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biografia dell’artista II. Proposta di un percorso cronologico attraverso la I. La poesia visiva e il contributo critico di Lucia Marcucci Indice

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Indice

Premessa

……….……….……….………… p. 4

Introduzione

……… p. 5

I. La poesia visiva e il contributo critico di Lucia

Marcucci

………. p. 8

I.1 Contesto culturale

……….…….…….……… p. 8

I.2 Questioni teoriche

Definizione e terminologia ……….……… p. 18 Avanguardia, neoavanguardia, postavanguardia? ………….……….……… p. 25 Il rapporto con i precedenti ……… p. 31 Il linguaggio ……….……….….…….……….….………….……… p. 45 Gli obiettivi e la volontà comunicativa ……….….……….….…….…….……… p. 52 Poesia visiva come intermedium? …….…….….….…….………….……… p. 65 I “luoghi” della poesia visiva e una riflessione sul collezionismo: il caso di Carlo Palli ……….…….….…….….….….….….…….…….……….…….……… p. 71 Poesia visiva ed editoria: l’esoeditoria e i libri d’artista ….…….….….….….….….… p. 77

II. Proposta di un percorso cronologico attraverso la

biografia dell’artista

……….……….……….……… p. 89

II.1 La famiglia e il precoce incontro con il mondo dell’arte

…….……. p. 90

II.2 Il Gruppo 70

La formazione e le esperienze performative ……….….….….…….……….…… p. 94 Le cinepoesie e la poesia sonora ……….…….….…….…….….….…….…….….… p. 100

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Gli ultimi anni ……….……….……… p. 104

II.3 Il Gruppo dei Nove

……….…….…….…….…….….………….………… p. 107

III. La poetica di Lucia Marcucci

….….………….……….…… p. 112

III.1 Evoluzione linguistica

Esordi da poetessa ……….……….……….….….……….…….…….… p. 112 Il linguaggio tecnologico ……….………. p. 118 Collage stretto, largo, tele emulsionate, poemi digitali ……… p. 128 Calligrafia e impronte del corpo ……….………. p. 138 Disegni e opere più propriamente pittoriche ….….….….……….………….…….… p. 141 Poesie oggetto, libri oggetto, libri d’artista ……….….… p. 146

III.2 Rapporto (conflittuale) con l’ideologia

….…….….….….…….….… p. 153 La Marcucci e il femminismo ………….……….…….……….…….……….……… p. 154 Arte e libertà: coraggio ed esigenza di trasgressione ….….…….….….….….……. p. 163

Apparati

……….….…….…….……….…… p. 166

Immagini ……….……….…….……….…….…….……… p. 166 Poesie ……….…….….……….…….…….….……. p. 234 Elenco delle esposizioni collettive dal 2003 ad oggi ……….………….……. p. 239 Elenco delle esposizioni personali ……….……….……….……… p. 243

Bibliografia e sitografia

……….….…….……….….… p. 245

Bibliografia specifica

Opere di Lucia Marcucci

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Cinepoesie ……….……….……….………. p. 246 Poesie sonore ……….……….…….……….……… p. 246 Saggi, articoli, contributi critici ……….……….……….……….…….…….….……. p. 247 Scritti inediti ……….…….…….…….……….……… p. 248

Opere su Lucia Marcucci

Cataloghi di mostre personali ….……….…….……….……….….…. p. 250 Saggi, articoli, numeri monografici, interviste ….…….………….……….…….…… p. 251 Tesi di laurea ……….…….….…….….…….….…….……… p. 252

Bibliografia generale

Opere letterarie e libri d’artista …….…….….….…….….……….. p. 253 Cataloghi di mostre ……….….……… p. 254 Monografie, articoli e saggi critici ……….….….……… p. 258

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Premessa

Ringrazio Lucia Marcucci per avermi accolto nel suo studio fiorentino, ricco di opere e testimonianze, e per aver condiviso con me alcuni dei suoi interessanti ricordi. Ringrazio inoltre il collezionista Carlo Palli per avermi permesso di accedere, senza alcuna limitazione, alla sua enorme collezione che comprende anche l’archivio privato della Marcucci, contenente materiale particolarmente interessante e in parte inedito. Senza la sua disponibilità, la sua gentilezza e il suo entusiasmo questa tesi, almeno in parte, non potrebbe esistere. Ringrazio inoltre Maddalena Carnaghi, collaboratrice della bresciana Fondazione Berardelli; Benedetta Marangoni, studentessa dell’Università Cattolica di Milano, che mi ha inviato la sua tesi triennale dedicata alla Marcucci; e Vanessa Martini, per i suoi utili consigli. Infine, ringrazio sinceramente il mio relatore, Prof. Sergio Cortesini, per la disponibilità dimostrata.

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Introduzione

Questa tesi ha lo scopo di analizzare la personalità e l’opera di Lucia Marcucci, artista fiorentina nata nel 1933 e tutt’oggi ancora in attività. Il nome della Marcucci viene giustamente associato a quello della poesia visiva, ambito di sperimentazione “intermedio” tra letteratura e arti figurative. Le opere di poesia visiva uniscono, seguendo il principio dello scontro e della compenetrazione, una parte più propriamente verbale ed una più propriamente visiva, entrambe “sottratte” al mondo tecnologico contemporaneo. L’operatore poetico-visivo si appropria del linguaggio e dei segni della realtà quotidiana (dunque linguaggio della pubblicità, dei giornali, dei fumetti ma anche immagini di varia provenienza) e, attraverso indite combinazioni, ne muta il significato restituendo al potenziale fruitore nuovi messaggi persuasori, che invitano al “consumo” di cultura e non di beni materiali. Seguendo questa logica, e nell’ottica di una progressiva democratizzazione dell’esperienza artistica, la sperimentazione ha progressivamente coinvolto ogni ambito di ricerca: dal teatro, al cinema, alla musica, al libro, al campo del gesto e dell’azione performativa.

Il nome della Marcucci è altresì associato, anche in questo caso correttamente, al Gruppo 70, primo nucleo costitutivo della poesia visiva, formatosi nel 1963 a Firenze, e al successivo ed internazionale Gruppo dei Nove. Tuttavia l’esperienza di gruppo, sommando i cinque anni di sopravvivenza del primo ai due del secondo, occupò meno di un decennio, per quanto ricco di avvenimenti, del lungo percorso artistico della Marcucci. Inoltre, anche durante questo periodo, parallelamente alla partecipazione ad eventi collettivi quali performances, mostre e festival, l’artista continuò a sperimentare privatamente con esiti del tutto personali. Particolarmente interessante, negli stessi anni, è anche la produzione critica di questa autrice: attraverso numerosi interventi, la Marcucci ha infatti contribuito alla teorizzazione e alla definizione di alcuni dei complessi aspetti della poesia visiva: il suo metodo d’azione, il suo messaggio impegnato, i suoi obiettivi e il modo in cui essa si è posta all’interno della società, così come le persone a cui si è rivolta.

Questa tesi ha dunque lo scopo di restituire la meritata attenzione alle teorizzazioni della Marcucci, oltre che al ruolo da lei avuto in eventi o azioni collettive e alle sue sperimentazioni personali, condotte indipendentemente dall’esperienza di gruppo. A grandi linee, tali obiettivi corrispondono ai tre capitoli in cui ho diviso il lavoro: nel primo capitolo ho analizzato le principali peculiarità della poesia visiva, rivolgendo particolare

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attenzione alle interessanti posizioni della Marcucci, in aggiunta a quelle dei suoi colleghi. Il secondo capitolo, che ricostruisce le varie fasi dell’esperienza giovanile e di gruppo dell’artista, ha invece un’impostazione biografica e più propriamente cronologica. Infine, nel terzo capitolo ho analizzato l’evoluzione linguistica dell’artista, intendendo con questo termine i differenti mezzi e le differenti “forme” alle quali la Marcucci ha, di volta in volta, affidato il suo messaggio contestatario, provocatorio e ironico, comunque libero da dogmi predefiniti. L’artista ha dimostrato, nella sua vasta e differenziata opera creativa, la tendenza a rinnovare continuamente la propria sperimentazione, portandola costantemente oltre i limiti imposti dalle tradizionali categorie artistiche quali pittura e scultura. Metodologie e tecniche sono state da lei riprese nel corso degli anni, e spesso sottoposte a progressive complicazioni semantiche, per cui, anche quando la Marcucci si è confrontata con forme più “tradizionali” rispetto alle poesie visive, come ad esempio le poesie lineari o mezzi più propriamente pittorici, queste realizzazioni vanno comunque lette all’interno di un percorso complesso e articolato, fatto di rimandi, riprese, e riferimenti a proprie sperimentazioni precedenti. Si tratta dunque, coerentemente con il carattere anticonvenzionale e indomito della Marcucci, di un percorso impossibile da interpretare secondo una consequenzialità lineare. Resta ferma l’ironia, carica distintiva di questa artista, così come il suo “essere nel tempo”, la sua costante capacità di confrontarsi con la realtà in cui ella agisce ed ha agito.

Per quanto riguarda le fonti e gli strumenti bibliografici che ho utilizzato in questa ricerca, per la prima parte, dedicata ai vari aspetti della poesia visiva, mi sono servita dei numerosi cataloghi delle mostre alle quali hanno partecipato, negli anni, i suoi esponenti e delle monografie, per contro rare e di impostazione generale, dedicate all’argomento. Per quanto riguarda il secondo e il terzo capitolo, più specificatamente dedicati alla Marcucci, ho invece consultato, tra il materiale edito, i cataloghi prodotti in occasione delle personali dell’artista e i suoi articoli e saggi pubblicati su riviste. I cataloghi delle prime personali in cui ha esposto la Marcucci, risalenti ad inizio anni Settanta, sono stati in più casi curati da Rossana Apicella. La studiosa vi ha proposto interpretazioni particolarmente interessanti ma limitate ad un piccolo numero di opere. A seguire un’impostazione generale che fornisca uno sguardo d’insieme sull’operato della Marcucci sono invece principalmente tre tra i più recenti cataloghi: Lucia Marcucci: Poesie Visive 1963-1997, datato 1997; Lucia Marcucci: Poesie Visive 1963-2003 del 2003; e il recentissimo catalogo della mostra Sprintpoem: Lucia Marcucci opere dal 1964 al 2011, allestita presso la Fondazione Berardelli di Brescia tra il maggio e il settembre del 2012. Lo strumento catalogo così

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concepito impone però, per sua stessa natura, dei limiti alla trattazione. La necessità di fornire una panoramica sull’operato della Marcucci esclude infatti la possibilità di entrare più di tanto nel merito delle singole opere o degli specifici avvenimenti che l’hanno vista coinvolta. Si sente perciò la mancanza di una monografia a lei interamente dedicata. Tenuto fermo il valore degli ultimi cataloghi editi, che tra i tanti meriti hanno quello di proporre brani originali della Marcucci e ripubblicare commenti (spesso di difficile reperibilità) alla sua opera, ponendosi dunque anche come strumenti antologici sul lavoro dell’artista, ho cercato, nella mia tesi, di integrare tali visioni d’insieme soffermandomi in particolar modo sulle opere finora non indagate. Mi riferisco soprattutto alle poesie lineari, alle poesie tecnologiche, ad alcuni lavori conservati dal collezionista Carlo Palli o presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze ma anche agli scritti critici e teorici (alcuni dei quali inediti) dell’artista. In altri casi, realizzazioni della Marcucci sono state invece più volte ricordate dagli studiosi, senza però entrare ulteriormente nel merito. Ciò è avvenuto, per esempio, per il romanzo tecnologico Io ti ex-amo, sagacemente commentato in una lettera da Italo Calvino nell’agosto 1966, poi più volte citato ma mai approfonditamente valutato alla luce di quanto sostenuto dallo scrittore.

Ricordando che, ovviamente, vi sono anche alcune opere della Marcucci che sono state analizzate in modo sistematico, per esempio da Lucilla Saccà (nel catalogo della mostra La parola come immagine e come segno: Firenze, storia di una rivoluzione colta, 1960-1980) e da Benedetta Marangoni (nella sua tesi triennale), spero di avere a mia volta contribuito allo studio della vastissima e interessante produzione creativa di quest’artista. A tal fine, ha per me avuto fondamentale importanza, oltre al reperimento di tutto il materiale edito riguardante la Marcucci, la possibilità di consultare il materiale, in parte inedito, raccolto nell’archivio dell’artista, catalogato e riorganizzato dal collezionista Carlo Palli e da lui attualmente conservato.

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I. La poesia visiva e il contributo critico di Lucia

Marcucci

I.1 Contesto culturale

In questa prima sezione cercherò di ricostruire il contesto culturale in cui prese vita il fiorentino Gruppo 70, gruppo a cui è strettamente collegata l’iniziale esperienza artistica di Lucia Marcucci e nucleo costitutivo della poesia visiva.

Sono numerosi i critici e gli studiosi che hanno ripercorso brevemente la genesi del Gruppo 70 in testi dedicati all’analisi retrospettiva della neoavanguardia italiana1. Che in tali volumi la ricerca sia limita all’ambito letterario si capisce anche solo leggendo i titoli: Letteratura e caos: Poetiche della “neo-avanguardia” italiana degli anni Sessanta di Lucio Vetri e Dal neorealismo alla Neoavanguardia: Il dibattito letterario in Italia negli anni della modernizzazione (1945-1969) di Giorgio Luti e Caterina Verbaro, sono due tra i tanti esempi. Lucio Vetri, nell’Introduzione posta in apertura al suo volume, ha comunque esplicitamente avvertito che il termine «neo-avanguardia», come il termine «sperimentalismo» che talora gli si è preferito, designa «correntemente, seppure con molta generalità»2, un movimento letterario e culturale formatosi ed espressosi in Italia a partire dai tardi anni Cinquanta. Ciò porterebbe a pensare che l’esperienza della poesia visiva si sia interamente svolta nei limiti del campo della letteratura ma lo stesso Vetri si affrettava a precisare come le varie sperimentazioni identificate con l’unico termine neoavanguardia avessero seguito due diverse strade: una prettamente “endoletteraria”, ed una “esoletteraria”. Nel primo caso è rimasto inalterato l’insieme di convenzioni linguistiche, retoriche, procedurali e fruitive che tradizionalmente hanno conferito identità peculiare e distintiva alla letteratura; nel secondo (e qui Vetri ha inserito anche la poesia visiva), invece, l’esercizio delle lettere rivendicava un più vasto terreno di manovra collocandosi, come ha spiegato lo studioso, in uno «spazio intermedio», adottando «materiali, tecniche e

1 Si veda: R. Barilli, La neoavanguardia italiana: Dalla nascita del “Verri” alla fine di “Quindici”,

Bologna, Mulino, 1995; G. Luti, C. Verbaro, Dal neorealismo alla Neoavanguardia: Il dibattito letterario in Italia negli anni della modernizzazione (1945-1969), Firenze, Le Lettere, 1995; M. Machiedo, Orientamenti ideologico-estetici nella poesia italiana del dopoguerra : 1945-1970, Zagreb, Filozofski Fakultet, 1973; L. Vetri, Letteratura e caos: Poetiche della “neo-avanguardia” italiana degli anni Sessanta, Milano, Mursia, 1992.

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strumenti»3 tradizionalmente prerogativa di altre arti. Accanto alla dimensione verbale si inseriva quella visuale; dapprima maggiore attenzione è stata rivolta alla “forma” della parola, al suo significante, per poi arrivare, con la poesia visiva, all’immissione delle immagini stesse.

Al di là della precisazione data, resta il fatto che Vetri abbia inserito le sperimentazioni poetico-visive in un’analisi retrospettiva della letteratura italiana del secondo dopoguerra e che termini come «materiali, tecniche e strumenti», utilizzati senza ulteriori precisazioni, non rendono probabilmente giustizia alla complessità dell’argomento trattato; argomento, quello della poesia visiva, che richiederebbe un’analisi indipendente, condotta sulla base di una teoria della comunicazione e non affidandosi ai tradizionali strumenti critici posti a disposizione delle “storie della letteratura” o delle arti figurative. Quale sia, ammesso che si possa definire con precisione, il campo di appartenenza delle ricerche poetico-visive è argomento della sezione Poesia visiva come intermedium, dove cercherò di fare chiarezza tra le differenti posizioni critiche.

Tornando alla precisazione del Vetri sul significato del termine neoavanguardia, è interessante notare come egli abbia parlato a tal proposito di «generalità»4. Più esplicito è stato lo studioso Gianni Scalia: per lui il vocabolo è, in se stesso, ambiguo. Scalia infatti in Critica, letteratura, ideologia, ha sostenuto che non è evidente se con il termine neoavanguardia si voglia intendere la continuazione radicalizzata delle premesse avanguardistiche primo-novecentesche, nel duplice possibile esito negativo e positivo, rispettivamente di cristallizzazione e duplicazione o di sviluppo legittimo e necessario delle potenzialità inespresse, oppure si debba pensare ad una situazione di superamento o addirittura fine dell’avanguardia5. I poeti visivi hanno più volte espresso la volontà di affrancarsi totalmente dalle esperienze del passato, ma è corretto utilizzare il termine neoavanguardia per identificare le loro sperimentazioni? È così anticipata un’altra delle questioni teoriche che affronterò in seguito: gli esponenti delle ricerche poetico-visive hanno rivendicato per se stessi una dimensione principalmente fenomenologica, mal accettando la propria collocazione all’interno della neoavanguardia italiana a fianco di gruppi istituzionalizzati. Rimando a tal proposito alla sezione Avanguardia, neoavanguardia, postavanguardia?

3 Ivi, p. 13.

4 Ivi, p. 7. 5

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Finora ho espresso alcune perplessità su quanto possa risultare corretto inserire la poesia visiva in un’opera come quella del Vetri, nonostante egli stesso, nell’Introduzione, abbia precisato il carattere di «storia a trama multipla»6 proprio della neoavanguardia, nata da basi comuni, ma poi concretizzatasi in forme e sedi anche molto diverse. Ho dato particolare spazio a Letteratura e caos rispetto ad altri testi (si veda per esempio l’elenco in nota n. 1), proprio perché esso è probabilmente il più esaustivo, arrivando a concedere maggiore spazio e migliore approfondimento alle questioni relative alle ricerche poetico-visive. Il discorso, quindi, vale a maggior ragione per le opere assai meno puntuali. È tuttavia un dovere precisare che le premesse comuni, per quanto generiche, a ciò che, da Vetri e altri, è stato considerato il movimento della neoavanguardia italiana, sono effettivamente valide anche per quanto riguarda la poesia visiva. In sintesi, le neoavanguardie hanno superato l’idea di una letteratura da intendersi come fatto intuitivo, considerandola invece «un fare di ordine intenzionale» attuato secondo «determinate idee operative»7. Al centro della ricerca è stato posto il linguaggio e questa ha costantemente avuto come punto di riferimento la realtà del mondo contemporaneo. Altro tema comune, che, come il precedente, approfondirò nei termini nei quali esso è stato affrontato dalla poesia visiva, è il rapporto con la critica: essa, prodotta in larga parte dai poeti stessi, non si è esaurita affatto nell’attività del giudicare se stessi o altri, ma si è posta in un rapporto di partecipazione attiva e fertile con il fare artistico; ha agito dunque concretamente su di esso, orientandolo nelle sue operazioni e promuovendolo.

Due motivi continuano però a lasciare perplessi sull’inserimento delle ricerche poetico-visive in un opera come quella del Vetri. Il primo è forse banale: il cammino sperimentale intrapreso dalla poesia visiva l’ha portata, nei suoi esiti più completi, ad attuare un’evoluzione così estrema delle premesse comuni sopra citate da rendere, per la sua analisi, un po’ troppo “anguste” le pagine di una storia della letteratura. Ma è il secondo motivo ad essere il più convincente: il Vetri, nel suo volume, non ha fatto alcun cenno a tutte quelle operazioni di ricerca, generalmente ripercorse (ma anche spesso ignorate)8 dalle storie delle arti figurative, che possono essere considerate, a torto o a ragione, le tappe precedenti alle esperienze poetico-visive. Vetri ha parlato di esoletterarietà ma la sua analisi è rimasta, alla fine dei conti, esclusivamente “endoletteraria”; la sua è, d’altronde, una storia della letteratura novecentesca. Dunque, se è vero che la poesia visiva è nata con

6 L. Vetri, op. cit., p. 11.

7 Ivi, p. 10.

8 Mi riferisco ad esperienze difficilmente “collocabili” (come del resto lo è la poesia visiva stessa) quali, ad

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la formazione del Gruppo 70 in un preciso contesto culturale, caratterizzato dal desiderio di rinnovamento e sperimentazione condotti all’interno delle riviste letterarie dell’epoca, per il lettore che non abbia indipendentemente approfondito l’analisi anche della parte, appunto, esoletteraria (che in questa sede affronterò nella sezione Il rapporto con i precedenti), risulterebbe complesso capire la profonda rivoluzione attuata dalla poesia visiva anche a livello linguistico.

Per quanto detto, non è adesso possibile prescindere da una breve ricognizione sul dibattito letterario sviluppatosi dalla metà degli anni Cinquanta in Italia, ma bisogna tenere presente che, per l’esito che raggiunse la poesia visiva nei suoi sviluppi successivi, si tratta forse ora di parlare della sua preistoria, non tanto a livello cronologico, quanto concettuale. La base comune sulla quale si svilupparono le ricerche poetiche del dopoguerra, e non solo quelle strettamente riconducibili all’ambito della neoavanguardia, è la reazione all’ermetismo. Tra gli altri, lo ha notato anche Lamberto Pignotti, forse il più conosciuto tra i poeti visivi, in una delle risposte al questionario Sette domande sulla poesia, proposto dalla redazione della rivista “Nuovi Argomenti” (n. 55-56, 1962) ad alcuni dei principali critici e poeti italiani9. Si può dire che tale reazione, prendendo spunto dalla divisione fatta da Pignotti, ha assunto tre forme notevolmente diverse in tre momenti successivi, facendosi via via più critica e riflessiva. Una prima “reazione polemica” ha preso vita subito dopo la seconda guerra mondiale, quando il neorealismo ha sostituito la cronaca alla fantasia, e il linguaggio comune, non privo di qualche esasperazione espressionistica, a quelli privati. Un secondo momento di reazione all’ermetismo si è venuto delineando nell’ambito della rivista “Officina”, fondata a Bologna da Pier Paolo Pasolini, Francesco Leonetti e Roberto Roversi nel 195510. “Officina” si è interrogata su una nuova, possibile, funzione sociale della poesia da contrapporre sia all’impegno eteronomo del neorealismo che all’autonomia ermetica. All’ermetismo, secondo i redattori, andava rimproverata un’interpretazione sostanzialmente edonistica della letteratura, che l’aveva reso idealmente complice del fascismo, per la comune ascendenza mitologica e irrazionalistica, e «per quel suo ritirarsi nei valori di letterarietà»11. Parallelamente, la rivista aveva intrapreso una revisione della tradizione letteraria italiana, in particolare novecentesca, e aveva scelto Pascoli e il suo abbassamento linguistico quale nume tutelare della propria militanza. La ricerca di “Officina” fu dunque “impegnata” ma, data l’insofferenza verso il primato della politica,

9 Le risposte di Pignotti sono ripubblicate in Sette domande sulla poesia, in L. Pignotti, Istruzioni per l’uso

degli ultimi modelli di poesia, Roma, Lerici, 1968, pp. 62-67.

10 Sull’esperienza di “Officina” si veda G. Luti, C. Verbaro, op. cit., in particolare pp. 63-66.

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non di partito. Il rapporto tra militanza e sperimentazione letteraria si fece più complesso ponendo al centro della questione la rivendicazione della necessità del dubbio e della libertà di ricerca. Pasolini parlò a tale proposito di neosperimentalismo, inaugurando, con un intervento pubblicato sul n. 5 di “Officina”, un ulteriore fronte polemico della rivista, quello con la nascente neoavanguardia12. L’autore contrapponeva il proprio sperimentalismo (caratterizzato da un atteggiamento problematico, drammatico), nel quale interiorità e storia comune erano indissolubilmente legate, al superficiale sperimentalismo delle neoavanguardie, affidato, a suo dire, unicamente ad una libertà illusoria, quella stilistica13.

Quella delle neoavanguardie dunque è la terza fase della reazione all’ermetismo. Il primo atto formativo va individuato nella fondazione della rivista “Il Verri”, nata a Milano nel 1956 su iniziativa del critico Luciano Anceschi14. Mentre “Officina” rimaneva ancorata a un’epoca di oggettivo privilegio dell’intellettuale e manifestava un’indifferenza sostanziale per il confronto con i mezzi dell’industria culturale, la poetica del “Verri” si mostrava particolarmente attenta alla realtà oggettuale del mondo contemporaneo e sosteneva la necessità del ridimensionamento dell’io poetico.

Tali proposte metodologiche vennero sviluppate dai Novissimi, i cinque poeti Antonio Porta, Nanni Balestrini, Elio Pagliarini, Edoardo Sanguineti e Alfredo Giuliani, riuniti nell’omonima antologia edita nel 1961 a cura dallo stesso Giuliani. Nell’ampia Introduzione posta in apertura al volume si concentrava il campo della ricerca sulle problematiche relative al linguaggio, non più né argomentativo né contemplativo, ma, in un certo senso, concessosi al confronto col mondo contemporaneo. Ogni questione critica veniva riportata alla dimensione linguistica; scriveva, per esempio, Giuliani: «Se conveniamo che, in quanto “contemporanea” la poesia agisce direttamente sulla vitalità del lettore, allora ciò che conta in primo luogo è la sua efficacia linguistica. Ciò che la poesia fa è precisamente il suo contenuto: se, poniamo, fa sospirare o annoia, la sua verità è, definitivamente, il sospiro o il tedio del lettore. E nei periodi di crisi il modo di fare coincide quasi interamente col significato»15.

Tuttavia, l’apertura alla lingua del reale non deve essere letta in senso mimetico. Si trattava infatti di attraversare lo specchio; i Novissimi si ponevano un problema di verità, di

12 P. P. Pasolini, Il neo-sperimentalismo, in “Officina”, n. 5, febbraio 1956, pp. 169-182.

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Sull’argomento si veda anche P. P. Pasolini, La libertà stilistica, in “Officina”, n. 9-10, giugno 1957, pp. 341-346.

14 Sull’esperienza del “Verri” si veda L. Vetri, op. cit., in particolare pp. 66-73.

15 A. Giuliani (a cura di), I Novissimi. Poesie per gli anni ’60, Milano, Rusconi e Paolazzi, 1961 [ed.

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rinnovamento strutturale, non di realismo coatto16. Alla pura registrazione, questi autori hanno contrapposto il conflitto con il linguaggio, col referente, con la comunicatività lineare. Nello specifico, il linguaggio veniva straniato rispetto alle sue proprietà semantiche, ne veniva alterato il tessuto sintattico, scomposta l’armonia, per poi essere ricostruito in ordini provvisori. «Per capire la poesia contemporanea, piuttosto che alla memoria delle poesie del passato, conviene riferirsi alla fisionomia del mondo contemporaneo»17, è scritto nell’introduzione all’antologia. Anche Balestrini, nel saggio intitolato Linguaggio e opposizione, ha affermato la necessità di una manipolazione straniante; egli vedeva come atteggiamento fondamentale del fare poesia «lo “stuzzicare” le parole, il tendere loro un agguato mentre si allacciano in periodi, l’imporre violenza alla struttura del linguaggio, lo spingere ai limiti di rottura tutte le sue proprietà»18. Questa sperimentazione linguistica, che, eleggendo Gadda a proprio progenitore, assumeva via via i caratteri del gioco, del non-sense, del paradosso, del grottesco, si concretizzava quindi in senso del tutto anticomunicativo19. Esemplificativa a tal proposito è la battuta di Andrea Zanzotto sull’opera Laborintus (1956) di Sanguineti: il poeta veneto avrebbe giudicato degna di punizione l’opera sanguinetiana qualora non si trattasse di una sincera trascrizione di un esaurimento nervoso20. Riporto negli Apparati un componimento di Balestrini (fig. n. 1) e un estratto da Laborintus (fig. n. 2), entrambi compresi nell’antologia I Novissimi nel 1961.

L’esito anticomunicativo e l’iniziale patto di non belligeranza nei confronti del capitalismo, sviluppato su un’intenzionale rivendicazione di autonomia da parte della letteratura, alienarono ai Novissimi le simpatie sia dei “poeti dell’impegno” come Pasolini che, vedremo, del Gruppo 70.

La pubblicazione dell’antologia ebbe l’effetto di alimentare i dibattiti critici: sembrava arrivato il momento giusto per sfruttare la possibilità di ampliare il proprio campo di risonanza. La prima occasione fu offerta (in questi termini ne parla Giuliani nell’Introduzione all’antologia del Gruppo 63) da Francesco Agnello, organizzatore della Settimana internazionale della Nuova Musica di Palermo, manifestazione di giovani

16 Ivi, in particolare p. 16.

17 Ivi, p. 3.

18 N. Balestrini, Linguaggio e opposizione, apparso per la prima volta su “La Fiera Letteraria” il 3 ottobre

1960 ripubblicato poi in R. Barilli, A. Guglielmi, Gruppo 63: Critica e teoria, Milano, Feltrinelli, 1976 [ed. consultata: Torino, Testo & immagine, 2003], pp. 46-48, cit. da p. 47.

19 Su questo tema si veda G. Luti, C. Verbaro, op. cit., in particolare p. 83.

20 Sanguineti ha ribattuto che l’esaurimento nervoso che egli aveva tentato di trascrivere sinceramente era poi

un “esaurimento storico”. Si veda E. Sanguineti, Poesia informale?, apparsa inizialmente nel 1961 nel n. 3 de “Il Verri”, ripubblicata poi in R. Barilli, A. Guglielmi, op.cit., pp. 50-54.

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compositori d’avanguardia che si svolse dal 2 al 9 ottobre 1963, dando vita ad un «inaspettato frastuono che rimbalzò sulle pagine di quotidiani e settimanali»21. Le riunioni si tennero nel salone dell’Hotel Zagarella, dove le letture (a porte chiuse) di testi inediti di alcuni dei Novissimi, vennero seguite da un dibattito critico: tra gli altri, intervennero anche Renato Barilli e Gillo Dorfles. Come ha notato lo stesso Barilli, la riunione palermitana si caricò di un carattere paradossale per la mescolanza tra idea di rivelazione pubblica e modalità segreta a cui essa si era affidata: «l’intero mondo dell’informazione giornalistica aveva dovuto chiedersi che cosa fosse davvero avvenuto tra quelle ridotte pareti»22.

È piuttosto facile leggere, nell’evento di Palermo e nelle sue modalità attuative, una certa volontà di promozione culturale; del resto i Novissimi avevano già messo a segno altri colpi volti a scandire una marcia verso l’emersione pubblica e il raggiungimento di una piena competitività. Il “gruppo”, per esempio, era stato adottato da Gian Giacomo Feltrinelli, un editore professionale, agguerrito e provvisto di una buona disponibilità economica, oltre ad una notevole volontà di successo. Ha spiegato Barilli: «questo evento decisivo si era consumato un anno prima [1962], attraverso l’atto, simbolico e pratico a un tempo, del passaggio del “Verri” presso la giovane Casa editrice milanese»23; il giornale cessava così di essere una «“rivistina” letteraria»24, al pari di molte altre che uscivano al tempo, appoggiate in genere da piccole case editrici, precarie e instabili. Feltrinelli sicuramente contribuì alla diffusione delle opere del Gruppo 63, il cui riscontro mediatico ebbe ampi margini di sviluppo all’interno dell’establishment culturale. Nonostante l’iniziale partecipazione di Lamberto Pignotti ed Eugenio Miccini (anch’esso conosciuto esponente della poesia visiva) ad alcuni degli eventi organizzati dal Gruppo 63, la posizione dei “fiorentini”, destinata oltretutto ad una progressiva radicalizzazione, fu di aperta critica.

Ho brevemente esposto in apertura i presupposti comuni al Gruppo 70 e alla linea che dal “Verri” ha portato alla nascita del Gruppo 63, primo tra tutti la volontà di rinnovamento della poesia in senso prevalentemente linguistico. Presupposti che possono aver giustificato la riunione di queste due esperienze, da parte di alcuni critici, sotto l’unico termine di neoavanguardia. Le differenze rimangono comunque sostanziali e non si limitano al diverso atteggiamento verso “l’ufficialità” accademica, editoriale e politica

21 N. Balestrini, A. Giuliani (a cura di), Gruppo 63: L’Antologia, Torino, Testo & immagine, 2002, p. XVI.

22 R. Barilli, op. cit., p. 242.

23 Ivi, p. 239.

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contemporanea. Per poter approfondire il discorso non rimane ora che concentrare l’attenzione su Firenze e sulla rivista “Quartiere”, le cui pagine, infuocate da un acceso dibattito critico, anticiparono alcune delle questioni teoriche sviluppate dal Gruppo 70. “Quartiere” venne fondata nel 1958 dai poeti Giuseppe Zagarrio, Gino Gerola, Lamberto Pignotti e Sergio Salvi nello stagnante clima culturale fiorentino, vittima del movimento neoermetico25. È proprio la linea pignottiana, tra le varie in competizione all’interno della rivista, quella che insistette maggiormente sulla necessità di desoggettivare il linguaggio poetico a vantaggio della comunicabilità. Il poeta fiorentino, nell’intervento Sociologismo e scientificismo di “Quartiere” pubblicato sul n. 38 del periodico “I problemi di Ulisse”, fu piuttosto esplicito in tal senso: «propugnando una poesia come elemento costitutivo di una futura cultura democratica […] consideriamo tendenzialmente proficuo il rapporto poesia-pubblico, poesia-società»26. E più avanti: «le finalità della poesia sono per noi prima di ordine socio-culturale che estetico: ne deriva un maggior rispetto per il nostro presunto lettore: ne sollecitiamo un’attiva collaborazione non una passiva sottomissione […] La nostra opera inclina ad essere non tanto poesia, quanto saggio, poesia-documentario. Per prima cosa intendiamo comunicare anche se non ci dimentichiamo che scopo della poesia non è solo la comunicazione, pragmaticamente intesa»27. Ciò era possibile attraverso un’apertura critica al linguaggio delle comunicazioni di massa, rinunciando così alla pretesa di unicità della lingua poetica. Nel 1959 Pignotti, in Note sul linguaggio poetico, suggeriva infatti che non esistevano un lessico e una sintassi propriamente poetici ma era il significato che poteva essere tale: «la poesia non è quella che è scritta in versi, è quantitativamente di meno e di più: non tutte le poesie sono poesia, e fuori dalle poesie c’è poesia. Una “novella”, un “articolo di giornale”, una “barzelletta” […] possono riscattarsi in poesia»28

. L’articolo veniva poi concluso invitando a riflettere su quanto di quello che al tempo era classificato come linguaggio letterario non fosse effettivamente nato per essere tale29.

25 Sull’esperienza di “Quartiere” e i dibattiti tra i redattori si veda G. Luti, C. Verbaro, op. cit., in particolare

pp. 68-69.

26

L. Pignotti, Sociologismo e scientificismo di “Quartiere”, in “I problemi di Ulisse”, n. 38, settembre 1960, pp. 92-96, cit. da p. 93.

27 Ivi, p. 94.

28 L. Pignotti, Note sul linguaggio poetico, in “Quartiere”, n. 6-7, 1959, ripubblicato in L. Pignotti, Istruzioni

per l’uso degli ultimi modelli di poesia, op. cit., pp. 14-19, cit. da p. 15.

29

Ivi, p. 17. Anche l’artista spezzina Ketty La Rocca, che aderì al Gruppo 70 solo in un secondo momento, nell’articolo Crisi nell’arte e poetica nostrana, ha insistito sull’idea di ampliamento del concetto di poeticità, sostenendo che siamo in presenza di un discorso poetico ogni qualvolta venga intensificata la funzione significante assolta dai segni nel linguaggio ordinario. Si veda K. La Rocca, Crisi nell’arte e poetica nostrana, in “Dopotutto”, estr. da “Letteratura”, n. 82-83, luglio-ottobre 1966, pp. 127-130.

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Mentre la necessità di ampliare il concetto di linguaggio poetico accomunava sia Gruppo 63 che Gruppo 70, i due movimenti ebbero un atteggiamento diametralmente opposto verso la volontà comunicativa nei confronti del pubblico; inoltre nel caso del gruppo “fiorentino” la sperimentazione sul linguaggio venne portata alle estreme conseguenze aprendosi ai “segni” del mondo contemporaneo, primi tra tutti quelli iconici. Si tratta di due differenze radicali: non è un caso che il Gruppo 70 sia nato nell’ambito del convegno intitolato Arte e Comunicazione30, svoltosi al forte del Belvedere a Firenze tra il 24 e il 26 maggio del 1963, come ugualmente significativo è il modo in cui Pignotti concludeva il suo sopra citato articolo nel n. 6-7 di “Quartiere”: «Sono propenso a credere, per quanto più precisamente riguarda il linguaggio poetico, che la proprietà del ritmo di stimolare i sensi vada trasformandosi da musicale (rime, versi costanti) in visiva (simmetrie, opposizioni, ripetizioni, concatenazioni) secondo un processo graduale che ha per modello proverbi, slogan, intitolazioni, didascalie, enunciati di tipo matematico-scientifico e simili»31. I singoli vocaboli e le frasi venivano dunque usati anche nel loro valore visuale e, si potrebbe dire, “segnico”, seguendo le teorizzazioni dell’artista Emilio Isgrò, sperimentatore sulla parola più conosciuto per gli esiti concettuali rispetto alle opere di poesia visiva. Egli, in conclusione alla sua Dichiarazione 1 (1966), affermava che «la nuova poesia» voleva essere «un’arte generale del segno»32; non più un’arte generale della parola. L’interdisciplinarità caratteristica del fenomeno verbo-visivo ha imposto dunque la necessità, già annunciata, di un ampliamento del campo d’analisi: per quanti critici e studiosi abbiano inserito la poesia visiva nelle loro storie della letteratura italiana, altrettanti ne hanno trattato in opere dedicate alle arti figurative, ponendo, anche in questo caso pur se in dimensione minore, problemi di settorialità33. Il rischio più diffuso, nella seconda circostanza, è quello di relegare la poesia visiva ad un ruolo ancillare nei confronti

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Gli interventi più significativi dei partecipanti al convegno sono riportati in Arte e comunicazione, in “Dopotutto”, estr. da “Letteratura”, n. 67-68, gennaio-aprile 1964, pp. 144-160.

31 L. Pignotti, Note sul linguaggio poetico, op. cit., p. 19.

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E. Isgrò, Dichiarazione 1, in M. Bazzini, A. Bonito Oliva (a cura di), Dichiaro di essere Emilio Isgrò, Prato, Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci, 2007 (cat. mostra Prato, 3 febbraio-11 maggio 2008), pp. 46-47, cit. da p. 47.

33 La poesia visiva è stata trattata in testi dedicati alle arti figurative, per esempio, in: T. Paloscia, Accadde in

Toscana: L’arte visiva dal 1941 ai primi anni 70, vol. II, Firenze, Polistampa, 1997; C. Pirovano (a cura di), Il Novecento/3: Le ultime ricerche, Milano, Electa, 1994; L. Vergine, Dall’informale alla body art dieci voci dell’arte contemporanea, 1960-1970, Torino, Cooperativa editoriale Studio Forma, 1976. Lo stesso Barilli ha pubblicato un’opera in due volumi dedicata alle ricerche artistiche sviluppatesi tra anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso. Nel secondo volume ampio spazio è stato riservato ai poeti visivi: R. Barilli, Informale, Oggetto, Comportamento: La ricerca artistica negli anni ’70, vol. II, Milano, Feltrinelli, 1979.

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delle ben più celebrate poetiche concettuali o di Narrative art34. Gillo Dorfles, per esempio, ha ceduto alla prima tentazione: in Le ultime tendenze dell’arte oggi35, ha infatti scelto di parlare delle poesia visiva nell’undicesimo capitolo, intitolato Arte concettuale. Il critico ha citato i nomi di Emilio Isgrò, con preciso riferimento alle sue cancellature di parti di testo, e di Mirella Bentivoglio, quali trait d’union tra l’esperienza verbo-visiva e il concettualismo.

Quale rapporto abbia la poesia visiva con l’arte concettuale e l’analisi della sua dimensione principalmente segnica, prima che verbale e visiva, sono due degli ulteriori aspetti che mi appresto ad approfondire nelle sezioni dedicate alle questioni teoriche. Consapevole della complessità del tema, cercherò, dove possibile, di trarre delle conclusioni, rivolgendo particolare attenzione ai contributi critici di Lucia Marcucci, in molti casi significativi e determinanti.

34 Di questa idea è lo studioso Giorgio Zanchetti in G. Zanchetti, «La poesia è una pipa…»: l’unità

complessa del linguaggio nelle ricerche artistiche verbo-visuali delle seconde avanguardie, Milano, Cuem, 2004 [ed. consultata: Milano, Unicopli, 2012], in particolare p. 18.

35 G. Dorfles, Ultime tendenze nell’arte oggi, Milano, Feltrinelli, 1961 [ed. consultata: Milano, Feltrinelli,

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I.2 Questioni teoriche

Definizione e terminologia

Definire con esattezza cosa vada inteso con il termine poesia visiva presenta non poche difficoltà. Il problema è anzitutto terminologico; quest’unico vocabolo infatti è stato spesso usato, con un diverso grado di precisione, sia per intendere la determinata esperienza nata nell’ambito del fiorentino Gruppo 70, sia per raggruppare ricerche anche molto diverse tra loro, avvicinate solo dalla comune sperimentazione sulla parola nella sua dimensione fisica oltre che nel suo dato semantico. Come ha scritto la Marcucci in un intervento del settembre 1984, pubblicato nel catalogo della sua mostra personale svoltasi nel medesimo anno: «troppe anche le maniere o i modi di denominazione che via, via, hanno disorientato e sviato il lettore-fruitore bombardato dalle tante mostre di “visuale”, “linguaggio e scrittura”, “scrittura”, “nuova scrittura”, “poesia visuale”, ecc»36.

Ho utilizzato finora sia il termine visivo che il termine visuale con due diverse accezioni, in linea con quanto avvenuto in quelle rare opere monografiche dedicate all’analisi retrospettiva dei fenomeni “ibridi” (tra cui quello della poesia visiva), in particolare quelli a metà tra il campo della letteratura e il campo dell’arte. In questi testi il vocabolo visuale è stato utilizzato in senso generico per designare tutte quelle ricerche che hanno fatto della parola, anche nel suo aspetto segnico e, appunto, visuale, il proprio fondamentale campo d’indagine, restituendo quindi particolare importanza al significante, in aggiunta al significato. Negli stessi testi il termine visivo (esperienze poetico-visive ecc.) è invece stato specificatamente utilizzato in riferimento alla poesia visiva. Chiarirò meglio entrando nel merito di casi precisi.

Il poeta Adriano Spatola, nella sua monografia intitolata Verso la poesia totale, ha proposto una distinzione piuttosto chiara tra poesia tradizionale e poesia visuale: per la prima il punto di partenza sono la natura, i ricordi e le esperienze personali; per la seconda sono invece il concetto e suoi segni. Nella poesia tradizionale il linguaggio si articola in frasi e in strofe mentre in quella visuale manca completamente la sintassi. Il contenuto di quest’ultima deriva da “aspetti esterni” quali «il colore e la disposizione delle lettere, le misure della pagina e perfino la qualità della carta»37. Il termine visuale quindi designa una

36 G. Dorfles (a cura di), Lucia Marcucci: Poesia visiva 1980-1984, Tavarnelle Val di Pesa, Ed. Dada Arte

Moderna, 1984 (cat. mostra Tavarnelle Val di Pesa, vernissage 20 ottobre 1984), p. non numerata.

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poesia che, come ha scritto Pignotti nell’articolo Poesia concreta e visiva, «tende variamente a farsi vedere (in senso lato, perché a rigore anche un sonetto stampato è una poesia che si vede). Per esempio: visiva, concreta, simbiotica, spaziale, multidimensionale, ideografica, evidente, cinetica, permutazionale, oggettuale, casuale, trovata, gestuale, e via dicendo»38. Tra queste varie declinazioni di poesia visuale, la poesia visiva è probabilmente uno degli esiti più eclettici, estremi e interdisciplinari.

Lo scrittore Luigi Ballerini, nel catalogo Scrittura visuale in Italia, 1912-1972, edito in occasione dell’omonima mostra svoltasi tra Torino e New York nel 1973, ha inserito una ricca antologia di testi critici, tra cui il sopra citato di Pignotti, che ben rappresentano i diversi fenomeni raggruppabili sotto il comune termine “visuale”39. Molti anni dopo, nel 2007, il museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, ha ospitato una mostra di ancora più ampio respiro: La parola nell’arte. Ricerche d’avanguardia nel ’900 dal futurismo a oggi attraverso le collezioni del Mart40. Il materiale esposto era vastissimo e corrispondeva alla massima copertura che il vocabolo “visuale” può probabilmente esercitare: erano comprese le sperimentazioni di Mallarmé nel suo Un coup de dés jamais n'abolira le hasard (1897) come i Calligrammes (1918) di Apollinaire, le tavole parolibere di Marinetti, la poesia concreta, le sperimentazioni legate ad una dimensione calligrafica come quelle di Vincenzo Accame, le già citate cancellature di Isgrò, le definizioni concettuali di Joseph Kosuth, le sperimentazioni dei genovesi Anna e Martino Oberto, i geroglifici di Adriano Spatola, le scritture sul corpo di Claudio Parmiggiani, Guglielmo Achille Cavellini, Tomaso Binga. Questi sono solo pochi dei nomi contenuti nel catalogo; al di là di alcuni presupposti comuni, per nessuno di essi, o almeno per i precisi risultati citati, ha senso parlare di poesia visiva41.

Le mostre sopra menzionate sono solo due delle numerosissime dedicate alle ricerche verbo-visuali. È interessante ricordare a tal proposito anche l’esposizione La Parola mostra il suo corpo: forme della verbovisualità contemporanea, tenutasi nel 2008 presso il museo della Carale Accattino. In questo caso il titolo stesso dato all’evento aiuta a chiarire

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L. Pignotti, Poesia concreta e visiva,edito per la prima volta in “I problemi di Ulisse”, febbraio 1972, ripubblicato in L. Ballerini, Scrittura visuale in Italia, 1912-1972, Torino, ed. Galleria civica d’Arte Moderna, 1973 (cat. mostra Torino, 27 settembre-28 ottobre 1973).

39 Stesso discorso vale per l’esaustivo volume teorico di Vincenzo Accame: V. Accame, Il segno poetico:

Materiali e riferimenti per una storia della ricerca poetico-visuale e interdisciplinare, Samedan, Munt-Press, 1977 [ed. consultata: Milano, ed. d’Arte/Zarathustra, 1981].

40 La parola nell’arte. Ricerche d’avanguardia nel ’900 dal futurismo a oggi attraverso le collezioni del

Mart, Milano, Skira, 2007 (cat. mostra Trento, Rovereto, 10 novembre 2007-6 aprile 2008).

41 Ciò che per ora deve essere preso in buona parte come dato di fatto verrà, spero sufficientemente,

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il concetto di verbo-visualità: «Il corpo della parola è la sua forma figurale destituita dal senso o almeno indipendente dal senso […] Prendere una parola per il suo corpo significa sceglierla esclusivamente per le sue fattezze; e questo non costituisce una lettura riduttiva, una considerazione superficiale, ma qualcosa di aggiuntivo che considera visivamente la parola»42, si legge in apertura al catalogo. La verbovisualità è nata da contaminazioni, da incroci, da trasformazioni; essa si è servita della scrittura, non utilizzando il senso tradizionale delle parole, il loro significato proprio, ma dando particolare rilievo e importanza alle loro forme, appunto, al loro corpo.

Al termine poesia visuale alcuni artisti e critici hanno preferito quello di poesia totale. Achille Bonito Oliva, in apertura al catalogo della mostra La parola totale: una tradizione futurista, 1909-1986, ha richiamato l’idea wagneriana di rottura dei confini tra le varie arti. All’inizio del ventesimo secolo la poesia, scoperto nella linearità della scrittura un limite espressivo, ha partecipato, secondo il critico, alla «rivoluzione copernicana»43 dei linguaggi. Come la pittura ha tentato di intraprendere le vie dello scardinamento delle grammatiche visive tipiche della sua storia passata, così la poesia si è posta il problema di superare la sua tradizione puramente letteraria proponendo «di dare rappresentazione figurativa alla parola»44.

La poesia visiva è una delle “correnti” raggruppabili sotto il comune, quanto generico, termine poesia visuale, o totale, a seconda degli aspetti su cui si voglia maggiormente concentrare l’attenzione. Avendo esplicitato ciò che si può intendere con le prime due locuzioni, ritorno a concentrare l’analisi sulla poesia visiva, cercando di definirne i principali aspetti e anticipare brevemente ciò che la differenzia dalle altre tipologie di sperimentazione visuale.

È innanzitutto necessaria una breve premessa. Finora ho sempre associato l’esperienza della poesia visiva al Gruppo 70; nonostante l’effettiva paternità, riferendosi ad essa sarebbe però errato intendere esclusivamente le sperimentazioni avvenute in ambito fiorentino. Le ricerche verbo-visive infatti sono sopravvissute alla breve durata del Gruppo 70, scioltosi già nel 1968. Per tre dei partecipanti, Lucia Marcucci, Eugenio Miccini e Luciano Ori, continuò l’esperienza di gruppo; nel 1971 formarono, insieme ad altri, il

42 A. Accattino, L. Giuranna, G. Plazio (a cura di), La Parola mostra il suo corpo: forme della verbovisualità

contemporanea, Ivrea, Giannotti di Montalto Dora, 2008 (cat. mostra Ivrea, 31 maggio–29 giugno 2008), prima p.

43 A. Bonito Oliva, La parola Totale, in A. Bonito Oliva (a cura di), La parola totale: una tradizione

futurista, 1909-1986, Modena, Galleria Fonte d'Abisso, 1986 (cat. mostra, Modena, 1986), pp. 9-15, cit. da p. 10.

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Gruppo dei Nove o Gruppo Internazionale di Poesia Visiva, che li vide protagonisti. Dunque non solo la poesia visiva non ebbe ambito esclusivamente fiorentino, ma nemmeno prettamente italiano; analogamente, non tutti gli artisti che operarono nell’ambito della poesia visiva, magari anche solo per brevi periodi, furono legati all’esperienza fiorentina e/o al Gruppo dei Nove: Corrado D’Ottavi, Ugo Carrega, Stelio Maria Martini, Luigi Tola, Mirella Bentivoglio, Franco Vaccari, maggiormente conosciuto come fotografo, sono alcuni dei numerosi esempi.

La varietà di esiti, data dall’apporto individuale di ogni singolo operatore, è uno dei motivi per i quali non esiste una definizione univoca ed universalmente accettata per la poesia visiva; sono però molti, soprattutto tra gli artisti, ad aver cercato di precisare a parole il concetto. Eugenio Miccini e Michele Perfetti hanno notato come, fermandosi al suo aspetto esteriore, ovvero alla semplice operazione manuale compiuta, la poesia visiva possa essere definita «una forma di espressione che, liberandosi del normale campo spaziale offerto dalla tradizionale pagina del libro o da altro supporto, unisce immagine figurale e segno linguistico in un contesto armonioso e unitario»45. Risulta difficile andare oltre tale generica definizione formale; da questo la comune tendenza a distinguere l’esperienza verbo-visiva da altre in parte similari, procedendo per negazioni. Esemplare in questo senso è la già citata Dichiarazione 1 di Isgrò del 1966; l’artista dopo aver precisato che la poesia visiva è un “oggetto” strutturato visivamente, in cui materiale verbale e iconico coesistono nel tentativo di dar vita ad una manifestazione estetica organica, ammette che «detto questo, si è detto ancora troppo poco»46. Egli non vedeva dunque altra scelta che procedere per esclusioni: «La poesia visiva non è la poesia concreta […] la poesia visiva non è neppure la poesia tecnologica […] la poesia visiva non è il collage»47

. Anche Miccini, richiamando il noto verso montaliano, trovava necessario insistere su «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo […] la poesia visiva intanto non la si può apparentare con le pratiche esclusive di una manualità o visualità o materialità delle scritture: essa è un’espressione logo-iconica. Il riferimento costante alle comunicazioni di massa non attiene al visuale ma al déjà vu, cioè all’universo verbo-visivo della cultura in atto. I collages, gli oggetti, i “libroggetto” e tutte le altre operazioni anche performative della poesia visiva non seguono alcuna regressione o alcuna formalizzazione, bensì sottendono

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E. Miccini, M. Perfetti, Che cos’è la poesia visiva, discorso pronunciato in occasione del V Bitef

internazionale di Belgrado del 1971 sul tema Nuovi aspetti della poesia visiva internazionale riportato in E. Giannì, Póiesis: ricerca poetica in Italia, Arezzo, istituto Statale d’Arte, 1986 pp. 63-65, cit. da p. 63.

46 E. Isgrò, op. cit., p. 46.

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sempre il filo rosso dell’ideologia o, come si dice oggi, la coscienza di uno stato sociale come condizione e destino dell’arte»48

.

Cercando di trasportare il discorso in una dimensione “in positivo”, dalla dichiarazione di Miccini si può evincere un aspetto fondamentale, ovvero lo stretto rapporto con la società occidentale contemporanea, da cui deriva l’esistenza stessa della poesia visiva, il suo significato più intrinseco. In questa chiave credo sia da interpretare l’affermazione di Rossana Apicella, teorizzatrice, a mio avviso, tra le più brillanti dell’esperienza poetico-visiva, che, a proposito della Marcucci, ha parlato di «contemporaneità» e di un suo «essere nel tempo»49. Ma la dimensione fenomenologica riconosciuta dalla studiosa quale caratteristica peculiare della poesia visiva, ossia il valutare quest’ultima come fenomeno, “accadimento” nel divenire delle arti, è essa stessa fattore corresponsabile della difficoltà di fornire una definizione univoca e precisa per le esperienze poetico-visive. Come ha scritto la Apicella in un saggio datato 1972, la forza vitale di questo movimento di ricerca, nato come autoctono in diversi paesi e senza un proprio manifesto programmatico, ha suscitato un «sospetto di spontaneismo, di creazione viscerale, piuttosto che proporsi come la determinante esperienza poetica del secolo, il punto di confluenza di una enorme esperienza estetica»50. La poesia visiva è dunque “accadimento” e non ha seguito, come notava Miccini, alcuna formalizzazione; è esperienza spontanea il cui “carattere” è stato determinato dal “contesto reale” ed è stato imprescindibilmente influenzato dalla personalità di ogni singolo artista.

Chiarite le difficoltà “definitrici” relative alla poesia visiva, rimane ora da concludere il discorso lasciato a metà sulle “negazioni” di Isgrò. Se egli ha ritenuto necessarie tali precisazioni è perché molti, sia tra i critici che tra gli artisti, hanno talvolta utilizzato in modo disinvolto questi vocaboli, parlando di poesia visuale, concreta, tecnologica, collage, volendo magari intendere la poesia visiva. In realtà, ognuna delle definizioni elencate ha

48 E. Miccini, La poesia visiva oggi, in E. Mascelloni, Sarenco (a cura di), Poesia Totale 1897-1997: Dal

Colpo di Dadi alla Poesia Visuale, Colognola ai Colli, Adriano Parise, 1998 (cat. mostra Mantova, giugno-settembre 1998), pp. 37-38, cit. da p. 38. Per quanto riguarda l’ultima parte della dichiarazione di Miccini, essa è esplicitamente riferibile all’impegno ideologico sotteso alle sperimentazioni di poesia visiva. Queste, dunque, non trovano motivo d’essere principalmente in un’esigenza di tipo estetico-formale (per quanto la dimensione estetica non sia rifuggita). Ciò che si è prefisso il poeta visivo è scuotere e svegliare la coscienza sociale intorpidita dall’uso linguistico ed iconico dei mezzi di comunicazione di massa, sfruttando le teorie dell’informazione per ottenere una maggiore incisività del messaggio poetico. La complessità dell’argomento impone una trattazione separata per questo aspetto della questione, che verrà approfondito nella sezione intitolata Gli obiettivi e la volontà comunicativa.

49 R. Apicella (a cura di), Lucia Marcucci: Poesia Visiva, Brescia, Studio Brescia, 1973 (cat. mostra Brescia,

vernissage 18 aprile 1973), p. non numerata.

50 Ead., La poesia visiva come strumento dei linguaggi ritrovati, in E. Miccini (a cura di), Poesia e/o poesia:

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un suo significato preciso; ciò che invece può risultare difficile è trovare la giusta collocazione per ogni singolo tipo di sperimentazione, essendo in alcuni casi i confini tra un’esperienza e l’altra estremamente labili. Ad ammetterlo è stato lo stesso Pignotti nell’Introduzione alla prima antologia di poesia visiva stampata dall’editore Sampietro nel 1965. Così egli scriveva in conclusione: «Nell’antologizzare delle opere collocabili sotto il titolo di poesia visiva, ho mirato a selezionare quel tipo di poesia che in qualche modo tende a rapportare la parola all’immagine figurale o a far coincidere materiale verbale con elemento visuale. Perciò ho di proposito escluso da questa sede, proponendomele per altra, le pure sperimentazioni di poesia grafica [Pignotti spesso utilizza questa locuzione come sinonimo di poesia concreta], anche se debbo ammettere che il confine fra i due tipi di esperienza non sempre è visibile ad occhio nudo»51. La difficoltà nell’etichettare alcune sperimentazioni “al limite”, non vuole certo autorizzare l’utilizzo del termine “poesia concreta” (o grafica, secondo Pignotti) volendo intendere la poesia visiva. La poesia concreta infatti è un fenomeno dall’identità precisa: essa nacque intorno alla metà del secolo scorso dall’esperienza del brasiliano Gruppo Noigandres, il cui nome richiama il ventesimo Canto di Ezra Pound. Parallelamente, ma in maniera totalmente indipendente, analoghe ricerche vennero portate avanti dallo svizzero Eugen Gomringer con le sue Costellazioni (Konstellationen, 1953) e dall’italiano Carlo Belloli. Si può al massimo discutere se, e in che termini, la poesia concreta abbia influenzato quella visiva (rimando a tal proposito alle sezione che tratta i precedenti), vista la “precedenza” sulla data di nascita; ma utilizzare indistintamente i due termini è del tutto errato.

Per quanto riguarda la locuzione poesia tecnologica, essa è stata usata per la prima volta da Pignotti nel 1962 in un saggio dall’omonimo titolo, pubblicato nel n. 2 della rivista “Questo e altro”52

. Pignotti ha parlato di linguaggio tecnologico, l’unico capace di opporsi al progressivo degrado che aveva colpito il linguaggio poetico: dato che al graduale ripetersi del messaggio l’efficacia dell’informazione tendeva allo zero, i fattori linguistici consueti erano in via d’estinzione. Al loro posto non doveva rimanere un vuoto ma essi si dovevano rinnovare, stimolando per reazione un continuo processo rigenerativo. Nello specifico, il linguaggio poetico si rinnovava attingendo al mondo circostante e ai moduli e ai termini dei linguaggi che lo esprimevano con maggiore aderenza e funzionalità. Tali

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L. Pignotti (a cura di), Poesie visive: Lucia Marcucci, Stelio Maria Martini, Luciano Ori, Antonio Porta, Collana Il Dissenso, n. 7, Bologna, Sampietro, 1965, p. non numerata. L’antologia è uscita in quattro volumetti e l’Introduzione è riportata in ognuno.

52 Id., La poesia tecnologica, ripubblicato in L. Pignotti, Istruzioni per l’uso degli ultimi modelli di poesia,

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linguaggi erano quelli che potevano essere genericamente definiti «tecnologici, come quello giornalistico, logico-matematico, sportivo, scientifico, umoristico, telegrafico, burocratico, commerciale, pubblicitario e via dicendo»53. Il termine poesia tecnologica mette in un certo senso l’accento sul linguaggio utilizzato e identifica la prima fase delle sperimentazioni che portarono, nel giro di un anno, agli esiti verbo-visivi.

È difficile stabilire la prima volta in cui venne impiegato il termine poesia visiva; esso comunque è stato utilizzato a partire dal 1963, anno di nascita del Gruppo 70. Rapportata alla poesia tecnologica, la poesia visiva compiva una sorta di passo in avanti: l’ampliamento del concetto di linguaggio poetico non solo permetteva l’inclusione di termini comunemente utilizzati nei linguaggi specifici ma anche, più in generale, dei segni appartenenti al mondo contemporaneo, proponendo una poesia non più “linguistica” ma “semiotica”54

. Pignotti, nel già ricordato articolo Poesia concreta e visiva, così si esprimeva su quel “contesto reale” nel quale si trovavano ad operare gli esponenti della poesia visiva: «siamo immersi, siamo imbevuti simultaneamente di parole e immagini, di parole che si fanno vedere e di immagini che si fanno leggere. La nostra è dunque una civiltà dei segni»55; non c’è perciò da stupirsi se la poesia coinvolse l’immagine e si proclamò visiva. E ancora Emilio Isgrò, nella seconda parte della Dichiarazione 1, cercando di sviluppare, in conclusione, la trattazione “in positivo”, proponeva come uno dei fondamenti teorici della poesia visiva un ampliamento «dell’area tradizionale della poesia» mediante l’immissione di nuovi segni (il materiale iconico), prelevati da quella che comunemente «viene chiamata “realtà”»56.

Il passaggio dalla poesia tecnologica a quella visiva è stato così descritto da Pignotti: «i collage tratti dai linguaggi tecnologici dei mass media (pubblicità, moda, sport, pagine di giornali e rotocalchi, ecc.) tendono progressivamente ad associare alla parola (strumento tradizionale dello scrittore) l’immagine (mezzo connesso alle arti visive). Ci si rende conto che la poesia non può prescindere dall’uso di un “neo-volgare”57

ormai ampiamente circolante: i messaggi verbali e quelli visivi si stanno vistosamente fondendo realizzando di fatto generi di comunicazione inusuali. È così che la “poesia tecnologica” si precisa come

53 Ivi, p. 72.

54 Su quest’ultimo punto si veda G. Zagarrio, Le sperimentazioni nella poesia toscana degli anni ’60/’70, in

F. Manescalchi, L. Marcucci (a cura di), La poesia in Toscana: dagli anni Quaranta agli anni Settanta, Messina–Firenze, G. D’Anna, 1981, pp. 136-169, in particolare p. 151. Per una definizione dei concetti di linguaggio, segno, linguistica e semiotica, funzionali a questa trattazione rimando invece a V. Accame, op. cit., in particolare pp. 41-46.

55 L. Pignotti, Poesia concreta e visiva, op. cit., p. 51.

56 E. Isgrò, op. cit., p. 47.

57

(25)

25 “poesia visiva”»58

. L’introduzione dell’immagine risulta quindi essere in un certo senso conseguenza prevedibile, dettata dall’impiego del linguaggio tecnologico, ma parlare di poesia tecnologica intendendo specificatamente quelle sperimentazioni che includono anche le immagini non è, per quanto detto, del tutto esatto. Condensando in una sorta di formula, la poesia visiva è, infatti, «comunicazione di massa + linguaggi tecnologici + fatto visivo»59, ovvero poesia tecnologica + fatto visivo.

Esempi del linguaggio tecnologico, e dell’uso specifico che ne fece la Marcucci, verranno dati in seguito (rimando in particolare alla sezione Il linguaggio), come in seguito verranno approfonditi i vari aspetti della poesia visiva, qui brevemente introdotti. Era però indispensabile anticipare in apertura il problema terminologico per non creare equivoci, visto l’uso non sempre corretto che è stato fatto delle varie formule.

Avanguardia, neoavanguardia, postavanguardia?

Come già accennato, gli operatori della poesia visiva hanno prodotto una vastissima

gamma di scritti teorici. Ciò, per il semiologo Omar Calabrese, non costituisce certo una novità; egli ha sostenuto che mai come nell’età moderna la figura dell’artista si è tanto spesso identificata con quella del critico. Dai tempi di Charles Baudelaire, passando per Wassily Kandinsky per arrivare fino ai concettuali, critico e artista sono divenuti sovente la stessa persona; di più, l’opera d’arte ha addirittura annullato, dal proprio interno, la distanza che la separava dalla sua esegesi. «L’opera d’arte contiene dentro di sé anche le istruzioni per il suo uso»60, concludeva Calabrese.

Argomento particolarmente dibattuto, tra gli stessi artisti, è stato il rapporto della poesia visiva con l’avanguardia storica: l’utilizzo di un termine, per esempio neoavanguardia, piuttosto che postavanguardia, per etichettare le esperienze poetico-visive non risulta essere problema di natura meramente formale ma interessante campo di discussione per la rivendicazione di una propria precisa identità. Nella sezione intitolata Contesto culturale ho anticipato alcuni dati storici relativi alla situazione della letteratura italiana a partire

58L. Pignotti, Anni Sessanta: poesia tecnologica, poesia visiva, Gruppo 70, in E. Mascelloni, Sarenco (a cura

di), op. cit., pp. 185-189, cit. da p. 186.

59

U. Artioli, R. Margonari, [s.t.], in “Il Portico”, n. 7, luglio 1966, pp. 40-42, cit. da p. 40.

60 O. Calabrese, Parola, Immagine, Ideologia, Scienza dei Segni: alla ricerca del codice della ‘Poesia

Visiva’, in “Es”, n.3, febbraio-aprile 1975, riportato in Poesia visiva, 1963-1988, 5 maestri: Ugo Carrega, Stelio Maria Martini, Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, Sarenco, Verona, Cooperativa La Favorita, 1988 (cat. mostra Verona, Firenze, Napoli, ottobre-febbraio 1988-1989), pp. 320-327, cit. da p. 324.

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