• Non ci sono risultati.

A mia madre e mio padre, e mia sorella, piccola Antigone.

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "A mia madre e mio padre, e mia sorella, piccola Antigone."

Copied!
177
0
0

Testo completo

(1)

1

A mia madre e mio padre,

e mia sorella, piccola Antigone.

(2)

2

Indice

Introduzione

Capitolo I

I.1 I T90

I.2 Vent’anni in Motus

Capitolo II

II.1 Io sono Antigone e “vaffanculo”: sulle tracce di un mito contemporaneo II.2. Un’eroina “armata di gioia”: indagine sulle fonti

II.3. Il corpo emotivo di Silvia Calderoni

Capitolo III

II.1 Let the sunshine in (antigone) contest #1 III. 2. Too Late! (antigone) contest#2

III. 3 IOVADOVIA (antigone) contest#3

III.4 Mi rivolto, dunque siamo: dall’antica Grecia a quella di oggi

Annotazioni in margine

Appendice:

Oltre i muri della città di Polinice. Intervista a Benno Steinegger

(3)

3

Introduzione

C’è il teatro che rappresenta la vita e la vita che rappresenta il teatro. C’è un attore che finge di essere e un attore che è presenza pura, auratica. Questo accade quando le parole dei drammaturghi, gli animi degli attori, i pensieri dei registi, le vite intime e personali di tutti, compresi gli spettatori, rompono gli argini di una creazione artistica dove non esiste più il confine tra finzione e realtà. Questo accade quando Motus sceglie di lavorare ad un nuovo progetto, ad un nuovo orizzonte collettivo.

La mia tesi si suddivide in tre capitoli; il primo parte dagli anni Novanta del Novecento e propone un breve excursus sul periodo in cui una nuova ondata di teatranti ha riformulato i linguaggi e i temi del teatro italiano; ho preso come esempio di analisi le tre edizioni del Festival T901 (come lo ha chiamato Antonio Calbi) svoltosi a Milano e Palermo tra il 1997 e il 1999.

La nuova scena italiana e la descrizione dei mutamenti della forma drammatica moderna e contemporanea mi sono serviti per poter procedere nello studio della storia di Motus, che si forma e costituisce proprio nel 1991, grazie all’incontro tra Enrico Casagrande e Daniela Nicolò.

Sono passati più di vent’anni da quel periodo, ma il “branco di cani sciolti”, come ha sempre amato definirsi la compagnia è ancora in constante ricerca. Dai miei studi ho constatato che Motus dimostra una fame onnivora per il reale, per la vita, per l’arte, per un presente che non parla al futuro e non racconta il passato, è ora, è qui, è adesso. Ho esaminato e osservato i loro metodi creativi, le caratteristiche estetiche e le loro scelte autorali ed ho tracciato un percorso di tutto il loro lavoro sempre in Motus.

“Sempre in motus scrivono spesso di noi”- afferma uno dei due registi- “e forse è vero. Anche sulla scena. Anche dentro le immagini. Nel movimento. Del resto ho sempre preferito i piani sequenza ai quadri fissi. Le imprecisioni e i sobbalzi della camera a spalla al rigore del cavalletto. Le scelte improvvise, i cambi di rotta, gli estremi, i timori. Meglio non sapere troppo quando si parte. Le cose si scoprono strada

(4)

4

facendo. Tanto tutto torna a riva, prima o poi”2. Nomadi, raminghi, “ci insediamo come pianta rampicante, come virus, come ospiti invadenti nei luoghi, interagendo con gli interni, mutando con gli spazi e in relazione ai progetti in cui la nostra presenza è inserita”3

.

Da Beckett a Bacon, da Ballard a De Lillo, da Pasolini a Fassbinder, per arrivare a Sofocle, Brecht, al Living Theatre, la sperimentazione e l’originalità sono i cardini intorno ai quali si basa il lavoro della compagnia due volte premio Ubu.

La contaminazione di linguaggi nei loro spettacoli avviene attraverso plurime forme: arte figurativa, cinema, musica, letteratura, istallazioni video e performance. Nel teatro di Motus tutto converge: il punk e il post-punk, il mod, l’uso di corpi come macchine (cyborg), il glamour-pop, il video-teatro, la povertà scenica nella quale uniche presenze sono gli spettatori.

Nel secondo capitolo ho dapprima introdotto la figura di Antigone, che già dal nome esplica la sua diversità e il suo fascino, che le permette di diventare vettore di letture artistiche contemporanee. Antigone (in greco Αντιγόνη) è un nome composto dalla parola anti, ovvero contro e dal verbo gignomai, nascere. Il significato letterale è nata contro. I latini usavano l’espressione nomen omen persuasi che il nome potesse in qualche modo presagire la vita di ciascun individuo. Antigone è contro ogni aspetto della vita di una donna, lo è per definizione, volontà e destino: non è solo figlia perché generata dall’incesto di Edipo e Giocasta, non è madre né sposa, difatti morirà vergine, non è solo cittadina perché contrappone alle leggi dello Stato le leggi del cuore.

Quest’antica figura femminile che nella scrittura sofoclea prende corpo per la prima volta, nel teatro ateniese di Dioniso (presumibilmente nel 442 a.C.), è stata oggetto di molte rielaborazioni contemporanee, sia in ambito drammaturgico, che performativo rappresentando sempre ribellione, rivolta, rivoluzione contro qualcuno e qualcosa.

Antigone si pone in continuità con l’attenzione che Motus ha sempre dimostrato

rispetto alla ribellione. La figura mitica è una presenza latente e misterica nel percorso Motus.

La compagnia dedica all’eroina mitica tutto il progetto Syrma Antigónes (2008-2010) ovvero la traccia di Antigone. Il titolo si riferisce al nome della località vicino

2 C. Ventrucci, Terroristi del teatro, in F. Bonami (a cura di), Exit. Nuove geografie della creatività

italiana, Milano, Mondadori, 2002, p. 220.

3 D. Nicolò, E. Casagrande, LAST DAYS, in E. Casagrande, D. Nicolò, Motus 991_011, Rimini, NdA press,

(5)

5

Tebe, dove probabilmente morì Polinice e dove Antigone non avendo la forza di sollevarne il corpo, lo trascinò lasciando dei segni sul terreno.

Syrma Antigónes parte da alcuni interrogativi: chi è Antigone oggi e chi la

rappresenta? Chi oggi, sfiderebbe il sovrano, la città intera, lo Stato e le sue leggi per affermare un diritto umano?

Il mio studio continua con un paragrafo dedicato alle fonti da cui Motus ha attinto, confrontando analogie e differenze rispetto ad esse: il testo di Sofocle, la riscrittura brechtiana Die Antigones des Sophokles (1948), il romanzo di Grete Weil,

Mia sorella Antigone (1980), il testo e la storica messa in scena del Living Theatre

(1967), Antigone (1997) di Henry Bauchau, il film I Cannibali di Liliana Cavani (1970).

Prima di procedere all’analisi degli spettacoli mi sono soffermata sulla figura-icona di Silvia Calderoni, attrice e performer, che lavora con il gruppo dal 2006 e che interpreta in questo lavoro Antigone, Emone ed Eteocle.

Il terzo capito è strutturato in maniera molto semplice; ogni paragrafo contiene un’analisi dettagliata4

dei quattro spettacoli. I primi tre spettacoli/studi sono chiamati

contest5: Let the sunshine in (antigone) contest#1 con Silvia Calderoni (Antigone/Eteocle) e Benno Steinegger (Polinice ed Ismene), Too Late! (antigone)

contest#2 con Vladimir Aleksić (Creonte) e Silvia Calderoni (Antigone/Emone), IOVADOVIA (antigone) contest#3 con Gabriella Rusticali (Tiresia) e Silvia Calderoni

(Antigone). A concludere il progetto, il lavoro Alexis. Una tragedia greca con Silvia Calderoni (Antigone/Emone), Benno Steinegger (Polinice/Tiresia), Vladimir Aleksić (Creonte), Alexia Sarantopoulou, attrice greca incontrata ad Atene dalla compagnia.

L’intero progetto è una forma ibrida, tra meta-teatro e rappresentazione della tragedia mitica, gli attori escono ed entrano nei personaggi raccontando anche episodi della propria vita privata. I loro pensieri sono messi in scena attraverso un gioco continuo di in e out, dentro e fuori la finzione; è un nuovo tipo di verfremdung, straniamento, che non permette al pubblico di immedesimarsi nell’attore o nel personaggio.

4

Descrizione delle scene, dei gesti degli attori, la loro mimica facciale, costumi, scenografia, oggetti scenici, luci, coreografia.

5

Contest, termine mutuato dal linguaggio hip hop, che sta ad indicare confronto/scontro, incontro,

(6)

6

Il progetto della trilogia Motus si conclude, come ho già affermato, con un quarto lavoro più documentaristico e didascalico, Alexis. Una tragedia greca. Il titolo è un gioco di parole, il nome Alexis è un riferimento ad Alexis Grigoropoulos, ragazzo di quindici anni ucciso ad Atene in Grecia nel dicembre del 2008 a causa di una pallottola vagante della polizia, mentre il termine “tragedia” del sottotitolo si riferisce all’antica tradizione del teatro greco. Alexis per Motus rappresenta il nuovo Polinice. Il lavoro è costruito su un collage d’interviste (fatte ad Atene dalla stessa compagnia, che nell’agosto 2010 si reca nel quartiere di Exarchia6

); il lavoro mostra allo spettatore fotografie, video e traduzioni di graffiti di adolescenti che urlano il loro “no”; tutto questo ricorda il “no” di Antigone in opposizione alle leggi di Creonte.

Dal giovane Alexis al terrorismo anni 70, dai fumogeni del G8 di Genova, alla maschera (oggetto scenico che utilizza un attore della compagnia e che rappresenta il volto di un primo ministro) tante sono le risposte alla domanda iniziale “Chi è Antigone oggi? Che cosa significa lottare contro il potere? A quale prezzo forme di esistenza diventano resistenza?”.

Daniela Nicolò:

Scelgo il nome di Antigone per ricostruire-tracciare-delineare-declinare il tema della rivolta nel contemporaneo, procedendo in modo per nulla esaustivo, ma frammentario e lacunoso…come fare del resto di fronte a questo nome che affascina e allontana? Non posso che dare forma a un fantasma privato, molto intimo e vacuo, appellarmi a lei come, per dirla con Hölderin, un essere in comune sororale, di una comunità in cui il modo d’interagire peculiare ed esclusivo è quello che si ha con la sorella, alleata, confidente, amica criticamente fedele […] C’è in Antigone un atteggiamento diverso rispetto agli altri eroi tragici. Aiace nel labirinto pensa di non avere vie d’uscita, Antigone ha una perfetta via d’uscita.La fine di Antigone è una specie di corsa a chi arriva prima al filo di lana, Narrativamente c’è senso della corsa, della fretta. Creonte finalmente rinsavisce e corre, corre, corre a liberare Antigone dalla prigione…ma la corsa di Antigone è a battere sul tempo Creonte, ed è il suicidio. Il suicidio di Antigone, a differenza di quello di Aiace, è affermazione di sé; di sé cioè non figlia, fratello. Suicidandosi afferma una socialità contro un’altra socialità. È l’uomo o la donna della fraternità contro l’uomo e la donna della filialità. Antigone è dunque una figura politica, eminentemente politica7.

“Trasformare l’indignazione in azione”8

è l’operazione che Motus compie per reagire ad una società, quella contemporanea, che non riconosce più il diritto morale che

6

Quartiere anarchico e universitario di Atene.

7 D. Nicolò/Motus, È TROPPO TARDI? Alcune riflessioni a margine di Too Late! in F. Arcuri, I. Godino (a

cura di) Prospettiva. Materiali intorno alla rappresentazione della realtà in età contemporanea, Pisa, Titivillus, 2011, p. 61.

(7)

7

Antigone ha difeso con la propria vita. Importantissimo è il ruolo del pubblico, che durante tutte le performance è chiamato ad agire sia fisicamente che con il proprio pensiero. Al pubblico vengono poste domande è invitato a salire sulla scena per compiere piccoli gesti significativi. La rottura della quarta parete teatrale e la posizione inusuale, conferisce al pubblico un ruolo attivo e vigile che, da una parte, strizza l’occhio allo straniamento brechtiano e dall’altra nei momenti di maggiore tensione emotiva, spinge ad una immedesimazione, catarsi personale e politica, che confluisce nella bravura degli attori e nella destrezza di Motus nel raccontare criticamente il presente.

“Chi vuol vedere vien veduto”9, scriveva Brecht nel suo preludio all’Antigone, Così Motus trova il modo di mostrare alla collettività il mondo nel quale vive, stimolando il pensiero e l’azione.

Daniele Nicolò:

In questo momento sosteniamo un’idea di teatro che si interroghi e che reagisca a ciò che avviene nel nostro paese. Siamo arrivati a riflettere sul concetto di “terrorismo poetico”, così come lo intendevano i situazionisti, perché ci ha portato a interrogarci sulla necessità o meno della violenza e delle armi. Il nostro teatro punta a una forma poetica ma anche “terroristica”, per suscitare domande, stimolare reazioni e persino “paure”, sicuramente riuscendoci in maniera ancora parziale rispetto agli intenti10.

Indagare anche le forme di ribellione violenta è necessario, poiché protestare vuol dire “inaugurare un nuovo mondo, ed è soltanto la conclusione contraddittoria del vecchio. […] La rivolta non è in sé un elemento di civiltà. Ma è premessa ad ogni civiltà”11

.

Alexis. Una tragedia greca si conclude con la domanda: “Cosa succederà

adesso?”, poiché l’arte non basta da sola a cambiare la società in cui viviamo. Antigone diventa così, per lo spettatore, non una figura in cui riconoscersi, ma una figura attraverso la quale poter risvegliare il potere del proprio pensiero politico.

In appendice ho trascritto una breve intervista, dal titolo Oltre il muro della città

di Polinice che ho fatto a Benno Steinegger, attore di Codice Ivan e Polinice nel

9

B. Brecht, Antigone, in M. G. Ciani, Anouilh, Brecht, Antigone. Variazioni sul mito, Venezia, Marsilio, 2008, p. 125.

10 D. Nicolò, Intervista a Enrico Casagrande, Daniela Nicolò, Silvia Calderoni, in Altrevelocità (a cura di)

Un colpo. Disegni e parole dal teatro di Fanny & Alexander, Motus, Chiara Guidi / Socìetas Raffaello Sanzio, Teatrino Clandestino, Ravenna, Longo Editore, 2010 cit., p. 28.

(8)

8

progetto Antigone di Motus. Al termine dell’elaborato ho selezionato alcune foto di scena del progetto.

Durante la mia analisi ho inserito e citato non soltanto fonti bibliografiche di studiosi e critici teatrali, ma anche alcune conversazioni avute con la compagnia: il 19 febbraio del 2010 presso La Città del Teatro di Cascina prima della replica serale di X

(ics) racconti crudeli della giovinezza, un dialogo avuto con Daniela Nicolò presso il

Teatro Francesco di Bartolo di Buti dopo aver assistito allo spettacolo IOVADOVIA

(antigone) contest#3 (9 febbraio 2011), un dibattito presso l’Accademia di belle arti di

Pietrasanta (28 aprile 2011) e un breve colloquio con Daniela Nicolò al Festival di Santarcangelo (quarantunesima edizione) nel luglio 2011.

Per me è stato importante seguire tutti i loro lavori e incontrare la compagnia in molte occasioni anche fuori dai circuiti tradizionali, come nei nuovi spazi di produzione culturare come le occupazioni di Macao a Milano (dicembre 2012) e il Teatro Rossi Aperto di Pisa (ottobre 2013).

(9)

9

CAPITOLO I

I.1. I Teatri 90

Nel 1997 a Milano prende il via una rassegna dal titolo Teatri 90, ideata da Antonio Calbi con la collaborazione dell’ETI. In dieci giorni il festival ospita la nuova scena italiana, i nuovi corpi e volti del teatro di ricerca.

Denominati dalla critica teatrale “nuova generazione” e da Renata Molinari “terza ondata” riferendosi agli anni Sessanta e Settanta come prima e seconda, i gruppi del teatro italiano degli anni 90 sono

Nati senza passato né futuro; senza passato perché non al seguito di una traccia, non nell’appartenenza a una scuola, ma nati di divenire, di ecosistema. Nati senza futuro, perché spazi e soldi non ci sono, leggi men che meno, solo norme e vincoli, eppure, nonostante questo, nati. Nati qualcuno a Napoli, altri a Palermo, a Roma e Milano, e a un certo punto innumerevoli in Emilia e in Romagna. Nati per nascere non nati contro o in funzione di qualcuno o qualcosa12.

Sono i nipoti di Carmelo Bene, Leo de Bernardinis, Mario Ricci, Claudio Raimondi, Carlo Quartucci. Si autodefiniscono orfani o gli “invisibili sottolineando nel nome la caratteristica spiacevole che avevano avuto fino allora in comune”13, ovvero essere poco riconosciuti e trattati nel panorama del teatro. Eppure hanno cambiato profondamente la scena italiana, irrompendo con linguaggi e metodi di lavoro diversi dal passato.

Gruppi, artisti, coppie, bande, ensemble, singoli, scelti per intuizione, prima di tutto; per piacere estetico; poi perché rispondevano a un criterio preciso: gruppi nati in questi anni Novanta; […]

12

C. Ventrucci, Sette piccole introduzioni in F. Bonami (a cura di), Exit. Nuove geografie della creatività

italiana, Milano, Mondadori, 2002, p. 195.

13

F. Quadri, Premessa a un Prototipo, in R. Molinari, C. Ventrucci (a cura di), Certi prototipi di teatro.

Storie, poetiche, politiche e sogni di quattro gruppi teatrali. Fanny & Alexander, Masque Teatro, Motus, Teatrino Clandestino, Milano, Ubulibri, 2000, p. 9.

(10)

10

che a volte alternavano i codici tradizionali del fare, pensare, fruire il teatro. La mescolanza di linguaggi, la mutazione e la cangianza, mi apparivano come segno precipuo di questa fine di millennio14.

I protagonisti sono: Fanny & Alexander, Masque Teatro, Teatrino Clandestino, Motus, Accademia degli Artefatti, Kinkaleri, Teatro del Lemming e molti altri. Tra i già noti ma non per questo escludibili dal panorama nazionale, ci sono i Tiezzi, i Barbero Corsetti, Martone, la Socìetas Raffaello Sanzio. Molti di loro provenienti dalla Romagna che si dimostra sempre e ancora felix15.

La seconda edizione del festival T90, l’anno seguente, è dislocata in spazi differenti, dal Teatro Franco Parenti alla Triennale, dal Crt a Brera e Leoncavallo.

L’ultima edizione del 1999 chiude il secolo con un’ampia apertura verso il futuro, durata quasi due mesi tra Milano e Palermo. Negli anni precedenti, il festival si era caratterizzato come trampolino di lancio e vetrina di innovazione e trasformazione della scena contemporanea, questo ultimo anno si distingue per l’apertura continua tra artisti, luoghi e pubblico. Diviene un’occasione unica che nel tempo si dimostra officina, “fabbrica” dello spettacolo in rapido mutamento. Si crea così un proficuo scambio tra i nuovi linguaggi e gli artisti che scendono e salgono la penisola in un continuo work in progress.

L’obiettivo dei tre anni è stato raggiunto, decine, centinaia di nuovi nomi ormeggiano nel panorama nazionale avendo anche la possibilità di essere inseriti nei teatri considerati tradizionali.

L’esperimento dei T90 diffonde lo studio di quel fenomeno teatrale che si è sviluppato dall’89 al 2000, è un punto cruciale in cui oltre agli spettacoli presentati si riflette e si analizza il nuovo teatro, la nuova scena tra studiosi, appassionati e teatranti. Invitati importanti delle edizioni sono nomi come Franco Quadri, Gillo Dorfles, Aldo Nove, Antonio Coronia, Oliviero Ponte di Pino, Renata Molinari.

Le riflessioni sul nuovo teatro, inclassificabile e originale (che si mescola con le arti figurative e l’arte performativa) nascevano da incontri proficui tra artisti e critici, giornalisti e pubblico, eterogeneo e pronto ad assaporare le novità.

Afferma Antonio Calbi:

14

A. Calbi. Teatri 90. Atto terzo in A. Calbi (a cura di) Teatro 90 festival. La scena ardita dei nuovi gruppi, Milano, 1999, p. 29.

15

Romagna felix è una definizione che la critica teatrale ha attribuito alle compagnie nate nello stesso periodo e territorio: l’Emilia Romana. Ad esempio Le Albe, Motus, Socìetas Raffaello Sanzio, Valdoca, Il Masque, Fanny & Alexander, Monica Francia, Teatrino Clandestino, Terzadecade.

(11)

11

A metà degli anni novanta è palese che il decennio precedente e i suoi ultimi bagliori hanno rappresentato un humus fertile. […] È insomma tempo per l’emersione di una nuova ondata […] ci vuole così un progetto a questo dedicato, che faccia da trampolino, da detonatore. Queste le ragioni che portano alla nascita di Teatri 90 festival, progetto che deve molto a Limitrofìe, a Sussurri o Grida, a MilanOltre, a Santarcangelo, a Pontedera, a Volterra, a Polverigi, a Venezia, a Narni, a tutti quei festival e a tutte quelle occasioni che sono state importanti negli anni Ottanta per quel teatro che identifichiamo di ricerca e di sperimentazione, che altro non è se non la tensione che il teatro ha sempre avuto per essere “interno” al proprio tempo16

.

T90 non è soltanto una rassegna ma un progetto di visione e riflessione; l’obiettivo diventa anche scardinare un modo ormai stantio e ripetitivo di organizzare gli eventi teatrali. Dalla prima edizione che ospitava dieci gruppi si è passati ai venti della seconda e poi trentasei, un successo che ha permesso una visione sempre più ampia della generazione anni 90. L’esplosione della scena ardita17

è stata possibile grazie ad altre manifestazioni che hanno portato alla formazione di una nuova ondata:

Opera Prima nel 1994 a Rovigo, organizzato dal Teatro del Lemming, Crisalide a

Bertinoro (FO) da Masque Teatro (molto importante perché mette in evidenza una parte del teatro di ricerca italiano che ha poca visibilità e nessun finanziamento pubblico). Viene fondato nel 1995 Teatri Invisibili a San Benedetto del Tronto; molti dei gruppi si costituiscono come associazione per dare vita ad una rassegna annuale di incontro e confronto dal nome Prototipo all’Interzona di Verona, al quale partecipano soltanto quattro compagnie18.

È un punto di svolta, nel ’96, Extraordinario a Roma al Teatro Il Vascello, rassegna curata da Fabrizio Arcuri e Paolo Ruffini. Il dibattito sulle poetiche continua con Cristina Ventrucci e Paolo Ruffini nel Patalogo 19, nel quale si traccia una mappa di tutti i nuovi movimenti di ricerca: è il primo studio interamente dedicato a I gruppi

9019.

Nel ’97 Krypton e le Albe portano a Ravenna le stesse compagnie e il festival di burattini e figure di Cervia che inserisce nel programma Fiori blu, un momento

16

A. Calbi, Conversazione con Antonio Calbi, Una generazione plurale, in T. Fratus (a cura di), Lo spazio

aperto. Il teatro ad uso delle giovani generazioni, Roma, Editoria & Spettacolo, 2002, p. 214.

17 La definizione è una citazione del titolo Antonio Calbi, Teatro 90 festival. La scena ardita dei nuovi

gruppi, catalogo edizione 1999, Milano.

18 Teatrino Clandestino, Motus, Fanny & Alexander, Masque Teatro.

(12)

12

interamente dedicato alla commistione delle arti, in particolare ai nuovi modi di fare teatro. Nello stesso anno l’ETI scopre i nuovi talenti.

Grazie ai luoghi e ai metodi di aggregazione fin qui elencati è stato possibile fare un’analisi approfondita sulle analogie dei gruppi italiani.

In primo luogo il circuito dei movimenti teatrali di questi anni è escluso da quello ufficiale, quasi del tutto privo di finanziamenti pubblici (istituzionali e statali) e da spazi in cui poter creare, provare, produrre in libertà. Spesso le compagnie autofinanziano il proprio lavoro, vanno alla ricerca di nuovi metodi e nuove strade in opposizione alle leggi del mercato tradizionale. Trovano terra fertile da contaminare con nuovi germi nei centri sociali e nei luoghi extrateatrali.

Scrive Oliviero Ponte di Pino:

È più probabile vedere i loro spettacoli in luoghi di aggregazione e di flusso come centri sociali e discoteche. È facile che lavorino in capannoni in disuso e cascine isolate. Hanno trovato forme inedite di organizzazione e coordinamento, come l’Associazione dei Teatri Invisibili, che vuole raccogliere i non ufficialmente finanziabili20.

I centri sociali ospitano gli artisti come ad esempio i Margine Operativo (formatisi nel 1993). La mancanza di luoghi e la ricerca di soluzioni alternative determina una certa libertà nel lavoro, accompagnata quasi sempre da una formazione autodidatta; difatti, attori, drammaturghi e registi, sebbene i ruoli non siano definiti come nel teatro tradizionale, non frequentano scuole o accademie.

La scena si riduce spazialmente e cambia, non si lavora soltanto in palcoscenico, ma con attrezzature e scenografie stravaganti come gabbie, cubi di plexiglass, scatole, strutture effimere e surreali, impalcature metalliche, stanze, corridoi, cunicoli, ambienti asfittici ridotti e claustrofobici in cui si muovono gli attori con i loro corpi spesso disarticolati, corpi che non rappresentano ideali di perfezione e bellezza ma istanze di dolore, di lotta, di sfida.

La drammaturgia ricade sull’attore, sul suo agire in scena.

Il suo compito cambia, “è un attore che non recita”21

. Non ci sono personaggi, psicologismi, ruoli. Il corpo veicola messaggi, racconta una storia con il proprio vissuto, è disgiunto, spezzato, infermo, malato di un morbo che parte dallo spirito per poi arrivare ad ogni angolo della materia. È “la malattia del senso e del sentire della psiche

20

O. Ponte di Pino, È di nuovo avanguardia. Al Franco Parenti di Milano, una rassegna dedicata ai gruppi

giovanissimi e “underground”. Saranno la nuova sperimentazione?, «Il manifesto», 18 marzo, 1997.

(13)

13

e della filosofia, di una cultura tutta - la nostra – che sta andando incontro al disfacimento di sé, all’implosione. O, più semplicemente, che ha aderito al postmoderno […] dall’esaltazione della superficie”22

.

L’individuo, l’io, il soggetto, sono stati disinfettati dall’inorganico. L’attore

performer l’attore macchina post-uman si ispira ai ritratti e alle fotografie di Cindy

Sherman, ai corpi della body art della Jana Sterbak, Rebecca Horn, Urs Luthi, Marina Abramović, Orlan, Stelarc, Antunez Roca; svuotati della loro intimità, plastificati, deformati, sono e divengono rappresentazioni grottesche, che citano e rimasticano le estetiche cyberpunk.

L’imperfezione del corpo organico sostituto dalla macchina, dalla tecnologia dall’alienazione dell’essere umano, mostra l’oscenità di una società che ha dimenticato l’individuo e che si nutre di anonime presenze, di ripetizioni che svuotano tutto e tutti dai significati, valori, principi:

In altri termini, il pensiero, l’atto creativo, è nutrito dalla problematicità estetica, alla cibernetica, dal dosaggio eccessivo delle mutazioni in corso che condizionano l’uomo di fine millennio (il concetto di postumanità troverà sulla scena degli anni novanta una delle sue interpretazioni più felici)23.

Bandita è la realtà che può esistere solo se estremizzata, iper-reale, alterazione del quotidiano, rappresentazione di ossessioni, trasgressioni e conflitti dell’essere umano.

Il teatro degli anni 90 lavora per analogie visive e sonore. I costumi e gli oggetti di scena divengono peso e prolungamento di quel corpo infetto e si fanno portavoci della drammaturgia, della narrazione visiva, divengono segno e simbolo che lavora con i diversi livelli cromatici delle luci.

Muta il rapporto tra lo spettatore e gli artisti, la relazione tra i due diventa sempre più diretta, efficace e dinamica. Al contrario del teatro naturalistico nel quale lo spettatore è l’intruso che osserva clandestinamente, alcuni spettacoli e lavori di questi anni sottolineano l’importanza di una grande consapevolezza dell’arte scenica: la presenza del pubblico nelle performance artistiche.

22 Ivi, p. 191-192. 23 Ivi, p. 124.

(14)

14

Il pubblico si trova, spesso, all’interno dell’opera e dentro l’azione scenica. Questa presenza così a lungo dimenticata (volutamente) è ora necessaria per interrogarsi sulla percezione umana, tanto che la visione dello spettacolo-performance viene continuamente ostacolata. Lo spettatore è costretto a stare in piedi, a doversi spostare per l’imprevedibile mobilità della scena e delle sue macchine, dei suoi oggetti. Il pubblico non è un semplice osservatore ma partecipa; alcuni esempi sono citati da Paolo Ruffini e Stefania Chinzari:

Cammina e si sposta-Coefficiente di fragilità, Natura Morta…, éntrage (êntrage), Hänsel e

Gretel-ascolta in cuffia (Sinfonia majakovskiana), spia con un binocolo i dettagli

(L’idealista magico), è costretto alla visione o all’ascolto dello stesso spettacolo da postazioni diverse (Alice più verde dell’erba di Lusama, 1.9ccGLX di Kinkaleri, Romeo e

Giulietta di F&A), siede a tavola e mangia (il Macbeth di AG.A.T.A.), si connette con

Internet (Nautilus e altri esperimenti di Francesco Verdinelli), segue spettacoli a puntate (Madame De Sade), è bendato e accecato (Edipo…), beve, accarezza e giace (Dioniso…)24.

Allo “spettatore il compito di creare relazioni, scoprire prospettive, reinventare la visione esercitando fino in fondo lo sguardo di quell’altro che secondo Lacan permette la costituzione dell’identità soggettiva”25

.

Il pubblico è spesso al centro dello spettacolo, può trovarsi solitario nella fruizione (esistono spettacoli per una sola persona) in ambienti e spazi sempre più stravaganti: negozi, garage, appartamenti, alberghi, discoteche, ex-fabbriche abbandonate.

La caratteristica principale del teatro di ricerca degli anni 90 è la sua componente fortemente visiva. Il logos (a volte eliminato, dimenticato, altre volte sperimentato in nuovi modelli narrativi) lascia spazio all’immagine, spesso mutuata dal cinema o dalle arti visive. Questa nuova generazione ha ereditato una grande conquista del Novecento, l’emancipazione del teatro dal testo. Lo spettacolo diviene performance nel senso più ampio del termine “pura potenzialità dell’azione”26

ovvero una espressività collettiva e sociale che coinvolge più mezzi ed arti nello stesso momento (spazio-temporale) di rappresentazione: il cinema, il dramma, il corpo, la parola, i mezzi audiovisivi, costumi di scena che spesso sono soltanto abiti quotidiani della società contemporanea o combinazioni di vestiario stravaganti e inclassificabili temporalmente.

24

S. Chinzari, P. Ruffini, Sguardi, in S. Chinzari, P. Ruffini, Nuova scena italiana. Il teatro dell’ultima

generazione. Prefazione di Goffredo Fofi, Roma, Castelvecchi, 2000, p. 199.

25

Ibidem.

26 P. Ruffini, Capitolo primo. Osceno, in P. Ruffini (a cura di) Resti di scena. Materiali oltre lo spettacolo,

(15)

15

La parola tende a scomparire, la comunicazione avviene tramite l’articolazione di un movimento o di una visione. Riferendosi ad Aristotele Alonge afferma: “È noto infatti che il filosofo greco rivendica con piena energia la piena autonomia e autosufficienza letteraria della tragedia; il momento della messinscena è per lui un fatto secondario”27

.

Infatti nel Rinascimento si consolidano le regole dell’arte scenica grazie al lavoro di traduzione e di studio di trattatisti e umanisti. Iniziano così a circolare le traduzioni del De architectura di Marco Vitruvio Pollione e della Poetica di Aristotele, due testi che hanno posto le basi del teatro occidentale: il primo per lo spazio scenico e l’altro per le regole riguardanti la scrittura drammaturgica, i personaggi, la recitazione e imitazione di situazioni e caratteri.

Il nuovo linguaggio, dalla seconda metà dell’800 in poi, scardina le tre importantissime unità aristoteliche di tempo, luogo e azione ed elimina la netta divisione dei generi, commedia e tragedia28. Con il teatro contemporaneo le regole perdono il loro valore assolutistico fino alla quasi completa eliminazione.

Peter Szondi in Teoria del dramma moderno.1880-195029 parte dal dramma post-rinascimentale per spiegare il processo di epicizzazione del dramma moderno che trova il suo massimo esponente in Bertold Brecht. Secondo la sua teoria gli elementi “tematici” del dramma si pongono in contraddizione con la “forma”30

drammaturgica, che entra in crisi profonda.

Dal dramma assoluto si passa al teatro epico; quest’ultimo è il risultato di una società capitalistica che confina l’essere umano in una condizione alienante, in cui la perdita di umanità, d’identità si riflette nella forma drammatica attraverso la crisi del dialogo che lascia sempre più spazio al monologo, la separazione tra il soggetto narrante e l’oggetto della narrazione, e la soppressione di prologo, coro, ed epilogo.

In sintesi si relativizza l’assolutezza del dramma.

Szondi analizza cinque autori che rappresentano il cambiamento: Ibsen, Čechov, Hauptmann, Maeterlinck, Strindberg. In Henrik Ibsen tutta l’azione si concentra sulla rivelazione tragica della verità tramite una tecnica analitica di svelamento dell’io interiore e del passato che rende difficile il presente. Il tempo è importantissimo, quello

27

R. Alonge, La riscoperta rinascimentale del teatro, in R. Alonge, G.D. Bonino, Storia del teatro moderno

e contemporaneo, La nascita del teatro moderno. Cinquecento-Seicento, Torino, Einaudi, 2001, p. 90.

28

Vi era anche un terzo genere il dramma satiresco scomparso in età moderna.

29 P. Szondi, Teoria del dramma moderno. 1880-1950, Torino, Einaudi, 1982.

(16)

16

che è successo prima viene evocato e diviene il vero protagonista del dramma. In Anton Čechov la tematica è quella della rinuncia, della nostalgia, i suoi personaggi sono sempre alla ricerca di un futuro ma in completa solitudine ricordano il passato in contraddizione con il qui e ora post-rinascimentale. L’isolamento dei personaggi è legato ad un linguaggio lirico. August Strindberg è il primo ad inaugurare la drammaturgia dell’io, ovvero un tipo di scrittura legata al romanzo psicologico, all’autobiografia, al dramma soggettivo al contrario del dramma naturalistico. Successivamente l’autore troverà nello stationendrama, il dramma a tappe, la forma più consona per le sue opere, nella quale all’unità d’azione viene sostituita l’unita dell’io. Le scene “non hanno qui alcun nesso causale fra loro, non scaturiscono l’una dall’altra come nel dramma vero e proprio. Appaiono piuttosto come una serie di pietre isolate, tenute insieme, come da un filo, dal cammino dell’io”31

.

Secondo Szondi è con Strindberg che emergono le prime crepe formali del dramma, le prime mutazioni strutturali, simili al modo di procedere dei sogni in cui la ragione e il susseguirsi degli eventi ha un unico punto di riferimento, l’io del sognatore che rimane sempre lo stesso.

In Maurice Meterlinck tutto è invece impotenza esistenziale, l’uomo si confronta con il proprio destino, con la propria morte. L’azione che costituisce il movimento nel dramma moderno qui è sostituita dalla situazione, dalla passività, dall’impossibilità di agire. I personaggi non sono individualizzati ma somigliano più ad un coro, la tensione monologante impedisce la comunicazione, sembra che qualcosa accada ma di fatto non avviene assolutamente niente.

Gerhart Hauptmann è invece l’autore del dramma sociale, ovvero sceglie di rappresentare le condizioni economico-politiche del momento storico nel quale è vissuto. Le dramatis personae rappresentano ognuna una classe sociale diversa. L’io epico di un determinato personaggio interviene in funzione narrante per far muovere l’azione. Anche in questo caso la categoria temporale del passato divora il presente.

Szondi afferma che “L’intima contraddizione del dramma moderno consiste perciò nel fatto che alla fusione dinamica di soggetto e oggetto nella forma, si oppone la loro separazione statica nel contenuto”32

. Elenca in seguito i tentativi di salvataggio33 del dramma ed anche quelli di soluzione34.

31 P. Szondi, La crisi del dramma, in P. Szondi, Teoria del dramma moderno. 1880-1950, cit., p. 37. 32 P. Szondi, Transizione, cit., p. 62.

(17)

17

Brecht oppone alla drammaturgia moderna una epica:

Svolge coerentemente il nuovo principio permeandone tutta la rappresentazione attraverso ogni sorta di «effetti di straniamento» (prologhi, cartelli, cori, songs, recitazione «straniata» degli attori, ecc.) che servono a ribadire ovunque l’opposizione tra soggetto ed oggetto, il fatto che l’essere sociale dell’uomo si è estraniato da lui e gli appare come oggettività alienata35.

I personaggi e le vicende sono mostrate, non soltanto rappresentate, le luci (non più solo sulla scena ma che illuminano le sale dei teatri e gli spettatori) e le scene sono essenziali, hanno la funzione minima di far vedere o far capire qualcosa.

Anche la musica possiede un ruolo fondamentale di non aderenza alla realtà. Brecht inserendo anche prologhi, antefatti e proiezione dei titoli sottolinea l’impossibilità dell’assolutezza del dramma opponendo una modalità completamente diversa. Nel teatro epico il pubblico non è mai portato ad immedesimarsi nelle vicende del dramma ma ad avere uno sguardo critico e attento in cui “il proprio essere sociale è divenuto oggettivo […] e il nuovo principio formale consiste nel distacco epidittico dell’uomo da questa realtà problematica”36

.

Se Brecht è uno dei due poli verso cui oscilla il teatro del Novecento, Antonin Artaud è il secondo. “Le Théâtre et son double è stato probabilmente uno dei libri che hanno avuto più peso nel teatro della seconda metà del Novecento”37

, ad esempio per Peter Brook e il Living Theatre . L’ “atleta del cuore” che per Antonin Artaud è l’attore, nullificato, svuotato dalla sola funzione interpretativa, usa un linguaggio non più atto a spiegarsi, a significare ciò che esprime logicamente ma che comunica mediante più canali: sonoro/musicale, fisico/corporale. È un linguaggio che nasce dal gesto, che si scaglia nel mondo per andare oltre se stesso, estendersi nello spazio, un essere destinato ai sensi, alla sensazione.

33

Nel capitolo Tentativi di salvataggio della forma drammatica lo studioso elenca come possibili soluzioni di recupero di una forma tradizionale il dramma naturalista poiché l’autore di questo tipo di testi non si distacca dai suoi personaggi, il dialogo che si oppone alla forma monologica e intersoggettiva e l’atto unico per l’impossibilità di comporre drammi nella struttura classica.

34

Il dramma a tappe ereditato poi dall’espressionismo tedesco e il montaggio alla Bruckner nel quale ogni atto varia dal precedente e dal successivo.

35

C. Cases, Introduzione alla prima edizione italiana, in P. Szondi, Teoria del dramma moderno. 1880-1950, cit., p. XIX.

36

P. Szondi., Tentativi di soluzione, cit., p. 101.

37 M. Schino, Teorici, registi e pedagoghi, in R. Alonge, G.D. Bonino, Storia del teatro moderno e

(18)

18

L’importanza del corpo e della spiritualità per cui il teatro è inteso come luogo dove poter trascendere la sfera estetica, e per cui la parola perde di significato e diviene significante deriva soprattutto dalla fascinazione di Artaud per il teatro orientale:

Le parole dicono poco allo spirito; parlano invece la dimensione e gli oggetti; parlano le nuove immagini, persino quelle fatte di parole. Ma parla anche lo spazio, tonante di immagini e rigurgitante di suoni, purché si sappia ogni tanto predisporre sufficienti estensioni di spazio cariche di silenzio e immobilità38.

Ed ancora:

Il teatro orientale ha saputo conservare alle parole un certo valore espansivo, poiché nella parola non conta soltanto il significato, ma anche la sua musica, che parla direttamente all’inconscio. Per questo nel teatro orientale non esiste il linguaggio della parola, ma un linguaggio dei gesti, degli atteggiamenti, dei segni, che dal punto di vista del pensiero in azione ha lo stesso valore comunicativo e rivelatore dell’altro. Per questo39.

I T90 sotto questo punto di vista sono artaudiani poiché attraverso le architetture sonore, visive, fisiche disegnano l’intera struttura dello spettacolo, mentre il corpo, il gesto, l’immagine sostituiscono la parola che perde sempre di più la sua funzione. Sono però, anche brechtiani quando decidono di rompere l’illusionistica quarta parete tra loro e gli spettatori e quando mostrano la rappresentazione scenica invece di mimarla e riprodurla. Dunque è una drammaturgia visiva che non si sottomette al testo, ma si esplicita attraverso liberi segni e immagini.

Uno degli allievi di Peter Szondi, Hans-Thies Lehmann, con la definizione di

Postdramatisches Theater (1999), teatro Post-drammatico, intende affermare che il

“dramma si è arricchito di potenzialità sconosciute alla sua forma classica”40

.

I segni teatrali della nuova scena contemporanea sono, secondo lo studioso, condotti attraverso un meccanismo non più di sottrazione e sintesi ma di “percezione aperta e frammentaria”41; la semantica della forma acquista valore in una creazione che non è più solipsistica ma collettiva e condivisa, dove ruoli e gerarchie sono aboliti per lasciare spazio ad una libertà compositiva mai raggiunta nel teatro. Da questo consegue che la costruzione scenica si articola mediante immagini di sogno, eliminando

38

A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Torino, Einaudi, 2000, p. 202.

39

Ivi, p.233.

40 G. Guccini, Dramma vs Postdrammatico, «Prove di drammaturgia», a. XVI, n. 1, giugno 2010 in

http://drammaturgia.fupress.net/recensioni/recensione2.php?id=4756 .

41 H. T. Lehmann, Segni del teatro post-drammatico, «Biblioteca teatrale», n 74-76, dicembre 2005, p.

(19)

19

totalmente i sensi razionalmente logici per astrarre i concetti e i linguaggi con i quali esprimerli. Nel momento in cui sogniamo soltanto il nostro inconscio è consapevole dell’andatura logica o illogica che la nostra immaginazione crea, si accostano nell’attività onirica una cospicua densità di segni e significazioni, così nel teatro post-drammatico.

Dice Lehmann: “si deve riconoscere che nel nuovo teatro acquistano valore tratti stilistici che provengono dalla tradizione manieristica: avversione alla compiutezza organica, inclinazione all’estremo, alla deformazione, al disorientamento e al paradosso”42

. La sinestesia, figura retorica poetica diventa una componente creativa teatrale, allora il testo scritto non basta più a significare ma si sviluppa il performance

text, cioè ogni elemento della composizione diventa materiale verbale e non verbale per

comunicare un messaggio, alla rappresentazione si sostituisce la presenza. Dal punto di vista stilistico e pratico emergono soluzioni compositive che prediligono la paratassi, la simultaneità, accumulo di segni, musicalizzazione di molte parti dello spettacolo, drammaturgia visiva, presenza del corpo, irruzione della realtà esterna.

Le gerarchie dei vari elementi che costituiscono l’arte scenica sono abolite, possiedono, ora, la stessa importanza, i segni (contenenti categorie vuoto/pieno, presenza/assenza) sono esibiti simultaneamente, per la loro complessità e l’abbondanza con cui sono mostrati, a volte non permettono allo spettatore una codificazione totale, semplice e diretta. La trasgressione, diventa paradossalmente una regola, le forme in essa contenute sono sovrabbondanti, ci troviamo davanti ad una vera e propria eccedenza scenica, ad un caos labirintico e disorientante, in un teatro concreto, cioè fatto di strutture formali visibilmente palesi (spazio, tempo, corporeità, colore, suono, movimento).

La musica e la scenografia acquistano maggiore importanza rispetto al passato, il teatro post-drammatico tende a “musicalizzare non solo la lingua. […] in tale sfera rientra anche quella musica che s’inserisce nell’evento scenico attraverso la poliglossia onnipresente”43

.

Dal punto di vista del tempo c’è una dissoluzione scenica, le sequenze sono simili a quelle del linguaggio cinematografico che entra nello spettacolo anche sotto altre forme, infatti ora, nel teatro, si sviluppa un’attenzione estetica che in altre forme d’arte era già comparsa.

42 Ivi, p. 27. 43 Ivi, p. 34.

(20)

20

Al calore della rappresentazione di vicende umane e caratteri si sostituisce la freddezza della de-psicologizzazione dei personaggi che gli attori esprimono attraverso la propria corporeità, la propria presenza che diventa emanazione di energia e non solo l’esecuzione di un’interpretazione di un ruolo o di una situazione. “A ciò si aggiunge un corpo deviante, che, attraverso la malattia, l’handicap, la deformazione, si allontana dalla norma e sprigiona fascino immorale, sconforto oppure paura”44.

Ultime due caratteristiche del teatro post-drammatico sono l’irruzione del reale nell’opera, ovvero in alcuni lavori e scelte artistiche il confine tra ciò che è finzione e ciò che è vero si assottiglia fino a scomparire, e l’introduzione dell’evento-situazione che determina un cambiamento nel teatro: importante non è più il risultato “prodotto” dalla creazione ma il processo che l’ha portato ad essere. Infatti “il passaggio del teatro in festa, dibattito, azione pubblica e manifestazione politica, in breve evento, era stato realizzato in svariati modi dalle avanguardie storiche”45.

La rappresentazione della forma non è soltanto l’integrazione del corpo dell’attore con la scenografia ma anche l’immagine elettronica, il video, l’interazione di due realtà, quella presente, fisica e quella virtuale. La grammatica della video arte viene presa in prestito dai teatranti, rielaborata ed inserita nella composizione artistica. Dalla video istallazione alla proiezione di immagini che dialogano con il corpo dell’attore, dalle riprese in diretta di ciò che accade in palcoscenico, ogni scavalcamento di campo tra un’arte e l’altra è concesso purché originale e funzionale alla comunicazione di messaggi culturali, politici, educativi.

Anche il cinema è fonte di ispirazione, sia essa estetica o di contenuto. La parola d’ordine o disordine è osare, tentare, avventurarsi in nuovi percorsi di visione e di vissuto:

Territori esplorati riflettono ancora l’inquietudine della scena postmoderna […] i paesaggi, questa volta del tutto virtuali, raccontano di una tecnologizzazione dilagante: cabine di controllo alla Matrix, operatori da centrale nucleare al Silkwood, figure androidi che richiamano sia Blade Runner sia, per rimanere in Italia, il fumetto degli anni Settanta Cosmine, e, anche quando l’atmosfera e le prospettive a metà tra Piranesi e la letteratura gotica passando da Metropolis potrebbero riportarci con lo sguardo indietro, gli scenari sono rivisitati in chiave futuribile46.

44

Ivi, p. 39.

45 Ivi, p. 47.

(21)

21

L’immagine, componente fondamentale nella nuova ricerca teatrale è sempre accompagnata dal suono. I rumori, le musiche, le dissonanze, le melodie ricorrenti sono parte integrante dello spettacolo, contribuiscono alla drammaturgia, al tessuto compositivo della rappresentazione.

Cambia il ruolo della musica che da creatrice di atmosfere o Leitmotiv diventa disturbo, indice di altri segni legati alle sensazioni e alle emozioni. Maestri e punti di riferimento di questo cambiamento sono: Carmelo Bene con la sua macchina attoriale e la scrittura di scena nella quale ha sperimentato partiture sonore e sceniche inconsuete e la Socìetas Raffaello Sanzio che ha esplorato il campo sonoro sperimentando suoni ripetitivi, oscuri che emergono dalla profonda coscienza dell’uomo, dall’emotività dell’essere. Sono psico-suoni, dissacranti e irregolari che svilupperanno la tendenza dei gruppi 90 a usare la musica come narrazione sonora di stati d’animo, escludendola quasi totalmente dal campo del decorativismo e dell’accompagnamento. Il suono in questo contesto ha però una funzione importante: la scansione del ritmo e del tempo teatrale.

Cosa rimane delle ispirazioni letterarie?

I maestri preferiti sono Beckett, Artaud, Deleuze, Bataille, Foucault, autori che hanno sempre rappresentano la disgregazione dell’io e il peso del vuoto (che ora diviene comunicazione fredda e sterile via web).

L’io è isolato e questo determina il malessere contemporaneo. Da Beckett e da Joyce si prende la frammentazione che vive l’individuo postmoderno47

, post-organico, post-umano.

Il posto d’onore è riservato a James Graham Ballard con le sue storie al limite tra la fantascienza e la coscienza, tra suggestioni della psiche che divengono ossessioni, alterazioni della ragione, incertezza del futuro. Tra sogni, sintomi e corpi a metà tra la potenza della carne e l’inorganico, il quotidiano diventa un incubo che pervade tutti gli anni 90. Ballard credeva al potere dell’immaginazione di plasmare il mondo e in qualche modo la nuova ondata l’ha fatto con il teatro, trasformando la scena contemporanea italiana.

47

Per Postmoderno si intende la condizione antropologica e culturale conseguente alla crisi e all’asserito tramonto della modernità nelle società del capitalismo maturo, entrate circa dagli anni 1960 in una fase di caratterizzata dalle dimensioni planetarie dell’economia e dei mercati finanziari, dall’aggressività dei messaggi pubblicitari, dall’invadenza della televisione, dal flusso interrotto delle informazioni sulle reti telematiche. La definizione è tratta da www.treccani.it/enciclopedia/postmoderno/ .

(22)

22

Il titolo La vertigine dell’iperbole e la bellezza del vuoto di una generazione

plurale di Antonio Calbi nel catalogo della prima edizione dei T90 riassume molti

concetti delle spinte creative dell’estetica e dell’etica dei nuovi gruppi:

La vertigine dell’iperbole e la bellezza del vuoto di una generazione plurale, che ha

rappresentato per me un vero e proprio motto, è stata la mia prima personale piccola verità, un concetto tripartito che mi ha guidato e mi ha ispirato nel lavoro di questi cinque anni. La vertigine dell’iperbole è l’eccesso, l’ambizione, la dissacrazione, la deflagrazione, la ridondanza, la tempesta dei segni e di impulsi, la forte relazione con gli scenari della comunicazione, delle arti, delle tecniche e dei linguaggi di oggi. La bellezza del vuoto è il minimalismo, il teatro di poesia, il teatro del gesto, di corpo, la parola, di piccoli sguardi, la quiete, la stasi, la pace, la radice e l’essenza antica. Di una generazione plurale sta ad indicare appunto questa varietà, questo paesaggio fatto di differenze, di creatività estreme nell’uno e nell’altro senso. Una pluralità che andava conservata. Perché anche a teatro la democrazia, se così posso dire, è un valore a cui non si può rinunciare, altrimenti il teatro-l’arte in generale- muore48.

48 T. Fratusu, A. Calbi, Una generazione plurale, in T. Fratus, Lo spazio aperto. Il teatro ad uso delle

(23)

23

I.2. Vent’anni in Motus

Motus è il participio del verbo latino moveo ovvero moto, movimento, gesto di

un attore o oratore, passo di danza o movimento dell’anima, del sentimento, della passione, sensazioni delle attività dello spirito, ispirazione, motivo per qualcosa o

qualcuno, movimento politico, seduzione, sommossa49.

Motus è ostinazione al cambiamento, “flusso perenne, transito, erranza”50

, necessità di trasformare ogni cosa, di non fermarsi mai, di rinnegare la stabilità come fonte di felicità; “Moto continuo, irrisolto, alla ricerca del nulla, senza meta alcuna”51

. Stazionare è un’ azione necessaria solo per creare, per fermarsi a riflettere per poi ripartire per un nuovo viaggio, terreno, spirituale, artistico:

«Sempre in motus» scrivono spesso di noi. E forse è vero. Anche sulla scena. Anche dentro le immagini. Nel movimento. Del resto ho sempre preferito i piani sequenza ai quadri fissi. Le imprecisioni e i sobbalzi della camera a spalla al rigore del cavalletto. Le scelte improvvise, i cambi di rotta, gli estremi, i timori. Meglio non sapere troppo quando si parte. Le cose si scoprono strada facendo. Tanto tutto torna a riva, prima o poi52.

Lontani da classificazioni e generi, è impossibile definire la rotta del percorso dei Motus, infetta, come loro stessi scrivono, del “virus del qui e ora”53, unico tempo possibile ed assoluto per poter essere. Ancora oggi, vent’anni dopo la formazione della compagnia, la parola NOW, dalla quale non si allontanerà mai la loro poetica, riecheggia nello spettacolo The Plot is the Revolution54 che vede in scena una grande donna e attrice della storia del teatro occidentale, Judith Malina (conosciuta nel 2011 a New York durante una replica dello spettacolo Too Late!) a confronto con la giovane attrice Silvia Calderoni.

49

Le definizioni sono rielaborate da Luigi Castiglioni, Scevola Mariotti IL. Il vocabolario della lingua

latina, Torino, Loescher, Terza edizione, 1996.

50

D. Nicolò, SULL’ESTETICA DELL’INDIFFERENTE, in E. Casagrande, D. Nicolò, Motus 991_011, Rimini, NdA Press, 2010, p. 23.

51

D. Nicolò, E. Casagrande, AUTOSCOPIA, in E. Casagrande, D. Nicolò, Motus 991_011, cit., p. 15.

52

C. Ventrucci, Terroristi del teatro, in F. Bonami (a cura di), Exit. Nuove geografie della creatività

italiana, cit., p. 220.

53

P. Ruffini, C. Ventrucci, I gruppi 90, cit., p. 224.

54 The Plot is the Revolution è il primo spettacolo del progetto 2011>2068 Animale politico Project,

(24)

24

L’intera pièce che si dipana sulle due istanze here and now “jetzt-zeit (qui e ora)”55

, si interroga su una possibile rivoluzione-ribellione intima e personale delle due

Antigoni che si confrontano con la società in cui vivono. Il pubblico ascolta il racconto

che tessono le due protagonista dal passato (le azioni e performance del Living Theatre) e dal presente (rappresentato da Silvia Calderoni).

Il presente, ostinato, nuovo, unico è il cardine attorno al quale si muove la poetica Motus, i processi creativi si nutrono dell’istante che passa e che in breve svanisce, cogliendo in esso la bellezza dell’imprevedibilità e dell’inaspettato.

Fin dagli inizi di Motus (i primi anni Novanta) è forte l’ispirazione ad un’ estetica dal look glamour che si mescola con il punk e il sadomaso e un metodo di lavoro autonomo. Rifiutando scuole e accademie di regia e attoriali, Motus si forma autonomamente; “è tale la nostra esperienza; noi ci siamo fatti le cose da soli, ci siamo inventati il nostro linguaggio, il nostro metodo”56

.

Il percorso della compagnia inizia principalmente fuori dai circuiti stabili e istituzionali del panorama nazionale, attraversa principalmente luoghi non convenzionali in occasioni alternative agli eventi ufficiali e mainstrem.

Al teatro come spazio vuoto, chiuso, claustrofobico di idee e novità preferiscono la contaminazione di luoghi (centri sociali, centri commerciali, abitazioni private) e linguaggi (video, performance, arte figurativa, musica). Non si allontanano mai completamente dalla scena teatrale che interagisce con tutte le arti in un labirinto di possibilità artistiche ed espressive.

Sempre sfuggente a definizioni, Motus ha due unici punti fermi: Daniela Nicolò, chiamata DNA per abbreviativo, solitamente alla drammaturgia, e Enrico Casagrande, END, curatore delle immagini sceniche e della costruzione architettonica degli spettacoli. Per quel principio di mobilità e constante cambiamento (paradossale ed unica regola del gruppo) non sono sempre rispettati i ruoli lavorativi e teatrali; la rigidità e la fermezza dei compiti non appartiene al loro modo di costruire gli spettacoli. Il primo passo per iniziare un lavoro parte da un indizio interiore o da una riflessione solitaria di uno dei componenti e ne consegue subito la condivisione, elemento fondamentale che permette sempre una creazione collettiva, orizzontale.

55E. Casagrande, IL TEATRO DI DOMANI, E. Casagrande, D. Nicolò, Motus 991_011, cit., p. 40. 56

C. Ventrucci, Motus. Attori-angeli per una drammaturgia degli oggetti. Intervista a Enrico Casagrande

e Daniela Nicolò, in R. Molinari, C. Ventrucci, Certi prototipi di Teatro. Storie, poetiche, politiche e sogni di quattro gruppi teatrali, Milano, Ubulibri, 2000, p. 60.

(25)

25

Il loro incontro avviene nel 1991 all’università di Urbino all’interno del gruppo teatrale Atarassia e di E.A.S.T. (European Associations of Students of Theatre). Conclusi gli studi in storia economica (Enrico) e sociologia (Daniela) decidono di fondare un gruppo indipendente che si chiamerà dapprima Opere dell’ingegno e poi Motus.

La dinamicità, nel lavoro dei Motus, scaturisce anche dall’esigenza di avere sempre un terzo occhio, un terzo sguardo in contrapposizione o in accordo con la loro visione delle cose.

Difatti, la loro formazione si è estesa e ridotta più volte negli anni, nuovi membri e figure artistiche si sono susseguiti nel lavoro, ragion per cui si autodefiniscono gruppo, banda senza capi, branco di randagi vagabondi e girovaghi.

“È stato sempre fondamentale avere anche un terzo polo, al di fuori del nostro rapporto di coppia, con cui relazionare il pensiero”57

, affermano Daniela ed Enrico. Punti di vista plurimi ispirati da incontri/scontri artistici e di vita, entrate e uscite di figure lavorative diverse come attori, scenografi e musicisti hanno determinato la direzione polimorfica del gruppo; la poetica Motus è sempre stata dedita alle variazioni e alle sperimentazioni con le diverse discipline artistiche, alle mutazioni, alle virate improvvise, all’imprevedibilità come principio che scatena la creazione.

Negli anni si sono susseguite molte personalità da David e Cristina Zamagni, Dany Greggio (l’attore dell’Orfeo-Motus spettacolo del 2000), Giancarlo Bianchini e Marco Montanari, le gemelle Sabrina e Simona Palmieri, Tommaso Maltoni, all’organizzazione Sandra Angelini e Marco Galluzzi, poi Massimo Carrozzi e Carlo Bottos.

Molti hanno collaborato e partecipato attivamente, afferma Daniela Nicolò:

Ci confrontiamo anche con gli attori che non possono essere mai semplici “esecutori” delle “nostre idee sceniche”. È necessario, in primo luogo, una padronanza di tutto il lavoro teorico che precede e affianca ogni spettacolo, poi una totale immersione fisica58.

Il qui e ora, l’adesso, sopracitato, è la realtà, con la quale Motus ha un rapporto continuo, ossessivo; essa si infiltra nel linguaggio artistico, perfino nell’attore che esprime la condizione del mondo contemporaneo in continua scissione, sulla scena, tra

57

E. Casagrande, D. Nicolò, SULLA NATURA DINAMICA DELLA COMPOSIZIONE SCENICA, in E. Casagrande, D. Nicolò, Motus 991_011, cit., p. 17.

(26)

26

il sé privato, intimo, interiore e i personaggi che non interpreta ma dei quali si fa portavoce.

È un gioco tra il dentro e il fuori, l’attore non è mai nella parte, mai nei caratteri, non ricade negli psicologismi; è in costante dialogo con il dentro (la scena) e il fuori scena, uno strabismo visionario che permette di guardare a ciò che si è nella vita per poter astrarre nel teatro. Essi affermano:

L’impiego di meccanismi stranianti che ci hanno permesso di introdurre uno scollamento tra l’attore e il personaggio. E’ una forma di meta-fiction, un mettere in scena il fuori scena […] forse sarebbe corretto parlare di meta-teatro, i Sei personaggi di Pirandello ne sono un esempio epocale; ma preferisco utilizzare, per quanto riguarda il tipo di lavoro disarticolato e scomposto che abbiamo fatto in questi anni […] meta fiction, appunto59

.

I Motus creano una dimensione doppia nella quale anche il pubblico gioca un ruolo importante. Allo spettatore è richiesto senso critico, sguardo vigile di non immedesimazione.

Il dialogo con il pubblico muta negli anni: inizialmente invitato ad entrare in stanze d’albergo o ad assistere a un attore chiuso in scenografie di plexiglass o grandi schermi video, come un intruso al quale è concesso vedere, un atleta dello sguardo, oggi gli è richiesta una forte partecipazione sia mentale che fisica, un coinvolgimento totale. Così è chiamato a salire o scendere sulla scena (come in Alexis. Una tragedia greca, 2010 o in Nella tempesta 2013), a sporcarsi il volto (come in IOVADOVIA(antigone)

contest#1 2010), a disegnare o scrivere al termine dello spettacolo le impressioni e le

suggestioni che quest’ultimo ha suscitato (The Plot is the Revolution 2011).

La rottura della quarta parete è stato un passaggio necessario per la direzione ultima delle scelte artistiche Motus, del quale si possono rintracciare le origini nel tipo di rapporto, mai elitario, che la compagnia ha sempre cercato con il pubblico:

DANIELA: Lo spettatore può capire…non capire, può avere letture…in ogni caso avviene una relazione, un contatto. Ci piace molto fare lo spettacolo di fronte ad un pubblico numeroso e vario.

ENRICO: Non crediamo che il teatro sia soltanto un fatto di nicchia, di rapporto con la critica, di legami impliciti e implosi dentro un unico universo. E’ una forma espressiva che si confronta con un’intera platea e questo gli dà una connotazione popolare, in tutti i sensi. Mi riferisco alla popolarità dell’esporti, del confrontarti con tanti, che è per me l’essenza del teatro. E se talvolta

(27)

27

durante il percorso abbiamo sentito la necessità di sperimentare, in forma protetta, nella nicchia di un evento per pochi, alla fine il risultato che conclude un progetto pluriennale è sempre qualcosa che deve passare dal mondo60.

Il pubblico è dunque sempre in comunicazione con l’attore Motus, dalle sembianze di un angelo decaduto (anche la fisionomia di alcuni suggerisce questa somiglianza come quelle di David Zamagni, Silvia Calderoni) nel limbo, sempre in bilico, che si destreggia come un equilibrista ubriaco tra realtà e finzione.

L’attore che cerchiamo per la nostra scena non si distacca di molto dalla sua presenza nella realtà, non lavora sull’accentuazione della gestualità, non opera un cambiamento rispetto a un proprio accento per un podismo vocale inesistente nella vita quotidiana. L’altra pratica consiste molto nel lavorare molto da soli. Per quanto ci siano stati in passato degli spettacoli dove c’era un rapporto di interazione tra attore e attore, anche attraverso l’abbraccio e il contatto. Negli ultimi lavori i percorsi degli attori si incrociano solo a distanza61.

Nessun attore agisce per conto della drammaturgia pre-scritta, rigida e definita, poiché la costruzione degli spettacoli è un rito collettivo, il dibattito e il confronto fanno parte del processo creativo:

Ci confrontiamo anche con gli attori che non possono essere mai semplici “esecutori” delle “nostre idee” sceniche. È necessario, in primo luogo, una padronanza di tutto il lavoro teorico che precede e affianca ogni spettacolo, poi una totale immersione fisica.[…] Se non c’è questa condivisione non può esserci lo spettacolo; l’impegno che richiediamo agli attori è troppo forte per poter essere sostenuto senza una vera coscienza e, se non c’è questa coscienza, quello che nasce è sicuramente morto62.

Le contaminazioni all’interno del gruppo, nel quale a tutti è sempre richiesta sensibilità, presenza fisica e spirituale, è il secondo passo dopo le suggestioni che possono nascere da scritti, autori o da situazioni che stimolano riflessioni e pensieri. Tutto può cambiare in fase di lavoro e l’idea iniziale è solo la scintilla per il cortocircuito necessario alla composizione.

Il rapporto con la parola è quasi inesistente prima del progetto Rooms63

(2001-2002):

60

C. Ventrucci, Motus. Attori-angeli per una drammaturgia degli oggetti, cit., p. 59.

61

Ivi, p. 63.

62E. Casagrande, D. Nicolò, SULLA NATURA DELLA COMPOSIZIONE SCENICA, in E. Casagrande, D. Nicolò,

Motus 991_011, cit., p. 19-20.

63 Rooms è un progetto della compagnia che indaga sulle stanze d’albergo come luoghi di riflessione,

(28)

28

Per la prima volta, nel nostro teatro è comparso il testo, la parola, (prima utilizzavamo solo monologhi poetico-filosofici, o dichiarazioni, elenchi, citazioni, mai testi…): nella stanza d’albergo abbiamo iniziato a lavorare sul dialogo, …la base del teatro-c’è chi dirà-, ma per noi è stato un punto di confronto a cui siamo giunti dopo dieci anni di altri percorsi64.

Il testo teatrale, la drammaturgia, entra successivamente per la prima volta con lo spettacolo Splendid’s (2002). Importante sarà anche l’incontro con Beckett, autore fondamentale dal quale Motus sarà sempre ispirato.

Il primo testo di genere tragico compare soltanto con il progetto Syrma

Antigónes che analizzerò in seguito, mentre nell’ultimo lavoro dal titolo Nella tempesta

(2013) la compagnia si confronta con il “gigante” Shakespeare.

Sono invece numerose le suggestioni letterarie che spaziano da Don De Lillo a Pasolini, da Ballard a Rilke, Tahar Ben Jelloun, Baudrillard, Bataille.

È dunque dal romanzo, almeno fino al 2008-2009, che molta della scrittura Motus nasce; esso permette una maggiore libertà di scelta, di visione, di reinvenzione, di rielaborazione della narrazione letteraria in teatrale.

La parola è soltanto uno degli elementi che completano gli spettacoli e non la più importante o il punto necessario da cui partire.

Il rapporto con il logos e con la scrittura è complesso soprattutto perché la drammaturgia è

Tendere a una coerenza di segni, fatta anche di piccole cose. Si tratta di una questione anche visiva, non solo testuale […] c’è una drammaturgia degli oggetti, e tutto è giocato su un equilibrio fra le cose e gli attori, i pezzi della casa, il sonoro della casa, e le persone … c’è una definizione di Rilke che ci piace moltissimo, è quella della melodia dello sfondo65.

“Parte da qui, da questa prima costruzione del luogo scenico, il lungo processo di riflessioni e concezione dello spazio e del corpo che tanto radicalmente individuerà la loro estetica”66

.

La drammaturgia è dunque uno scheletro semovente su cui si intersecano diversi livelli creativi, dalla parola al corpo sempre centro e fulcro del “massacro dello

64

D. Nicolò, Fuori dal mondo conosciuto, in P. Ruffini (a cura di), Ipercorpo, spaesamenti nella creazione

contemporanea, Roma, Editoria & Spettacolo, 2005, p. 181.

65

C. Ventrucci, Motus. Attori-angeli per una drammaturgia degli oggetti. Intervista a Enrico Casagrande

e Daniela Nicolò, cit., p. 61.

Riferimenti

Documenti correlati

The aim of this chapter is, on the one hand, to give preliminary information about Sophocles‟ Antigone, the hypotext of the plays which will be the core of this

•Rilevazione autonoma dei singoli elementi del testo e consapevolezza delle strutture logico- sintattiche in lingua originale. •Caratterizzazione del lessico di Antigone,

Testo greco a fronte, cit., «ελεου και φοβου» (tr.. commozione» 1165 e «l’autentica compassione» 1166 : la prima è la simpatia verso sventura e dolore altrui,

permesso di studiare.. permesso

Lei ha svolto un'informativa urgente alla Camera e al Senato sui gravi fatti accaduti in alcuni penitenziari nella quale ha affermato che il tempo che le era concesso non

Lo spazio del penitenziario, proprio perché portatore di una cultura della sicurezza e della disciplina 7 , ha storicamente aperto a conflitti per la tutela dei

Quante delle nostre leggi dalla Turco-Napolitano alla Bossi-Fini, dal decreto Minniti a quelli di Salvini sono in larga parte incompatibili con l’articolo 2 della Costituzione,

La stima si ottiene attraverso l’uso di multipli - definiti come rapporti rappresentativi della relazione che lega prezzo di mercato del capitale delle aziende ad alcune