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Capitolo 4 Le aree di provenienza dei militari italiani 4.1

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Capitolo 4

Le aree di provenienza dei militari italiani

4.1 Gli Stati più rappresentati: questione di indole o di archivi?

Come vediamo anche dal grafico riprodotto in questa pagina, alcuni Stati della penisola sembrano dare i natali a un maggior numero di militari rispetto ad altri territori. Vediamo al primo posto Venezia, seguono1 lo

Stato Pontificio, il Granducato di Toscana, il Regno di Napoli, il Ducato di Savoia e poi gli altri.

20% 15% 11% 11% 10% 9% 7% 7% 3% 3% 2% 0% 2% Repubblica di Venezia non classificabile Stato della Chiesa Granducato di Toscana Regno di Napoli Ducato di Savoia Repubblica di Genova Ducato di Milano Ducato di Mantova Regno di Sardegna Ducato di Parma e Piacenza Ducato di Modena

Altri

Figura 1. Suddivisione dei militari per Stato di nascita. Dati estrapolati dal Dbi e dai repertori

curati da Corrado Argegni e Aldo Valori. (Altri: Regno di Sardegna, Regno di Francia, Ducato di Ferrara, Confederazione elvetica, Malta, Regno di Spagna, caselle vuote, Repubblica di Siena, Impero asburgico, Regno di Boemia, Polonia, Regno del Perù, Siria, Repubblica di Lucca, Repubblica di San Marino).

1 La seconda posizione, di grande rilevanza percentuale, è sfortunatamente occupata dalle

provenienze non identificate. La causa è la scarsità di notizie che i repertori curati da Corrado Argegni e Aldo Valori recano per ogni voce. I dati raccolti dal solo Dbi sono più precisi e presentano un ordine diverso: rimane al primo posto Venezia col 21 % dei militari nati sul suo territorio, al secondo posto troviamo il Regno di Napoli con il 15 %, poi il Ducato di Savoia (14 %), lo Stato della Chiesa (13 %), il Granducato di Toscana (7 %), il Ducato di Milano (7 %), la Repubblica di Genova (6 %) e altri. Per dati più precisi, anche relativi agli altri due repertori singolarmente, vedi l’appendice C.

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Una prima considerazione potrebbe essere che in alcuni Stati la carriera militare è uno sbocco più naturale (o più appetibile) che in altri. Ovviamente consideriamo anche che il numero varia anche a seconda della popolazione. Ma ci sono molti altri motivi che potrebbero aver portato a tale risultato. È probabile, ad esempio, che una regione sia stata studiata più di un’altra, almeno per quanto riguarda l’aspetto militare – i dati di Genova e Milano sembrano infatti un po’ troppo bassi -; oppure che un territorio sia stato coinvolto in battaglie di più alta risonanza coinvolgendo direttamente molti dei suoi sudditi, come abbiamo già avuto modo di notare nel secondo capitolo a proposito della battaglia di Lepanto.

In realtà le vicenda di ognuno degli antichi Stati italiani è contornata da un insieme di credenze che si sono accumulate negli anni e che spesso rischiano di venire considerate dall’immaginario collettivo come verità storiche, determinandone in alcuni casi anche l’orientamento degli studi. Sicuramente oggi nella ricerca c’è una maggior consapevolezza di queste insidie, oltre ad un maggior interesse ad indagare le origini di queste credenze, le motivazioni che le hanno create e magari i gruppi sociali che le hanno veicolate. Non è questo l’argomento peculiare della tesi, però è opportuno fare qualche considerazione in merito, sia per mettere i dati a nostra disposizione in una luce più chiara e più vicina possibile alla realtà, sia perché le «tradizioni inventate»2 in campo

militare sono moltissime e capire da dove provengano ci può fornire uno spunto di riflessione in più sull’argomento.

Fino agli anni Ottanta del secolo scorso, gli studi nel campo della storia militare in Italia erano quasi inesistenti o curati direttamente da militari3. Una prima

ragione può trovarsi nel timore provato da parte di molti storici che studiare argomenti di carattere militare dimostrasse una certa «accondiscendenza, o

2 L’argomento è stato analizzato in un convegno curato dalla rivista Past and Present i cui lavori

sono stati raccolti e pubblicati da Eric J. HOBSBAWM e Terence RANGER, L’invenzione della

tradizione, Torino, Einaudi, 1987, (ed. or., The Invention of Tradition, 1983). Nell’introduzione

Hobsbawm definisce le «tradizioni inventate» come atti ripetitivi nei quali è naturalmente insita una continuità col passato. Spesso invece non c’è niente che leghi al passato queste consuetudini spesso create dal nulla con un preciso scopo.

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addirittura adesione, a posizioni militaristiche e guerrafondaie»4. Sfatato questo

mito e dimostrato chiaramente, da una generazione che praticamente non ha visto la guerra, che le istituzioni militari erano invece un tassello essenziale per capire la società di antico regime, è maturata la consapevolezza che occorre confrontarsi col problema più grande, affrontando un campo di ricerca nuovo e per moltissimi aspetti quasi vergine.

La mancanza non solo di studi, ma in alcuni casi anche di fonti, ha la sua ragion d’essere, secondo Virgilio Ilari, nel mito, che si è andato radicando nei secoli, degli italiani come popolo di imbelli ed incapaci di affrontare la guerra a qualsiasi livello5. Questa credenza che affonda le sue radici nell’età moderna e

si è protratta nel tempo, è stata assolutamente impermeabile anche alle prove concrete che potevano smentirla: è opinione diffusa anche tra la stessa popolazione italiana che si appoggia a questa tradizione, spesso perfino utilizzata per nascondere mancanze della classe dirigente nazionale, frequentemente incapace di una chiara assunzione di responsabilità6.

Che tale credenza esista davvero è fuor di dubbio, tuttavia ciò che stupisce è che i fatti mostrano con sufficiente evidenza che il popolo e soprattutto i sovrani che unirono la penisola erano forti di una tradizione assolutamente diversa. I Piemontesi sono infatti passati alla storia come popolo fondamentalmente incline alle armi. La prima volta in cui questa convinzione viene chiaramente sostenuta come certezza (quindi probabilmente le sue origini sono ben più lontane nel tempo) risale ai primi anni dell’Ottocento, quando si discuteva a proposito dell’unità d’Italia e si andava affermando che la sola realtà che avrebbe potuto provvedere alla struttura militare della futura nazione sarebbe stato il Piemonte sabaudo con la sua indiscussa tradizione militare. Questa idea – lo sappiamo – poggiava su basi concrete, progressivamente alterate fino ad attribuire alla popolazione piemontese addirittura una naturale predisposizione

4 C. DONATI, Organizzazione militare cit., p. 9. 5 V. ILARI, Il valore militare cit.

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alla guerra7. Il passo dalla realtà dei fatti ad una generalizzazione banalizzante

fu probabilmente breve, ma ciò non significa che corrispondesse del tutto al vero.

Resta il fatto che il mito degli Italiani imbelli ha un’altra provenienza. Potrebbe derivare dal Granducato di Toscana i cui abitanti avrebbero – sempre volendo dar retta alle «tradizioni inventate» - una naturale ed innata mitezza d’animo, esattamente all’opposto dei Piemontesi. Conseguenza ovvia è che lo Stato non avrebbe avuto un esercito locale o comunque lo avrebbe tenuto in ben poca considerazione8. Oppure potrebbe anche avere origine da alcune opinioni

intorno all’aristocrazia combattente del Regno di Napoli. Scipione Ammirato definì i signori napoletani «imbelli e presuntuosi, soldati inaffidabili in guerra, violenti, capaci solo di coltivare sanguinose beghe private […] consumati dall’ozio e dall’infingardia (reputando) grandezza il non occuparsi di nulla»9.

Andando alla ricerca delle origini di queste «tradizioni inventate», ci imbattiamo anche in giudizi molto differenti dati nello stesso periodo a medesimi eserciti o gruppi di persone. Questi potevano, ad esempio, variare all’interno di un brevissimo lasso di tempo, semplicemente perché una determinata categoria di persone poteva essere oggetto di un’opinione sbagliata che riusciva facilmente a smentire tramite azioni concrete; come accade agli italiani nelle Fiandre, che in dieci anni passano da essere considerati dei pessimi combattenti a divenire valutati quasi al pari degli Spagnoli10. Ma i pareri

espressi su uno stesso gruppo potevano cambiare anche semplicemente a seconda di chi si esprimeva, innanzitutto perché una diversa nascita, o

7 W. BARBERIS, Le armi cit., p. XII. «Col tempo, cioè, si era fatta comune l’opinione che i

piemontesi e le popolazioni circonvicine assoggettate al dominio dei Savoia fossero tendenzialmente inclini al mestiere delle armi, secondo la combinazione di una naturale e archetipica predisposizione e di un’etica tramandata, via via suggerita e coltivata come superiore valore civile».

8 Nicola LABANCA, «Le panoplie del Granduca. Per una storia delle istituzioni militari toscane

(1737-1815) fra Stato, politica e società», in Ricerche storiche, n° 25 (1995), II, p. 319.

9 Cfr. Angelantonio SPAGNOLETTI, L’aristocrazia napoletana nelle guerre del primo Seicento: tra

pratica delle armi e integrazione dinastica, in A. BILOTTO, P. DEL NEGRO, C. MOZZARELLI (a

c.), I Farnese cit., p. 447.

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formazione, o un differente patrimonio valoriale creavano condizioni diverse di giudizio, ma spesso anche perché si dipingeva ciò che appariva più utile allo scopo che si intendeva raggiungere (fatto per altro abbastanza frequente nelle relazioni diplomatiche).

Un esempio di giudizio che varia a seconda dell’utilità è quello che punta sulla presunta indole delle popolazioni. Secondo il duca di S. Arpino, che a metà Settecento pubblica un’opera volta a inquadrare le forze militari del Regno e a proporre una riforma dell’esercito, i Napoletani non sono assolutamente atti alla disciplina11; secondo il Filamondo, invece, il combattere è una

predisposizione naturale dell’aristocrazia napoletana12. Chiaramente, in questo

caso, le opinioni mutano perché sono differenti le esigenze dei due autori: il primo vuole modificare la struttura militare ed è quindi portato ad evidenziare – e forse amplificare – i suoi aspetti; il secondo invece intende fornire stimoli ai nobili per recarsi sui campi di battaglia a servire il proprio sovrano.

Anche Sabina Loriga a proposito del ducato di Savoia ci fornisce un esempio calzante13: gli ufficiali piemontesi che non erano in grado di gestire una truppa

e farsi rispettare dai soldati, si giustificavano sostenendo l’indole diversa dei Piemontesi rispetto, ad esempio, ai Tedeschi: non erano atti a ricevere ordini, ma piuttosto ad essere incoraggiati.

Seguire gli sviluppi e le origini delle tradizioni ci ha portato ad accumulare diverse importanti informazioni a proposito degli eserciti di età moderna e della loro considerazione. Prendere atto dell’esistenza e dell’importanza di questo aspetto è assolutamente necessario, considerando il peso che può avere a livello statistico; in particolare è essenziale adesso che andremo a trattare nel dettaglio quale tipo di rapporto militare costruivano con i propri sudditi i vari Stati della penisola.

11 Cfr. A. M. RAO, Esercito e società cit. p. 155.

12 R. M. FILAMONDO, Del genio bellicoso cit., nell’introduzione dal titolo: All’inclita e generosa

nobiltà di Napoli

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4.2 Gli Stati italiani che non cedono i propri uomini

Tra gli Stati della penisola che riescono a formare un proprio esercito, alcuni più degli altri si sforzano di integrarvi i sudditi, soprattutto la propria aristocrazia. Anche gli Stati più piccoli della penisola avevano un proprio esercito: spesso però i nati nelle loro terre prediligevano eserciti più grandi, probabilmente perché offrivano maggiori possibilità di carriera14.

Furono però i grandi Stati indipendenti a tentare, con tecniche diverse e con risultati profondamente divergenti, di coinvolgere i propri sudditi in un ben preciso progetto militare.

Ducato di Savoia

Abbiamo già detto come le milizie e l’esercito fossero il mezzo utilizzato da Emanuele Filiberto e dai suoi successori per creare uno Stato compatto e fedele. Fu un progetto di lunga durata, iniziato con la fine delle guerre d’Italia e non ancora pienamente concluso alla vigilia della Rivoluzione francese. Attraverso l’organizzazione dell’istituzione militare si mirava a riordinare la società e quindi se ne investivano tutti gli aspetti: educazione, gerarchie sociali e soprattutto gli apparati burocratici che dovevano sorreggere tutto.

Ducato di Savoia 75% 5% 5% 4% 3% 2% 2% 2% 1% 1% Sabaudo Ordine gerosolimitano Francese Veneziano Imperiale Pontificio Spagnolo Ribelle valdese Gonzaghesco Toscano

Figura 2. Suddivisione per eserciti dei nati nel Ducato di Savoia.

Dati estrapolati dal Dbi e dai repertori curati da Corrado Argegni e Aldo Valori.

Non stupisce quindi una percentuale così alta di persone che nascevano in terra sabauda e continuavano poi a combattere per il proprio sovrano: non solo

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perché l’esercito permeava l’apparato statale, tanto da consentire poche altre scelte ai sudditi, ma soprattutto perché l’importanza del militare era giunta, a metà Seicento, ad essere tanto grande da garantire il titolo nobiliare a chiunque, dotato di capacità – e sicuramente anche di mezzi –, volesse porsi a servizio dei duchi15. Questa inversione di convenzioni è una delle più note caratteristiche

dell’esercito sabaudo: la più solida delle istituzioni nobiliari cambiò talmente da far sì che non fosse più necessario un determinato stato sociale per conquistare gli alti ranghi dell’esercito, piuttosto il giungervi dava diritto alla scalata della gerarchia dei ceti. Questo fece sì che anche la nobiltà di antico lignaggio, spaventata dall’avanzata dirompente di un nuovo ceto, si impegnasse a fondo per prendere parte alla politica militare dei Savoia, cercando di non rimanere fuori dal gruppo dirigente dello Stato16.

Dei processi che coinvolsero esercito e nobiltà parleremo ancora più approfonditamente nel prossimo capitolo; per adesso è importante capire che la guerra nel ducato sabaudo «si configurò […] come una condizione dell’esistenza dello Stato e come un termine di confronto inevitabile per chiunque visse su quei territori»17. Fu quindi normale che i tre quarti di coloro

che fecero della guerra un mestiere, lo intraprendessero sotto le bandiere del proprio duca.

15 V. FERRONE, I meccanismi cit., p. 100. 16 W. BARBERIS, Le armi cit., p. 80. 17 Ivi, p. XXI.

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Repubblica di San Marco Repubblica di Venezia 89% 1% 0% 0% 0% 1% 1% 2% 6% 0% Veneziano Imperiale Spagnolo Francese Toscano Ordine gerosolimitano Olandese Polacco Bavarese Sabaudo

Figura 3. Suddivisione per eserciti dei nati nella Repubblica di Venezia.

Dati estrapolati dal Dbi e dai repertori curati da Corrado Argegni e Aldo Valori.

La percentuale di sudditi della Repubblica di Venezia che combatté per il proprio esercito fu la più alta tra tutti i territori analizzati. In effetti si fece molto per riuscire a conservare i propri soldati e ufficiali, ma ciò che abbiamo detto nel terzo capitolo a proposito dei rapporti tra la Serenissima e la nobiltà della Terraferma, sembra in conflitto con questi risultati: gli sforzi di Venezia furono molti, ma non sempre andarono a buon fine. Che quasi tutti i patrizi cittadini militassero per l’esercito di S. Marco è fuor di dubbio, che lo facessero principalmente in mare, lo è altrettanto. E forse la risposta a questa contraddizione sta proprio qui: abbiamo ripetuto moltissime volte quanto i dati presi in considerazione in questa tesi siano suscettibili di variazioni soprattutto quando dobbiamo trattare di guerre e battaglie passate alla storia; abbiamo fatto l’esempio di Lepanto dove, insieme a tutta la cristianità, presero parte sicuramente anche molti Veneziani. Questo numero così alto non può che influenzare anche le stime interne dello Stato, non solo quelle di raffronto con gli altri.

Chiarita in parte questa incongruenza tra i dati e le vicende interne dell’apparato militare veneziano, cerchiamo di studiare che cosa fu fatto per recuperare le perdite e convogliare tutte le forze della Repubblica sotto una stessa bandiera.

Dopo la conquista del Friuli fino alle guerre d’Italia, il coinvolgimento della nobiltà di Terraferma era stato altissimo, soprattutto nella cavalleria pesante.

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Nella pausa bellica che ebbe luogo dopo Lepanto, Venezia sembrò dimenticarsi di coloro che l’avevano servita in precedenza18. Nel capitolo scorso avevamo

lasciato il Senato alle prese con il recupero di queste forze di terra e in particolare dei castellani friulani che, nella maggior parte dei casi, stavano servendo sovrani stranieri. La resa dei conti con gli Uscocchi era alle porte e la Serenissima aveva concentrato la maggior parte dei suoi sforzi militari in campo navale: adesso si ritrovava priva di ufficiali fedeli e competenti per il proprio esercito.

La soluzione concreta fu l’emanazione di un proclama, il primo giugno 1616, nel quale si faceva appello a tutti i feudatari della Repubblica in relazione alla legge feudale del 1586, che prevedeva che «fossero tenuti a servire in campo»19.

Tutti i feudatari non presenti in territorio veneto dovevano presentarsi (e il bando prevedeva anche termini precisi e particolarmente brevi) al provveditore generale all’armi e chi serviva il nemico sarebbe dovuto tornare e darne notizia al proprio rettore. Un mese più tardi l’obbligo fu esteso anche a coloro che risiedevano sul territorio e non si erano ancora presentati sul campo. La confisca dei beni costituiva la pena per chiunque avesse disubbidito. A parte i pochi casi cui abbiamo già fatto riferimento20, furono in molti a tornare, e non

solo coloro che non potevano permettersi di perdere i propri feudi, ma anche tanti che ritenevano comunque che fosse loro dovere battersi per il legittimo signore, anche se stavano servendo un altro sovrano e nonostante la convinzione che la Repubblica non avesse fatto mai niente per loro.

Il tentativo del Senato veneto fu un successo abbastanza indiscusso, però non lo fu altrettanto l’impegno militare dei sudditi ritrovati. Ma l’insuccesso della guerra non può essere attribuito esclusivamente alla nobiltà friulana, i fattori furono molti.

18 Cfr. capitolo 3, paragrafo secondo e in particolare L. PEZZOLO, “Un San Marco” cit.

19 A. CONZATO, Dai castelli cit., p. 267. Inoltre il capitolo quattordicesimo è dedicato all’analisi

dello sviluppo e dell’interpretazione della legge feudale veneziana.

20 Abbiamo raccontato le vicende di Rodolfo Colloredo nel terzo capitolo, altri due casi di nobili

che non tornarono a Venezia, ma, al contrario del Colloredo, non ritenevano certo di potersi arrogare il diritto di servire chi gli pareva, sono Giovanni Sforza Porcia e Rizzardo Strassoldo, di cui Antonio Conzato tratta a pagina 276 di Dai castelli cit.

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Dopo questo tentativo, Venezia comunque non rinunciò all’idea di recuperare anche coloro che non erano tornati. Innanzitutto cambiò la legge feudale dando l’incarico al Provveditore sopra i feudi di dare il parere determinante sulle investiture. Potevano riottenere i propri beni e l’investitura anche coloro che non erano tornati dopo i proclami del 1616, presentandosi in Senato. Pur dopo una lunga attesa, si fecero avanti quasi tutti i castellani, probabilmente decisi a non tagliare definitivamente i rapporti con la Repubblica, la quale a sua volta aveva fatto diversi passi indietro per cercare di recuperare i legami.

In definitiva quindi possiamo asserire che, escludendo il periodo immediatamente successivo alla battaglia di Lepanto, Venezia cercò sempre, per quanto possibile, di coinvolgere o almeno tenere sempre sotto controllo la nobiltà interna.

Stato della Chiesa

Il problema della fuga dei nobili che si trova a dover affrontare la Repubblica di Venezia è condiviso anche dallo Stato Pontificio, seppur sotto una forma diversa. Il Papato infatti per lungo tempo aveva appoggiato le carriere estere dei propri nobili per dimostrare il suo appoggio alle lotte della cristianità, ma in parte anche per una certa noncuranza nei confronti dell’organizzazione dell’esercito.

Stato della Chiesa

46% 17% 10% 7% 6% 6% 3% 2% 1% 1% 1% Pont ificio Spagnolo Imperiale Toscano Veneziano

Ordine Gerosolimit ano Francese

Sabaudo non classif icabile Olandese Gonzaghesco

Figura 4. Suddivisione per eserciti dei nati nello Stato della Chiesa.

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Data la varietà della composizione della curia, i nobili dello Stato si trovavano praticamente costretti a seguire una «politica delle molteplici lealtà»21,

dimostrandosi quindi fedeli in particolare alla casa dei Farnese e alla corona di Spagna. Negli ultimi decenni del Cinquecento, gli anni Ottanta soprattutto, i nobili dello Stato pontificio considerano la carriera militare più importante e redditizia di quella all’interno della curia22. Moltissimi, come abbiamo già visto,

seguiranno nelle Fiandre Alessandro Farnese, acquisendo esperienza e gradi. Questa molteplicità di uomini altamente preparati sarà in realtà più un peso che un vantaggio nel momento in cui si cercherà di impiegarli costruttivamente nell’esercito dello Stato: troppe competenze in uomini così importanti, con l’aggiunta del nepotismo insito naturalmente nel sistema della curia, creò conflitti e rivalità che rovinarono l’organizzazione dell’esercito, rendendolo di conseguenza poco attraente per coloro che erano chiamati a militarvi23.

Un altro tentativo per coinvolgere i nobili nell’organizzazione dell’esercito fu di affidar loro la gestione delle milizie, ma anche questo non fu sufficiente: tale incarico appariva indegno a condottieri che avevano militato a fianco di Alessandro Farnese nelle Fiandre o in altri importanti teatri di guerra. Inoltre l’iniziale politica seguita nella gestione delle milizie fu di affidare le varie compagini territoriali ad ufficiali provenienti da altri luoghi, e anche questo si rivelò fallimentare: consentire ad aristocratici di guidare le milizie della propria zona in effetti comportava più vantaggi che problemi, in primo luogo la maggior facilità di coinvolgere i sudditi nelle truppe24.

Sarà tra la fine del XVI secolo e l’inizio del successivo che cominceranno a intravedersi cambiamenti nella tecnica di coinvolgimento; innanzitutto il principio del mutamento fu la lotta al banditismo che, essendo un problema che gravava direttamente i possedimenti feudali, rese più partecipe la nobiltà. Ma la

21 Angelantonio SPAGNOLETTI, Stato, aristocrazie e ordine di Malta, Bari, École Française de

Rome-Università di Bari, 1988, p. 4.

22 Giampiero BRUNELLI, “Soldati della vecchia scuola di Fiandra”. Nobiltà ed esercizio delle armi

nello stato della Chiesa fra Cinque e Seicento, in A. BILOTTO, P. DEL NEGRO, C. MOZZARELLI (a

c.), I Farnese cit., p. 432.

23 Ivi, p. 440.

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vera svolta fu determinata soprattutto da un più generale cambiamento di mentalità. Infatti è in questo periodo che si modificò l’immagine del papato: non si combattevano più solo battaglie contro gli infedeli, ma si lottava per difendere gli interessi propri e le prerogative della Chiesa intesa come Stato. Divenne quindi assolutamente essenziale la creazione di un esercito forte e ricco di soldati e ufficiali che combattessero solo per il «sovrano Pontefice» e non per chi sarebbe potuto essere o divenire suo nemico25.

L’artefice principale di questo nuovo indirizzo del pontificato fu Papa Urbano VIII, il quale però non riuscì a compiere la trasformazione definitiva, come dimostrò la sconfitta subita dalla Chiesa nella prima fase della guerra di Castro. Le cause dirette della sconfitta sono da rintracciarsi nella mancanza di quadri intermedi e soprattutto nel fatto che molti nobili non fossero ancora rientrati a far parte dell’esercito papale. D’altra parte papa Barberini non era riuscito ad evitare scelte di tipo nepotistico: aveva sì cercato di riallacciare i rapporti con i nobili, ma se non si possedevano contatti o amicizie in curia non si riusciva a giungere ad importanti incarichi nell’esercito26.

Granducato di Toscana

«Di sicuro la Toscana Medicea non appartiene al novero di quegli Stati che hanno fatto delle armi il mezzo privilegiato della loro iniziativa politica. Tuttavia non è nemmeno da accogliere l’immagine, tradizionale, di una Toscana rimasta socialmente sorda, tra XVI e XVIII secolo, ai clangori di Marte e, pertanto, ritenere che in questi secoli le forze armate del Granducato, la loro organizzazione e la loro utilizzazione, non siano state al centro degli interessi, dei contrasti, delle discussioni, e poi delle decisioni via via prese a Firenze dai gruppi di governo.»27

25 G. BRUNELLI, Soldati del Papa cit., cap. 4. 26 Ivi, cap. 6.

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Granducato di Toscana 44% 14% 9% 9% 8% 7% 7% 2% Toscano Imperiale Pontificio Spagnolo Veneziano Ordine Gerosolimitano Francese Sabaudo

Figura 5. Suddivisione per eserciti dei nati nel Granducato di Toscana.

Dati estrapolati dal Dbi e dai repertori curati da Corrado Argegni e Aldo Valori.

Le milizie in Toscana erano già state pensate, organizzate ed istituite nei primi decenni del Cinquecento. Nel corso del tempo erano state costante oggetto di revisione e miglioramento, in particolare uno dei problemi salienti era che spesso erano viste dalla popolazione come portatrici di disordine, in piena antitesi con uno dei loro principali scopi: contribuire al mantenimento dell’ordine in tutti i luoghi del territorio. Il governo affrontò il problema diminuendo progressivamente nel corso degli anni i privilegi cui avevano diritto i miliziani, sperando che ciò evitasse che ad arruolarsi volontariamente fossero solo i disperati, coloro che non avevano che da guadagnare da questa attività. Si giunse infine a mantenere come unico privilegio, considerato il meno dannoso, ma anche il più stimolante, il diritto di portare le armi, esattamente come avveniva negli altri Stati28.

L’efficienza organizzativa dell’istituzione delle milizie corrisponde in pieno alla politica praticata dal Granducato: prudente, preparata ad ogni evenienza, ma non pronta a gettarsi necessariamente in guerre che potevano essere al di sopra della sua portata. Le milizie infatti garantivano una sorta di esercito permanente, che certamente non poteva essere mandato in battaglia, ma almeno consentiva di mantenere il territorio presidiato e di investire denaro per truppe regolari quando ne fosse sorta la necessità.

Quindi la politica di coinvolgimento dei sudditi, pur con tutti i limiti e le difficoltà di cui sopra, era perseguita nel Granducato già da diverso tempo,

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decisamente in anticipo rispetto a molti altri Stati della penisola. Quel che però mancava ancora era il coinvolgimento della nobiltà.

Questo percorso di avvicinamento e coinvolgimento caratterizzò la prima metà del Seicento. Come in quasi tutti gli altri Stati, anche in Toscana i nobili vennero incoraggiati ad andare a militare all’estero e non solo per avere ufficiali formati senza dover investire nel loro addestramento, ma anche per mostrare ai principi italiani e stranieri che il Granducato aveva un ruolo attivo nelle imprese militari senza per questo dover investire nella formazione di un esercito di Stato. In realtà già la creazione dell’Ordine dei cavalieri di Santo Stefano da parte di Cosimo I aveva determinato una svolta in tal senso. L’Ordine, oltre a portare ad un rafforzamento della figura politica del Granducato, mirava anche a coinvolgere la nobiltà – in questo caso non soltanto toscana – nell’apparato militare, anche attraverso il conferimento di incarichi di grande prestigio. Dell’Ordine di Santo Stefano, così come di quello di Malta, parleremo più approfonditamente nel prossimo capitolo.

Questa politica però non fu sufficiente a garantire un cospicuo risparmio al governo. La scelta della neutralità armata intrapresa da Ferdinando II costava molto: sebbene chi partiva dal Granducato per combattere all’estero o in patria pagasse le spese proprie e quelle della truppa, e quindi non costituisse fonte di spesa per lo Stato, la mancata partecipazione diretta alle imprese belliche – in particolare quelle imperiali – implicava che comunque dovesse contribuire allo sforzo degli alleati mediante cospicue elargizioni in denaro. Oltre al fatto che mantenere un esercito costantemente pronto era un’ulteriore spesa non indifferente29.

Comunque sia, complessivamente, la politica di coinvolgimento della nobiltà perseguita dalla famiglia Medici fu un successo: la risposta fu pronta e corrispose ad un reale impegno sia entro i confini dello Stato che all’estero, e soprattutto pervenne da tutta l’aristocrazia, non solo dal patriziato fiorentino più direttamente a contatto con il governo.

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4.4 Quando il proprio sovrano è “straniero”

Della Spagna abbiamo già parlato abbondantemente; abbiamo visto come era riuscita a crearsi una fitta rete di nobili fedeli che legava a sé con titoli e terre; abbiamo anche analizzato i rapporti che intratteneva con gli Stati non sudditi; infine abbiamo enunciato i tratti salienti della progressiva decadenza di questa sudditanza. Ovviamente Madrid era interessata quanto gli altri sovrani italiani a vedere la nobiltà napoletana, piuttosto che lombarda o siciliana, combattere tra le proprie schiere.

Cominciamo innanzitutto col vedere se i dati confermano il successo della politica militare spagnola in Italia. Come possiamo notare, fu un successo su tutti i fronti: i militari che si impegnavano nell’esercito spagnolo sono una percentuale altissima dei nati nei suoi territori, inferiori solo allo strabiliante dato veneziano. Ducato di Milano 80% 7% 3% 2% 3% 2% 2% 1% Spagnolo Imperiale Ordine Gerosolimitano Pontificio Sabaudo Francese Veneziano Toscano

Figura 6. Suddivisione per eserciti dei nati nel ducato di Milano.

Dati estrapolati dal Dbi e dai repertori curati da Corrado Argegni e Aldo Valori.

Regno di Napoli 74% 12% 6% 2% 2%2% 1% 1% Spagnolo Ordine gerosolimitano Imperiale Veneziano Pontificio Repubblica di Napoli Francese Ottomano

Figura 7. Suddivisione per eserciti dei nati nel Regno di Napoli.

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Regno di Sicilia 50% 33% 11% 2% 2% 2% Spagnolo Ribelle messinese Ordine gerosolimitano Ottomano Francese Imperiale

Figura 8. Suddivisione per eserciti dei nati nel Regno di Sicilia.

Dati estrapolati dal Dbi e dai repertori curati da Corrado Argegni e Aldo Valori.

Il fatto che la Sicilia presenti il numero più basso di militari a servizio della Spagna è abbastanza emblematico dei problemi che l’isola aveva rispetto agli altri domini asburgici. Non a caso il secondo dato in ordine di grandezza è quello che raccoglie coloro che presero parte alla ribellione del 1674. Stranamente, però, sempre a questo proposito, il dato relativo all’esercito francese è piuttosto basso. Tra coloro che militarono per quest’ultimo figura Antonio Crisafi, il quale, insieme ai fratelli, ebbe una parte di rilievo nella rivolta di Messina e dopo i fatti, col fratello Tomaso, si rifugiò a Versailles, ben accolto a corte. Non conosciamo il motivo per cui fu rinchiuso alla Bastiglia, nel 1683, però fu liberato per ordine del sovrano, a patto che andasse a prendere servizio nelle colonie. Partì per il Canada l’anno successivo guidando, col grado di capitano, un distaccamento della marina francese30.

Tuttavia, nonostante l’indubbio riscontro positivo dei dati, qualcuno che sfuggiva alla dominazione spagnola c’era. Dobbiamo capire perché lo facevano, visto che i vantaggi per chi combatteva nell’esercito spagnolo, almeno fino alla metà del Seicento, erano sicuramente moltissimi.

Sul chiudersi del XVII secolo si registra un leggero aumento dei militari che cercano fortuna altrove. Ad esempio per Giovanni Carafa, che inizia la sua carriera poco prima del 1693, sembra assolutamente scontato prestar servizio

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nell’esercito imperiale dove era maresciallo Antonio Carafa, duca di Traetto. Tornò in Italia solo nel 1707 insieme con le truppe austriache inviate alla conquista del Regno di Napoli31.

Per quanto riguarda il periodo precedente, una possibilità da considerare è quella di coloro che dovevano sfuggire alla giustizia e quindi scappavano dai domini spagnoli finendo spesso per arruolarsi in eserciti stranieri. Capitò a Bernardino Abenavoli, nato intorno alla metà del XVII secolo dalla famiglia proprietaria del feudo calabrese di Montebello. Una parte di questo feudo era stata trasferita, anni addietro, ad un’altra famiglia del luogo; nel tentativo di riottenerla, l’Abenavoli aveva chiesto la mano della sorella del nuovo proprietario. Vedendosi rifiutato e non volendo in alcun modo rinunciare a ciò che considerava suo di diritto, Bernardino uccise il marchese e i suoi familiari e rapì la sorella, sposandola poco dopo. Dopo questo episodio dovette necessariamente fuggire, riuscì a giungere a Malta e da lì a Vienna, dove si arruolò in un reggimento imperiale. Anche qui però fu riconosciuto e denunciato all’imperatore, il quale lo perdonò, permettendogli di continuare la sua carriera e di giungere fino al ruolo di capitano32.

Una vicenda simile (anche se non altrettanto grave) vede protagonista, nel ducato di Milano, Manfrino Castiglioni, il quale venne però infine riammesso nella terra natale. Nato a Milano nella seconda metà del Cinquecento dall’illustre famiglia ricca di grandi esponenti della gerarchia militare, fu condannato in contumacia per detenzione di armi proibite e tentato omicidio. Non sappiamo se fosse realmente colpevole, sicuramente però sfuggì alla condanna riparando nel ducato di Savoia e poi andando a militare nel 1603 nell’esercito imperiale, prima in Ungheria e successivamente in Moravia. Nel 1613 passò al servizio del duca di Mantova, nel cui esercito conquistò una posizione tale da garantirgli un posto nel Consiglio di guerra e anche una

31 Cfr. C. RUSSO, Carafa Giovanni, in Dbi, ad voc., XIX, pp. 559-561. 32 Cfr. F. RUSSO, Abenavoli Bernardino, in Dbi, ad voc., I, pp. 48-49.

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reputazione che gli concesse di ritornare in patria dove nel 1627 divenne commissario generale della cavalleria dello Stato33.

Ancora diversi sono i casi di coloro che militarono per eserciti esterni semplicemente perché lo avevano fatto i loro padri precedentemente: questo il caso di Luigi Dovara, nato nel 1535 molto probabilmente a Cremona34, educato

fin da piccolissimo non solo al mestiere delle armi, ma anche alla fedeltà assoluta alla famiglia Medici. Fu così che prese parte alla guerra di Siena e successivamente a tutte le altre imprese toscane, risalendo gradualmente i gradini della gerarchia militare e diventando uno dei primi cavalieri dell’Ordine di Santo Stefano35.

Questi casi sono stati riportati a titolo di esempio; dobbiamo ricordare, comunque, che una buona parte di coloro che dai grafici risultano combattere per l’esercito imperiale, è costituita da chi, col cambio di dominazione, rimase a combattere per il legittimo sovrano. Il già segnalato calo di interesse del patriziato milanese per la carriera militare non riguarda la totalità della classe dirigente. Infatti alcuni membri delle grandi dinastie di combattenti non tradirono la loro vocazione militare; tra questi Ludovico Barbiano di Belgioioso, nato a Milano nel 1728, secondogenito del principe Antonio, che si arruolò a ventiquattro anni nell’esercito imperiale, considerato all’epoca l’unico modo per assicurarsi poi un posto nella carriera pubblica36.

In conclusione si può affermare che anche nei territori italiani non indipendenti, nonostante i notevoli vantaggi ottenuti servendo il proprio sovrano, si incontrano casi di militari che si ponevano al servizio di altri. Abbiamo visto che le ragioni per farlo erano anche molto diverse l’una dall’altra e che

33 Cfr. A. BORROMEO, Castiglioni Manfrino, in Dbi, ad voc., XXII, pp. 171-172.

34 Cremona era in realtà uno dei principali centri lombardi da cui affluivano soldati e ufficiali

per l’esercito spagnolo. La sua importanza per la corona iberica era tale che i ministri di Filippo II gli sconsigliarono – quando se ne presentò l’occasione – di cederla in cambio del Monferrato, della cui posizione strategica fondamentale abbiamo già parlato. Un quadro della situazione militare di Cremona è fornito da Mario RIZZO, «Ottima gente da guerra». Cremonesi al servizio

della strategia imperiale, in corso di pubblicazione in Giorgio POLITI (a c.), Storia di Cremona, vol.

IV, L’età degli Asburgo di Spagna (1535-1707).

35 Cfr. D. TOCCAFONDI FANTAPPIÉ, Dovara Luigi, in Dbi, ad voc., XLI, pp. 573-576. 36 Cfr. N. RAPONI, Barbiano di Belgioioso Ludovico, in Dbi, ad voc., VI, pp. 211-213.

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apparentemente nessuno incontrava ostacoli da parte dell’autorità, probabilmente proprio perché erano episodi che si verificavano raramente.

4.4 Combattere per altri: fare pratica o scelta di lidi migliori?

Abbiamo già affrontato il problema del combattere per sovrani diversi dal proprio parlando dei singoli Stati e abbiamo anche visto che, nella maggior parte dei casi, questo era tollerato se non addirittura auspicato dai governi. Gli Stati indipendenti della penisola lo trovavano conveniente, ma non tutti riuscirono ad applicare proficuamente questa politica. Come abbiamo visto, per quanto riguarda il Granducato di Toscana andò bene, quasi sempre i nobili tornavano e militavano nell’esercito di casa; ma per lo Stato della Chiesa non fu altrettanto scontato: nel momento in cui il Papa cercò di riorganizzare le proprie forze al fine di combattere una guerra praticamente da solo contro tutti gli altri Stati italiani, molti dei suoi ufficiali stavano ancora servendo fuori dai domini pontifici e non giunsero a portare il proprio aiuto.

Uno di questi militari assenti dello Stato della Chiesa è Maiolino Bisaccioni: la sua storia ci fornisce un ottimo esempio di mobilità in età moderna. Nato a Ferrara nel 1582, dopo aver studiato legge a Bologna, a sedici anni si arruolò come alfiere al servizio di Venezia, ma non vi rimase a lungo: tentò una carriera più rapida andando come venturiere al servizio dell’esercito imperiale che stava combattendo contro il Turco in Ungheria. Nel 1603 era di nuovo in Italia, dove vari fatti di sangue da lui provocati gli portarono una fortuna altalenante: riusciva a ottenere incarichi passando da un sovrano all’altro, ma li perdeva subito. Nel 1616 fu governatore militare della città di Correggio, ma anche qui non restò molto, cadde presto in sospetto di infedeltà e quindi fu costretto ad andar via: ormai per lui era necessario allontanarsi dagli Stati dell’Italia centrale e quindi si rifugiò a Trento. Prese parte alla guerra dei Trent’anni, ma ancora una volta non a lungo perché colui che gli aveva promesso un posto da tenente era morto prima di poter fare il suo nome. Nel 1621, essendo caduto il bando dagli Stati pontifici, tornò a Roma dove si ingegnò come agente diplomatico per affari di ordine minore. Passò il resto della sua vita muovendosi per tutta la

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penisola - Napoli, Palermo, Torino –, proponendosi come diplomatico, talora, ma sempre meno a causa dell’avanzare dell’età, come militare. Morì a Venezia nel 166337. Maiolino Bisaccioni passò la vita ad offrire i suoi servizi ad

un’incredibile molteplicità di signori: sicuramente i suoi spostamenti furono in gran parte legati alla necessità, ma è indubbio che ci fosse un interesse di fondo nel ricercare la gratifica migliore.

Dall’insieme dei grafici di questo capitolo ci appare una sorta di gerarchia degli Stati organizzata sulla base della capacità di saper convogliare i proprio sudditi in una struttura militare interna. La Repubblica di San Marco e il ducato di Savoia sono – con l’esclusione della Spagna – indubbiamente le due entità le cui politiche in questo senso riscossero il maggior successo; seguono il Granducato di Toscana e lo Stato della Chiesa, nei quali comunque quasi la metà dei sudditi militanti prese parte alle strategie dello Stato. Sono invece i piccolissimi stati che, probabilmente a causa della relativamente scarsa autonomia e della costante necessità di mostrarsi benevoli oppure neutrali verso le altre potenze, non ritennero neppure utile puntare alla creazione di un forte esercito. Abbiamo detto che i nobili provenienti da Parma, Modena e Mantova privilegiarono particolarmente la corona spagnola e, in seconda istanza, l’impero; ma ci furono anche altri casi: Orazio Farnese fu generale della cavalleria veneziana38 e Fabrizio Guicciardi di Reggio Emilia combatté prima

per la Francia e poi per l’Impero39.

37 Cfr. V. CASTRONOVO, Bisaccioni Maiolino, in Dbi, ad voc., X, pp. 639-643.

38 Terzogenito del duca Odoardo II, nacque a Piacenza nel 1636; avviato alla carriera militare

perché quella ecclesiastica non sembrava molto conveniente, dati i problemi riguardanti il ducato di Castro, si dimostrò ben presto molto abile. Ottenne la nomina a generale della cavalleria veneta in cambio delle truppe inviate dai Farnese in soccorso a Candia. Per non rimanere inoperoso si fece ben presto inserire nella fanteria, con la quale, seguendo gli ordini di Mocenigo, compì mirabolanti imprese nonostante la giovanissima età (aveva appena diciotto anni). Sfortunatamente morì di malattia durante un viaggio in nave che da Candia lo stava riportando a casa. Cfr. D. BUSOLINI, Farnese Orazio, in Dbi, ad voc., XLV, pp. 127-128.

39 Di nobile famiglia reggiana, la sua educazione fu particolarmente curata: studi umanistici a

Roma, arti cavalleresche all’Accademia di Blois in Francia e il classico Grand Tour. Decise poi di arruolarsi in Francia nel reggimento Magalotti che combatteva nelle Fiandre. Giunto al grado di capitano tornò a casa e rimase per un periodo a servizio del duca di Parma. Infine fu inglobato dall’Impero sia come militare – prese parte alle battaglie in Spagna e Portogallo del 1703 – che come abile diplomatico. Il suo ultimo incarico fu a Londra per il duca estense, dove morì di

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Infine vorrei concludere l’analisi dei combattenti all’estero con alcuni esempi di scelte –più o meno forzate – molto lontane dall’andamento generale delineato dai nostri dati.

Galeazzo Gualdo Priorato, di Vicenza, nel 1621, appena quindicenne, andò a combattere al seguito del padre nelle Fiandre, ma sotto le bandiere dello

staatholder, invece che sotto quelle spagnole, come la maggior parte degli

Italiani. Vi rimase per una decina d’anni e poi anche lui cominciò a girovagare per il mondo passando da un incarico ad un altro. Dopo l’esercito olandese passò al veneziano, a quello imperiale e poi di nuovo a quello veneziano. Gullino, autore della biografia, mette in dubbio la credibilità di alcune delle vicende raccontate dal biografo del Gualdo Priorato: la sua vita sembra eccessivamente avventurosa, oltre i limiti del credibile, viene premiato dal successo in qualunque iniziativa affronti ed è conosciuto in tutte le più importanti corti d’Europa. Comunque sia, fosse anche un po’ romanzata, la sostanza non cambia: abbiamo un altro esempio di alta mobilità che si aggiunge a scelte meno comuni, presentandoci quindi un personaggio fuori dall’ordinario40.

Un’altra meta un po’ lontana dai canoni fin qui incontrati è la Polonia. Stato non molto considerato, ma con un esercito indubbiamente degno di nota, o meglio, con un sovrano che, probabilmente anche a causa delle difficoltà incontrate con la potente nobiltà locale, apprezzava notevolmente i contributi stranieri, sia che fossero indirizzati al combattimento, sia che fossero di tipo più tecnico-ingegneristico41. Stefano Ittar nacque in Polonia (nel 1724), da una famiglia lì

insediata nei primi anni del Cinquecento42, dato abbastanza certo che ci

gotta nel 1717, all’età di cinquantacinque anni. Cfr. M. FOLIN, Fabrizio Guicciardi, in Dbi, ad voc., LXI, pp. 75-77.

40 Cfr. G. GULLINO, Gualdo Priorato Galeazzo, in Dbi, ad voc., LX, pp. 163-167. Sul Gualdo

Priorato vedi anche Carla SODINI, Scrivere e complire: Galeazzo Gualdo Priorato e le sue Relationi

di stati e città, Lucca, Pacini Fazzi, 2004.

41 Sui rapporti tra l’Italia e la Polonia vedi in particolare i contributi di Rita MAZZEI: Itinera

mercatorum: circolazione di uomini e beni nell'Europa centro-orientale 1550-1650, Lucca, Pacini Fazzi,

1999; Traffici e uomini d'affari italiani in Polonia nel Seicento, Milano, F. Angeli, 1983.

42 A trent’anni Stefano Ittar fu nominato tenente dell’esercito reale polacco, sfugge il motivo

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conferma una certa propensione locale ad accogliere gli stranieri. Ancora più chiara è però la vicenda di Alessandro Guagnini, nato nei primi anni Trenta del XVI secolo a Verona in una famiglia inserita negli elenchi dei nobili di secondo grado, ma caduta in disgrazia, non sappiamo come, verso la metà del Cinquecento. A seguito del rovescio economico, il padre di Alessandro si era recato a cercar fortuna in Polonia e nel 1561 aveva chiamato a sé il figlio. Ben presto ebbero l’occasione di conoscere direttamente il re, contatto che aprì loro molte strade, permettendo in particolare ad Alessandro di essere nominato comandante di una guarnigione e più tardi di ricevere il titolo di cavaliere e la cittadinanza polacca43.

Ancora più distanti dalle consuete scelte dei militari dell’epoca sono le vicende di Gian Dionigi Galeni e Scipione Cicala, due dei più famosi e audaci condottieri ottomani di origine cristiana. Effettivamente le loro non furono scelte totalmente libere, si trovarono in Africa perché catturati da corsari, ma una volta sul luogo presero decisioni precise e apparentemente ben ponderate, che li portarono a ricoprire incarichi tra i più onorevoli e redditizi. Non tanto distanti né temporalmente né geograficamente, i due vengono catturati ancora adolescenti; entrambi sapranno cogliere le occasioni per ottenere dal nemico ciò che in casa non avrebbero mai potuto conseguire. Il Galeni, nato nel 1520 sulla costa occidentale calabra, sarà rapito durante un saccheggio barbaresco e diverrà uno dei più grandi corsari del tempo44; il Cicala, nato a Messina nel

La sua vita è costellata di importantissimi incarichi architettonici in vari luoghi della penisola. L’ultimo compiuto a Malta, dove si era trasferito nel 1786 e dove morì nel 1790. Cfr. M. G. D’AMELIO, Ittar Stefano, in Dbi, ad voc., LII, pp. 685-687.

43 La storia di Alessandro Guagnini continua in varie parti d’Europa, abbandonato l’esercito,

anche forse per non essere riuscito ad instaurare un ottimo rapporto con il nuovo sovrano, tornò in Italia deciso a dedicarsi al commercio con il nord del continente. Non ebbe molta fortuna, si trovò per un breve tempo anche a servizio dei sovrani svedesi, ma infine decise di concludere la sua vita di nuovo in Polonia, dove morì, a Cracovia, nel 1614. Cfr. L. RONCHI DE MICHELIS, Guagnini Alessandro, in Dbi, ad voc., LX, pp. 90-92.

44 Anche noto come Uluch-Alì o Uluciali. Salì la gerarchia militare fino a divenire capitano del

mare; morirà ricchissimo e stimato da tutti nel 1587 per una malattia. Cfr. G. BENZONI, Galeni

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1544, sarà invece catturato durante una spedizione in mare e, portato a Costantinopoli, diverrà uno dei più valenti condottieri dell’esercito ottomano45.

45 Noto anche come Čigala-Zade o Yūsuf Sinān. Percorse una carriera ancora più brillante di

quella del Galeni, morì nel 1606 col titolo di primo visir. Cfr. G. BENZONI, Cicala Scipione, in

Figura

Figura 1. Suddivisione dei militari per Stato di nascita. Dati estrapolati dal Dbi e dai repertori
Figura 2. Suddivisione per eserciti dei nati nel Ducato di Savoia.
Figura 3. Suddivisione per eserciti dei nati nella Repubblica di Venezia.
Figura 4. Suddivisione per eserciti dei nati nello Stato della Chiesa.
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