circostanze dedotte nel caso concreto ed all'art. 1780 c.c., comma 3, che prevede che il depositante ha diritto di ricevere ciò che in conseguenza del fatto stesso il depositario abbia conseguito e subentra nei diritti spettanti a quest'ultimo". (Cassazione civile sez. III, 19/01/2018, n.1246).

3.5 Illustrare come nel caso di specie Mevio avesse l’interesse ad ottenere la restituzione del

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bene in occasione della mostra che si sarebbe tenuta a breve; Caio pur essendo stato rapinato nel mese di settembre non informava Mevio di tale circostanza, lasciando che quest’ultimo ne venisse a conoscenza solo i primi giorni di dicembre, in prossimità della mostra e quando la denuncia era ormai stata archiviata. L’omessa denuncia ha impedito a Mevio di partecipare alla procedura in sede penale e di surrogarsi nei diritti del depositarlo, secondo la disposizione contenuta nell'art. 1780 c.c., comma 3. Tale omissione ha creato, inoltre, un grave problema per la mostra, visto il venir meno del pezzo di punta ed il poco tempo per riorganizzare l’esposizione. L’aver denunciato i fatti all’Autorità e alla propria assicurazione non libera Caio dalle sue responsabilità.

3.6 In considerazione di quanto detto e del recente orientamento della giurisprudenza, Caio è dunque tenuto a risarcire Mevio dei danni subiti, sia in termini di danno emergente, pari al valore della statua, sia di lucro cessante derivante dal minor introito e dai maggiori costi da sostenere per la mostra, in cui doveva essere esposta l’opera d’arte trafugata.

4. Dopo aver formulato la citazione, sviluppare le conclusioni nei seguenti termini:

Voglia l’Ill.mo Tribunale adito:

- accertare e dichiarare la responsabilità di Mevio ex art. 1780, comma 1, c.c. per l’omessa denuncia della perdita del bene di proprietà di Caio ed il consequenziale diritto di quest’ultimo di ricevere ciò che in conseguenza del fatto stesso il depositario abbia conseguito e di subentrare nei diritti spettanti a quest'ultimo, ai sensi dell’art.

1780, comma 3, c.c.;

- condannare Mevio al risarcimento dei danni subiti da Caio, così come specificati nei suesposti motivi in fatto e diritto;

- con vittoria di spese, competenze ed onorari

5. Indicare il valore della causa e il contributo unificato.

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1) COMPENSATIO LUCRI CUM DAMNO ED EMOTRASFUSIONI.

Cassazione civile sez. III, 14/02/2019, n.4309

Massima

In caso di responsabilità per contagio da virus HBV, HIV o HCV a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto, opera la "compensatio lucri cum damno" fra l'indennizzo ex l. n. 210 del 1992 e il risarcimento del danno anche laddove non vi sia coincidenza fra il danneggiante e il soggetto che eroga la provvidenza - nella specie, rispettivamente, Azienda Sanitaria Locale e Regione Umbria - , allorquando possa comunque escludersi che, per effetto del diffalco, si determini un ingiustificato vantaggio per il responsabile, benché la l. n. 210 del 1992 non preveda un meccanismo di surroga e rivalsa sul danneggiante in favore di chi abbia erogato l'indennizzo.

Sentenza Fatto

RILEVATO che:

con atto di citazione del 28 marzo 2007 B.G. evocava in giudizio, davanti al Tribunale di Perugia, la Gestione Liquidatoria della disciolta ULSS. n. (OMISSIS), nonchè la regione Umbria e il Ministero della Salute chiedendo la condanna delle parti convenute al risarcimento dei danni non patrimoniali conseguenti alla circostanza di avere contratto, in data (OMISSIS), epatopatia HVC presso l'ospedale di (OMISSIS), clinica ostetrica e ginecologica, a seguito di due trasfusioni eseguite in occasione di un intervento chirurgico. Faceva presente che la Asl aveva riconosciuto il diritto all'indennizzo in favore della B. disponendo la relativa liquidazione;

si costituiva l'ente sanitario convenuto eccependo la prescrizione del diritto, l'assenza di nesso causale e la mancanza di colpa rispetto alle procedure esistenti all'epoca dei fatti. Contestava anche la quantificazione del danno, rilevando che l'indennizzo liquidato ai sensi della L. n.

210 del 1992 doveva essere, comunque, decurtato nella determinazione della somma eventualmente riconosciuta a titolo di risarcimento del danno. Chiedeva di chiamare in causa l'assicuratore Unipol S.p.A. Si costituiva la Regione Umbria che eccepiva la propria carenza di legittimazione passiva e il Ministero della Salute, formulando conclusioni analoghe a quelle della Gestione Liquidatoria della Asl. La compagnia Unipol eccepiva la prescrizione del

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14 diritto alla copertura;

con sentenza del 2 dicembre 2013 2014 il Tribunale di (OMISSIS) rigettava le eccezioni dei convenuti, condannandoli in solido al risarcimento dei danni;

avverso tale decisione proponeva appello il Ministero della Salute eccependo la prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento dei danni, facendo decorrere il termine dall'anno 1999 cui si riferiva la domanda di erogazione dell'indennizzo e la conseguente percezione della illiceità della malattia. Contestava la sussistenza del nesso di causalità tra le trasfusioni e l'epatite C diagnosticata e la sussistenza di una condotta colposa o omissiva, oltre alla quantificazione del danno. Si costituiva B.G. chiedendo il rigetto dell'appello. La Regione Umbria contestava la decisione di primo grado, perchè non aveva riconosciuto il difetto di legittimazione passiva dell'ente pubblico. Si costituiva la Gestione Liquidatoria della soppressa ULSS n. (OMISSIS) contestando i presupposti della pretesa e lamentando la mancata compensazione tra le somme dovute a titolo di risarcimento del danno e quelle percepite da B.G. a titolo di indennizzo, ai sensi della L. n. 210 del 1992. Si costituiva l'assicuratore Unipol S.p.A. chiedendo la conferma della decisione del Tribunale che aveva accolto l'eccezione dell'assicuratore di intervenuta decadenza ai sensi dell'art. 2952 c.c. in quanto nessun avviso di sinistro gli era stato comunicato;

con sentenza del 12 febbraio 2016 la Corte d'Appello di (OMISSIS), in parziale riforma della sentenza di primo grado, respingeva la domanda proposta da B.G. nei confronti del Ministero della Salute per intervenuta prescrizione. Aggiungeva che la Regione Umbria e la Gestione liquidatoria nulla dovevano alla predetta B. in virtù della compensatio lucri cum damno con l'indennizzo da questa percepito;

avverso tale decisione propone ricorso per cassazione B.G. affidandosi a quattro motivi che illustra con memoria ex art. 380 bis c.p.c. Resistono con controricorso UnipolSai Assicurazioni S.p.A, nonchè la Gestione liquidatoria disciolta ULSS n. (OMISSIS) rappresentante della USL n. (OMISSIS), Azienda unità sanitaria locale Umbria, che spiega autonomo ricorso incidentale; la Regione Umbria deposita controricorso e ricorso incidentale condizionato. Il Procuratore generale conclude per il rigetto del ricorso principale ed assorbimento dei ricorsi incidentali.

Diritto

CONSIDERATO che:

con il primo motivo B.G. lamenta la violazione degli artt. 1223, 1225, 1226, 2056, 2059 e

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2697 con riferimento al principio della compensatio lucri cum damno, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3. Ritiene errato il ragionamento della Corte territoriale che avrebbe omesso di considerare che non vi era coincidenza tra i soggetti tenuti a corrispondere l'indennizzo e quelli obbligati al risarcimento dei danni. Tale profilo impedirebbe la compensatio. In particolare, quando la domanda di risarcimento sia proposta, non verso l'ente pubblico che ha già erogato l'indennizzo, ma verso altri soggetti, come la Gestione liquidatoria della Regione Umbria, in questo caso, aderendo alla tesi della Corte territoriale, si perverrebbe ad una indebita inversione dei principi in tema di arricchimento senza causa, poichè il responsabile dell'illecito si arricchirebbe in maniera indebita a causa della riduzione del carico risarcitorio posto nei suoi confronti;

con il secondo motivo deduce la violazione delle medesime disposizioni oggetto del primo motivo rilevando che la Corte non avrebbe considerato la mancanza di omogeneità tra il pregiudizio indennizzato dal Ministero e il danno riconosciuto a Graziella Bolla in sede di consulenza tecnica. Infatti, nell'indennizzo non sono ricompresi i danni psichici e quelli morali. B.G. oltre ad avere contratto l'epatite a seguito della trasfusione, presentava una serie di menomazioni che prescindevano da quella epatica la quale, in realtà, era completamente regredita, mentre i postumi invalidanti riguardano la patologia tiroidea, dipendente dalle cure eseguite dalla danneggiata a causa del contagio da virus HCV;

con il terzo motivo lamenta l'omesso esame di un fatto decisivo ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n.

5 rilevando che la Corte territoriale non aveva considerato il contenuto delle precisazioni formulate dalla difesa di B.G. riguardo ai singoli danni dei quali si chiedeva il ristoro e, in particolare, l'estraneità di questi rispetto a quelli indennizzati dal Ministero della Salute ai sensi della L. n. 210 del 1992;

con il quarto motivo deduce la violazione dell'art. 112 c.p.c. e art. 132 c.p.c., ai sensi dell'art.

360 c.p.c., n. 4. La violazione dell'art. 112 c.p.c. risiede nell'omessa valutazione delle deduzioni di B.G. sull'impossibilità di operare una compensatio lucri cum damno nel momento in cui il danneggiato richiede un pregiudizio del tutto autonomo da quello oggetto di indennizzo. B.G., oltre al ristoro del danno biologico epatico, aveva chiesto soprattutto il risarcimento del danno fisico di natura iatrogena, il risarcimento del danno morale e di quello esistenziale. La violazione dell'art. 132 c.p.c., n. 4, riposerebbe nell'errata applicazione del principio della compensatio lucri cum damno in presenza di una diversità di danni richiesti e di pregiudizi indennizzato atti;

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i quattro motivi possono essere trattati congiuntamente perchè strettamente connessi in quanto la medesima censura viene prospettata ai sensi dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 muovendo dalla mancata considerazione dell'esistenza di pregiudizi non omogenei e segnalando la presenza di una richiesta di danni relativi a voci risarcitorie (danno biologico iatrogeno, danno morale e danno esistenziale) non ricomprese nell'ambito di quelle indennizzate ai sensi della L. n. 210 del 1992;

i motivi sono infondati:

il tema della configurabilità della compensatio lucri cum damno tra somme percepite a titolo di indennità, ai sensi della L. n. 210 del 1992 e quelle richieste a titolo di risarcimento del danno, è stata recentemente affrontato dalle Sezioni Unite di questa Corte nelle sentenze n.

12564, 12565, 12566 e 12567 del 22 maggio 2018, confermando la correttezza delle argomentazioni poste a sostegno delle decisioni impugnate;

si tratta, dunque, di verificare se, ed in quali termini, l'istituto della compensatio fra indennizzo ex L. n. 210 del 1992 e risarcimento del danno risulti applicabile ove sia accertata una responsabilità risarcitoria di un'azienda sanitaria locale (o, come nel caso, della Azienda Sanitaria Locale) e, in generale, di una struttura del S.S.N., alla luce della pregressa giurisprudenza di legittimità e delle più recenti pronunce delle Sezioni Unite di questa Corte (nn. 12564, 12565, 12566 e 12567 del 2018);

è consolidato l'indirizzo secondo cui "il diritto al risarcimento del danno conseguente al contagio da virus HBV, HIV o HCV a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto ha natura diversa rispetto all'attribuzione indennitaria regolata dalla L. n. 210 del 1992; tuttavia, nel giudizio risarcitorio promosso contro il Ministero della salute per omessa adozione delle dovute cautele, l'indennizzo eventualmente già corrisposto al danneggiato può essere interamente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno ("compensatio lucri cum damno"), venendo altrimenti la vittima a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo" (Cass. S.U. n.

584/2008; conformi, ex multis, Cass. n. 11302/2011, Cass. n. 6573/2013, Cass. n. 991/2014 e Cass. n. 20111/2014);

tale orientamento è stato richiamato da Cass., S.U. n. 12564/2018, che pur rilevando che restavano al di fuori del quesito ad essa sottoposto le ipotesi di "unicità del soggetto responsabile del fatto illecito fonte di danni ed al contempo obbligato a corrispondere al

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danneggiato una provvidenza indennitaria"- ha ribadito che "la compensatio opera in tutti i casi in cui sussista una coincidenza tra il soggetto autore dell'illecito tenuto al risarcimento e quello chiamato per legge ad erogare il beneficio, con l'effetto di assicurare al danneggiato una reintegra del suo patrimonio completa e senza duplicazioni";

deve pertanto verificarsi se e come incidano nella materia in esame i principi espressi dalle Sezioni Unite del 2018, secondo cui, ai fini dell'operatività della compensatio, debbono ricorrere un collegamento funzionale tra la causa dell'attribuzione patrimoniale e l'obbligazione risarcitoria (nel senso che entrambe siano volte a rimuovere il pregiudizio derivante dall'illecito) e, al contempo, la previsione di un meccanismo di surroga o di rivalsa volto ad evitare che quanto erogato dal terzo al danneggiato si traduca in un vantaggio inaspettato per l'autore dell'illecito, così individuandosi un punto di equilibrio fra l'esigenza di evitare una indebita locupletazione del danneggiato mediante il cumulo del risarcimento e delle provvidenze indennitarie e quella di impedire che la compensatio finisca per "premiare"

ingiustificatamente l'autore dell'illecito; al riguardo, si è precisato che "non corrisponde infatti al principio di razionalità-equità (...) che la sottrazione del vantaggio sia consentita in tutte quelle vicende in cui l'elisione del danno con il beneficio pubblico o privato corrisposto al danneggiato a seguito del fatto illecito finisca per avvantaggiare esclusivamente il danneggiante, apparendo preferibile in tali evenienze favorire chi senza colpa ha subito l'illecito rispetto a chi colpevolmente lo ha causato" (Cass., S.U. n. 12564/2018);

alla luce gli anzidetti principi, ritiene il Collegio (nell'ambito di una lettura che deve necessariamente tener conto della peculiarità dell'ipotesi qui esaminata) che, in caso di infezione conseguente ad emotrasfusioni o ad utilizzo di emoderivati, possa confermarsi il consolidato orientamento di questa Corte predicativo dell'operatività della compensatio lucri cum damno fra l'indennizzo ex L. n. 210 del 1992 e il risarcimento del danno anche laddove non sussista apparente coincidenza - nella specie, di carattere soltanto formale fra il danneggiante e il soggetto che eroga la provvidenza - nella specie, rispettivamente, Azienda Sanitaria Locale e Regione Umbria allorquando possa comunque escludersi che, per effetto del diffalco, si determini un ingiustificato vantaggio per il responsabile, benchè la L. n. 210 del 1992 non preveda un meccanismo di surroga e rivalsa in favore di chi abbia erogato l'indennizzo;

va infatti considerato che:

l'erogazione dell'indennizzo, originariamente gravante sul Ministero della Salute, è stata

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successivamente demandata alle Regioni, per effetto del D.Lgs. n. 112 del 1998, art. 114 (e dei D.P.C.M. 26 maggio 2000, D.P.C.M. 8 gennaio 2002 e D.P.C.M. 24 luglio 2003, sia pur fatta salva la persistente legittimazione passiva del Ministero nelle controversie volte al riconoscimento dell'indennizzo, ai sensi dell'art. 123 medesimo D.Lgs.: cfr. Cass., S.U. n.

12538/2011; cfr. anche Cass. n. 6336/2014 e Cass. n. 8957/2018): nella materia sussiste, pertanto, una legittimazione processuale passiva soltanto formale del Ministero, attesa l'attribuzione delle relative funzioni amministrative alle Regioni, che godono (e dispongono in via autonoma), allo scopo, di trasferimenti di risorse dal bilancio statale e che risultano, conseguentemente, i soggetti materialmente obbligati all'erogazione della prestazione indennitaria;

le Regioni, in particolare, operano nell'ambito delle funzioni di tutela pubblica della salute che sono proprie del Servizio Sanitario Nazionale, di cui costituiscono articolazioni anche le aziende sanitarie locali, alimentate in massima parte con finanziamenti che, dallo Stato, vengono trasferiti in parte qua alle singole Regioni stesse; alla pluralità dei soggetti operanti in campo sanitario (Regioni e Aziende) corrispondono la comunanza delle finalità, la convergenza delle attività e una commistione delle risorse finanziarie che consentono di individuare - sul piano sostanziale - un'unica "parte pubblica", pur variamente articolata sul piano delle strutture e delle soggettività giuridiche, che è chiamata a rapportarsi con chi sia stato danneggiato da emotrasfusioni, provvedendo all'erogazione dell'indennizzo e all'eventuale risarcimento del danno;

non appare quindi possibile individuare alcuna "estraneità", sul piano funzionale, dell'Azienda sanitaria locale tenuta a risarcire il danno rispetto alle Regioni deputate al pagamento dell'indennizzo;

non sussiste pertanto quella situazione di alterità fra soggetto danneggiante e soggetto erogante la provvidenza che, nell'ottica delle pronunce delle Sezioni Unite del 2018, giustifica la necessità di un meccanismo di surroga o rivalsa volto a neutralizzare un indebito vantaggio in favore del terzo responsabile;

non rileva, dunque, la circostanza che la L. n. 210 del 1992 non preveda un meccanismo che consenta a chi eroga l'indennizzo di rivalersi sul danneggiante, giacchè un siffatto meccanismo non ha ragion d'essere quando il soggetto danneggiante condivida finalità, attività e risorse finanziarie con il soggetto che eroga la provvidenza;

può pertanto concludersi che, risultando sussistente il requisito del collegamento funzionale

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tra la causa dell'attribuzione patrimoniale ex L. n. 210 del 1992 e l'obbligazione risarcitoria e non prospettandosi la possibilità di un indebito vantaggio per il danneggiante, la compensatio trova giustificazione nell'esigenza di impedire un ingiustificato arricchimento per il danneggiato;

in definitiva, va affermato il principio che, anche nel caso in cui il danno conseguente a emotrasfusioni o alla somministrazione di emoderivati sia imputabile ad un'azienda sanitaria locale, deve trovare applicazione la compensatio lucri cum damno, mediante diffalco dell'indennizzo erogato ex L. n. 210 del 1992 dall'importo da liquidare a titolo di risarcimento del danno;

alla luce di quanto precede deve, quindi, estendersi il principio affermato dalle Sezioni Unite nelle citate decisioni anche al caso di specie, che coinvolge rispettivamente Azienda Sanitaria Locale e Regione Umbria, da una parte, e Ministero della Salute, dall'altra;

con il ricorso incidentale la Gestione liquidatoria della disciolta ULSS n. (OMISSIS) lamenta la violazione del principio dell'onere probatorio rispetto alla responsabilità dell'ente nella determinazione dell'evento dannoso, con riferimento agli artt. 2697,2049 e 2059 c.c., riguardo i vizi previsti all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. In particolare, la Corte d'Appello non avrebbe tenuto conto dell'attività istruttoria espletata e soprattutto del contenuto della consulenza tecnica la quale, con riferimento al terzo quesito, che riguardava la verifica dell'espletamento dei controlli sul sangue destinato al paziente in considerazione della normativa vigente all'epoca, aveva rilevato che al tempo della donazione, anno 1990, sussisteva l'obbligo della determinazione dei donatori degli anticorpi anti-HCV, come criterio diagnostico di infezione da virus epatico C. Ma nonostante tali test vi era un periodo di una o due settimane dopo il contagio in cui, sebbene fosse presente il virus, tali anticorpi non erano ancora determinabili per cui il test risultava falsato. Il consulente concludeva che le trasfusioni erano state eseguite nel rispetto della normativa all'epoca vigente ed il contagio si spiegava proprio nel fatto che la donazione in oggetto era verosimilmente avvenuta nel "periodo finestra" di cui sopra. Tali elementi avrebbero dovuto escludere la responsabilità della azienda sanitaria;

il ricorso incidentale è assorbito per carenza di interesse, in considerazione dell'infondatezza di quello principale;

con ricorso incidentale condizionato la Regione Umbria deduce la violazione l'art. 112 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4 in quanto, in sede di appello, le amministrazioni resistenti avevano rilevato la mancata prova del nesso di causalità tra le trasfusioni e il danno lamentato

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da B.G.. La Corte territoriale, pur dando atto di tali censure, non si sarebbe espressa sui motivi di impugnazione;

con il secondo motivo deduce l'omesso esame di un fatto decisivo del giudizio ai sensi dell'art.

360 c.p.c., n. 5 formulando argomentazioni analoghe a quelle oggetto del ricorso incidentale della Gestione liquidatoria;

trattandosi di ricorso incidentale condizionato lo stesso resta assorbito per l'ipotesi di inammissibilità o rigetto di quello principale;

ne consegue che il ricorso principale deve essere rigettato e quelli incidentali dichiarati assorbiti; le spese del presente giudizio di cassazione, in considerazione dell'esito della lite e della novità della questione relativa alla operatività della compensatio lucri con damno, possono essere compensate integralmente tra le parti;

va dato atto - mancando ogni discrezionalità al riguardo (tra le prime: Cass. 14/03/2014, n.

5955; tra molte altre: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) - della sussistenza dei presupposti per l'applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione e per il caso di reiezione integrale, in rito o nel merito.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale e dichiara assorbiti quelli incidentali. Compensa integralmente tra le parti le spese processuali.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Sezione Terza Corte Suprema di Cassazione, il 5 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2019

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2) CONSENSO INFORMATO DEL PAZIENTE E CASI DI URGENZA Cassazione civile sez. III, 15/04/2019, n.10423

Massima

Il diritto al consenso informato del paziente, in quanto diritto irretrattabile della persona, va comunque e sempre rispettato dal sanitario, a meno che non ricorrano casi di urgenza, rinvenuti a seguito di un intervento concordato e programmato, per il quale sia stato richiesto ed ottenuto il consenso, e tali da porre in gravissimo pericolo la vita della persona - bene che riceve e si correda di una tutela primaria nella scala dei valori giuridici a fondamento dell'ordine giuridico e del vivere civile -, o si tratti di trattamento sanitario obbligatorio. Tale consenso è talmente inderogabile che non assume alcuna rilevanza, al fine di escluderlo, il fatto che l'intervento "absque pactis" sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per la semplice ragione che, a causa del totale "deficit" di informazione, il paziente non è stato messo in condizione di assentire al trattamento, consumandosi nei suoi confronti, comunque, una lesione di quella dignità che connota l'esistenza nei momenti cruciali della sofferenza fisica e/o psichica.

Sentenza Fatto

FATTI DI CAUSA

1. C.I. ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 271/16, del 17 gennaio 2016, della Corte di Appello di Cagliari, che - in accoglimento del gravame esperito dall'Azienda Ospedaliera (OMISSIS) e da G.S. avverso la sentenza n. 943/13, del 13 marzo 2013, del Tribunale di Cagliari ha rigettato la domanda risarcitoria, da responsabilità sanitaria, proposta, avverso i predetti soggetti, dall'odierna ricorrente.

2. Riferisce, in punto di fatto, la C. di avere adito il Tribunale cagliaritano per conseguire il risarcimento dei danni subiti in conseguenza di un intervento di splenectomia totale, eseguito da equipe medica diretta dal Dott. G. il 13 giugno (OMISSIS), dopo che le era stata prospettata - anche all'esito di esame ecografico, eseguito il precedente 27 maggio - la necessità solo dell'asportazione di una cisti splenica, non ricevendo, così, la paziente alcuna preventiva informazione in merito all'operazione effettivamente eseguita.

Deduce, inoltre, la C. di aver accusato, all'esito dell'operazione, fortissimi dolori toracici e

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dispnea, essendo sottoposta a due toracentesi, il 16 ed il 20 giugno (OMISSIS), senza però ricevere, nuovamente, alcuna informativa sulla natura e sulla causa delle predette complicanze e sulla terapia praticata. Dimessa dall'ospedale (OMISSIS) il 22 giugno, dopo essersi rifiutata di sottoporsi ad un nuovo intervento di toracentesi, la C., lamentando ulteriori dolori addominali, si recava, il giorno successivo, presso l'ospedale (OMISSIS), dove - previa diagnosi di un versamento pleurico, sia in sede sottodiaframmatica sinistra, che nella loggia splenica veniva dimessa il giorno 29 giugno. Ricoverata nuovamente, in data 2 luglio (OMISSIS), presso l'ospedale (OMISSIS) (ove le era stato consigliato di sottoporsi ad un controllo urgente, nel reparto in cui era stata operata), la C. veniva sottoposta, tre giorni dopo, ad una tomografia computerizzata all'addome, nonchè, il successivo 7 luglio, ad un drenaggio TC guidato, per essere, infine, dimessa il 13 luglio.

Lamentando il persistere di dolori toracici ed addominali, nonchè gonfiore, dispnea e stato ansioso-depressivo, oltre a una lesione del nervo frenico (comportante la presenza di singhiozzo incoercibile dopo i pasti) in conseguenza dell'intervento di splenectomia, l'odierna ricorrente si rivolgeva, come detto, al Tribunale di Cagliari, per chiedere il risarcimento dei danni all'Azienda Ospedaliera (OMISSIS) (che otteneva di essere autorizzata a chiamare in causa il proprio assicuratore, i Lloyd's di Londra) e al Dott. G..

Soddisfatta parzialmente dal primo giudice la pretesa attorea, in accoglimento del gravame principale del (OMISSIS) e del G. (respinto, invece, quello incidentale di essa C.), il giudice di seconde cure rigettava, invece, la proposta domanda di risarcimento danni.

3. Avverso la sentenza della Corte sarda ha proposto ricorso per cassazione la C., sulla base - come detto - di tre motivi.

3.1. Il primo motivo deduce - ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) - violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 2,13 e 32 Cost., nonchè alla L. 23 dicembre 1978, n.

833, art. 33.

Si censura la sentenza impugnata per avere rigettato la domanda di risarcimento del danno da lesione del diritto del paziente all'informazione. Si assume, infatti, per un verso, la sua erroneità, per aver circoscritto la portata dell'obbligo informativo alle sole alternative rispetto all'intervento chirurgico praticato, non avendo, invece, considerato anche le informazioni che il medico (e la struttura) avrebbero dovuto fornire, in primo luogo, sul diverso intervento chirurgico eseguito e sulle sue possibili complicanze, poi, peraltro, verificatesi. Per altro verso, errata sarebbe la decisione del giudice di appello per aver ritenuto "emendata" l'omessa

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informativa in ragione del fatto che la splenectomia costituiva, nella specie, la tecnica operatoria da preferirsi, date le condizioni della paziente.

3.2. Il secondo motivo ipotizza - ai sensi, congiuntamente, dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn.

3) e 5), - violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2727 e 2729 c.c., oltre che degli artt.

112,115 e 116 c.p.c., nonchè omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio.

Ci si duole dell'omesso esame delle risultanze processuali e della mancata corretta applicazione dei principi in materia di prova del danno. In particolare, si assume che, in assenza di tali vizi, il giudice di appello avrebbe sicuramente individuato la causa delle conseguenze dannose lamentate da essa ricorrente, non in una fantomatica rimozione del drenaggio da parte della paziente stessa (addebitata, ipoteticamente, ad un movimento involontario), bensì nella mancata evacuazione dell'essudato siero-ematico, formatosi nella loggia splenica dopo l'intervento, da ascrivere, pertanto, alla condotta dei sanitari. E ciò per avere essi mancato di verificare la presenza del versamento pleurico in sede sottodiaframmatica, nonchè di monitorarne l'andamento, e per avere, infine, tardato a mettere in pratica il drenaggio TAC guidato.

Si lamenta, infine, che la Corte cagliaritana avrebbe omesso di motivare il mancato accoglimento della domanda di risarcimento del danno conseguente all'insorgenza di una sindrome ansioso-depressiva.

3.3. Infine, con il terzo motivo si deduce - ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) - nullità della sentenza o del procedimento, per avere la Corte di appello omesso di pronunciare sull'eccezione di nullità della CTU.

Siffatta eccezione, in particolare, era tesa a dimostrare come l'ausiliario avesse fondato le proprie conclusioni su mere allegazioni difensive delle parti, prive di riscontro probatorio o comunque oggettivo, nonchè sconfessate dalla documentazione ritualmente prodotta in causa.

4. L'Azienda Ospedaliera (OMISSIS) e G.S. hanno resistito, con controricorso, all'avversaria impugnazione, che hanno chiesto dichiararsi inammissibile (per violazione del principio di autosufficienza) o infondata.

Essi, inoltre, hanno proposto ricorso incidentale, sulla base di un unico motivo.

In particolare, è dedotta - ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) - "omessa e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio".

Si contesta l'affermazione della Corte cagliaritana secondo cui nè essa Azienda ospedaliera, nè il Dott. G., avrebbero dimostrato di aver acquisito consenso informato dalla C. proprio in

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ordine all'intervento di splenectomia. La censura è fondata sul rilievo che sulla richiesta di ammissione di prova per testi, relativa proprio alla circostanza suddetta, non è intervenuta alcuna decisione, nè in primo grado, nè in appello.

5. Anche i Lloyd's hanno resistito, con controricorso, all'avversaria impugnazione, della quale hanno chiesto la declaratoria di inammissibilità - del primo motivo, ai sensi dell'art. 360 bis c.p.c., comma 1, n. 1), del secondo, per mescolanza di censure eterogenee, ed infine del terzo per difetto di autosufficienza - o di infondatezza.

Essi, inoltre, hanno proposto ricorso incidentale sulla base di due motivi.

5.1. Il primo motivo, in particolare, ipotizza - ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) - nullità della sentenza e del procedimento per mancata corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, ovvero per violazione dell'art. 112 c.p.c..

Deducono i ricorrenti incidentali di aver formulato tre eccezioni di inammissibilità dell'appello, che lamentano essere rimaste senza risposta, la cui decisione avrebbe comportato l'impossibilità di una revisione della sentenza in favore della C. e, con essa, l'inammissibilità del ricorso dalla stessa proposta per preclusione di giudicato.

Assumo, infatti, di aver dedotto violazione dell'art. 342 c.p.c., per assenza di specificità dei motivi di gravame, ed inoltre violazione dell'art. 345 c.p.c., per avere la difesa dell'appellato valorizzato rilievi e aspetti non proposti in primo grado, nonchè, infine, inammissibilità dell'appello ex artt. 348 bis e 348 ter c.p.c..

5.2. Quanto al secondo motivo del ricorso incidentale dei Lloyd's, esso è identico all'unico motivo del ricorso incidentale dell'Azienda Ospedaliera (OMISSIS) e del G..

6. La C. ha resistito, con controricorso, ad entrambi i ricorsi incidentali testè illustrati, chiedendone il rigetto in quanto non fondati.

7. Tutte le parti hanno presentato memorie, ex art. 378 c.p.c., insistendo nelle rispettive argomentazioni e replicando a quelle avversarie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

8. Deve essere esaminato, con carattere di pregiudizialità, il ricorso incidentale proposto dai Lloyd's di Londra.

8.1. Ha affermato, infatti, di recente questa Corte che "alla stregua del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, il cui fine primario è la realizzazione del diritto delle parti ad ottenere risposta nel merito, il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente

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vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni pregiudiziali di rito, ivi comprese quelle attinenti alla giurisdizione, o preliminari di merito, ha natura di ricorso condizionato, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte, e deve essere esaminato con priorità solo se le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, rilevabili d'ufficio, non siano state oggetto di decisione esplicita o implicita da parte del giudice di merito". (Cass. Sez. 3, ord. 14 marzo 2018, n. 6138, Rv. 648420-01).

Tale è, appunto, il caso delle censure - oggetto, in particolare, del primo motivo del ricorso incidentale qui in esame - di violazione degli artt. 342,345,348 bis e 348 ter c.p.c., che i controricorrenti Lloyd's imputano alla Corte meneghina. Il loro accoglimento, in ipotesi, comportando la declaratoria di inammissibilità dell'appello esperito dall'odierna ricorrente C.I.

(e con essa, dunque, il riconoscimento dell'avvenuto passaggio in giudicato della sentenza resa dal Tribunale di Cagliari), segnerebbe la sorte anche del ricorso principale.

8.2, Il motivo, tuttavia, è inammissibile, in ciascuna delle (tre) censure in cui si articola.

8.2.1. Per le prime due, in particolare, l'inammissibilità va affermata a norma dell'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).

I ricorrenti incidentali, per vero, al fine di consentire a questa Corte di verificare se i motivi di gravame, proposti "temporibus illis" dalla C. avverso la decisione del giudice di prime cure, non fossero nè generici nè nuovi (come oggi si denuncia), avrebbero dovuto procedere alla loro trascrizione.

Non osta, del resto, a tale conclusione la constatazione che le due censure si sostanziano nella deduzione di "errores in procedendo" (rispetto al quale la Corte è anche giudice del "fatto processuale", con possibilità di accesso diretto agli atti del giudizio; da ultimo, Cass. Sez. 6 - 5, ord. 12 marzo 2018, n. 5971, Rv. 647366-01; ma nello stesso senso già Cass. Sez. Un., sent.

22 maggio 2012, n. 8077, Rv. 622361-01). Ancora di recente, infatti, è stato affermato da questa Corte che la "deduzione con il ricorso per cassazione "errores in procedendo", in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all'esame degli atti processuali del fascicolo di merito, non esclude che preliminare ad ogni altro esame sia quello concernente l'ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando ne sia stata positivamente accertata l'ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell'ambito di quest'ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all'esame ed all'interpretazione degli atti processuali" (così, da ultimo, Cass. Sez.

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26 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6014, Rv. 648411-01).

Si tratta, peraltro, di un'esigenza, questa dell'autosufficienza del ricorso anche in relazione alla deduzione di vizi processuali, che - come è stato icasticamente osservato - "non è giustificata da finalità sanzionatorie nei confronti della parte che costringa il giudice a tale ulteriore attività d'esame degli atti processuali, oltre quella devolutagli dalla legge", ma che "risulta, piuttosto, ispirata al principio secondo cui la responsabilità della redazione dell'atto introduttivo del giudizio fa carico esclusivamente al ricorrente ed il difetto di ottemperanza alla stessa non deve essere supplito dal giudice per evitare il rischio di un soggettivismo interpretativo da parte dello stesso nell'individuazione di quali atti o parti di essi siano rilevanti in relazione alla formulazione della censura" (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 10 gennaio 2012, n. 82, Rv. 621100-01).

8.2.2. Analogamente inammissibile è pure la terza censura in cui si articola il presente motivo, ovvero quella che deduce la violazione degli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c..

Difatti, qualora "il giudice d'appello", richiesto di pronunciare ordinanza di inammissibilità del gravame per assenza di ragionevole probabilità di accoglimento ex art. 348 bis c.p.c.,

"abbia proceduto alla decisione dell'impugnazione, ritenendo di non ravvisare un'ipotesi riconducibile alla norma ora richiamata e, dunque, di non pronunciare la predetta ordinanza, la decisione di ammissibilità non è più sindacabile. In altri termini, la ritenuta "non inammissibilità", che dunque abbia comportato la regolare trattazione nel merito dell'appello, non è ulteriormente censurabile, neppure innanzi allo stesso giudice dell'appello: onde, qualora riproposta quale eccezione dalla controparte, essa sarebbe di per sè inammissibile;

parimenti, ove sottoposta al giudice di legittimità nel ricorso per cassazione, il motivo si palesa inammissibile" (così, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 21 marzo 2016, n. 5510, non massimata).

Nella specie, poi, ciò che forma oggetto di doglianza è, addirittura, un'omessa pronuncia della Corte cagliaritana sull'eccezione di inammissibilità del gravame della C. (formulata, in appello, sulla base delle norme summenzionate), sicchè deve anche ribadirsi che il "vizio di omissione di pronuncia non è configurabile su questioni processuali" (da ultimo, Cass. Sez. 2, ord. 25 gennaio 2018, n. 1876, Rv. 647132- 01; nello stesso senso, tra le altre, anche Cass.

Sez. 3, sent. 23 gennaio 2009, n. 1701, Rv. 606407-01).

9. Passando all'esame del ricorso principale, lo stesso risulta fondato, sebbene nei limiti di seguito precisati.

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9.1. Il primo motivo di tale ricorso è da esaminare congiuntamente al secondo del ricorso incidentale del Lloyd's, nonchè all'unico, di identico contenuto, del ricorso incidentale dell'Azienda ospedaliera e del G..

Al riguardo, va evidenziato come la sentenza impugnata muova in punto di fatto - dal presupposto che i sanitari non acquisirono, dalla C., il consenso informato all'intervento chirurgico al quale la stessa venne sottoposta, ritenendo, tuttavia, che alla donna non spetti il risarcimento del danno da lesione del diritto all'informazione.

A tale conclusione la Corte territoriale è pervenuta sul duplice rilievo, da un lato, dell'assenza di prova che la paziente, "se adeguatamente informata avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento", nonchè, dall'altro, del carattere "necessitato" dello stesso, ritenuto "l'unico (...) prudenzialmente eseguibile, senza che si potesse ipotizzare la possibilità di sospensione dell'intervento, per poi informare il paziente della necessità di procedere alla splenectomia".

La ricorrente principale contesta entrambi tali affermazioni, mentre i ricorrenti principali, per parte propria, censurano la sentenza impugnata in quanto essa (al pari della decisione del primo giudice) avrebbe immotivatamente rifiutato di dare corso alla prova testimoniale volta a dimostrare l'avvenuta acquisizione del consenso informato della C. anche all'(eseguito) intervento di splenectomia integrale.

9.1.1. Orbene, la censura dei ricorrenti incidentali è inammissibile, ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).

9.1.1.1. Difatti, perchè la disposizione appena menzionata possa dirsi rispettata, occorre - in caso di censura contenuta nel ricorso per Cassazione, relativa alla mancata ammissione della prova testimoniale - che "il ricorrente, oltre a trascrivere i capitoli di prova e ad indicare i testi e le ragioni per le quali essi sono qualificati a testimoniare", trattandosi di "elementi necessari a valutare la decisività del mezzo istruttorio richiesto" (adempimento che è stato soddisfatto, peraltro dai soli Lloyd's, esclusivamente con riferimento alla riproduzione dei capitoli di prova; cfr. nota a pag. 23 del controricorso), "alleghi e indichi la prova della tempestività e ritualità della relativa istanza di ammissione e la fase di merito a cui si riferisce", e ciò "al fine di consentire "ex actis" alla Cassazione di verificare la veridicità dell'asserzione" (così, in motivazione, Cass. Sez. 2, sent. 23 aprile 2010, n. 9748, Rv. 612575 - 01; in senso conforme, più di recente, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 4 aprile 2018, n. 8204, Rv. 647571-01).

9.1.2. Il primo motivo del ricorso principale è, invece, fondato.

9.2.1.1. Le due circostanze valorizzate dalla sentenza impugnata per rigettare la domanda

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risarcitoria della C. - ovvero, l'assenza di prova che la paziente, in presenza di tempestiva e idonea informazione, si sarebbe egualmente sottoposta all'intervento, nonchè il carattere

"necessitato" dell'intervento eseguito - non assumono rilevanza, almeno in termini assoluti, ai fini dell'esclusione della responsabilità del medico (e della struttura sanitaria).

L'allora attrice, ed odierna ricorrente, ha, infatti, proposto azione risarcitoria per ottenere il ristoro, oltre che del danno alla salute derivato (in ipotesi) alla mancata informazione, anche di quello scaturito dalla lesione del diritto all'autodeterminazione terapeutica in sè considerato, rispetto al quale il carattere necessitato dell'intervento e la sua corretta esecuzione restano circostanze prive di rilievo.

Difatti, "in tema di attività medico-chirurgica, è risarcibile il danno cagionato dalla mancata acquisizione del consenso informato del paziente in ordine all'esecuzione di un intervento chirurgico, ancorchè esso apparisse, "ex ante", necessitato sul piano terapeutico e sia pure risultato, "ex post", integralmente risolutivo della patologia lamentata, integrando comunque tale omissione dell'informazione una privazione della libertà di autodeterminazione del paziente circa la sua persona, in quanto preclusiva della possibilità di esercitare tutte le opzioni relative all'espletamento dell'atto medico e di beneficiare della conseguente diminuzione della sofferenza psichica, senza che detti pregiudizi vengano in alcun modo compensati dall'esito favorevole dell'intervento" (Cass. Sez. 3, sent. 12 giugno 2015, n. 12205, Rv. 635626-01; più di recente anche Cass. Sez, 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16503, Rv. 644956-01 e Cass. Sez. 3, ord. 15 maggio 2018, n. 11749, Rv. 648644-01).

Da ultimo, questa Corte ha pure affermato che il danno da lesione del diritto all'informazione può essere costituito, "eventualmente, dalla diminuzione che lo stato del paziente subisce a livello fisico per effetto dell'attività demolitoria, che abbia eliminato, sebbene ai fini terapeutici, parti del corpo o la funzionalità di esse: poichè tale diminuzione si sarebbe potuta verificare solo se assentita sulla base dell'informazione dovuta e si è verificata in mancanza di essa, si tratta di conseguenza oggettivamente dannosa, che si deve apprezzare come danno- conseguenza indipendentemente dalla sua utilità rispetto al bene della salute del paziente, che è bene diverso dal diritto di autodeterminarsi rispetto alla propria persona" (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 15 maggio 2018, n. 11749, Rv. 648644-01).

9.2.1.2. E' questa, peraltro, un'affermazione che costituisce l'esito di una lunga elaborazione giurisprudenziale, avendo questa Corte, da tempo, affermato - proprio con specifico riguardo all'attività chirurgica - che il consenso informato del paziente si pone come condizione

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