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Capitolo IV Putto che incorona un teschio

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Academic year: 2021

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Fig.1 Putto che incorona un teschio, 1525, olio su tela, 52 x 51 cm, Alnwick Castle, Collezione del Duca di Northumberland

4.1 - Il Putto che incorona un teschio di Alnwick Castle

La vicenda che riguarda questo piccolo olio su tela di 52 x 51 cm (fig.1), oggi conservato presso Alnwick Castle - residenza del Duca di Northumberland - ebbe inizio nel 1853, quando Giambattista Camuccini vendette il dipinto a Lord Algernon Percy, quarto Duca di Northumberland; si trattava di una delle 74 opere facenti parte della quadreria del padre, il pittore Vincenzo Camuccini. Grazie a Humfrey1 sappiamo che nel 1851 Tito Barbieri (Catalogo ragionato della Galleria Camuccini

in Roma, 1851, n. 22) lo inventariava con il titolo Putto che decora un teschio con una corona d’olivo, attribuendolo a Bartolomeo Schedoni, artista - come faceva

notare Ekserdjian2 - molto più tardo (1578-1615). L’autore dichiarava che l’opera -

1

P. Humfrey, in Bergamo. L’altra Venezia (catalogo della mostra), 2001, p. 98. Lo studioso affermava: «Si tratta di uno dei settantaquattro dipinti, comprendenti fra l'altro il Festino degli Dei

di Giovanni Bellini oggi alla Galleria Nazionale di Washington, comprati nel 1853 dal 4° Duca di Northumberland presso la famosa collezione Camuccini a Roma. Secondo l'inventario di questa, compilato da Tito Barbieri poco prima della vendita» [...] «il Putto col teschio, che era allora attribuito a Bartolomeo Schedoni ed era visto come dipinto ‘a imitazione del Correggio’, era precedentemente appartenuto alla collezione Aldobrandini».

2

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“a imitazione del Correggio” - era in precedenza appartenuta alla collezione Aldobrandini. Nel 1857 a menzionarla era Waagen (Galleries and Cabinets of Arts in

Great Britain: being an account of more than …, Londra 1857) anch’egli

attribuendolo a Schedoni e sottolineandone tra l’altro “the inusual power and transparency of chiaroscuro” (“l’inusuale potenza e trasparenza del chiaroscuro”). Nel 1871, finalmente, Crowe e Cavalcaselle3 non solo individuavano nella tela la mano di Lotto, ma addirittura la avvicinavano ai due tardi esemplari del San

Girolamo conservati rispettivamente a Palazzo Doria Pamphili a Roma e al Museo

del Prado di Madrid (fig.2), risalenti al 1544-46 circa, spostando così la datazione alla metà del quinto decennio del secolo. Non vi fu più alcuna traccia dell’opera fino al secolo successivo (1950) quando essa ricomparve nell’ambito dell’esposizione londinese tenutasi presso la Royal Academy of Arts e dedicata alla pittura di Hans Holbein e “altri maestri del sedicesimo e diciassettesimo secolo”. Era presente all’evento Rodolfo Pallucchini4, il quale avrebbe recensito la mostra con parole entusiastiche e ribadito in modo definitivo la paternità lottesca del quadretto.

3

J. A. Crowe, G. B. Cavalcaselle, A History of Painting in North Italy, 1871, II, p. 525, n. 4, ed. 1912, III, p. 422, n. 2. I due studiosi spiegavano: «Un piccolo San Gerolamo nel Palazzo Doria a Roma del

quale esiste almeno una replica nel Museo di Madrid, offre una varietà più vigorosa e altamente tonale dello stile del maestro, rappresentando quella ampia e potente fase della sua arte che è illustrata in una tela a grandezza naturale di Alnwick, raffigurante un bimbo nudo che pone una corona d’alloro su un teschio». Inoltre, nell’edizione del 1912 il curatore, T. Borenius, commentava:

«Roma. Palazzo Doria. Gran Galleria Braccio 2. No. 15. Tela. Piccola figura di San Gerolamo,

prostrato in un paesaggio, con la croce al suolo davanti a lui. È girato verso la sua destra e ha la pietra nella sua mano sinistra. Quest’immagine è curiosamente abbastanza riferibile al nome di Annibale Carracci. Madrid, Mus. No. 437. Sotto il nome di Tiziano» [ ...] «Varietà della medesima composizione con un angelo nell’aria. - Alnwick Castle. Tela, grandezza naturale. Il teschio è su un cuscino rosso. Attraverso un’apertura nel muro alle spalle, appare il cielo» […] «Il medesimo soggetto, nella collezione del Principe Napoleone, fu venduta presso Christie’s l’11 maggio 1872. A

suo dire sarebbe dunque esistita una variante di medesimo soggetto di cui si sarebbero perse le tracce dal 1872, anno della vendita all’asta.

4

R. Pallucchini, Veneziani alla Royal Academy di Londra, in “Arte Veneta”, V, 1951, p. 219. Lo studioso scriveva: «Aperta il 9 dicembre 1950, si è chiusa il 7 marzo 1951, alla Royal Academy of

Arts di Londra, la grande mostra di opere di Holbein e altri maestri del sedicesimo e diciassettesimo secolo: mostra certo occasionale, avendo rimpiazzato quella dedicata all'arte tedesca» [...] «ad ogni modo notevole data la qualità di molte opere esposte, per lo più di collezioni private difficilmente accessibili, tra le quali molte di scuola veneta» [...] «Per il Lotto» [...] «una bella novità: “Cupido che incorona un cranio”» [...] «una piccola tavola della collezione del Duca di Northumberland, già attribuita allo Schedoni! E' questo uno dei brani di più sottile poesia che abbia inventato il Lotto: costruito in quel nucleo romantico di contenuto con un colore pregno di luminosità incandescente, che entra dalla finestra aperta, su un paesaggio appena indicato. Il dipinto, finora sconosciuto, può spettare alla prima metà del terzo decennio, cioè alla fase più nordicizzante dell'attività lottesca».

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Fig.2 San Gerolamo penitente, 1546, Madrid, Museo del Prado

Nel 1954 il critico tornava a parlare dell’opera, che definiva Cupido che incorona un

cranio, esaltandone la “raffinatezza esecutiva”: «in quel mirabile controluce, per cui

le carni rosee del putto in ombra ed il teschio risplendono come alabastri incandescenti».5 Proprio in occasione della mostra londinese del 19506veniva per la prima volta avanzata l’ipotesi in base alla quale non si sarebbe trattato della raffigurazione di un semplice putto, o un “naked boy”7, come precedentemente proposto dalla critica, ma addirittura di Cupido. Questa identificazione - peraltro confutabile, dal momento che il fanciullo dipinto da Lotto è sprovvisto d’ali - veniva immediatamente accolta non solo dal Pallucchini ma in seguito anche da Banti-Boschetto8, Berenson9 e Bianconi.10

5

R. Pallucchini, Bologna, 1954, pp. 39-40.

6

Catalogue of the Exhibition of Works by Holbein & other Masters of the 16th and 17th Centuries,

catalogo della mostra (Londra, Royal Academy of Arts, 1950-1951), London 1950.

7

Vedi nota 3.

8

A. Boschetto, in Banti, Boschetto, 1953, p. 75, n. 51.

9

(4)

4.2 - La funzione del dipinto: un coperto allegorico?

Come ha di recente sottolineato Binotto11 l’artista ha costruito la composizione su “piani cromatici sovrapposti”: «dal rosso squillante del drappo che copre il

basamento, al bianco fluorescente di riverberi azzurrini del cuscino con i quattro fiocchi angolari, all'avorio del macabro teschio e, infine, alla parete oscura, da cui risalta la tonalità rosata delle morbide carni infantili, di una materia pittorica che si sgrana nei cunei d'ombra». La studiosa ha posto in risalto il ruolo conferito alla

luce nella definizione dello spazio in cui la scena è ambientata: «Il fascio di magica

luce lunare, proveniente da un paesaggio appena distinguibile nella notte imminente, indaga con sorprendente effetto di controluce la cornice della finestra, la testa di capelli rossicci del bimbo, arruffati dalla concitazione del gesto, le membra» […] «le stoffe e il teschio, facendo risaltare l’immagine con la forza icastica di un’ impresa». A suo dire, inoltre, la difficoltà che il fruitore incontrerebbe nello stabilire

la relazione esistente fra il putto e gli oggetti rappresentati, nonché l’impossibilità di determinare la funzione originaria del dipinto avrebbero l’effetto di accrescere il fascino dell’opera lottesca. A proposito della funzione, d’altro canto, la studiosa ha suggerito che le dimensioni ridotte e il tema rappresentato potrebbero far pensare ad un coperto destinato ad un non precisato ritratto.

Dello stesso parere era Peter Humfrey12 che affermava: «Come allegoria profana, il

dipinto si può confrontare a quelle, alquanto più complesse, ora a Washington, che Lotto aveva dipinto nei primi anni della sua carriera a Treviso come coperti di ritratti. Se parimenti il dipinto di Alnwick avesse originariamente avuto la funzione di coperto per un ritratto» [...] «presumibilmente doveva in qualche modo riflettere la personalità, lo status o la filosofia dell'effigiato sottostante, così come i coperti per le scene del Vecchio Testamento nelle strettamente contemporanee tarsie di Santa Maria Maggiore forniscono una sorta di commento allegorico ai fatti narrativi sotto rappresentati». Il critico, però, precisava: «Tuttavia, è molto chiaro dalla sopravvissuta riquadratura originaria in bruno scuro, dipinta sopra la superficie pittorica, che i bordi della tela non sono stati tagliati, peraltro, le sue dimensioni praticamente quadrate non corrispondono ad alcuno dei ritratti noti di

10

P. Bianconi, 1955, p. 47.

11

M. Binotto, in Lorenzo Lotto, 2011, p. 270.

12

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Lotto. Per il momento, dunque, la funzione originaria del dipinto deve rimanere misteriosa». L’ipotesi che il Putto che incorona un teschio possa essere stato

concepito in qualità di coperto allegorico di un ritratto sembra ancora più probabile se si legge un recente saggio di Bolzoni13 nell’ambito del quale viene preso in esame anche il genere del doppio ritratto, nello specifico il ritratto “con coperchio o con rovescio”. La studiosa, innanzitutto, ricordava l’enigmatica effigie di un giovane – che un’iscrizione sul retro riferisce a Girolamo Pandolfi, detto Casio - attribuita all’allievo di Leonardo, Giovanni Antonio Boltraffio (figg.4-5). Il dipinto – a Chatsworth, nella collezione del Duca di Devonshire – mostra sul suo verso un teschio, tipico simbolo del “memento mori”.

L’attenzione, quindi, si spostava su un altro ritratto del Casio, in cui il teschio ha finalmente guadagnato un posto sul recto della tavola (fig.6): «Il poeta compare con

la corona d’alloro che Clemente VII gli aveva concesso nel 1523 e regge con la destra un cartiglio con i versi in cui il Casio stesso, nel poema “Clementina”, aveva celebrato l’evento. Ma sotto la scritta se ne intravede un’altra, che potrebbe essere “finem respice” (“considera la fine”); doveva accompagnare un teschio, su quale posava la mano del Casio e che, “tagliato dal margine inferiore della tavola, è visibile solo fino a mezze occhiaie”. Avremmo qui una struttura simile a quella del ritratto del duca di Devonshire, solo che il “memento mori” starebbe subito di fronte a noi». La studiosa evidenziava un aspetto che, a mio parere, potrebbe aiutare a

comprendere meglio anche il senso dell’allegoria di Alnwick: «i segni del trionfo

mondano e poetico (la corona d’alloro, la nuova iscrizione) si sovrappongono alla rappresentazione originaria, cancellano il teschio».

Accostando al teschio la corona d’alloro e l’iscrizione tratta dal poema del Casio, è come se Boltraffio avesse inteso inscenare la sconfitta della morte da parte della fama; il ricordo dei Trionfi del Petrarca è immediato. Nella piccola tela in esame (in cui ritroviamo una corona di alloro e un teschio) Lotto potrebbe aver voluto rappresentare il medesimo concetto, dando però vita all’iconografia inedita - per la cui realizzazione si sarebbe ispirato ad un motivo che come vedremo nel prossimo paragrafo fu ricorrente nella medaglistica - del putto che dà l’investitura poetica al teschio stesso, come a volerne neutralizzare il potere di morte. Mentre per quanto

13

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concerne la questione delle dimensioni ridotte della tela, secondo alcuni troppo piccola perché potesse accompagnare uno dei ritratti noti di Lotto, si può ipotizzare che questa fosse stata riadattata in seguito per fruirne come opera indipendente, rimane invece da chiarire per quale ritratto il dipinto avrebbe avuto funzione di coperto.

Fig.4 Giovanni Antonio Boltraffio, Ritratto di giovane uomo (Gerolamo Casio?), 1500 circa, olio su tavola

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Fig.5 retro della tavola con teschio

Fig.6 Giovanni Antonio Boltraffio, Ritratto di Gerolamo Casio, 1523 circa, olio e tempera su tavola

(8)

Fig.7 Madonna col bambino fra i santi Gerolamo e Nicola da Tolentino, 1522, Boston, Museum of Fine Arts

4.3 - L’origine del motivo del “putto col teschio”: confronti figurativi

È ancora Binotto a rammentarci che in parte della produzione lottesca - soprattutto nelle opere del periodo bergamasco - è stata riscontrata l’influenza di Leonardo per quanto concerne l’uso del colore. Se, da una parte, la studiosa ha messo in risalto la “sgranatura morbida dei contorni” caratterizzante la tela di Alnwick – punto di contatto con la Madonna conservata a Boston (fig.7) – dall’altra ha notato che il “movimento repentino della gamba sinistra” del putto sarebbe stato successivamente ripreso dal pittore nel Gesù Bambino che nel San Cristoforo conservato a Berlino (Staatliche Museen, 1531) sta sulle spalle del santo (fig.8). Il particolare trattamento del paesaggio nella tela di Alnwick ha indotto, inoltre, la studiosa a suggerire il confronto con il Ritratto di coniugi del Museo Hermitage di San Pietroburgo (fig.9), composizioni ambientate in uno “spazio angusto, quasi claustrofobico” “all’improvviso illuminato da una luce surreale, di fortissima suggestione”. Ed è proprio la luce ad avvicinare infine la tela alla lunetta della pala della Vergine tra i

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santi Giuseppe e Girolamo (1526) conservata nella Pinacoteca di Jesi (fig.10).14 Per quanto concerne la figura del putto, Humfrey proponeva un confronto fra la tela in esame e il doppio ritratto del Prado Messer Marsilio e la sua sposa15, databile al 1523, nonché con l’affresco che decora il soffitto dell’oratorio Suardi di Trescore, in cui sono raffigurati alcuni amorini “che giocano illusionisticamente fra i tralci di vite” (fig.11). Un altro parallelo era suggerito allo studioso dal paesaggio “seminotturno” che ambienta la scena, che a suo dire creerebbe effetti di luce “poetici” riscontrabili in particolare in due opere realizzate dal pittore nel periodo bergamasco: la pala di San Bernardino (fig.12) e la Natività di Siena (fig.13), entrambe risalenti al 1521.

Fig.8 particolare del San Cristoforo tra i santi Rocco e Sebastiano, 1533-35, olio su tela, Loreto, Museo Antico Tesoro della Santa Casa

14

Qui uno “squarcio di luce” “accompagna l’apparizione di Cristo a San Francesco”;

15

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Fig.9 Ritratto di coniugi con cagnolino, 1523-24, San Pietroburgo, Museo di Stato Ermitage

Fig.10 Vergine tra i santi Giuseppe e Girolamo (Pala di San Francesco al Monte), 1526, Jesi, Pinacoteca Civica

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Fig.11 soffitto affrescato dell’oratorio Suardi, Trescore Balneario

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Fig.13 Natività, circa 1521, Siena, Pinacoteca Nazionale

Il critico - forte degli studi condotti da Janson16, Seznec17 e Fortini Brown18 - sosteneva peraltro che il tema del “putto col teschio” fosse stato ricorrente durante il Rinascimento. Ne sarebbe stata prova una medaglia realizzata nel 1458 da Giovanni Boldù (fig.14). Sul recto compare l’autoritratto del medaglista, abbigliato all’ “antica” con una corona di edera sul capo e accompagnato da un’iscrizione in greco antico19. Sul verso è invece raffigurato lo stesso giovane, questa volta a figura intera e colto in un gesto di vera e propria disperazione: seduto su una roccia egli nasconde il volto fra le mani; accanto a lui il motivo del “putto col teschio”, interpretato come “memento mori” umanista20. In realtà, esiste un esemplare (fig.15) dello stesso artista

16

H. W. Janson, The putto with the death’s head, in “Art Bulletin”, XIX, 3, settembre, 1937, pp. 423-449.

17

J. Seznec, Youth, innocence and death. Some notes on a medaillon on the Certosa of Pavia, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, I, 1937-38, pp. 298-303.

18

P. Fortini Brown, Venice & antiquity: the Venetian sense of the past, New Haven, 1997, pp. 232-234.

19

P. Fortini Brown, Ibidem, p. 232: «Un’iscrizione scritta in Greco imperfetto lo identifica come

“Ioannis Boldù, pittore di Venezia”». 20

P. Fortini Brown (ivi) rimanda la figura del putto alato a quella classica del genio funebre : «Sul

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realizzato poco tempo prima e di soggetto analogo, il cui recto mostra l’autoritratto dell’artista colto di profilo, a mezzo busto, ma questa volta in abiti contemporanei; lo incornicia un’iscrizione in ebraico che recita: “Giovanni Boldù di Venezia, pittore”21. Sul verso compare nuovamente l’artista, questa volta ritratto a figura intera, nudo, seduto su una roccia in attitudine melancolica, ovvero con la testa che appoggia sul braccio destro22. Ai lati troviamo due figure allegoriche: si tratta delle personificazioni della “Fede” - alata e con un calice tra le mani – e della “Penitenza”,

Fig.14 Giovanni Boldù, medaglia, 1458 Fig.15 Giovanni Boldù, medaglia, 1458

atteggiamento di disperazione di fronte al putto alato che riposa su un enorme teschio e tiene una fiamma nella sua mano sinistra». La fiamma allude alla natura immortale dell’anima.

21

H. W. Janson (ibid., p. 428) sottolineava che era consuetudine dell’artista accompagnare le sue medaglie con iscrizioni arcaiche, generalmente in ebraico o greco antico: «Giovanni Boldù, un

medaglista Veneziano che dimostrò la formazione che aveva ricevuto all’Università di Padova impiegando emblemi particolarmente intricati, ed inscrizioni ebraiche come greche”». P. Fortini D.

A. Brown (ibid., p. 233) inoltre, faceva notare che l’iscrizione è riportata in un linguaggio legato alla sfera sacrale proprio perchè l’artista avrebbe voluto alludere al contenuto cristiano dell’immagine:

«Ora vestito in abiti contemporanei sul verso, incornicia il suo ritratto con un’iscrizione in ebraico, il linguaggio del sacro piuttosto che quello secolare: “Iohanon boldu meveneziya zayyar”».

22

A tal proposito H. W. Janson (ivi) affermava: «Il giovane nudo che è seduto su una piccola zolla di

terra nel centro» […] «è probabilmente l’artista in contemplazione melanconica delle tre figure che completano il motivo».

(14)

raffigurata nell’atto di colpire il giovane con una frusta23. In alto splende un sole che allude al Paradiso, mentre ai piedi del giovane sta un teschio, simbolo di morte. La critica ha individuato nell’iconografia suddetta un’allusione alla ricompensa che l’uomo può trovare oltre la morte. È evidente che Giovanni Boldù ha trattato nelle due medaglie del 1458 lo stesso tema, quello della morte, interpretandolo tuttavia in modo completamente diverso: nel caso della prima medaglia analizzata egli offre una spiegazione di carattere prettamente profano, mentre nella seconda (la prima però ad essere stata coniata) raffigura un ‘memento mori’ cristiano24. L’iconografia del “putto col teschio” sarebbe stata riproposta in seguito in una medaglia del 1466 (fig.16) recante il motto “IO SON FINE”25, nel medaglione marmoreo (fig.17) che orna la facciata della Certosa di Pavia (ante 1498) - in cui compare anche l’iscrizione latina “INNOCENTIA ET MEMORIA MORTIS” - nonché in una sorprendente xilografia italiana del tardo XV° secolo (fig.18) in cui alla solita iconografia si aggiunge un nuovo attributo: la clessidra. Un’iscrizione recita: “L’HORA PASSA”. Nella medaglia del 1466 ritroviamo, oltre al giovane nudo che si dispera, la figura del putto alato che impugna nella mano sinistra una fiamma mentre è chinato su di un teschio; in questo

23

H. W. Janson, ibid., pp. 428-429: «Davanti a lui sta la Fede, un angelo con un calice; dietro di lui

appare la Penitenza, una vecchia donna pronta ad attaccarlo con una frusta; il teschio che giace ai suoi piedi simboleggia la Morte; e nella radiosa luce sovrastante, appare il Paradiso».

24

H. W. Janson (ivi) era convinto che l’artista in un primo momento avesse voluto rappresentare in forma allegorica un concetto etico tipicamente medievale, quello della redenzione (seppur servendosi di un linguaggio figurativo nuovo); successivamente avrebbe privato l’immagine del suo contenuto cristiano, facendo prevalere l’elemento pagano, o perché insoddisfatto del primo modello o molto più probabilmente in quanto contagiato da un nuovo interesse per l’antico. Ciò spiegherebbe il motivo per cui ha deciso di ritrarre sé stesso con le spalle scoperte e il capo cinto di una corona di alloro. Fortini Brown (op. cit., p. 232) era sicura si trattasse di un corona di edera: «Compare sul verso» […] «come

giovane Marco Aurelio, le sue spalle eroicamente nude e i suoi capelli ricci acconciati all’antica con una corona di foglie d’edera».

25

H. W. Janson (ivi) attribuiva quest’ulteriore versione allo stesso Boldù e focalizzava l’attenzione sul motto, il quale aiuterebbe a comprendere meglio anche il significato della seconda medaglia del 1458: «una ripetizione dello stesso modello, datato 1466, reca il motto “Io son fine”, che può essere anche

applicato,come titolo, alla seconda medaglia del 1458». J. Seznec (op. cit., p. 299) era dello stesso

parere quando affermava: «Delle poche medaglie che si possono attribuire con certezza a questo

artista, se ne possiedono due» […] La seconda, datata 1466, non reca firma, ma contiene il motto: “io son fine”» […] «sono della stessa mano». P. Fortini Brown, pur riconoscendo l’importanza di

questo esemplare in relazione alla fortuna dell’iconografia del “putto con il teschio” - la cui invenzione si deve appunto al medaglista veneto - lo riconduceva tuttavia alla mano di un anonimo artista del nord italia: «Un altro artista fu così impressionato dal suo aspetto classico che lo utilizzò

otto anni dopo per il verso del suo stesso facsimile di un medaglione romano raffigurante la testa coronata d’alloro del giovane imperatore Caracalla». J. Seznec ricordava che era stato Friedländer ad

individuare per primo nel ritratto, che invece l’iscrizione riconduce ad Antonino Pio, l’effigie dell’imperatore Caracalla.

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caso il putto si rifà ad un modello che combina due figure: il genio funebre classico e l’angelo che trasporta l’anima in paradiso, solitamente rappresentato nell’arte cristiana come un adulto che indossa una lunga veste26. La stessa immagine è ripresa per intero nel rilievo della Certosa di Pavia ad eccezione del motto “INNOCENTIA E MEMORIA MORTIS”, che è coerente con l’interpretazione dell’iconografia come

vittoria dell’innocenza della fanciullezza sulla morte. Scopo di tali immagini sarebbe stato, secondo il parere di Humfrey, quello di «ricordare all'osservatore l'inesorabile

scorrere del tempo, e l'inevitabilità della morte; un messaggio reso ancora più pregnante dal contrasto fra la giovane e carnale vitalità del putto, e il gelido cranio vuoto». 27 Binotto, accogliendo l’ipotesi avanzata da Seznec nel 1938, ha interpretato

il “paffuto fanciullo di Alnwick Castle” non come emblema della morte, bensì della purezza28; egli sarebbe la personificazione dell’innocenza29 - propria della fanciullezza - che è possibile conservare solo se si è consapevoli dell’inevitabilità della morte e se si ha timore della punizione divina.

26

H. W. Janson (ibidem) aggiungeva che Boldù non poteva aver derivato il putto con la fiamma direttamente dall’arte antica poiché questa lo raffigurava o nelle vesti di un giovane o come Cupido che regge una torcia e la dirige verso terra. Egli, in ogni caso, sembrava aver inventato questo tipo a partire da un medaglia della metà del XV secolo attribuita a Pietro da Fano in cui Cupido, armato di arco e frecce, siede di fronte ad un porcospino. Seznec (ibidem) scriveva: «Il cupido con gli occhi

chiusi, appoggiato al teschio, è il Genio della Morte». 27

Questo contrasto fu messo in evidenza da Janson, il quale asserì: «Il forte contrasto tra il putto,

l’immagine vera e propria della giovinezza e vitalità, e il freddo, vuoto guscio del pensiero e della sensibilità dell’uomo contro il quale riposa» […] «Questa antitesi fa del putto col teschio uno dei modelli del memento mori preferiti dall’arte del Rinascimento»; Binotto (op. cit.) ha ribadito tale

concetto esaltando il “sorprendente contrasto fra la vitalità del bimbo e la fredda consistenza gessosa del teschio”.

28

J. Seznec (ibid., p. 301) affermava: «Il motto latino “innocentia e memoria mortis”» […] «ha

rimpiazzato l’ “io son fine”. Il nuovo motto, senza alterare il significato originale dell’immagine, la sviluppa e complica: Il pensiero della morte, la consapevolezza che si deve morire (l’uomo che nasconde il proprio volto davanti al teschio) genera l’innocenza (il fanciullo). Il putto alato è, quindi, non più allegoria della morte, e diventa l’incarnazione della purezza». Successivamente P. Fortini

Brown, riprendendo lo studio condotto da Seznec, spiegava: «L’allegoria di Boldù ebbe un lungo

avvenire. Un altro artista fu così impressionato dal suo aspetto classico che lo uso otto anni dopo per il verso del suo stesso facsimile di un medaglione romano raffigurante la testa coronata d’alloro del giovane imperatore Caracalla […] Ma ora egli aggiunge un’iscrizione per rendere il significato ancora più esplicito: IO SON FINE» […] «Il motivo ricomparve in diversi altri contesti verso la fine del secolo, incluso un rilievo marmoreo sulla Certosa di Pavia. Là, significativamente, l’iscrizione fu cambiata in INNOCENTIA E MEMORIA MORTIS. Con il putto che ora significa purezza anziché morte, il significato è diventato ancor più complesso e profondo: il pensiero della morte e la consapevolezza della sua ineluttabilità rende virtuosi per paura della punizione e riporta ad uno stato di non colpevolezza». La studiosa avrebbe dunque preso le distanze da J. Seznec a proposito della

paternità della medaglia datata 1466 nella quale non avrebbe riconosciuto la mano di Giovanni Boldù bensì di anonimo artista attivo nel Nord Italia.

29

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Fig.16 Giovanni Boldù, medaglia, 1466

(17)

Fig.18 L’hora passa, miniatura, fine del XV secolo

4.4 - Rapporti con una scultura verrocchiesca e un disegno del Dűrer

Nel 1969 Heil30 avanzava l’ipotesi secondo cui Lotto, nell’elaborare la figura del putto, avrebbe avuto in mente una piccola statua in marmo conservata ancora oggi presso il Museum of Fine Arts di San Francisco: il Putto ignudo sdraiato (fig.19). Lo studioso era convinto si trattasse di un originale di Andrea del Verrocchio, trasferito nella Serenissima nel 1488 da Lorenzo di Credi, suo pupillo, subito dopo la morte del maestro. Il medesimo esemplare, a suo dire, avrebbe ispirato anche Albrecht Dürer nella realizzazione della famosa Pala del Rosario (1506) di cui si conserva un pregevole disegno preparatorio per la figura del Gesù bambino, il Bambino Gesù con

la corona (Parigi, Bibliothèque Nationale) (fig.20). Heil era convinto che gli arti

inferiori disegnati dal tedesco si ispirassero a quelli della statua attribuita al Verrocchio, mentre la parte superiore del corpo – dove le braccia sono sollevate a reggere un serto di rose – sarebbe stata inventata di sana pianta. Mentre non si può

30

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Fig.19 Verrocchio? Putto sdraiato, San Francisco, Museum of Fine Arts

Fig.20 Albrecht Dűrer, Gesù Bambino che regge una corona, 1506, disegno preparatorio per la Festa del Rosario, Parigi, Bibliothèque Nationale

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negare che vi sia un’effettiva somiglianza tra la scultura di San Francisco e il Gesù bambino di Dűrer, meno evidente sembra il parallelo con il putto di Lotto che, a dire dello studioso, avrebbe modificato completamente il modello riprendendone, però, alcuni particolari come “la forma della testa e i riccioli spettinati, il movimento del braccio destro, la chiusura delle spalle che si raccolgono nell’atto di trattenere la corona e il movimento della gamba sinistra sollevata”.31 Secondo il parere di Binotto, Lorenzo avrebbe tenuto presente il modello verrocchiesco (?) anche in altri due dipinti realizzati nello stesso torno di tempo: il Gesù Bambino della Madonna tra i

santi Giovanni Battista e Caterina (1522) di collezione privata (fig.21) e quello che

figura nella Madonna tra i santi Girolamo e Nicola da Tolentino (1523-1524) a Boston (fig.7). In tutte e tre le opere lottesche sarebbe, inoltre, presente il cuscino, interpretato nella sua allusione funeraria.32

4.5 - Il putto e i suoi attributi: proposte iconografiche

Gli studi condotti da Rona Goffen33 e in seguito proseguiti da Francesca Cortesi Bosco34 hanno appurato che in passato, sia in epoca classica che rinascimentale, il cuscino era un attributo appartenente al repertorio iconografico funerario. In particolare, esso era utilizzato nei monumenti sepolcrali del quattrocento e cinquecento come appoggio per la testa del defunto. Il suo significato “funebre”, richiamando l’immagine del teschio, rappresentava un “memento mori” altrettanto potente. La studiosa sottolineava che la forma quadrata del cuscino rappresentato da Lotto generalmente dovesse richiamare la quaternità, ovvero i quattro elementi determinanti la natura mortale dell’uomo: «Sonno della morte e quaternità» […]

«sono due concetti omogenei che si possono associare al cuscino». Accanto al

31

M. Binotto, op. cit., 2011, p. 271;

32

L’identificazione del cuscino quale attributo appartenente al repertorio iconografico funerario, già in uso nell’antichità, era merito di Rona Goffen (1978, pp. 34-41) che lo individuava appunto nella tela di Boston. M. Lucco (1997, ed. 1998, p. 127) riscontrava in questi dipinti un “senso di instabile equilibrio, di inquietudine, quasi di irrisolto nodo emotivo”.

33

R. Goffen, in “Bulletin of Museum of Fine Arts Boston”, LXXVI, 1978, pp. 35-38;

34

F. Cortesi Bosco, 1987, p. 481. Dalla spiegazione del cuscino quale emblema di morte fornita dalla studiosa in riferimento alla tarsia lottesca raffigurante Sant’Elia, realizzata per il coro di Santa Maggiore a Bergamo, veniamo a conoscenza del fatto che la tradizione veneziana riconduceva quest’oggetto anche alla figura di Cristo: «Il motivo del cuscino con significato di morte» […] «era

(20)

teschio, al cuscino e al Cupido un altro elemento su cui vale la pena soffermarsi in quanto “determinante ai fini della comprensione dell’iconografia” è la corona, o serto che “il bimbo piega in forma circolare a incoronare il cranio”35. Tito Barbieri aveva riconosciuto in esso una corona di olivo, noto simbolo di pace che pertanto – nel contesto della composizione creata da Lotto – doveva alludere a quella pace che “si può trovare solo nella tomba”. Questa interpretazione è del resto coerente con il significato allegorico conferito alla pianta da Levi d’Ancona36. Sarebbero stati invece Crowe e Cavalcaselle a riconoscere nella tela dei rami di alloro. Esattamente un secolo dopo Mascherpa37 leggeva nella corona l’allusione alla “vanità della gloria rispetto alla morte, emblemata nel teschio”, mentre Caroli38, sulla scorta di Calvesi39 e Edgar Wind40, interpretava l’allegoria lottesca come “Amore che trionfa sulla Morte”. Curiosa è la lettura fornita da Dal Pozzolo41in base al quale l’artista avrebbe nascosto nella scena un monito a vivere in modo giusto al fine di ricevere la grazia nell’aldilà. Ma è stato Zanchi42 a dare la spiegazione più complessa dell’allegoria, riconoscendo nel putto il “simbolo del Cristo come verbo reincarnato, che offre una possibilità di redenzione all’uomo, che da una morte momentanea (teschio dormiente) tende verso lo Spirito (corona)”.

In quest’ottica la corona veniva proposta come emblema del cerchio, “attributo del movimento ciclico della Vita” in cui inizio e fine si congiungono. Il critico, d’altro canto, individuava nell’opera anche una metafora alchemica: «Lotto ci invita allora

ad andare oltre le apparenze e ci insegna a cercare la quintessenza divina anche nelle sostanze apparentemente morte». Da ciò egli deduceva che il significato che

l’artista avrebbe inteso nascondere nel dipinto è che “la vera vita sussegue ad una morte necessaria della materia”. Quindi aggiungeva: «Il putto, emblema della nuova

vita, e il teschio dormiente, simbolo della morte momentanea, sono idealmente congiunti come l’inizio e la fine di un Cerchio, di una corona. Il teschio rimanda alla

35

M. Binotto, op. cit., 2011, p. 270.

36

M. Levi d’Ancona, The Garden of the Renaissance. Botanical Symbolism in Italian Painting, Firenze, 1977, p. 238.

37

G. Mascherpa, Lorenzo Lotto a Bergamo, Milano, 1971, p. 108.

38

F. Caroli, Lorenzo Lotto, Firenze, 1975, p. 92, n. 62.

39

M. Calvesi, Caravaggio o la ricerca della salvazione, in “Storia dell’Arte”, 9-10, 1971, p. 112.

40

E. Wind, 1978, p. 198: «Un dipinto particolarmente morboso di Lorenzo Lotto (fig. 50) mostra

Amor che incorona un teschio posato su un cuscino (emblema di dolcezza o voluptas)». 41

E. M. Dal Pozzolo, Lorenzo Lotto ad Asolo. Una pala e i suoi segreti, Venezia, 1995, p. 37.

42

(21)

morte susseguente alla caduta di Adamo; il putto allude al Cristo, il verbo incarnato, il Salvatore che dà una possibilità di redenzione all'uomo che tende verso il mondo dello Spirito».

4.6 - Datazioni

A proposito della datazione la critica, ad eccezione di Crowe e Cavalcaselle - che riconducevano l’opera in esame alla metà degli anni ’50 - è unanime nel ricondurne l’esecuzione agli anni ’20. Mentre Pallucchini e Berenson43 suggerivano una datazione al primo lustro del secondo decennio, Goffen la precisava al 1520, Mariani Canova e Caroli al 1521, Mascherpa e Humfrey al 1523-24. Nel 2006 Cortesi Bosco, individuando delle affinità tra il putto e il Gesù Bambino della Madonna tra i santi

Caterina d’Alessandria e Tommaso, posticipava l’esecuzione al 1528. L’ultima

datazione è quella espressa da Margaret Binotto e accolta in occasione della recente mostra dedicata a Lotto (Roma, Scuderie del Quirinale, 2 marzo - 12 giugno 2011).

Fig.21 Madonna col Bambino e i santi Giovanni Battista e Caterina d’Alessandria, 1522, olio su tela, 74 x 68 cm, collezione privata

43

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