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CAPITOLO 1 ASPETTI CONCETTUALI

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Academic year: 2021

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CAPITOLO 1

ASPETTI CONCETTUALI

1.1 LA DISTRIBUZIONE DEL REDDITO

Il modo in cui il prodotto netto di un’economia viene ripartito tra gli agenti economici costituisce il campo d’indagine della teoria della distribuzione. Poiché il problema viene affrontato con ottiche diverse da diverse teorie, non è possibile darne una definizione generale valida per tutti i punti di vista.

Non esiste quindi alcuna teoria unificata ed esaustiva della distribuzione del reddito. Questo campo d’indagine è infatti quello in cui più marcata è la contrapposizione tra teorie alternative. La ragione è semplice: l’individuazione delle forze e delle circostanze che concorrono a determinare la distribuzione del reddito costituisce il punto essenziale di ogni teoria economica generale e su questo specifico problema si concentrano le principali ragioni di contrapposizione di una scuola di pensiero e l’altra (Screpanti 1990).

Facendo uno sforzo di sintesi, tuttavia, si possono raggruppare e assimilare varie teorie: un primo gruppo che si occupa della distribuzione funzionale o primaria, e un secondo che si occupa della distribuzione personale o secondaria.

In primo luogo è necessario descrivere le caratteristiche principali dei due tipi di distribuzione per poi passare a mostrarne le differenze.

La distribuzione primaria ( o dei fattori o funzionale) riguarda la ripartizione del prodotto tra i fattori produttivi che contribuiscono alla sua realizzazione . Gli individui vengono considerati in quanto fornitori di specifici fattori produttivi, ad esempio il lavoro o il capitale; le componenti della distribuzione primaria sono pertanto i redditi da lavoro dipendente, i profitti, le rendite e gli interessi.

Fino ad anni recenti, la teoria economica si è occupata principalmente dell’analisi della distribuzione funzionale perché il modello di produzione, fondato sulla grande impresa industriale, portava ad associare ad ogni classe sociale uno specifico fattore produttivo (i salari ai dipendenti, la rendita ai proprietari terrieri, i profitti agli imprenditori). Nel tempo la struttura sociale delle economie industriali si è modificata complicandosi e arricchendosi di figure nuove che rendono la divisione tra capitalisti, lavoratori e

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proprietari terrieri non più rappresentativa della effettiva struttura di una società moderna.

L’attenzione è stata spostata sulla domanda e l’offerta dei beni nell’ottica del principio della scarsità e della massimizzazione di obiettivi (il massimo dell’utilità o del profitto)in presenza di vincoli nella disponibilità delle risorse (dotazioni iniziali di beni e fattori produttivi).

Applicando tali principi alla distribuzione primaria si mette in luce la scarsità dei fattori lavoro e capitale come aspetto fondamentale nella determinazione del loro prezzo (tasso di salario e di profitto).

La distribuzione secondaria (o personale) riguarda invece la ripartizione dei redditi tra le persone che fanno parte di una società. Il centro dell’attenzione non è costituito dai fattori della produzione ma dagli individui o dalla famiglia.

La distribuzione personale dei redditi è stata per molto tempo considerata come un processo stocastico di cui debbono essere determinate le leggi statistiche che lo governano, avendo come obiettivi principali la formulazione di leggi generali per descrivere la “forma” della distribuzione e, sulla base di queste leggi, la misura del relativo grado di disuguaglianza analizzata. Sono stati quindi privilegiati gli aspetti statistici rispetto a quelli economici. In particolare Pareto (1896), aveva individuato una relazione tra redditi individuali e numero di percettori, a partire da un valore del reddito minimo, così significativa da potersi ritenere una vera e propria legge.

Questa impostazione statistico-descrittiva ha portato ad una separazione tra lo sviluppo di una teoria della distribuzione personale del reddito ed il “corpus” delle teorie della distribuzione funzionale. Nel corso del tempo, tuttavia, la distribuzione personale dei redditi è venuta acquistando sempre più importanza per l’analisi economica non solo con riferimento ai concetti di equità e benessere ma anche in relazione allo studio dei comportamenti individuali e collettivi (riguardanti il consumo, l’accumulazione in capitale fisico ed umano), alle caratteristiche dell’organizzazione produttiva e del mercato del lavoro.

Vi sono molte ragioni per cui distribuzione funzionale e personale non coincidono, ma prima di elencarle è necessario approfondire lo studio della distribuzione primaria che, malgrado sia insufficiente per comprendere la distribuzione del benessere in una società, conserva ancora un ruolo fondamentale nel determinarla. Il nostro sistema economico è infatti oggi, come due secoli fa, una economia di mercato in cui il reddito nazionale viene prodotto utilizzando fattori produttivi.

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Sono quattro gli approcci allo studio della disuguaglianza primaria che verranno illustrati qui di seguito: la teoria classica, quella marxiana, l’approccio marginalista e infine la scuola keynesiana. Tutti si pongono, in estrema sintesi, l’obiettivo di studiare come il prodotto nazionale si ripartisce tra profitti, rendite e salari.

La distribuzione del reddito secondo la teoria classica

La teoria classica ha segnato la nascita dell’economia come scienza sociale, con i contributi di economisti come Smith, Malthus e Ricardo.

Ricardo (1772-1823) ha messo il problema della distribuzione del reddito tra le classi sociali al centro della riflessione teorica dell’economia politica.

Secondo Ricardo, il prodotto totale dell’economia si suddivide tra tre tipi di reddito: i salari, che remunerano i lavoratori, i profitti, che vanno ai capitalisti, e le rendite dei proprietari terrieri. I salari nel lungo periodo non possono discostarsi dal livello di sussistenza, cioè da quel livello che permette la semplice riproduzione della forza lavoro. Secondo il meccanismo proposto per primo da Malthus, un aumento del livello dei salari, infatti, provoca, assieme al miglioramento delle condizioni di vita, un incremento del tasso di natalità, con conseguente aumento dell’offerta di lavoro. Ciò spinge in basso il salario, che torna così al livello di sussistenza. Il salario viene quindi fissato esogenamente. Resta da determinare come si possono distinguere le quote dei profitti e delle rendite.

Ricardo assegna all’agricoltura un ruolo analitico fondamentale, per ben due ragioni: nell’agricoltura lo stesso bene può essere pensato sia come input che come output (ad esempio il grano), quindi le quote che vanno ai diversi fattori della produzione possono essere calcolati in termini fisici; inoltre, i prodotti agricoli, in quanto generi alimentari, sono fondamentali per determinare il livello di sussistenza dei salari.

Per risolvere il problema della separazione tra rendite dei proprietari terrieri e profitti dei capitalisti, l’idea di fondo è che i terreni possiedono capacità produttive diverse, e che i proprietari sono disposti a mettere a produzione tutti i terreni che garantiscono loro una rendita positiva, a partire da quelli più fertili, fino ad arrivare al terreno con minor produttività rispetto agli altri, che presenta una rendita marginale nulla.

Se, infatti, la rendita su quest’ultimo terreno fosse positiva, ai proprietari terrieri converrebbe mettere a coltura altre terre ancor meno produttive, fino ad arrivare di nuovo al terreno con rendita nulla. Tutte le terre con rendita maggiore o uguale a zero

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vengono quindi inserite nel ciclo produttivo. Il problema dell’assorbimento della produzione non sussiste perché vale la legge di Say3.

E’ sul terreno meno fertile messo in produzione che si può isolare il valore del profitto poiché per definizione la rendita su di esso è uguale a zero.

Visto che sull’ultima unità di lavoro (impiegata nel terreno meno produttivo) non c’è rendita, tutta la differenza tra profitto marginale del lavoro e salario, in corrispondenza dell’ultimo lavoratore impiegato, è il profitto marginale. Per l’ipotesi di perfetta concorrenza tra imprenditori, lo stesso profitto marginare si deve ricavare anche su tutte le altre unità di lavoro.

Questo ragioname nto non vale solo per le attività agricole, ma per il sistema economico nel suo complesso, nell’ipotesi che il meccanismo concorrenziale produca saggi di profitto uniformi in tutta l’economia. In altre parole, il saggio di profitto prevalente è dato dalla differenza tra la produttività marginale del lavoratore meno produttivo ed il suo salario. Mentre la rendita è sempre decrescente passando sai terreni più fertili a quelli più aridi, il profitto marginale è costante.

Nel lungo periodo, la concorrenza tra capitalisti provocherà, secondo Ricardo, la messa in produzione di terre sempre meno fertili ed un incremento della rendita. In assenza di miglioramenti tecnologici, l’economia tenderebbe così verso uno stato stazionario con profitti sempre più bassi, e salari vincolati al livello di sussistenza.

Si sono così ottenuti semplici risultati: il salario pro-capite è fissato al livello di sussistenza, ed il profitto, costante in tutti i settori dell’economia, dipende dalla differenza tra la produttività del lavoratore impiegato sul terreno meno fertile ed il salario.

La distribuzione del reddito secondo la teoria marxista

L’opera di K. Marx (1813-1883) rappresenta una sorta di continuazione dell’approccio analitico tipico della scuola classica. Di essa, infatti, accetta pienamente almeno tre concetti: la teoria del valore- lavoro, il carattere esogeno del livello dei salari e l’ipotesi della caduta tendenziale del saggio di profitto.

Marx ritiene che la società sia composta da classi, ma non accetta la tripartizione tra lavoratori, capitalisti e proprietari terrieri. Esiste solo una semplice bipartizione, fondata

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La legge di Say afferma che l’offerta crea la domanda; a livello aggregato tutta la produzione trova quindi una corrispondente domanda.

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sul possesso dei mezzi di produzione: da una parte i proprietari dei mezzi di produzione, i capitalisti, e dall’altra i lavoratori, che non li possiedono.

Per capire quali regole stiano alla base del processo di distribuzione del reddito tra le due classi è necessario partire dalla teoria del valore, che Marx riprende da Ricardo. Marx considera il lavoro come il solo fattore di produzione, e quindi il valore di un bene è pari alla quantità di lavoro che si deve impiegare nella produzione. Solo i lavoratori possono, con il loro lavoro, creare valore, ma i capitalisti, che possiedono i mezzi di produzione, obbligano i lavoratori a produrre beni caratterizzati da un valore superiore a quanto richiesto per il semplice mantenimento della forza- lavoro. La differenza tra il valore dei beni prodotti e il salario del lavoratore costituisce il plusvalore, interamente di proprietà del capitalista. L’esistenza del plusva lore è in effetti l’unica ragione che spinge il capitalista ad assumere manodopera. Si viene così a determinare una situazione di sfruttamento di una classe nei confronti dell’altra. La classe dei salariati, non possedendo dei mezzi di produzione, non ha la possibilità di sfuggire a tale sfruttamento, messo in atto dalla classe dei capitalisti, se vuole sopravvivere.

Il meccanismo concorrenziale, inoltre, costringe i capitalisti ad investire in macchinari sempre più produttivi, con lo scopo di aumentare il plusvalore. Riescono infatti a sopravvivere solo quei capitalisti che, diventando più produttivi degli altri, possono vendere beni a prezzi sempre più bassi (perché prodotti con minore uso di lavoro); la continua accumulazione del capitale investito in macchinari sempre più produttivi provoca l’espulsione dalle fabbriche di una numero crescente di lavoratori.

L’esistenza di questa massa di disoccupati spiega perché il salario si mantenga al semplice livello di sussistenza, senza possibilità di aumento in termini reali nel lungo periodo.

La motivazione che Marx fornisce del perdurare dei salari al livello di sussistenza è completamente diversa da quella fornita dai classici, basata sul meccanismo maltusiano di crescita della popolazione in conseguenza di ogni miglioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici.

Per quanto riguarda il saggio di profitto, anche per Marx, come per Ricardo, esso tende a decrescere nel lungo periodo, anche se per una ragione diversa.

Il punto debole principale di questa argomentazione sta nell’ipotesi di costanza del saggio di sfruttamento, da Marx non spiegata. Se essa viene meno, non è detto che il saggio di profitto debba per forza diminuire.

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La distribuzione del reddito secondo la teoria marginalista

L’approccio dominante nello studio della distribuzione primaria del reddito è conosciuto con il nome di teoria marginalista (o neoclassica) della distribuzione: essa studia come vengono determinate le remunerazioni dei vari fattori utilizzati nel processo produttivo. Questa teoria è stata elaborata da numerosi economisti, tra i quali dobbiamo citare Jevons, Walras, Edgeworth e Pareto alla fine del XIX secolo, fino ad Arrow e Samuelson, ai nostri giorni.

Il marginalismo rivoluziona il concetto di valore: mentre per i classici e per Marx i beni sono dotati di un valore “oggettivo”, per i marginalista il valore di un bene è un concetto “soggettivo”, e corrisponde al grado di utilità ricevuta da chi lo consuma. Un’altra innovazione importante di questo approccio sta nell’assoluta irrilevanza della suddivisione della società in classi: si riceve un reddito solo a seguito della fornitura di un fattore produttivo, non ha importanza a quale classe si appartiene.

Una delle ipotesi fondamentali del modello neoclassico prevede che tutti i mercati siano perfettamente concorrenziali, sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta. Gli agenti sono quindi dei price-takers.

L’obiettivo di ogni impresa è la massimizzazione del profitto, dati i vincoli dei costi e della tecnologia prevalente, e quello di ciascun individuo è la massimizzazione della propria utilità, dato il vincolo di bilancio.

Vediamo come si determina la remunerazione di un fattore produttivo. Per semplicità facciamo riferimento al fattore lavoro: il salario viene fissato sul mercato del lavoro, quando si raggiunge l’equilibrio tra offerta e domanda di lavoro. La domanda di lavoro è la somma delle domande di lavoro delle singole imprese, mentre l’offerta di lavoro è data dal numero degli individui che, per ogni livello di salario, sono disposti a lavorare. Consideriamo il caso di un’unica impresa che ha un certo stock di capitale e che ha già assunto un certo numero di lavoratori. Supponiamo voglia assumere un nuovo lavoratore: sarà conveniente farlo se il ricavo aggiuntivo del prodotto di questo lavoratore in più è maggiore del costo del lavoratore stesso.

In economia, infatti, per decidere se una azione è conveniente bisogna confrontare il beneficio marginale con il costo marginale dell’azione stessa; in questo caso il beneficio marginale è rappresentato dalla produttività marginale del lavoratore. Il prodotto marginale del lavoro è decrescente perché vale la legge dei rendimenti decrescenti. Fino a che il valore del prodotto marginale del lavoro è superiore al salario, all’impresa

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conviene assumere nuovi lavoratori, e continuerà a farlo fino al punto in cui il valore del prodotto marginale di una unità di lavoro è uguale al salario unitario. Questa relazione di eguaglianza rappresenta la condizione di massimo profitto; andare oltre non conviene altrimenti l’impresa dovrebbe pagare un salario superiore alla produttività dei lavoratori. Quindi, nel caso del fattore lavoro, la sua remunerazione è pari, in equilibrio, al valore della sua produttività marginale; lo stesso va le per qualsiasi altro fattore della produzione.

Non esiste dunque un “problema” distributivo dal momento che la distribuzione dei redditi viene automaticamente determinata dall’operare delle forze della domanda e dell’offerta. Ogni fattore produttivo viene remunerato dal valore del proprio prodotto marginale, e tutto l’output viene distribuito tra i fattori, in ragione delle diverse produttività marginali. Gli interessi delle diverse classi non sono dunque conflittuali, anzi non sarebbe neppure corretto parlare di classi sociali, perché per comprendere la distribuzione del reddito non è rilevante il conflitto tra classi diverse, ma solo come i diversi fattori produttivi suddividono tra gli agenti economici.

La distribuzione del reddito secondo la teoria keynesiana

Riassumere il pensiero keynesiana in poche righe è praticamente impossibile; ci limiteremo ad enunciare i punti essenziali della sua teoria.

Keynes ritiene che non esista nel sistema economico un equilibrio di pieno impiego dei fattori. Il livello di attività economica non dipende dal volume dell’offerta, ma dalla domanda aggregata, in particolare da quelle voci che sono indipendenti dal reddito disponibile, ovvero gli investimenti e la spesa pubblica in beni e servizi.

Posto che la produzione si fissa ad un livello che può essere anche molto inferiore alla piena occupazione, ci si chiede come si determina la sua ripartizione tra i fattori. I salari sono determinati esogenamente dalla contrattazione tra sindacati e imprese; il potere negoziale dei sindacati varia col ciclo economico, ma una riduzione dei salari in recessione, a differenza di quanto ritenevano i marginalista, avrebbe l’effetto di ridurre il livello di attività produttiva, a causa del calo della domanda aggregata. Una volta fissata in questo modo la quota del prodotto nazionale che va ai lavoratori, il volume dei profitti dipende dal livello della produzione totale, aumentando in espansione e riducendosi in recessione.

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Secondo Keynes, infine, la distribuzione del reddito influenza la domanda aggregata: se infatti la propensione al consumo decresce all’aumentare del reddito, una redistribuzione del reddito dai capitalisti ai lavoratori dipendenti, che hanno propensione al risparmio inferiore, provoca un aumento della domanda aggregata.

1.2 L’EVOLUZIONE STORICA DELLA DISTRIBUZIONE PRIMARIA DEL REDDITO

Per molto tempo tra gli economisti ha dominato l’ipotesi che la distribuzione del reddito nazionale tra i fattori avvenga secondo quote che rimangono costanti nel tempo. Keynes definiva questa costanza come “uno dei fattori più sorprendenti, eppure più consolidati, dall’intera statistica economica”; la funzione Cobb-Douglas venne introdotta proprio perché essa permette di incorporare nell’analisi l’ipotesi di quote costanti. In effetti, i dati riportati per esempio in Atkinson (1983) mostrano che dal 1860 al 1970 circa le quote distributive tra salari e profitti negli Stati Uniti e nel Regno Unito non si sono modificate particolarmente, oscillando attorno ad una suddivisione che vede circa 2/3 del prodotto andare ai salari, e il terzo rimanente ai profitti e alle rendite (Baldini e Toso, materiale didattico 2006). Nel breve periodo, tuttavia, è possibile notare che le quote relative non sono costanti, ma presentano fluttuazioni anche di parecchi punti in pochi anni. In Italia, ad esempio, la quota del capitale è aumentata di 5 punti tra gli anni ’70 e gli anni ’80, ed è cresciuta di altri 5 punti nei dieci anni successivi. Secondo la Relazione annuale della Banca d’Italia per il 2001, inoltre, l’ultima parte degli anni ’90 ha visto un ulteriore aumento della quota dei profitti, comune a tutte le principali economie europee, ma particolarmente evidente nel nostro paese (Baldini e Toso, 2006).

Queste oscillazioni di breve-periodo delle quote relative sono, molto probabilmente, dovute non solo ai fattori di tipo economico, ma anche a fenomeni politico-sociali; in Italia ad esempio la scala mobile degli anni ’70 ha contribuito a difendere il valore reale dei salari, mentre nei decenni successivi la moderazione salariale ha favorito l’ampliarsi dei margini di profitto delle imprese. Inoltre, alle privatizzazioni degli anni ’90 ha fatto seguito la nascita di oligopoli privati in settori protetti dalla concorrenza internazionale (energia, trasporti,…), su cui sembra si sia concentrato l’aumento del peso relativo dei profitti. E’ molto interessante osservare come nel Regno Unito e negli Stati Uniti, cioè nei due paesi in cui la disuguaglianza complessiva dei redditi è aumentata in maggior

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misura negli ultimi 30 anni, la quota dei redditi da capitale non sia cambiata significativamente, mentre essa è aumentata maggiormente in paesi come l’Italia e Francia, paesi in cui la disuguaglianza sembra essere aumentata di meno. Negli Stati Uniti la quota dei salari è rimasta elevata grazie al forte incremento del numero dei posti di lavoro, mentre nei paesi europei il numero totale degli occupati è rimasto sostanzialmente invariato o è addirittura diminuito, e questo spiegherebbe una parte della riduzione della quota del valore aggiunto percepita dal lavoro (Piketty, 2003).

1.3 DALLA DISTRIBUZIONE FUNZIONALE A QUELLA PERSONALE

Fino a questo punto si sono considerate alcune teorie che cercano di dare una spiegazione di come il reddito nazionale si ripartisce tra i vari fattori che lo hanno prodotto.

Queste spiegazioni non sono però sufficienti per comprendere come i redditi si distribuiscono tra gli individui, dal momento che la distribuzione personale differisce sostanzialmente da quella funzionale, per i seguenti motivi:

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vi sono sostanziali differenze non solo tra diversi tipi di redditi, ma anche all’interno di una stessa categoria. Tra i redditi da lavoro dipendente, ad esempio, il salario di un dirigente è superiore a quello di un operaio; gli operai specializzati a loro volta percepiscono un reddito superiore a quello degli apprendisti. L’investimento in capitale umano (istruzione) è a questo riguardo essenziale: molte indagini empiriche indicano chiaramente che all’aumentare del grado d’istruzione il reddito personale aumenta, un elemento di cui le teorie della distribuzione primaria non tengono conto;

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ogni individuo riceve tipicamente diversi tipi di reddito: un lavoratore dipendente oltre al salario può ad esempio percepire parte del profitto derivante da una società di cui è azionista, o interessi su un deposito bancario o su un titolo di stato;

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esistono molte istituzioni che si frappongono tra la distribuzione funzionale e quella personale, ad esempio le società di capitali attraverso la politica di distribuzione dei profitti, o i fondi di pensione o di investimento. La più importante di queste istituzione è lo Stato, che attraverso le sue attività di

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tassazione e spesa fa sì che la distribuzione effettiva delle risorse tra le famiglie sia molto diversa da quella originariamente prodotta dal mercato;

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la trasmissione delle risorse attraverso trasferimenti tra vivi o eredità è un importante canale di formazione di disuguaglianze che non transita per il mercato;

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alla formazione delle disuguaglianze tra individui contribuiscono anche le differenze negli ambienti familiari e sociali dal momento che è a partire da quest’ultimi che nasce la possibilità e la capacità di raggiungere determinati livelli di reddito.

La teoria economica si è occupata della distribuzione secondaria del reddito solo in epoca relativamente recente; le primissime indagini che esaminano la distribuzione personale del reddito, separatamente da quella funzionale, risalgono ai primi del secolo scorso e sono attribuibili ad una ristretta cerchia di autori tra i quali ricordiamo M. Pantaleoni, Pigou ed E.H. Dalton.

La struttura della distribuzione personale delle risorse è il frutto di una serie di processi e fenomeni socio-economici di grande varietà e complessità. Per questo motivo in letteratura si sono sviluppate numerose “teorie” che possono essere raggruppate in “tradizionali” e “strutturali”4. Le prime si basano su di una impostazione di natura essenzialmente microeconomica e riconducono le cause della disuguaglianza tra i redditi personali solo alle caratteristiche individuali (età, sesso, capacità generali, talenti particolari, livello distruzione, caratteristiche fisiche) nonché alla collocazione socio-economica (luogo di residenza, provenienza sociale, condizioni ambientali). Le seconde, e cioè le cosiddette teorie di tipo “strutturale” proposte a partire da anni più recenti, anche se piuttosto eterogenee presentano una radice comune perché considerano la distribuzione dei redditi personali disponibili come il risultato dell’influenza congiunta della struttura economica e socio-istituzionale dei diversi sistemi produttivi. Queste impostazioni finiscono con il ricondurre la distribuzione personale dei redditi non solo a variabili di natura micro ma anche macroeconomica.

Dalla distribuzione funzionale del reddito si perviene a quella personale attraverso alcuni passaggi.

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Per una rassegna delle principali teorie che possono essere ricondotte a questa distinzione si rimanda a Targetti Lenti (1984).

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Il primo è costituito dalla formazione e distribuzione del valore aggiunto ai diversi fattori di produzione. Questo primo momento riflette sia le caratteristiche di natura macroeconomica sia le scelte tecnologiche delle imprese, ovvero le variabili che determinano la ripartizione del reddito tra le quote settoriali e funzionali.

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Il secondo passaggio rappresenta il processo di dis tribuzione primaria del reddito dai fattori alle famiglie. La direzione e la grandezza dei flussi riflette la struttura proprietaria dei fattori da parte dei singoli individui che possono essere raggruppati in unità familiari di diversa composizione ed ampiezza. Alcuni di questi fattori, come ad esempio i beni capitali, sono generalmente considerati di proprietà della famiglia. La capacità di ottenere un determinato livello di reddito dipende dalle caratteristiche individuali, ma anche dalla posizione relativa di ogni soggetto all’interno di una determinata struttura sociale ed economica. Per ciascun individuo, il peso d’ogni tipo di reddito su quello complessivo dipenderà dal livello e dalla composizione delle dotazioni. La disuguaglianza risulterà quindi tanto più elevata quanto più la proprietà delle dotazioni, ed in particolare dei beni capitali, è concentrata e quanto maggiore è la dispersione delle remunerazioni dei fattori ed in particolare del lavoro. L’esclusione dal mercato e l’emarginazione sono, inoltre, fenomeni che colpiscono sistematicamente alcune componenti della forza lavoro e le singole aree territoriali, di conseguenza il livello della disuguaglianza varierà a seconda delle categorie di lavoratori e dell’area territoriale considerate.

-

Il terzo momento infine è quello in cui viene determinato il valore dei redditi disponibili. Se si tiene conto dell’azione redistributiva del settore pubblico, l’erogazione di prestazioni sociali (pensioni, indennità di disoccupazione, e così via) ed il pagamento degli interessi sul debito pubblico, si arriva a determinare, partendo da quella primaria, la distribuzione secondaria del reddito delle famiglie. Questo terzo momento riflette la struttura dei meccanismi redistributiva che legano il settore delle famiglie a quello della pubblica amministrazione. Esso riflette meccanismi distributivi che operano attraverso il sistema tributario e della sicurezza sociale.

Lo schema d’analisi introdotto evidenzia come ogni agente economico, grazie alla posizione che riveste all’interno del sistema economico ed alle interazioni con gli altri

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agenti, contribuisca a determinare la disuguaglianza che caratterizza la distribuzione del reddito individuale e familiare sia a livello primario che secondario.

L’esperienza più recente dei principali paesi industrializzati sembra mostrare come i processi di globalizzazione e di ristrutturazione industriale, l’introduzione delle nuove tecnologie informatiche abbiano prodotto effetti sul mercato del lavoro che si sono tradotti in una sensibile crescita nei livelli di disuguaglianza. Ciò conferma che esistono relazioni molto strette tra caratteristiche del sistema produttivo, effetti delle politiche economiche e distribuzione (primaria e secondaria) del reddito.

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1.4 COS’E’ LA DISUGUAGLIANZA?

La nozione di disuguaglianza ha una duplice natura: descrittiva di una condizione fattuale di diversità tra soggetti; etica, in quanto espressione di un giudizio di valore rispetto a un qualche termine di riferimento ideale, non necessariamente coincidente con l’uguaglianza perfetta.

Non è semplice fornire una definizione univoca di disuguaglianza poiché essa può differire in relazione alla variabile assunta come termine di riferimento (reddito, ricchezza, tenore di vita, utilità, opportunità), cosicché la disuguaglianza in termini di una variabile può divergere anche in modo significativo dalla disuguaglianza valutata con riferimento ad un’altra5. Nell’ambito dell’economia politica la variabile “focale” è generalmente individuata nel reddito e/o nella ricchezza, in quanto variabili più facilmente quantificabili. Essendo esprimibili in termini monetari, esse sono variabili utilizzabili per confronti nel tempo e nello spazio. La grandezza “reddito disponibile”, d’altra parte, resta un buon indicatore, anche se non l’unico, del tenore di vita6.

Non c’è dubbio che i processi attraverso i quali i redditi individuali e/o familiari si determinano siano molto articolati e complessi. La disuguaglianza accertata nella distribuzione personale è la risultante delle disuguaglianze che s’instaurano ne l momento della formazione delle diverse componenti del reddito. Queste disuguaglianze possono essere riconducibili alle differenze fra i percettori di soli redditi da lavoro e i percettori di redditi derivanti dalla proprietà di beni capitali e/o di risorse naturali. All’interno di ciascun gruppo di percettori si manifestano poi delle disuguaglianze determinate, tra l’altro, dalla posizione nella professione, dalle capacità individuali, dal livello di istruzione, dalle caratteristiche tecnologiche dei diversi settori produttivi. Il mercato, la famiglia e lo Stato possono quindi essere considerati come i tre momenti nei quali si combinano i diversi fattori all’origine della disuguaglianza.

Per quanto concerne la sua misurazione, storicamente essa si è sviluppata privilegiando l’aspetto descrittivo della disuguaglianza: la costruzione di indici descrittivi rispondeva alla diffusa convinzione che gli stessi metodi fossero applicabili tanto al reddito o alla ricchezza quanto a tutte le altre caratteristiche quantitative (demografiche, anatomiche,

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Per una discussione su questo punto si rimanda a Sen (1994). 6

Questa variabile mantiene la propria importanza di indicatore, non tanto per la sua rappresentatività di un paniere di beni più o meno determinato, quanto proprio come reddito monetario e quindi potere di comando indifferenziato sulle risorse disponibili. Si veda: Chiappero Martinetti, Targetti Lenti (1992).

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ecc…). Contro questa impostazione Dalton (1920) sostenne che la nozione di disuguaglianza non può essere scissa dalla visione etica sottostante, poiché essa non è altro che la perdita di <<benessere sociale>> causata da una distribuzione disuguale dei redditi: essa va quindi misurata con un indice etico, derivato da una specifica funzione di benessere sociale.

Per costruzione, gli indici sintetici di disuguaglianza, siano essi descrittivi o etici, riassumono le informazioni sulla distribuzione dei redditi in un singolo numero, consentendo di individuare, in qualsiasi confronto tra due o più distribuzioni, quale sia la più disuguale. Il raggiungimento di questo ordinamento completo si ottiene al costo di imporre un elevato grado di struttura alla misurazione, poiché utilizzare un certo indice significa concordare sull’importanza attribuita alle diverse osservazioni (ad esempio un indice può dare un peso relativamente maggiore ai redditi più bassi).

In molti casi, per confrontare due distribuzioni non occorre tuttavia specificare quanto un reddito “vale” più di un altro, come avviene con un indice sintetico, ma basta concordare su una regola che permetta di dire che un reddito vale più dell’altro (Atkinson, 1970). Il ricorso a questi criteri ordinali, come quello di dominanza secondo Lorenz, presuppone ipotesi meno restrittive di quelle previste per un indice sintetico; il loro limite è che danno luogo a un ordinamento parziale, poiché vi sono confronti in cui il risultato rimane indeterminato.

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1.5 COS’E’ LA POVERTA’?

L’analisi della povertà solleva numerose difficoltà sia nella definizione del concetto sia nella scelta dei criteri da impiegare nella sua misura. Sono pertanto necessarie alcune osservazioni di premessa. Si cons idera povera una popolazione, una famiglia o una persona qualora non abbia i mezzi indispensabili alla sua sussistenza (Rowntree 1941; 1951, Pagani 1960). In questo modo, però, l’ostacolo viene solo aggirato, ed è lo stesso concetto di sussistenza a dover essere definito.

La sussistenza, come la povertà e la disuguaglianza, è un concetto relativo dipendente dal luogo, dal periodo e dal contesto sociale a cui si riferisce. In linea di principio non si può escludere la possibilità che esistano anche famiglie o individui privi di ogni mezzo necessario per la loro sussistenza; ovvero, poveri in senso assoluto. Ma non si può ridurre il concetto di povertà a questo altrimenti verrebbe meno la possibilità di applicarlo allo studio di situazioni in cui è la carenza relativa dei mezzi e non quella assoluta che costituisce il problema.

È stato quindi introdotto il concetto di povertà relativa: si deve misurare la povertà in rapporto alle condizioni di una data società, in relazione ad un valore che non necessariamente deve essere il suo reddito medio. Seguendo questo criterio, si definisce povera una famiglia o un individuo che dispone di un insieme di mezzi economici che non superano una certa quota del reddito medio, rispettivamente familiare o pro capite dell’intero paese considerato.

Resta da capire che cosa comporta passare da una definizione assoluta ad una relativa di povertà. Abbandonando il concetto di povertà assoluta come misura dello stretto indispensabile per l’esistenza fisica, viene meno la possibilità di misurare la povertà in quanto tale.

Con il concetto di povertà relativa si passa, in effetti, dalla povertà alla disuguaglianza. Il risultato a cui si giunge non dà né la misura della povertà di un paese né quella di alcune sue parti, come gruppi, famiglie o individui ma piuttosto quella della distribuzione del reddito, quindi della disuguaglianza o della sperequazione esistente all’interno del paese considerato.

Usando questo criterio si possono fissare a piacimento i livelli o le soglie di riferimento da cui partire (Carbonaro, 1986). Convenzionalmente, viene utilizzato il reddito medio pro capite. Il cosiddetto International Standard of Poverty Line (ISPL), ad esempio,

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uguale al reddito medio pro capite del paese considerato. Nulla impedisce di assumere come riferimento il reddito mediano, cioè quel valore di reddito al di sotto e al di sopra del quale si situano esattamente la metà delle famiglie dell’intero paese. Né è impensabile che si prenda a riferimento un qualsiasi altro valore. Come vedremo più avanti, nel nostro studio si utilizzerà come soglia della povertà il 60% del reddito mediano familiare equivalente, in linea con quanto previsto in altre analisi nel caso di paesi sviluppati.

Un’altra importante distinzione fra i possibili modi di intendere la povertà è quella fra povertà soggettiva e povertà oggettiva.

Con il primo termine si intende quella che viene percepita come tale dalla popolazione interessata e che si può rilevare attraverso una serie di domande rivolte alle persone prese in esame. Questo approccio, tuttavia, presenta alcuni limiti:

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in particolare, i propri e gli altrui bisogni sono valutati soggettivamente e quindi, in maniera praticamente incomparabile tra individui diversi;

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molte delle domande prevedono risposte formalmente identiche (“molto / poco / per nulla soddisfatto del proprio reddito”) ma che potenzialmente sono caricate di un significato soggettivamente diverso dagli intervistati;

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infine nella risposta sul proprio grado di benessere entrano anche elementi non strettamente economici che tendono a confondere il quadro (De Santis, 1995); Per povertà oggettiva, invece, si intende una povertà che viene individuata sulla base di considerazioni svolte da osservatori esterni i quali, facendo riferimento a criteri ritenuti di applicabilità generale, sono in grado di individuare persone, gruppi sociali o aree territoriali, caratterizzati da situazioni di povertà. Tale modo di procedere prescinde da valutazioni espresse dalla popolazione interessata e si basa soprattutto sull’esame delle condizioni di vita così come queste sono oggettivamente rilevabili e classificabili. Le premesse da chiarire prima di introdurre le misure della povertà non finiscono qui. Se il calcolo viene effettuato, come è solito avvenire, con riferimento alla famiglia e non all’individuo, è necessario tener conto del fatto che il fabbisogno di risorse di una famiglia non aumenta in misura direttamente proporzionale all’aumentare dei suoi componenti: per condurre un certo tenore di vita, una famiglia di tre persone non ha bisogno di tre volte le risorse monetarie di cui necessita un solo individuo, ma in genere è sufficiente qualcosa di meno.

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Occorre, quindi, cercare di stabilire quali coefficienti si devono applicare alle famiglie di diversa ampiezza per tener conto di quelle che gli economisti chiamano “economie di scala” le quali, in questo caso, sono date dai risparmi che si ottengono quando si ha un certo numero di persone che vivono insieme e che mettono in comune parte delle risorse totali. In termini tecnici, questi coefficienti prendono il nome di scale di equivalenza, concetto che verrà approfondito nel secondo capitolo.

Il problema della misurazione della povertà è costituito dalla scelta di un indice che sintetizzi le informazioni disponibili. In letteratura gli indici più utilizzati sono i seguenti: l’indice di incidenza o di diffusione, conosciuto anche come head-count ratio, l’indice di intensità, il divario di povertà o poverty deficit, ed infine gli indici proposti rispettivamente da A. Sen (1976) e da Foster, Greer e Thorbecke (1984).

Nei capitoli successivi verrà dato ampio spazio alla spiegazione delle misure della povertà così come a quelle della disuguaglianza.

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