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Capitolo 1: “Aspetti definitori: riciclaggio e antiriciclaggio”

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Academic year: 2021

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Capitolo 1: “Aspetti definitori: riciclaggio e antiriciclaggio” 1.1 Il riciclaggio: un “nemico forte”

Lo sviluppo economico nel contesto della globalizzazione dei mercati associa a effetti positivi il rischio di una crescita incontrollata dei flussi finanziari, che si dirigono verso le attività e le piazze più convenienti.

Anche i proventi da delitto seguono questa logica.

Il riciclaggio, nella sua essenza, consiste in tutte le attività volte al trasferimento o alla conversione di danaro o altri beni, allo scopo di occultarne o dissimularne la provenienza criminosa.

Il reato di riciclaggio è comparso nella maggior parte degli ordinamenti statuali solo sul finire degli anni ’80, come reazione all’allarme sociale determinato dall’espansione alla criminalità organizzata.

Si tratta di un reato caratterizzato da una particolare pericolosità sia economica che sociale: è lo strumento per rendere davvero profittevoli i reati patrimoniali (cc.dd. reati presupposto) e, al contempo, consente alla criminalità di ampliare il proprio potere e la propria influenza sull’economia legale generando gravi distorsioni in quest’ultima alterando le condizioni di concorrenza, il corretto funzionamento dei mercati e i meccanismi fisiologici di allocazione delle risorse, con riflessi, in definitiva, sulla stessa stabilità ed efficienza del sistema economico.

Il criminale ha la necessità – per ripulire i propri capitali illeciti – di avvalersi di operatori economici operanti nei circuiti legali (banche, finanziarie, professionisti, ecc.); elevato è il “rischio di cattura” anche nei confronti di quegli operatori inizialmente inconsapevoli della provenienza criminosa dei fondi. La lotta al riciclaggio assume una particolare valenza in un Paese come il nostro che paga un pesante tributo, anche in termini di mancato sviluppo economico, alla prepotente presenza della criminalità organizzata: alcuni studi della Banca d’Italia hanno evidenziato che nelle aree a forte presenza criminale la crescita economica risulta compressa1, le imprese pagano più caro il credito2, gli investimenti sono disincentivati.

La pericolosità del riciclaggio è accresciuta dal fatto che esso è realizzato anche sfruttando, spesso più di quanto avviene nelle attività legali, tutte le opportunità offerte da un’economia globalizzata, in cui strumenti finanziari complessi e disponibilità di tecnologie informatiche avanzate consentono ai riciclatori di dissimulare più facilmente le identità coinvolte, di agire con maggiore velocità,

1

PINOTTI, I costi della criminalità organizzata, Roma, 2010.

www.parlamento.it/documenti/repository/commissioni/bicamerali/antimafiaXVI/Relazioneoc.%20n.%20 5/525439.pdf

2

BONACCORSI DI PATTI, Weak institutions and credit availability: the impact of crime on bank loans,

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di stratificare molteplici atti di trasformazione e trasferimento dei capitali, di operare a distanza in piazze diverse.

Il riciclaggio, almeno nelle sue forme più rilevanti e insidiose, tende sempre più a svolgersi in un contesto internazionale, privilegiando i paese che presentano normative meno rigorose in tema di identificazione della clientela e dei comportamenti sospetti.

Con il termine riciclaggio si indica, in senso generale, ogni riutilizzazione di denaro che costituisca il frutto di un’attività illecita; i capitali illecitamente ottenuti vengono “ripuliti” e reimmessi nei circuiti economici e finanziari legali. “Il riciclaggio, dal punto di vista fenomenologico è un sistema complesso, un ‘processo’, che difficilmente si riduce ad una singola operazione. Questa difficoltà è peraltro pratica, non concettuale, e discende solo dal fatto che nei paesi ad economia avanzata, a causa anche delle legislazioni antiriciclaggio, è assai improbabile che il denaro proveniente da un crimine possa ricevere una vestizione lecita tramite una sola operazione; nei paesi dell’est europeo, ad esempio, questo è possibile, in quanto i controlli sulla provenienza dei patrimoni sono pressoché nulli. Riciclaggio è dunque, se volessimo pervenire ad una definizione, il complesso delle operazioni necessarie per attribuire una origine simulatamente lecita a valori patrimoniali di provenienza criminosa. La singola operazione di riciclaggio dovrebbe essere identificata come ogni passaggio di questo processo”3

.

Nel tempo è stato ridefinito il perimetro della definizione di riciclaggio, sia nel contesto internazionale che in quello nazionale. All’inizio era diffuso il concetto di money laundering ovvero della pulizia del denaro sporco, nel tentativo di rendere legali delle disponibilità di provenienza illegale. Questa definizione è stata successivamente integrata e inglobata in alcune altre sempre più complete. E’ seguita la nozione di money dirtying, legata principalmente alle attività con finalità terroristiche ma di sempre maggiore diffusione di impiego in quelle con finalità criminale. Consiste nel fare uso delle disponibilità legali, distraendole o destinandole ad attività illegali4.

Il termine italiano “antiriciclaggio” (l’azione di prevenzione e contrasto del riciclaggio di denaro, beni o altre utilità5), essendo più generico, riesce a ricomprendere sia il concetto di money laundering che di money dirtying, puntando a una logica di conversione e distrazione, senza indicare espressamente la “direzione” dell’attività.

La definizione di riciclaggio viene data sia dall’art. 648 bis del codice penale che dall’art. 2, comma I, del d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231 (va detto che è stata confermata dalle successive modificazioni e integrazioni).

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M. Zanchetti, Il riciclaggio di denaro proveniente da reato, cit., p.17.

4

Manlio d’Agostino, Antiriciclaggio, Bancaria Editrice.

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In particolare, l’art. 648 bis del codice penale recita testualmente: “Fuori dei casi di concorso nel reato, chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa, […]”.

Il decreto n. 231 recita, invece: “[…] le seguenti azioni, se commesse intenzionalmente, costituiscono riciclaggio: a) la conversione o il trasferimento di beni, effettuati essendo a conoscenza che essi provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività criminosa o da una partecipazione a tale attività, allo scopo di occultare o dissimulare l’origine illecita dei beni medesimi o di aiutare chiunque sia coinvolto in tale attività a sottrarsi alle conseguenze giuridiche delle proprie azioni; b) l’occultamento o la dissimulazione della reale natura, provenienza, ubicazione, disposizione, movimento, proprietà dei beni o dei diritti sugli stessi, effettuati essendo a conoscenza che tali beni provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività; c) l’acquisto, la detenzione o l’utilizzazione di beni essendo a conoscenza, al momento della loro ricezione, che tali beni provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività; d) la partecipazione a uno degli atti di cui alle lettere precedenti, l’associazione per commettere tale atto, il tentativo di perpetrarlo, il fatto di aiutare, istigare o consigliare qualcuno a commetterlo o il fatto di agevolarne l’esecuzione”.

“In proposito, si segnala che la definizione di riciclaggio adottata – a fini di prevenzione – dal decreto 231/2007 recepisce quella contenuta nell’articolo I, comma 2, della direttiva 2005/60/Ce ed è pertanto più ampia rispetto alla fattispecie delineata dal codice penale negli articoli 648 bis e 648 ter.

Per il sistema penale, infatti, il reato di riciclaggio non si applica a chi ha commesso il reato presupposto: l’uso e l’occultamento dei proventi criminosi da parte delle persone che hanno commesso il reato che ha generato tali proventi sono infatti considerati come post factum non punibile”6

.

L’8 novembre 1990 a Strasburgo gli Stati membri del Consiglio d’Europa hanno firmato una Convenzione che ha riconosciuto il carattere internazionale della grande criminalità e la necessità della cooperazione fra Stati7.

All’art. 6 della Convenzione si è data questa definizione del reato di riciclaggio: “Si commette reato di riciclaggio quando intenzionalmente si convertono o si trasferiscono beni, materiali o immateriali, mobili o immobili, documenti legali o strumenti comprovanti il diritto di proprietà o altri diritti sui beni, ogni vantaggio economico, derivanti da reato, allo scopo di occultarne o dissimulare l’illecita provenienza dei beni stessi, o aiutare persone coinvolte nella

6

Documento di consultazione sul Provvedimento della Banca d’Italia in materia di organizzazione, procedure e controlli interni, cit.

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commissione del reato dal quale i beni derivano, definito “reato presupposto”. Si commette lo stesso reato di riciclaggio anche occultando l’origine, l’ubicazione, gli atti di disposizione o di movimenti di detti beni d’origine delittuosa, acquistandone il possesso o semplicemente l’uso; ovvero, partecipando alla commissione del reato”.

Elemento distintivo del reato di riciclaggio è dunque l’attività intenzionale di conversione del bene proveniente da reato, ai fini di dissimularne l’illecita provenienza.

L’art. 1 della terza direttiva europea 2005 vuole che gli Stati membri considerino reato di riciclaggio le azioni commesse intenzionalmente per convertire o trasferire beni, essendo a conoscenza che provengono da attività criminosa, occultarne o dissimularne la reale natura, la provenienza, il movimento o la proprietà, acquistare, detenere o utilizzare tali beni, partecipare in via associativa al compimento di tali azioni. La direttiva vuole inoltre che sia considerata reato anche l’attività volta a generare i beni da riciclare, anche se svolta in altro Stato membro o paese terzo.

Il nostro ordinamento non ha ancora modificato la figura penale di riciclaggio, anche se il d.lgs. n. 231/07 ne ha tenuto conto ai fini della prevenzione in campo finanziario del fenomeno8.

Il nostro Paese, che da tempo aveva introdotto nel suo codice penale la figura criminosa del riciclaggio, si è adeguato ai dettami di Strasburgo con la legge 9 agosto 1993, n. 328, punendo chi sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo e chi ostacola l’identificazione della loro provenienza.

Con direttiva del Ministro dell’Interno del 22 gennaio 1992 era stata evidenziata la competenza specialistica della Guardia di Finanza, deputata a curare in particolare le investigazioni sui flussi illeciti di ricchezza provenienti dal crimine organizzato, valutando anche eventuali investigazioni preventive sulle società di intermediazione; sui flussi finanziari originati dal contrabbando; sulle frodi comunitarie in relazione alle erogazioni della Comunità europea. La Guardia di Finanza si è vista attribuire dalla legge n.197/91 un competenza primaria nel

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La giurisprudenza si è così pronunciata in tema di riciclaggio: “Il delitto di riciclaggio può presupporre come reato principale non solo delitti finanziariamente orientati alla creazione di capitali illeciti, quali la corruzione, la concussione, i reati societari, i reati fallimentari, ma anche delitti che […] vi erano estranei, come, ad esempio, i delitti fiscali e qualsiasi altro consista in qualsiasi condotta tendente a ripulire il cosiddetto denaro sporco, facendo perdere le tracce della sua provenienza delittuosa, nelle diverse forme della sostituzione o del trasferimento del denaro dei beni o di altre utilità di provenienza illecita, ovvero, del compimento di altre operazioni in modo da dissimularne l’origine e da ostacolare l’identificazione della provenienza illecita – (omissis) – da ciò deriva l’inclusione dell’associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis c.p. tra i reati da cui provengono capitali illeciti […] onde poter essere rimessi in circolazione come capitali ormai depurati”.

Nel caso specifico si trattava di un clan operante nel napoletano e di indagini su operazioni bancarie che, scaturite da intercettazioni telefoniche, avevano accertato in modo inconfutabile la provenienza dalla camorra di flussi di denaro (Cass. Pen. Sez. IV, n. 45643 del 26 novembre 2009).

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contrasto al riciclaggio, all’usura e, in generale, alla formazione dei patrimoni illeciti. Il Nucleo Speciale di Polizia Valutaria della G.d.F., istituito con legge n. 159/76, ha una competenza nazionale e si articola si gruppi rafforzati con le unità specializzate in investigazioni antiriciclaggio. Tra i poteri attribuiti vi è anche quello di eseguire ispezioni sulle transazioni finanziarie presso gli intermediari finanziari, senza la necessità di autorizzazioni né dell’autorità giudiziaria né di altre autorità9.

Questo nuovo scenario induce a ritenere che la lotta al riciclaggio, necessaria per il mantenimento di un sistema legale del credito e della finanza, debba affinare i seguenti aspetti10:

 monitoraggio delle grandi occasioni della criminalità finanziaria (possibilità speculative, giochi di valute, investimenti in capitali di rischio con conseguenti acquisizioni di aziende, acquisto di obbligazioni di emissione pubblica, investimenti in appalti per infrastrutture in attività sociali);

 sorveglianza attiva sugli investimenti azionari, obbligazionari, su merci e prodotti derivati;

 individuazione del titolare effettivo delle ricchezze, spesso celato dietro trust e mandati fiduciari;

 analisi severe delle operazioni di fusione e aggregazione fra imprese; controlli sui possibili condizionamenti di mercato;

 potenziamento delle procedure di analisi informatizzate, e oggettivazione delle analisi stesse, in modo integrato sul territorio dell’intero continente;  repressione del connubio usura-riciclaggio. Tale connubio fa sì che,

mentre finora l’usuraio era solito agire come singolo, v’è un’usura appannaggio della criminalità organizzata, che trova utile convertire l’enorme massa liquida d’origine illecita (vendita di armi, droga, riduzione in schiavitù) in attività utili. In pratica l’usura è diventata un ottimo strumento sia di investimento che di rilavaggio di denaro sporco; fraziona in una pluralità di prestiti i proventi da delitto e a sua volta genera proventi illeciti (utili usurari) da rilevare.

9

Cfr. S. Favaro, “Il coordinamento delle Forze di Polizia nel contrasto al riciclaggio”, in Rivista della

Guardia di Finanza, n. 1, 2002, p. 315, ss. La legge n. 189/59 ha riconosciuto al Corpo della Guardia di

Finanza il compito di vigilare sull’osservanza delle disposizioni di interesse politico-economico; il d.lgs. n. 68/2001 ha assegnato alla stessa compiti di prevenzione, ricerca e repressione delle violazioni in materia di valuta, titoli, valori e mezzi di pagamento, compresi l’esercizio del credito e la sollecitazione del pubblico risparmio; altre norme hanno permesso alla Banca d’Italia di sollecitare la G.d.F. a collaborare negli accertamenti, avvalendosi dei poteri in materia tributaria. In data 25 luglio 2007 è stato firmato un Protocollo d’intesa tra la Banca d’Italia e la Guardia di Finanza per realizzare la collaborazione, che coinvolge il Nucleo Speciale Polizia Valutaria, con possibilità di sub-delega ai Nuclei di Polizia Tributaria.

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Dunque, potremmo racchiudere gli strumenti di difesa e di lotta al riciclaggio dei proventi derivanti da reato in tre strategie11.

La prima – costituita dagli strumenti di repressione affidati alla giustizia penale – essenziale ed insostituibile, mira essenzialmente a perseguire il reo, evidentemente dopo che abbia commesso il reato, ma non prende in considerazione e quindi non incide direttamente sul punto debole dell’organizzazione criminale, vale a dire il riciclaggio.

Le altre, il controllo e la trasparenza del mercato, vanno al cuore del problema, guardano ai movimenti dei capitali del crimine, ma hanno limiti intrinseci per poter incidere in maniera definitiva sul fenomeno.

La strategia dei controlli non ha finalità di repressione del crimine organizzato e del riciclaggio, ma esplica una funzione di contrasto attraverso strumenti di prevenzione, posti in essere mediante una diversificata gamma di verifiche sia nei confronti dei soggetti operanti sul mercato, che sui movimenti di capitali e sulle tecniche utilizzate nei trasferimenti di denaro.

Tuttavia, questo percorso non è facilmente praticabile, almeno oltre certi limiti. Innanzitutto perché esso esige una omogeneità nella regolamentazione antiriciclaggio che superi i limiti nazionali, per contrastare il fenomeno nel suo avanzato processo di globalizzazione. Le politiche antiriciclaggio, basate su controlli di tipo amministrativo, non soffrono delle limitatezze nazionali di una politica fondata sulla norma penale, ma esigono una loro omogeneità a livello internazionale, e quindi una risposta univoca, la più vasta possibile, da parte degli ordinamenti giuridici dei paesi operanti nel libero mercato, e non solo dei paesi industrializzati, dove la domanda di regolamentazione è alta, ma anche di quei paesi dove invece questa domanda è bassa, se non addirittura inesistente, e quindi manca ogni regolamentazione, oppure, quando esiste, appare assolutamente inefficiente. Altrimenti si aprono delle falle delle quali l’attività di riciclaggio approfitta immediatamente.

Ma esiste un altro limite oggettivo ad un’attuazione piena e generalizzata di una strategia di contrasto fondata sui controlli. Controllare la fase della circolazione della ricchezza significa infatti porre vincoli, barriere, limitazioni alla libera circolazione di capitali: significa ostacolare quel processo di globalizzazione dell’economia che oggi appare inarrestabile. Inoltre, se i controlli sono settoriali, anno un’efficacia limitata nel tempo: nel momento in cui sono conosciuti, vengono facilmente aggirati.

I fautori di una politica antiriciclaggio basata sui controlli evidenziano la necessità di adottare strategie di contrasto “globali”, dove la globalità deve essere intesa in un duplice senso: l’attività di contrasto deve interessare una molteplicità di settori – societario, patrimoniale, finanziario, valutario, bancario, fiscale – e

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deve coinvolgere, con l’adozione di strumenti operativi comuni, il più ampio numero possibile di paesi.

L’altra strategia è quella della trasparenza; trasparenza degli assetti proprietari degli intermediari e trasparenza delle operazioni, che vuol dire trasparenza nei movimenti di capitali. La conoscenza approfondita dei soggetti operanti sul mercato dei capitali, i loro assetti proprietari, i requisiti patrimoniali e reddituali permetterebbero di distinguere l’intermediario onesto dall’intermediario criminale.

La finalità delle strategie sopra esposte riguarda la prevenzione. Soprattutto quelle basate sui controlli e sulla trasparenza, hanno infatti anche un’ulteriore finalità, che potremo chiamare difensiva: una fitta rete di controlli e soprattutto una trasparenza ad ampio raggio, che spazi dai soggetti agli atti e alle tecniche di movimentazione dei capitali, dissuade il riciclatore dall’utilizzare determinati canali e da operare con strumenti che altrimenti coinvolgerebbero, anche inconsapevolmente, operatori del settore, istituzioni creditizi e altri intermediari. In altre parole, una efficace legislazione antiriciclaggio è anche quella che non si pone come obiettivo quello di combattere frontalmente il nemico ma che si limita a creare una fitta rete di protezione del sistema creditizio e finanziario, rete a maglie strette, dalla quale possono semmai sfuggire pesci piccoli, ma che protegge da quelli grandi.

La letteratura, soprattutto anglosassone, ricostruisce il fenomeno del riciclaggio facendo riferimento a “modelli”, diversi tra loro e più o meno articolati, riferibili a tre tipologie di base: modelli a fasi, modelli a ciclo e modelli a scopo12.

Nel modello a fasi, il più noto, che è anche il più adatto a porre in luce le implicazioni di natura giuridica del complesso fenomeno13, il processo di riciclaggio viene distinto in tre fasi: il collocamento, il lavaggio vero e proprio e il reimpiego.

Il collocamento (placamento stage) consiste nel riportare (anche in modo frazionato) sul mercato dei capitali leciti i proventi illeciti ad opera di soggetto terzo, consapevole e compiacente, mediante il deposito e la loro trasformazione in altri strumenti monetari14. E’ ben comprensibile come tale fase sia particolarmente delicata, in quanto espone in prima linea un soggetto agente, al quale viene affidato l’incarico di entrare in diretto contatto con un intermediario finanziario, il quale può essere sia un intermediario tradizionale, come banche,

12

Scialoja, Lembo, Antiriciclaggio, Maggioli Editori.

13

Il legislatore francese ha utilizzato le tre fasi in cui si articola il riciclaggio secondo questo modello nella definizione del reato di riciclaggio. Infatti l’art. 222-38 del codice penale francese così recita: “le fait de faciliter, par tout moyen, la justification mensongère de l’origine des biens ou des revenus de l’auteur de l’une de infractions mentionnées aux artiche 222-34 à 222-37 ou d’apporter son concours à une opération de placamento, de dissimulation ou de conversion du pruduit de l’une de ces infractions...”.

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finanziarie, assicurazioni, sia non tradizionale, per esempio cambiavalute, banche clandestine, sia con collegamento diretto sul mercato mediante l’acquisto di beni, sia infine con il trasferimento materiale del denaro in altri paesi.

E’, infatti, in tale ambito che si è sviluppata la tecnica dello smurfing15

ossia del frazionamento dell’operazione in più tranche, in modo da eludere i rigori della vigente disciplina antiriciclaggio.

Il lavaggio vero e proprio (dissimulation, layering stage:stratificazione) consiste nel compimento di una più o meno vasta serie di operazioni, commerciali ma per lo più finanziarie, dirette a far perdere la traccia della provenienza illecita del denaro, la cosiddetta paper trail: pista di carta. Le tecniche investigative poste in essere dalla Guardia di Finanza hanno messo in luce una serie incredibile di operazioni di stratificazione che sinteticamente possono riconoscersi dall’intreccio di questi elementi: il trasferimento elettronico dei fondi, l’utilizzo di paesi off-shore, la creazione di false piste di carta. In particolare i wire

transfer, i trasferimenti via cavo, consentono il trasferimento di enormi ricchezze

in tempi brevissimi tra paesi lontani, con diverse legislazioni ma soprattutto privi di controllo dei sistemi elettronici di trasferimento di fondi utilizzati da operatori residenti. Si pensi che in una giornata è possibile compiere oltre sessanta operazioni internazionali di trasferimento della stessa somma.

Il reimpiego (conversation, integration stage: integrazione) è il fine del riciclatore: il denaro oramai “pulito”, viene impiegato – più correttamente bisognerebbe dire reimmesso, come è stato osservato – nel mondo dell’economia legale, quale frutto di un’operazione finanziaria apparentemente legale.

Anche l’integrazione può avvenire con modalità diverse, utilizzando per esempio persone fisiche o soggetti giuridici, istituzioni che professionalmente sono usi porre in essere operazioni finanziarie o comunque partecipare al trasferimento di ingenti somme di denaro: avvocati d’affari, notai, operatori di borsa, imprenditori, società commerciali, finanziarie, banche, assicurazioni e via dicendo.

1.2 Il riciclatore

Ma chi è il riciclatore? Dopo aver esaminato la complessità che può assumere un’operazione di riciclaggio, non deve meravigliare il fatto che spesso sono molteplici i soggetti implicati. In ogni caso non è quasi mai l’autore del reato a monte colui che ricicla i proventi illeciti, spesso è addirittura un soggetto esterno all’organizzazione criminale. Gli schemi utilizzati dai cartelli colombiani, studiati a fondo dalle autorità americane, mostrano che il riciclaggio viene effettuato da professionisti del settore, persone fisiche o più spesso

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organizzazioni specializzate nel money laundering internazionale16. Accade anche che le tre fasi del processo siano affidate a soggetti diversi.

E, infatti, il nostro legislatore ha nettamente distinto, nella individuazione del soggetto attivo del reato di riciclaggio, tra autore del reato a monte, fonte dei proventi illeciti, ed autore del riciclaggio: se i due reati sono stati commessi dalla stessa persona, questa non risponderà per riciclaggio ma per il reato presupposto. La criminalità transazionale inoltre può fare ricorso a strutture alternative a quelle legali, affidandosi ad un sistema finanziario parallelo, a delle vere e proprie banche clandestine. Queste organizzazioni, particolarmente presenti in Asia orientale, permettono di trasferire ingenti somme con meccanismi semplicissimi, in modo assolutamente sicuro.

Veri e propri attori nel campo del lavaggio del denaro sporco devono inoltre essere considerate quelle banche, o più in generale quegli intermediari finanziari i quali, pur operando nel mercato legale, non sono protagonisti inconsapevoli di un’attività di riciclaggio, ma costituiscono un elemento integrante del sistema criminale. Le ipotesi vanno dal caso classico, che si suole eufemisticamente indicare del “dipendente infedele” – l’ipotesi del funzionario di banca corrotto al soldo della malavita è costante nelle cronache giudiziarie non solo italiane – alla banca nata e cresciuta nelle mani del crimine organizzato.

Vi sono infine altri soggetti, che potremmo chiamare “collaboratori esterni”, che intervengono nelle diverse fasi del riciclaggio in modo indiretto, per esempio con attività di consulenza legale, al fine di attenuare i rischi legali, o più sovente di consulenza finanziaria, per una più accorta allocazione delle risorse derivanti dall’attività criminosa. D’altro canto tutti gli studi più recenti sottolineano una crescente tendenza alla professionalizzazione del riciclaggio.

1.3 Criminalità organizzata, riciclaggio e terrorismo

Un accenno va fatto anche alla definizione che il suddetto art. 2 del d.lgs. 231/2007 dà di “finanziamento del terrorismo” la cui prevenzione è una nuova ed aggiunta finalità della disciplina che si affianca a quella di repressione del riciclaggio. Il quarto comma dell’art 2, per individuare questa fattispecie, opera un rinvio all’articolo 1, comma 1, lettera a) del decreto legislativo 22 giugno 2007, n. 10917, di recepimento anch’esso della Direttiva 2005/60/CE per la parte recante misure per prevenire, contrastare e reprimere il finanziamento del terrorismo e l’attività dei Paesi che minacciano la pace e la sicurezza internazionale.

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Scialoja, Lembo, Antiriciclaggio, Maggioli Editore.

17

Decreto Legislativo 22 giugno 2007, n. 109 : "Misure per prevenire, contrastare e reprimere il finanziamento del terrorismo e l'attività dei Paesi che minacciano la pace e la sicurezza internazionale, in attuazione della direttiva 2005/60/CE" pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 172 del 26 luglio 2007.

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Questo decreto, emanato sempre in attuazione della legge delega n. 29/2006, dispone che per "finanziamento del terrorismo" si deve intendere: «qualsiasi

attività diretta, con qualsiasi mezzo, alla raccolta, alla provvista, all'intermediazione, al deposito, alla custodia o all'erogazione di fondi o di risorse economiche, in qualunque modo realizzati, destinati ad essere, in tutto o in parte, utilizzati al fine di compiere uno o più delitti con finalità di terrorismo o in ogni caso diretti a favorire il compimento di uno o più delitti con finalità di terrorismo previsti dal codice penale (270-bis e 270-sexies), e ciò indipendentemente dall'effettivo utilizzo dei fondi e delle risorse economiche per la commissione dei delitti anzidetti».

L’attività di finanziamento del “terrorismo” sembra interessare più marginalmente, rispetto al riciclaggio, l’attività di coloro che sono soggetti alla normativa che non sono tenuti ad individuare fattispecie criminose ma soltanto a valutare (ed eventualmente segnalare), sulla base della sussistenza di indici di anomalia, la riconducibilità dell’operazione (o anche il solo sospetto della stessa) a soggetti che siano sospettati di appartenere ad area di terrorismo ovvero il ricorso a modalità generalmente utilizzate per finanziarie il terrorismo.

La terza direttiva CE sul riciclaggio, titolata “Riciclaggio dei proventi di attività criminose compreso il finanziamento del terrorismo”, sembrerebbe assimilare il fenomeno del terrorismo internazionale organizzato alla criminalità economica. In realtà i due fenomeni hanno poco in comune, se non il fatto, ovvio, di operare entrambi nell’illegalità.

Da un punto di vista delle finalità perseguite la criminalità economica organizzata e il terrorismo si muovono su piani assolutamente diversi; la prima mira all’acquisizione di ricchezza mediante il compimento di reati, il terrorismo persegue finalità latu sensu politiche, certamente ideologiche, comunque dirette a destabilizzare strutture di potere; il crimine economico tende al profitto, il terrorismo è uno strumento di lotta.

Da un punto di vista strutturale i due fenomeni hanno in comune il fattore dell’organizzazione. Il fatto associativo è il vero elemento che si ritrova in entrambe le attività criminali, ma ogni ulteriore assimilazione risulterebbe arbitraria. Anche le strutture organizzative sono diverse tra loro: sono certo entrambe segrete, in quanto illecite e quindi impossibilitate a manifestarsi istituzionalmente nella realtà sociale, ma l’una modellata sulla falsariga dell’impresa commerciale, l’altra con un’organizzazione più rigida, di natura militare, antagonista e non concorrenziale al potere costituito, e quindi, di regola, con minori legami con la società civile. In un certo senso meno “inquinante” di una organizzazione tipo “Cosa nostra”18

.

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Anche da un punto di vista soggettivo non vi sono coincidenze: il terrorismo si muove nell’ideologia, può essere uomo di pensiero ma anche di azione, qualche volta un guerrigliero; il capo mafia è un imprenditore, un “padrone”, uomo d’“onore” ma anche un pragmatico. Sono insomma due persone diverse, come è diverso il braccio armato delle due organizzazioni: fondamentale nella prima, ove costituisce l’elemento principale, l’essenza stessa della struttura; complementare nell’organizzazione criminale, qualche volta anche secondario, se non addirittura inesistente, soprattutto in quelle organizzazioni il cui fine non è il compimento di reati, ma solo il riciclaggio dei proventi illeciti.

Tuttavia il terrorismo ha con la criminalità economica qualcosa in comune, una necessità che in qualche modo li pone sullo stesso piano: l’esigenza di spostare ingenti masse di denaro. Denaro necessario per finanziare l’attività terroristica da un lato, denaro sporco da occultare e quindi riciclare dall’altro. Ma se la criminalità organizzata ricicla, vale a dire nasconde il denaro “sporco”, lo lava e quindi lo reimpiega in attività lecite, l’organizzazione terroristica utilizza denaro “pulito”, raccolto da sedicenti organizzazioni religiose, comunità etniche o altri finanziatori più o meno occulti, che viene piazzato e quindi impiegato in attività illecite, quali l’acquisto di armi, l’organizzazione di attentati ecc.

Il terrorismo quindi non ricicla il denaro con il quale viene a contatto, anzi, questo denaro compie un tragitto opposto rispetto a quello riciclato dell’organizzazione criminale: da pulito diventa sporco. In questo tragitto, l’unica fase che questo enorme flusso di ricchezza ha in comune con la ricchezza riciclata dal crimine organizzato è la fase intermedia della stratificazione, o dissimulation, o layering, che abbiamo visto consistere nel compimento di una o più meno vasta serie di operazioni dirette a far perdere la traccia della provenienza del denaro. In questo caso la paper trail, la pista di carta deve essere interrotta per occultare i legami esistenti tra i finanziatori dell’attività terroristica e i suoi esecutori e non per celare i messi tra crimine economico e investimento dei proventi da esso derivanti.

Dunque, sebbene l’orientamento del legislatore sia stato negli ultimi anni quello di dettare disposizioni comuni in materia di contrasto al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo, nella realtà pratica i due fenomeni vano considerati distinti: strutture distinte, finalità diverse e nessun legame organico tra riciclaggio e terrorismo ma soprattutto perché i fondi utilizzati dai fiancheggiatori dei terroristi possono avere in molti casi un’origine lecita.

Infatti, oltre al possibile ricorso ai proventi di reato quale ad esempio il traffico di sostanze stupefacenti, parte delle attività terroristiche può essere finanziata con la raccolta di fondi effettuata a fini religiosi.

I mezzi di pagamento utilizzati nelle operazioni sono spesso di valore modesto ovvero sono frazionati in molteplici atti dispositivi che, in ragione delle misure

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imposte agli intermediari dalla normativa antiriciclaggio in termini delle tracce e dei collegamenti sottostanti i soggetti che intervengono, a differente titolo, nel finanziamento.

Considerata la difficoltà di distinguere, sulla sola base delle movimentazioni, l’origine lecita o illecita dei fondi, le misure di contrasto al finanziamento del terrorismo si sono sviluppate, a partire dall’ambito internazionale, attribuendo importanza al profilo soggettivo di chi opera.

A tal fine, sono state appositamente formate liste contenenti i nominativi di soggetti coinvolti in casi di finanziamento di reti terroristiche, ovvero ritenuti direttamente appartenenti alle stesse: queste liste sono oggetto generalmente di pubblicazione da parte degli organismi internazionali e rappresentano, ciascuna secondo le proprie caratteristiche, fonti di obblighi particolarmente cogenti a carico degli intermediari creditizi e finanziari.

Sotto il profilo della prevenzione, l’Italia ha attivato una produzione legislativa pienamente rispondente alle disposizioni nate in campo internazionale.

Il decreto legislativo n. 109 del 22 giugno 2007 costituisce pertanto, attualmente, il punto di riferimento della normativa italiana in materia di prevenzione, contrasto e repressione del finanziamento del terrorismo internazionale, unitamente al successivo d.lgs. n. 231/2007, che ne ha abrogato alcuni articoli concernenti i soggetti destinatari degli obblighi e i ruoli svolti dalla Banca d’Italia e dal soppresso Ufficio Italiano dei Cambi.

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