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CAPITOLO PRIMO

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Academic year: 2021

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CAPITOLO PRIMO

LA LEGGE FALLIMENTARE: PROFILI

EVOLUTIVI

1. Premessa

Nell’ambito dei reati fallimentari assume rilievo quello che alcuni autori hanno definito “l’offesa patrimoniale da inadempimento”1. Come osservano Antonio Fiorella e Massimiliano Masucci << l’imprenditore nel contrarre debiti per la sua attività, crea opportunità per l’economia ma anche rischi di operazioni errate o addirittura fraudolente, con ricadute economiche per sé e per gli altri>>. In qualche modo, quindi, i creditori devono essere tutelati.2

Il legislatore costituisce tale tutela su due differenti piani: sul versante civilistico, attraverso la previsione, la disciplina delle diverse procedure concorsuali; e sul piano penalistico, attraverso una tutela sussidiaria di protezione dell’interesse patrimoniale dei creditori. Lo stretto legame tra i due ambiti di tutela viene evidenziato anche dalla posizione sistematica che il legislatore riserva alle fattispecie penal-fallimentari: queste, infatti, non si ritrovano all’interno del

1

Al diritto penale è fatto divieto di punire di per sé il fatto che un soggetto non riesca ad adempiere ai propri debiti così cfr. Il protocollo n.4 alla Convenzione per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il cui art 1, rubricato <divieto di imprigionamento per debiti> stabilisce: nessuno può essere privato della propria libertà per il solo fatto di non essere in grado di adempiere a un impegno contrattuale.

2

A. Fiorella, M. Masucci, in Gestione dell’ impresa e reati fallimentari, Torino, 2014, pag. 2.

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codice penale, ma sono collocate all’interno del titolo VI della stessa legge fallimentare del 1942.

Da tale collocazione possiamo rilevare “l’inclinazione funzionale” degli illeciti penali3.

Tali fattispecie incriminatrici, costituiscono uno strumento di tutela di interessi che dovrebbero essere tutelati dalle procedure concorsuali, ma all’interno della legge fallimentare le procedure esecutive civilistiche -che mirano a dare garanzia alla massa dei creditori -che entrano in contatto con l’imprenditore fallito-, trovano un deciso rafforzamento nella tutela che viene offerta dal diritto penale 4 in via sussidiaria, attraverso la minaccia di sanzioni definite perfino “draconiane”5 da Pedrazzi.

La legge fallimentare è, dunque, costituita da due comparti: il primo civilistico, che disciplina il fallimento e le procedure alternative di risoluzione della crisi di impresa; l’altro penalistico, che deve assicurare una tutela sussidiaria e rafforzata allo stesso bene giuridico già tutelato in prima battuta dalla disciplina civilistica. Lo strumento che viene utilizzato dal legislatore in entrambi i settori è la garanzia

3 E.M.AMBROSETTI., I reati fallimentari, in E.M.AMBROSETTI ,

E.MEZZETTI , M.RONCO (a cura di), Bologna, 2008, Cit. p.218

4 punto, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, cfr. AMBROSETTI

E.M., I reati fallimentari, in AMBROSETTI E.M., MEZZETTI E., RONCO M. (a cura di), Bologna, 2008, pag. 218: “In via preliminare, va subito rilevato sul che la collocazione sistematica delle disposizioni penali nel Titolo VI, e cioè in quello conclusivo della legge fallimentare, è sintomatica della inclinazione ‘funzionale’ dei delitti in esame. In effetti, tali illeciti costituiscono lo strumento per una tutela penale degli interessi che dovrebbero essere garantiti dalle procedure concorsuali. In altre parole, nello schema della legge fallimentare, le procedure esecutive civilistiche, concepite per offrire garanzie alla massa dei creditori di fronte all’insolvenza dell’imprenditore, trovano un rafforzamento nelle sanzioni punitive previste per la repressione degli illeciti descritti nel Titolo VI.”

5

C.PEDRAZZI, sub- art. 216, in C.PEDRAZZI, F.SGUBBI, Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, Bologna, 1995.

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patrimoniale dell’imprenditore, garanzia che la legge vuole preservare anche attraverso la minaccia di sanzioni penali6. Nell’interesse dei creditori che vengono a contatto con la gestione dell’impresa e nell’interesse della stessa economia generale, il legislatore richiede e pretende dall’imprenditore una corretta e virtuosa gestione imprenditoriale.

La gestione dell’impresa non può essere sindacata da nessun giudice. Solo dopo la dichiarazione di fallimento si potrà, eventualmente, indagare il merito dell’attività e verificare se l’imprenditore, attraverso operazioni errate e di mala gestio, abbia arrecato pregiudizio alla garanzia patrimoniale offerta ai propri creditori.

Ogni volta in cui ci troviamo di fronte alla gestione di un’impresa, si presenta il rischio che l’imprenditore assume nei confronti dei propri creditori. Nell’esercizio di un’attività economica, sussiste sempre una soglia di rischio lecito, consentito da parte dell’ordinamento: solo quando quella soglia viene travalicata dall’imprenditore, e quindi si entra nella sfera dei rischi illeciti, può scattare la sanzione penale7. Dobbiamo capire fino a che punto il legislatore consideri lecito il rischio insito nello stesso esercizio di un’attività economica e fino a

6

Sulla funzione del diritto penale, per certi versi ancora attuale nel sistema vigente cfr. G.DELITALIA, l’oggetto della tutela penale nel reato di bancarotta, in Diritto penale. Raccolta del scritti, II, Milano, 1976, 835 ss; C.PEDRAZZI, reati fallimentari, in C.PEDRAZZI, A.ALESSADRI, FOFFANI, SEMINARA e SPAGNOLO, Manuale diritto penale dell’impresa. Parte generale, cit 104.

A questo riguardo “si badi bene siamo di fronte a un punto nevralgico dell’analisi giuridico penale, perché dinanzi a un rischio “lecito” l’accertamento che una qualche condotta dell’imprenditore abbia causato o aggravato il dissesto, con conseguente pregiudizio dei creditori, non basta a integrare la fattispecie […]. A noi sembra che nella letteratura dedicata ai reati fallimentari sinora sia mancato un adeguato approfondimento del problema sopra indicato: l’individuazione del rischio “lecito” e penalmente non censurabile nella gestione dell’impresa, anche in momenti di crisi.7 A. Fiorella, M. Masucci, in Gestione dell’ impresa e reati fallimentari, Torino, 2014,

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che punto può spingersi l’imprenditore, soprattutto nella gestione dei periodi di crisi della propria impresa, senza andare incontro a sanzioni penali; rimanendo quindi nella sfera dei rischi “leciti”.

A seguito di recenti interventi del legislatore nella materia fallimentare8, si pongono diversi problemi proprio a questo riguardo, con riferimento a due fattispecie penali sanzionate dal legislatore: la bancarotta preferenziale e la bancarotta semplice.

L’esame di tali fattispecie è funzionale all’obbiettivo di questa indagine: quello di individuare la soglia di rischio consentito dal legislatore nella gestione della crisi di impresa che, se realizzato, non può comportare alcuna conseguenza nei confronti dell’imprenditore. Esiste un rischio penale per il soggetto che decida di intraprendere operazioni volte al risanamento della propria attività?

Se tali operazioni non vanno a buon fine, anche se disciplinate dallo stesso legislatore, possono integrare gli estremi di una fattispecie penale? Oppure dobbiamo dare la possibilità all’imprenditore di tentare il salvataggio della propria attività senza il timore di poter incorrere nell’integrazione di un reato?

A queste domande dobbiamo rispondere tenendo conto, sia della disciplina penalistica, che della disciplina extrapenale, in quanto strettamente collegate.

Nel capitolo che segue, daremo conto dell’evoluzione storico- giuridica che ha caratterizzato la disciplina civilistica della legge fallimentare del 1942.

Ci concentreremo sugli aspetti penalistici che interessano il presente elaborato nel prosieguo della trattazione.

2. La legge fallimentare

8

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Con il termine “legge fallimentare” ci riferiamo al r.d 16 marzo 1942 n.267 avente ad oggetto la “disciplina del fallimento, del concordato

preventivo e della liquidazione coatta amministrativa.

Il contesto economico-imprenditoriale in cui fu emanata tale disciplina era profondamente diverso da quello attuale; comprensibile quindi che a questa sia seguita una stagione di riforme in grado di adeguare tale legge alla realtà socio-economica in continuo cambiamento9.

L’impianto originario della legge era principalmente incentrato su un intento liquidatorio dell’impresa e quindi di conseguenza sull’istituto che meglio perseguiva tale fine: il fallimento.

Dobbiamo però precisare fin da ora che l’istituto fallimentare non era l’unico sul quale la legge si concentrava, intorno a questo ruotavano alcuni “istituti satelliti” atti al raggiungimento di finalità alternative a quella liquidatoria10.

E’importante evidenziare che tale legge, nonostante l’elaborazione di vari progetti di riforma, è rimasta immutata sia dal punto di vista strutturale che contenutistico per circa sessant’anni. Nonostante la legge in esame fosse incentrata soprattutto sull'istituto fallimentare, già nel 1942 si palesò che tale strumento non poteva soddisfare tutte le esigenze socio-economiche del paese che avrebbero potuto presentarsi, e così, accanto a tale istituto, vennero contemplati: il concordato preventivo, l’amministrazione controllata e la liquidazione coatta

9 E. Ambrosetti, E. Mezzetti, M. Ronco, Diritto Penale dell’impresa,

Bologna, 2008, pag. 204

10

infatti il concordato preventivo, la liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione controllata, se pur istituti molto diversi tra loro, erano accomunati dall’essere finalizzati al raggiungimento di finalità conservative dell’impresa e di prevenzione del fallimento.

Anche se già inserite nella legge del 1942, queste avevano un’operatività marginale rispetto al predominante istituto fallimentare. (cfr. F. Antolisei, Manuale di diritto penale, leggi complementari, Giuffre editore, Milano, 2014, pag. 3 ss.)

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amministrativa; tutte procedure accomunate dalla finalità di proporsi il recupero dell’impresa in crisi e quindi in qualità di alternative all’istituto fallimentare.

La ratio di fondo del fallimento consiste nell’assicurare in via concorsuale le ragioni creditorie sui beni dell’imprenditore, attraverso la liquidazione del cespite patrimoniale e la distribuzione del ricavato ad opera del curatore nominato dal tribunale.

La prospettiva dell’istituto fallimentare è decisamente sanzionatoria, tesa ad eliminare l’impresa in crisi dal sistema economico, escludendo così la possibilità che possa essere motivo di contagio per i vari interlocutori economici e di conseguenza per l’economia in generale. Nell’impianto originario della legge, tale procedura era riservata agli imprenditori, con esclusione degli imprenditori agricoli, delle imprese di piccola dimensione e degli enti pubblici.

Il presupposto di carattere oggettivo, da accertarsi per l’applicazione dell’istituto, consiste nella manifestazione esteriore dell’impossibilità di far regolarmente fronte alle obbligazioni contratte. Inoltre, l’intero impianto della legge è incardinato sul principio della par condicio

creditorum scolpito all’art 2741 c.c, regola volta a garantire l’eguale

soddisfazione di tutti i creditori dell’impresa.

Accanto al fallimento, come sopra ricordato, trovavamo il concordato preventivo, l’amministrazione controllata e la liquidazione coatta amministrativa.

A differenza del fallimento che persegue esclusivamente il soddisfacimento delle esigenze creditorie, le altre procedure concorsuali, previste nella legge del 1942, erano finalizzate alla tutela dell’impresa.

Il concordato preventivo era nato con la finalità di prevenire il fallimento, uno strumento messo a disposizione dell’imprenditore

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“onesto ma sfortunato”, per preservare l’impresa, incentivando il raggiungimento di un accordo con i propri creditori 11.

Era previsto come una procedura esecutiva volontaria e alternativa al fallimento; condividendo con questo sia il presupposto soggettivo, che quello economico-giuridico dell’insolvenza. L’accesso alla procedura, inoltre, era presidiato da specifici requisiti che connotavano fortemente l’istituto in termini di meritevolezza.

Il concordato preventivo era concesso all’imprenditore che forniva garanzia di soddisfacimento integrale dei propri crediti privilegiati e almeno del 40 per cento dei crediti chirografari o che offriva la cessione dei propri beni pignorabili ove fosse stata pari al soddisfacimento delle pretese creditorie.

Una volta depositata la domanda, si svolgeva una prima fase deliberativa da parte del Tribunale circa la sussistenza dei requisiti sopradetti; in caso di esito negativo, dopo aver sentito il Pubblico ministero ed, eventualmente, , il debitore; il giudice poteva procedere d’ufficio alla dichiarazione di fallimento. Viceversa, in caso di esito positivo, il debitore conservava l’amministrazione del proprio patrimonio e beneficiava del divieto, posto a carico dei creditori per titolo o causa anteriore al decreto di ammissione alla procedura, di iniziare o proseguire azioni esecutive individuali (art 167 e 168 l.f). Per essere approvato, il progetto dell’imprenditore doveva ottenere il voto favorevole della maggioranza dei creditori votanti, che rappresentassero almeno i due terzi dei crediti ammessi al voto, vincolando così anche la quota dei creditori dissenzienti una volta che il concordato fosse stato omologato dal tribunale.

L’amministrazione controllata, era, invece, una procedura finalizzata al risanamento dell’impresa in crisi e prevista agli art. 187 e ss l.f. .

11 Cit.

Candian come riportata da: N. Gianesini, Il rischio penale nella gestione della crisi d’impresa, Giappichelli, Torino, 2016, cit. pagg 4 e ss

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L’imprenditore non ancora in stato di insolvenza, bensì in temporanea difficoltà ad adempiere le proprie obbligazioni, poteva beneficiare di tale istituto in caso di ricorrenza dei medesimi presupposti soggettivi e oggettivi richiesti per poter accedere al concordato preventivo. Se ricorrevano i presupposti previsti dalla legge e il tribunale riteneva l’imprenditore meritevole di tale beneficio, si procedeva all’ammissione del ricorrente alla procedura di amministrazione controllata, con decreto che doveva essere approvato dalla maggioranza dei creditori; i quali rappresentavano anche la maggioranza dei crediti. Nel caso di esito positivo della procedura, si producevano gli stessi effetti prodotti dall’ ammissione a concordato preventivo. Infine, nel caso l’imprenditore avesse dimostrato di aver superato il periodo di difficoltà temporanea e di essere in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, avrebbe potuto chiedere al tribunale la cessazione della procedura; altrimenti se in qualunque momento fosse risultato che l’amministrazione controllata non avrebbe potuto essere utilmente continuata, sarebbe stata promossa dichiarazione di fallimento.

Il contenuto esteso e vago del presupposto oggettivo di tale procedura, aveva dato modo agli imprenditori di farne “un uso alternativo”, con la finalità di ritardare il sicuro fallimento. Per contrastare tali distorsioni applicative, il legislatore introdusse con la legge 24 Luglio del 1978

n.391 l’ulteriore presupposto “delle comprovate possibilità di

risanamento dell’impresa”, del quale il tribunale doveva accertare la sussistenza prima di procedere con l’ammissione alla procedura. Infine era prevista la liquidazione coatta amministrativa: anche questa alternativa al fallimento e volta a tutelare esigenze preminenti rispetto alle pretese privatistiche.

Il presupposto soggettivo per poter accedere a tale procedura è da rinvenire nelle diverse leggi speciali che si occupano di individuare l’imprenditore che può beneficiare di tale procedura.

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Le imprese che possono accedere a tale strumento sono tutte accomunate dal fatto di rivestire una particolare rilevanza per l’economia nazionale, facendo riferimento soprattutto ad enti pubblici o ad aziende con partecipazione pubblica.

La liquidazione coatta amministrativa, disciplinata agli art. 200 e ss. l.f., si differenzia dal fallimento, dal momento che in questa la procedura di liquidazione avviene sotto la direzione e il controllo della pubblica amministrazione competente, che nomina un commissario liquidatore deputato alla gestione del patrimonio dell’impresa, affiancato da un comitato di tre o cinque membri con funzione di controllo e consulenza sull’operato del commissario.

Gli effetti del provvedimento di accesso alla procedura, si sostanziano nella cessazione delle funzioni di assemblea, nello spossessamento dell’imprenditore dall’amministrazione e dalla disponibilità dei suoi beni; tale effetto é funzionale a individuare il cespite del patrimonio da assoggettare a liquidazione. Sul versante dei creditori, gli effetti che si producono con tale procedura sono identici a quelli che connotano la sentenza di dichiarazione di fallimento.

Tale era l’impianto originario della legge del 1942 e se pur descritto a grandi linee in questa sede, dall’analisi sopra svolta, possiamo constatare come le soluzioni alla crisi di impresa previste all’epoca dal legislatore, si incentravano completamente su istituti di carattere liquidatorio, ispirati alla logica dell’eliminazione degli individui deboli dal mercato.

Il contrasto tra i vari interessi che da sempre si scontrano nel panorama fallimentare si risolveva nell’eliminazione dell’impresa e nel soddisfacimento delle pretese creditorie, secondo il principio della par

condicio creditorum.

Il concordato preventivo e l’amministrazione controllata trovavano una infrequente applicazione a causa dell’alta percentuale di crediti che

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dovevano essere garantiti, senza la possibilità di poter derogare in alcun modo alla regola di uguale trattamento tra i creditori12.

3. La riforma degli anni Duemila

L’impianto originario della legge fallimentare cominciò ad entrare in crisi dopo gli anni ‘70.

Il boom economico che ha investito la nostra economia in quel periodo, ha comportato numerose modifiche e innovazioni all’apparato produttivo, obbligando a guardare al problema della crisi di impresa con maggiore attenzione verso le pluralità di esigenze che la nuova realtà imponeva di prendere in considerazione .

Lo scioglimento del complesso produttivo comportò conseguenze negative dal punto di vista economico e sociale, con perdita di posti di lavoro.

Ciò divenne particolarmente evidente quando, a dover fare i conti con la crisi, furono importanti imprese della nostra economia nazionale, molto influenti dal punto di vista sia economico che occupazionale. Tale contesto portò, da un parte, a sfruttare le procedure alternative al fallimento, facendone quello che molti autori hanno descritto come “uso alternativo”, non corroborato in realtà dal dato normativo, con lo scopo di non scivolare nella procedura fallimentare13. D’altra parte, si giunse all’introduzione di un primo strumento innovativo: l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (introdotta dalla l. 3 aprile 1979, n. 95 e generalmente conosciuta come “legge Prodi”), finalizzata al recupero delle grandi imprese insolventi, che tuttavia fin dalle origini presentò diverse problematicità applicative. Il profondo mutamento della realtà economica del paese aveva fatto

12 N. Gianesini, Il rischio penale nella gestione della crisi d’impresa, Giappichelli, Torino, 2016, cit. pagg 4 e ss.

13

G. Lo Cascio, in Aspetti storici ed evolutivi della normativa in tema di risanamento dell’impresa in crisi, in fallimento, 2003, 918.

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entrare profondamene in crisi l’impianto liquidatorio sul quale poggiava la legge fallimentare del 1942; questo contesto <<obbligò a un ripensamento del fondamento stesso dell’impostazione tradizionale>>, rendendo necessaria << un’opera di ristrutturazione dell’intera legge fallimentare >>14.

Con l’intento di attuare una riforma organica della disciplina fallimentare, viene finalmente istituita con il d.m 28 novembre 2001 una “Commissione per l’elaborazione di principi e criteri direttivi di uno schema di disegno di legge e delega al Governo, relativo all’ emanazione della nuova legge fallimentare ed alla revisione delle norme concernenti gli istituti connessi” nota come “Commissione Trevisanato” dal nome del suo presidente.

Tale commissione evidenziò la necessità di ridurre a due le procedure: una attivabile su iniziativa dell’imprenditore e tesa a trovare un accordo tra debitore e creditori; l’ altra attivabile su iniziativa del debitore, dei creditori o dell’autorità giudiziaria, destinata a sostituire il fallimento e finalizzata a ottenere, in determinate circostanze, la liberazione dai debiti non soddisfatti.

L’elevato numero dei componenti della commissione ministeriale, con le divergenze relative all’ingerenza dell’autorità giudiziaria nelle procedure e al grado di privatizzazione delle stesse, determinarono l’insuccesso dei lavori della Commissione.

La seconda commissione Trevisanato, istituita ad opera del d.m del 27 febbraio del 2004, arrivò invece all’approvazione di uno schema di disegno di legge, che prevedeva diverse innovazioni alla disciplina fallimentare e che comportava una vera riforma organica dell’intero comparto normativo.

Tuttavia il legislatore, invece di dare attuazione a quanto previsto nel progetto di legge elaborato dall’ultima delle commissioni, ha preferito

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procedere nell’approvazione di una serie di “ leggi tappabuchi”15 della normativa del 1942, che hanno recepito solo in parte le indicazioni delle due commissioni degli anni precedenti causando gravi problemi in termini di coordinamento complessivo a causa della stratificazione legislativa che sono venute a provocare.

Si può affermare che la riforma della legge fallimentare prende in concreto avvio a metà anni 2000, con l’emanazione del d.l 14 marzo 2005 n. 35, convertito nella legge 14 maggio 2005 n. 80 recante “Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale” (c.d. “Decreto competitività”). Tale intervento ha prodotto tre effetti: in primo luogo, ha ristretto l’ambito di operatività dell’azione revocatoria; in secondo luogo, ha introdotto un nuovo strumento di composizione della crisi di impresa, il c.d. piano attestato di risanamento (art. 67, 3° comma, lett. d) l.f.); poi , ha inciso sul potenziamento del concordato preventivo (art. 160 l.fall.) e, infine , ha introdotto gli accordi di ristrutturazione del debito. Nel 2006 abbiamo invece assistito a una riforma più radicale della legge fallimentare con il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 (“Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 marzo 2005, n. 80”) tramite il quale sono state introdotte una serie di modifiche alla normativa in vigore, volte a velocizzare e a rendere più efficiente la procedura fallimentare. Tra le modifiche più importanti introdotte dalla presente riforma, dobbiamo ricordare la riformulazione del presupposto soggettivo del fallimento, con la modifica della nozione di “piccolo imprenditore” 16 , nonché l’abrogazione dell’intera disciplina dell’amministrazione controllata prevista al titolo IV del r.d. 1942.

15 Jorio A . Fortunato S., La riforma delle procedure concorsuali, introduzione, cit. 12.

16

In realtà, i parametri alternativi presi in considerazione dal d.lgs. n. 5 del 2006 (investimenti di capitale effettuati nell’azienda per un ammontare non

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A completare il primo periodo di riforma è intervenuto poi il c.d. “decreto correttivo” (d.l. 12 settembre 2007, n. 169) che ha introdotto una serie di disposizioni correttive ed integrative dei due precedenti interventi legislativi17.

Questo primo ciclo di riforme incide su un ambito esclusivamente civilistico e lascia completamente inalterato l’ambito penalistico. In realtà, l’originario progetto di riforma licenziato dalla commissione Trevisanato, composto da due versioni caratterizzate da << marginali diversità >>18, comprendeva una profonda revisione sia della parte civilistica che della parte penalistica.

L’impossibilità di trovare un accordo su alcuni aspetti di disciplina dell’incriminazione19 fece naufragare la possibilità di rivedere il

superiore a trecentomila euro e la media dei ricavi lordi non superiore a duecentomila euro conseguiti negli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se questa ha avuto una durata inferiore), è stato presto sostituito dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 con il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) Un attivo patrimoniale complessivo annuo non superiore a trecentomila euro nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata minore b) Ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore a duecentomila euro nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore; c) Un ammontare di debiti, anche non scaduti, non superiore a cinquecentomila euro.

17

Gianesini, Il rischio penale, 2016, cit. pagg. 24 e ss.

18

Alessandri, Profili penalistici in tema di soluzioni concordate della crisi di impresa, in Riv. It. Dir. Proc. Pen, 2006 cit. pag. 112

19

si prevedeva infatti una sensibile riduzione delle sanzioni e una differenziazione di pene previste per la bancarotta societaria da quelle previste per la bancarotta dell’imprenditore individuale. (Perdonò, voce “bancarotta (esenzioni in materia di) Digesto disc. pen, Torino, Aggiornamento, 2011, cit. pag. 55.)

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comparto penalistico favorendo la revisione della sola componente civilistica20.

La volontà legislativa fu quella di abbandonare la prospettiva liquidatoria della quale era caratterizzata, come abbiamo sopradetto, la legge fallimentare del 1942, introducendo e potenziando gli strumenti già presenti che perseguivano invece una finalità di salvataggio dell’impresa in crisi.

Si rese quindi necessario valorizzare il bene impresa per valorizzare strumenti di salvataggio e risanamento ed abbandonare quella logica liquidatoria-sanzionatoria che aveva caratterizzato il periodo precedente.

Naturalmente, si doveva anche raggiungere un punto di equilibrio tra gli interessi delle parti che da sempre si contrappongono in una procedura fallimentare: creditore e debitore-imprenditore.

Il legislatore ritenne di poter raggiungere tale equilibrio attraverso l’innovazione del concordato preventivo e l’introduzione di nuovi strumenti che potessero incentivare una negoziazione e, perché no, un accordo tra queste due parti21.

4. Le riforme successive.

Altri interventi riformatori fecero seguito alla prima stagione di riforme che si era succeduta fino al 2007; in particolare, il legislatore è tornato sulla materia fallimentare con il d.l 31 maggio 2010 n. 78, convertito con modificazione in legge 30 luglio 2010 n 122, con il quale è stato introdotto l’ art 182 quater l.f in tema di prededucibilità

20

D’Alessandro, il nuovo art 217 bis l.Fall, in Società, 2011, pagg. 200 ss.; Alessandri A. Profili penalistici delle innovazioni in tema di soluzioni concordare della crisi di impresa. cit. pagg. 111 e ss.

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dei crediti nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione del debito22.

Solo la novella del 2010 ha tentato di recuperare quella coerenza sistematica che il legislatore aveva precedentemente trascurato.

Quello del 2010 fu il primo “tanto atteso quanto timido” intervento penalistico sulla legge fallimentare, con l’introduzione dell’art 217 bis l.f rubricato << esenzione dai reati di bancarotta >>. 23

Abbandonato qualsiasi intento di riforma organica della materia, il legislatore è intervenuto nuovamente nel 2012 e successivamente nel 2015.

Con la l. 27 gennaio del 2012, n.3 ha introdotto nel nostro ordinamento un’organica procedura di composizione della crisi di impresa da sovraindebitamento destinata agli imprenditori non assoggettabili alle norme dettate in tema di procedure concorsuali e ai “debitori civili” in generale; sempre nel 2012 è intervenuto nuovamente con il d.l 22 giugno 2012, n.83 con il quale ha ridisegnato la figura del professionista attestatore di cui all’art 67, 3 comma lettera (D) l.f. e ha inciso sull’oggetto della relativa attestazione, introducendo un attesa garanzia penalistica contro le falsità commesse dai vari professionisti attestatori; ci riferiamo all’art 236 bis l.f. rubricato “falso in attestazioni e relazioni”24.

Da ultimo, il d.l 27 giugno 2015, convertito con modificazioni dalla l. 6 agosto 2015, n. 132, ha ampliato la sfera delle soluzioni concordate della crisi di impresa, introducendo l’accordo di ristrutturazione dei debiti con intermediari finanziari e la c.d. convenzione in moratoria. Nella prima ipotesi, ricorrendo l’esposizione debitoria nei confronti di intermediari finanziari “in misura non inferiore alla metà

22

Perdonò, voce “bancarotta (esenzioni in materia di ), digesto disc. pen., Torino, aggiornamento, 2011, 200 e ss.

23

Gianesini, rischio penale, 2016, Padova 24

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dell’indebitamento complessivo”, l’accordo di ristrutturazione può individuare una o più categorie tra tale tipologia di creditori che “ abbiano fra loro posizione giuridica e interessi economici omogenei” e in tal caso il creditore può chiedere che gli effetti dell’accordo vengano estesi anche “ai creditori non aderenti che appartengono alla stessa categoria, sempre che ricorrano alcuni presupposti indicati al 2°comma dell’art 182- septies L.F., tra cui particolarmente rilevante è che i crediti delle banche e degli intermediari finanziari aderenti rappresentino almeno il 75 per cento dei crediti della categoria.

L’effetto dell’accordo così strutturato si ripercuote anche nei confronti dei creditori bancari non aderenti, come è espressamente previsto al 1°comma, dove si afferma che tali regole operano in deroga agli art. 1372 e 1411 c.c., ovvero alle norme che statuiscono, rispettivamente, che il contratto ha forza di legge solo tra le parti e che il contratto a favore di terzo produce effetti nei confronti di quest’ultimo solo quando il beneficiato accetti di profittarne.

La convenzione in moratoria, invece, si presenta come un accordo con oggetto la dilazione del pagamento di determinati debiti verso banche e intermediari finanziari. Anche in tale caso, il risultato è quello di estendere gli effetti di tale convenzione ai creditori non aderenti, in deroga all’art 1372 e 1411 c.c qualora sia raggiunta la medesima percentuale del 75 % dei crediti, purché le banche e gli intermediari finanziari non aderenti siano stati informati dell’avvio delle trattative e messi in condizione di parteciparvi in buona fede e il professionista attestatore ex art 67 3°comma,lett d) L.F. attesti l’ omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici fra i creditori interessati alla moratoria25.

25 cfr. La Manna F., La miniriforma del diritto concausale secondo il decreto “Contendibilità e soluzioni finanziarie” n.83 del 2015: un primo commento, in www.ilfallimentarista.it, 2015, 1 e ss.

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Concluso l’excursus sull’evoluzione storico-giuridica che ha caratterizzato la disciplina fallimentare dal 1942 ai giorni nostri, occorre adesso analizzare i tratti caratterizzanti gli istituti che assumono maggior rilievo nel contesto della gestione della crisi di impresa alternativa al fallimento.

5. L’azione revocatoria

La disciplina della revocatoria fallimentare è prevista dall’art 67 l.f. .Il principio ispiratore di tale istituto è che tutti gli atti posti in essere dall’imprenditore in stato di insolvenza (anche se il fallimento non è stato ancora dichiarato) si presumono pregiudizievoli per i creditori perché idonei quanto meno ad alterare la par condicio creditorum. In conseguenza di quanto appena affermato, nel sistema di tale istituto, la tutela dei creditori è del tutto svincolata dalla prova della sussistenza di frode o della violazione di un diritto soggettivo da parte di un terzo. Il funzionamento della revocatoria fallimentare poggia esclusivamente sul presupposto oggettivo della condizione di insolvenza dell’ imprenditore, e su quello soggettivo della conoscenza dello stato di insolvenza da parte di chi ha intrattenuto rapporti con l’ imprenditore, successivamente dichiarato fallito.

Nell’intero sistema assume quindi un ruolo centrale la prova da parte del curatore della conoscenza del terzo dello stato di insolvenza dell’imprenditore.

Il legislatore ha inteso agevolare la posizione processuale del curatore. Infatti, per determinate categorie di atti (art 67, comma 1° l.f), la conoscenza dello stato di insolvenza in capo al terzo è presunta fino a prova contraria; è stata introdotta quindi un’ipotesi di inversione dell’onere della prova rispetto a quanto previsto dall’art 2697 c.c. .

(18)

Per le altre categorie di atti, il curatore deve procedere secondo normale regime probatorio; deve quindi dare prova che il terzo sia a conoscenza dello stato di insolvenza del debitore (art 67 comma 2° l.f). La previsione di due distinte modalità di prova dell’elemento soggettivo (prova negativa dell’inscentia decoctionis da parte del terzo e prova positiva della scienzia decoctionis da parte del curatore) si fonda sulla distinzione tra atti che per loro caratteristiche sono idonei a segnalare uno stato di crisi dell’imprenditore -che così si presume fino a prova contraria- e atti che non presentano tale valenza sintomatica e che quindi sono revocabili, solo in caso il curatore provi l’esistenza di tale conoscenza.

Il criterio assunto dal legislatore per l’individuazione degli atti pregiudizievoli per i creditori è costituito dal collegamento tra atti considerati e conoscenza dello stato di insolvenza da parte dell’avente diritto dall’ imprenditore, poi dichiarato fallito. Tale distinzione è basata sulla diversa gravità dell’atto, intesa come astratta idoneità dello stesso a segnalare la presenza di incapacità per l’imprenditore di adempiere regolarmente alle obbligazioni assunte. In questa prospettiva, il legislatore formula una classificazione fondata sulla distinzione tra atti e pagamenti a titolo gratuito da una parte, e atti e pagamenti a titolo oneroso dall’altra. Solo per quest’ultimi inserisce poi un’ulteriore distinzione tra atti normali e atti anormali.

Sulla base di tali considerazioni, è possibile individuare tre sfere di atti che possono essere dichiarati inefficaci:

I. Atti a titolo gratuito. Gli atti di liberalità e pagamenti anticipati (art 64 e 65 l.f) compiuti nei due anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento, per i quali è prevista, se ne ricorrono le condizioni, l’inefficacia ex lege, senza quindi la necessità di attivare lo strumento della revocatoria fallimentare.

(19)

II. Atti a titolo oneroso. Pagamenti e garanzie considerati anormali in relazione al fatto di essere idonei a indicare lo stato di insolvenza dell’imprenditore, se compiuti in un periodo variabile dai sei mesi a un anno antecedente alla dichiarazione di fallimento. L’inefficacia di tali atti opera in seguito all’esercizio dell’azione revocatoria, fatta salva la possibilità da parte del terzo convenuto di provare la non conoscenza dello stato di insolvenza (art 67 comma 1° da 1 a 4 l.f).

III. Atti a titolo oneroso. Pagamenti e garanzie considerati normali, in quanto privi di elementi idonei a segnalare lo stato di crisi in cui versa l’imprenditore, se compiuti nei sei mesi antecedenti la dichiarazione di fallimento. Per tali atti la dichiarazione di inefficacia è conseguenza dell’esercizio dell’azione revocatoria, ma solo a condizione che il curatore provi che il terzo convenuto sia a conoscenza dello stato di insolvenza (art 67 comma 2°l.f).

Il significato e la portata applicativa della suddetta classificazione vanno oggi ridimensionati alla luce della profonda riforma della revocatoria fallimentare, compiuta dal legislatore con la legge 14 maggio 2005, n. 80.

Il sistema della revocatoria fallimentare da tempo era oggetto di vivaci critiche da parte del sistema economico, che ne reclamava a più voci una modifica. Le ragioni di tale malcontento poggiavano sull’ incertezza dei rapporti giuridici che l’esercizio dell’azione revocatoria può determinare (elemento questo di instabilità per l’ intero sistema economico). A questo si aggiungeva un’applicazione piuttosto anomala dell’istituto da parte della giurisprudenza, che penalizzava in particolare il sistema bancario.26.

26

Orientamenti giurisprudenziali riportati da: Bertacchini. E., in Manuale di diritto fallimentare, ed. Giuffrè, Torino, 2011, pagg. 202 ss; Liuzzi G.T, in Manuale di diritto fallimentare e delle procedure concorsuali, pagg 131 ss.

(20)

Dopo la riforma del 2005, sono rimaste immutate la struttura e le linee generali dell’istituto, in quanto si fa ancora riferimento alla distinzione tra atti anormali e atti normali, rispettivamente al comma 1° e 2° dell’art. 67 l.f. . La riforma ha proceduto sia a ridurre il c.d periodo sospetto27 che ad inserire un 3°comma, nel quale sono state previste ben sette ipotesi di esenzione28.

Il comma 3° art 67 l.f oggi recita: “Non sono soggetti a revocatoria: • i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività di

impresa nei termini d’uso29;

• le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non

abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l'esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca30;

• le vendite ed i preliminari di vendita trascritti ai sensi dell'articolo

2645 bis del codice civile, i cui effetti non siano cessati ai sensi del comma terzo della suddetta disposizione, conclusi a giusto prezzo ed aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo, destinati a costituire l'abitazione principale dell'acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado, ovvero immobili ad uso non abitativo destinati a costituire la sede principale dell'attività d'impresa dell'acquirente, purché alla

27

Più nel dettaglio, il periodo sospetto è passato da due anni a uno per gli atti “anormali” e da un anno a 6 mesi per quelli “normali”.

28

Campobasso, in Diritto Commerciale,5°edizione, volume 3,ed.Utet, Torino, pagg. 378 ss.

29

Tale previsione è strumentale a evitare che all’ imprenditore in odore di crisi vengano subitamente interrotte le forniture, precludendo la prosecuzione dell’attività ordinaria

30

Esenzione che è stata prevista dal legislatore per cercare di risolvere numerose discussioni, che si erano create in dottrina, sull’ applicabilità dell’azione revocatoria alle rimesse su conto corrente compiute dall’ imprenditore nel periodo cd. sospetto. Si è stabilito che le rimesse su conto corrente bancario non sono soggette a revocatoria fallimentare a condizione però che non abbiano diminuito in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca .

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data di dichiarazione di fallimento tale attività sia effettivamente esercitata, ovvero siano stati compiuti investimenti per darvi inizio;

• gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purché

posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell'impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria; un professionista indipendente designato dal debitore, iscritto nel registro dei revisori legali ed in possesso dei requisiti previsti dall'articolo 28, lettere a) e b) deve attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano; il professionista è indipendente quando non è legato all'impresa e a coloro che hanno interesse all'operazione di risanamento da rapporti di natura personale o professionale tali da comprometterne l'indipendenza di giudizio; in ogni caso, il professionista deve essere in possesso dei requisiti previsti dall'articolo 2399 del codice civile e non deve, neanche per il tramite di soggetti con i quali è unito in associazione professionale, avere prestato negli ultimi cinque anni attività di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore ovvero partecipato agli organi di amministrazione o di controllo; il piano può essere pubblicato nel registro delle imprese su richiesta del debitore 31;

• gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del

concordato preventivo, dell'amministrazione controllata, nonché dell'accordo omologato ai sensi dell'articolo 182 bis, nonché gli atti, i pagamenti e le garanzie legalmente posti in essere dopo il deposito del ricorso di cui all'articolo 161;

• i pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro effettuate da

dipendenti ed altri collaboratori, anche non subordinati, del fallito;

31

per maggiore approfondimento del nuovo strumento del piano attestato di risanamento, introdotto da tale articolo, rinviamo al prossimo paragrafo.

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• i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili eseguiti alla scadenza per

ottenere la prestazione di servizi strumentali all'accesso alle procedure concorsuali di amministrazione controllata e di concordato preventivo32.

Tra le diverse esenzioni introdotte, quelle che interessano maggiormente i nostri fini sono previste rispettivamente alla lettera d) ; lettera e); lettera g) dell’art 67 comma 3°l.f. .

Tali esenzioni sono accomunate dalla finalità di favorire tentativi di soluzione della crisi mediante strumenti alternativi al fallimento, accordando un trattamento favorevole ai creditori (o taluni di essi) nel caso in cui la crisi non sia superata e sopraggiunga quindi il fallimento. La previsione contenuta alla lettera e) identifica una prassi consolidata da tempo in giurisprudenza e in dottrina, ossia quella di esentare dalla revocatoria fallimentare i pagamenti e le garanzie effettuate in esecuzione di un concordato preventivo e di amministrazione controllata; con la riforma l’ipotesi è stata estesa anche ai pagamenti e le garanzie effettuate in esecuzione di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’art 182-bis l.f. .

L’esenzione, prevista alla lettera g) art 67 comma 3°, può essere considerata una scelta consequenziale e strumentale a quella effettuata dal legislatore alla lettera e). Infatti, a titolo esemplificativo, è possibile far rientrare in tale previsione il pagamento del compenso del professionista attestatore incaricato di redigere la relazione richiesta all’art 161 l.f. .

Della previsione innovativa, introdotta dal legislatore nell’art 67 comma 3° lettera d), ci occuperemo nel seguente paragrafo.

32

si tratta di una scelta consequenziale e strumentale a quella effettuata dal legislatore alla lettera e). A titolo esemplificativo è possibile far rientrare, in tale previsione, il pagamento del compenso del professionista attestatore incaricato della redazione della relazione richiesta all’art 161 l.f. .

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Dopo aver dato conto della disciplina della revocatoria fallimentare e della profonda riforma che l’ha caratterizzata a metà anni 2000, nel prosieguo del capitolo andremo ad approfondire i tratti caratterizzanti gli strumenti alternativi al fallimento.

Gli effetti dell’uso di tale strumenti, se utilizzati con buon esito, possono sostanziarsi, come abbiamo visto sopra, nell’esenzione da azione revocatoria fallimentare e, come vedremo nel proseguo dell’elaborato, da responsabilità penale per bancarotta preferenziale o semplice di atti compiuti in esecuzione di esso.33

6. Il piano attestato di risanamento

Il piano attestato di risanamento trova la sua fonte giuridica nell’art 67 comma 3° lett. d) l. fall. .

Tale istituto rientra tra le innovazioni più significative apportate dalla riforma delle procedure concorsuali, attuata dal legislatore nel 2005, e si inserisce nell’ottica della risoluzione anticipata e privatistica della crisi d’impresa.

Dal punto di vista giuridico, esso si sostanzia in un atto unilaterale di programmazione futura, attraverso il quale l’imprenditore indica le operazioni che intende svolgere per risanare lo stato di crisi e segnala dettagliatamente le garanzie che intende offrire ai propri creditori. La fattibilità e l’idoneità del piano predisposto dall’imprenditore, dovrà essere successivamente attestata da un professionista che abbia i requisiti di indipendenza e imparzialità richiesti dalla legge. Si differenza sostanzialmente dagli altri strumenti di risoluzione della crisi di impresa, come concordato preventivo e accordo di

33 Crisi di impresa e autonomia contrattuale nei piano attestati, Alessandro Munari, 2012, giurisprudenza commerciale. Approfondiremo tale argomento nel proseguo dell’elaborato.

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ristrutturazione dei debiti, in quanto questi non possono prescindere da un accordo con i creditori e sono sempre sottoposti a controllo giudiziale, mediante omologazione.

Il piano attestato di risanamento non è una procedura concorsuale, ma si sostanza in un negozio giuridico che non richiede necessariamente l’adesione dei creditori, non essendo previsto nessun obbligo giuridico in questo senso, e sottratto completamente dal controllo giudiziale, in quanto non è prevista alcuna forma di intervento da parte del giudice. Esso rientra quindi in quel percorso di accentuata privatizzazione della gestione della crisi di impresa, tracciato dal legislatore del 2005, e che poggia sulla c.d. teoria del going concern, secondo cui “un’impresa in movimento produce più ricchezza di quanta se ne possa ricavare da un procedimento di liquidazione concorsuale”34.

L'art. 67 comma 3 L.F. non si pronuncia in merito ai requisiti formali del piano; pertanto sembra non sussistere alcun obbligo di redazione in forma scritta. La maggior parte della dottrina ritiene, tuttavia, che per ragioni di opportunità il piano debba essere presentato per iscritto. Dal punto di vista pratico, sembra molto difficile attuare un piano di programmazione e risanamento aziendale senza la forma scritta. L’altro interrogativo sollevato dalla dottrina, riguarda l’arco temporale in cui deve essere redatto il piano.

Il dibattito generato da tale questione ha portato la giurisprudenza e la dottrina ad una soluzione univoca.

Non è possibile sanare atti di disposizione compiuti dall’imprenditore in assenza di un piano di ristrutturazione, anche se, parlando di “ atti(…)posti in essere in esecuzione di un piano…”, la norma all’ art 67 comma 3° l.f. non fa distinzione tra forma e sostanza, e quindi non è detto che l’atto esecutivo del contenuto del piano debba necessariamente avvenire successivamente alla sua formalizzazione. A

34 Teoria di Hughes citata da: G. villanacci, A. coen, La gestione della

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titolo esemplificativo, si pensi all’ipotesi in cui l’atto da compiere sia così urgente da non poter attendere il deposito dell’attestazione da parte del professionista.

Il piano deve essere oggettivamente idoneo a realizzare il risanamento di un’azienda in crisi e quindi tale non può esser considerato nel caso in cui l’azienda si trovi in uno stato di insolvenza, considerata crisi irreversibile; ciò vuol dire che eventuali atti compiuti anteriormente al piano, sono compiuti in uno stato di crisi e non di insolvenza, esentati quindi da azione revocatoria come previsto dalla norma in esame. Se il piano invece viene redatto in un periodo in cui l’impresa era già insolvente, è probabile che la programmazione predisposta fosse ab

origine inidonea a raggiungere il risanamento dell’impresa, e così non

potrebbe operare l’esenzione da revocatoria prevista all’art. 67 comma 3° l.f. lett d).

Alla luce delle considerazioni effettuate, si evidenzia come sia molto importante apporre al piano una data certa, in modo da individuare quali atti sono stati compiuti dopo ed in fase di esecuzione, e di conseguenza possano godere dell’esenzione da azione revocatoria nell'ipotesi in cui il piano non ottenga gli effetti sperati di risanamento e sopraggiunga una situazione di insolvenza, con conseguente dichiarazione di fallimento.

A questo proposito, parte della dottrina aveva richiesto al legislatore di introdurre un obbligo di pubblicità del piano, che poteva essere raggiunto ad esempio attraverso l’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese.

Il legislatore è intervenuto con d.l.n.83/2012 e ha previsto una postilla che prevede la facoltà dell’imprenditore di richiedere l’iscrizione del piano nel registro dell’imprese, ma solo con il fine di poter accedere a determinati benefici fiscali.

La norma citata quindi non pone nessun obbligo giuridico di pubblicità dello strumento in esame, ma una mera facoltà del debitore

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di richiederla. La maggior parte della dottrina ritiene che sia comunque onere ed interesse dell'imprenditore comunicare ai terzi l'esistenza del programma di ristrutturazione che tutela quest’ultimi dal rischio di azioni revocatorie.

Anche riguardo al contenuto del piano, non esistono riferimenti normativi. Tuttavia, il rilievo assunto dall’esonero da revocatoria, degli atti compiuti in esecuzione di esso, impone la redazione di un dettagliato programma in cui siano specificate le operazioni che l’ imprenditore intende perseguire per raggiungere il superamento della crisi di impresa e che indichi, in particolare, i pagamenti e le garanzie che devono essere prestate dal debitore.

In dottrina si sostiene anche la possibilità di redazione di un programma flessibile e aperto a eventuali possibili modifiche da apportare in corso di esecuzione. Le modalità attraverso le quali raggiungere lo sperato esito positivo, sono lasciate alla discrezionalità dell’imprenditore, che può prevedere operazioni di ristrutturazione interne all'impresa stessa, come ad esempio la cessione di beni strumentali, oppure operazioni volte a circoscrivere i costi di produzione. Egli può, altresì, prevedere il ricorso a fonti di finanziamento esterne, quindi l'erogazione di nuova finanza e il riposizionamento dell'esposizione debitoria a breve in debiti a medio e lungo termine.

La redazione del piano dovrà ispirarsi ai principi di trasparenza, completezza, affidabilità e attendibilità. Fondamentale è, inoltre, la trasparenza nella descrizione delle modalità di costruzione del piano. Quest’ultimo dovrebbe facilitare il professionista attestatore, nella redazione di un giudizio positivo, in quanto, limita il grado di incertezza sull’idoneità del progetto a raggiungere il fine prefissato. A tal scopo, gli interpreti ritengono sia necessario indicare le fonti informative delle quali ci si è avvalsi per la predisposizione del piano. Tale richiesta è finalizzata ad aiutare il professionista attestatore ed i

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terzi creditori a valutare l'autorevolezza, l'esaustività e la fondatezza delle informazioni sulle quali poggia l’intero programma imprenditoriale.

Infine, un ruolo centrale nel sistema di funzionamento del piano attestato è ricoperto dalla figura del professionista attestatore, previsto dall’art 67 comma 3°lett.d) L.F., che è chiamato a valutare la veridicità dei dati esposti e la fattibilità del piano.

Con particolare riferimento all'oggetto della relazione del giudizio di attestazione, il d.l 22 giugno 2012 n.83 modificando l'art. 67 comma 3 lett d) L.F., ha precisato che il professionista deve attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano, mentre non deve più, come richiesto in passato, esprimere un giudizio di ragionevolezza. Al professionista viene, pertanto, attribuito il compito di esprimere un giudizio sull’ idoneità del piano ad essere attuato con esito positivo, avendo quali punti di riferimento i possibili futuri scenari di mercato, nonché il periodo di tempo lungo il quale il piano deve attuarsi. In concreto, il professionista deve attestare anzitutto la veridicità dei dati aziendali e, successivamente, la fattibilità del piano, svolgendo una vera e propria relazione illustrativa e descrittiva.

Pertanto quello del professionista è sicuramente un giudizio prognostico, finalizzato a valutare la concreta idoneità del piano a risanare l’esposizione debitoria dell’impresa35.

7. Il concordato preventivo.

L’imprenditore fallibile sulla base dei limiti dimensionali previsti dall’art 1, 2°comma L.F. che si trova in stato di difficoltà economica,

35

Per una panoramica sull’istituto cfr. G. villanacci, A. coen, La gestione della crisi di impresa e i piani attestati di risanamento, in Dir.fall, 2013; M. Ferro, I piani di risanamento, in Il Fall., 06/2005; Intervento di Giorgio Meo, piani attestati di risanamento, in Trattato delle procedure concorsuali volume 4, a cura di L.Ghia, C. Piccininni, F. Severini, 2011, pagg. 634 e ss.

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può evitare il fallimento stipulando con i propri creditori un accordo mediante concordato preventivo36. Tale procedura, regolata dalla legge fallimentare (art 160-186 bis) è stata più volte modificata dal legislatore che è intervenuto sulla materia con un primo importante intervento nel 2005, con altre successive modifiche e con un altro recentissimo intervento del 2015.

In primo luogo, l’intervento del 2005 ha modificato il presupposto oggettivo richiesto dalla legge per poter accedere alla procedura: infatti si è proceduto a sostituire lo stato di insolvenza, richiesto dalla disciplina del 1942, con il più generale stato di crisi economica dell’imprenditore.

Il legislatore poco dopo è intervenuto nuovamente su tale disposizione per “chiarire” che per “stato di crisi” si doveva intendere anche stato di insolvenza37. Attraverso tale innovazione si è voluta incentivare e estendere la possibilità di utilizzo di tale strumento anche a casi di crisi temporanea e reversibile.

Al contrario di quanto avviene per il piano attestato, il concordato preventivo è una procedura concorsuale, in quanto richiede sempre l’ intervento di organi giurisdizionali, sia prima dell’approvazione della proposta, sia dopo l’accettazione da parte dei creditori. L’altro merito della riforma del 2005 è stato quello di eliminare i requisiti di

36Tale concordato viene definito concordato giudiziale e di massa (cit

Campobasso pagg. 424 e ss) . Giudiziale poiché viene sempre perfezionato all’interno di procedura che richiede l’intervento di organi giurisdizionali; di massa poiché una volta approvato è produttivo di effetti giuridici per tutti i creditori anteriori e libera definitivamente l’imprenditore per la parte eccedente alla percentuale concordataria.

37 Tale “specificazione” è avvenuta ad opera del successivo d.l. 30 dicembre

2005, n. 273, convertito con modifiche in l. 23 febbraio 2006, n. 51. Il legislatore ha ritenuto necessario l’intervento visti i forti dubbi interpretativi e giurisprudenziali che si erano creati sul significato di stato di crisi. Cfr.

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meritevolezza38, richiesti come requisiti soggettivi all’imprenditore che volesse accedere alla procedura . Dopo il 2005 non è più così, in quanto l’unico requisito soggettivo richiesto è che l’imprenditore rientri nei limiti dimensionali previsti dall’art 1 2°comma della l. fall39. Non è più richiesto nemmeno che l’imprenditore sia in grado di garantire il pagamento di una certa percentuale di creditori chirografi e neppure di soddisfare per intero i creditori privilegiati, essendo sufficiente che questi siano soddisfatti in misura non inferiore a quello che realizzerebbero attraverso la procedura liquidatoria (art 161 comma 2°). Tale innovazione ha comportato un’importante deroga alla

par condicio creditorum che aveva rappresentato un pesante fardello

per l’applicazione dell’istituto nel periodo ante-riforma.

38

Infatti in base alla vecchia disciplina poteva essere ammesso al concordato preventivo solo l’imprenditore che: 1) dall’inizio dell’impresa o da almeno un biennio era iscritto nel registro delle imprese ed aveva tenuto una regolare contabilità; 2) nei 5 anni precedenti non era stato dichiarato fallito o ammesso ad altra procedura di concordato preventivo; 3) non era stato condannato per bancarotta o delitti contro il patrimonio, la fede pubblica, l’economia pubblica, l’industria o il commercio.

39

L’art 1 2°comma recita: Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici.

Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti:

a)aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila;

b)aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila;

c)avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.

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Nel nuovo concordato preventivo, come ridisegnato dalla riforma del 2005, assume inoltre un ruolo centrale il piano predisposto dall’imprenditore che si caratterizza di connotati prettamente privatistici che nella disciplina previgente mancavano.

Il piano si caratterizza per l’ampia flessibilità di contenuto funzionale alla più ampia sfera di interessi in gioco40. Esso può, inoltre, prevedere la suddivisione dei creditori in classi secondo criteri di posizione giuridica ed interessi economici omogenei (art 160,1 comma, lett. c) L.F., il cui trattamento può variare da classe a classe (lett.d), purché non sia alterato l’ordine della cause legittime di prelazione (art 160, 2°comma). L’effetto della presentazione del piano è quello di congelare le azioni esecutive e cautelari individuali sul patrimonio del debitore .

Ad accentuare la privatizzazione della procedura concorre poi anche la necessità -posta dall’art 161, 3° comma .f.- che l’ imprenditore alleghi alla proposta presentata attraverso ricorso, tra gli altri documenti, anche una relazione redatta da parte di un professionista in possesso dei requisiti richiesti per l’attestazione dei piani di risanamento, che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano.

La procedura di concordato inizia con la domanda di ammissione da parte del debitore, presentata con ricorso al tribunale del luogo in cui l’impresa ha la sua sede principale. La domanda è pubblicata d’ ufficio nel registro delle imprese entro il giorno successivo.

40

Il piano può infatti prevedere la ristrutturazione dei debiti (da intendersi come la variazione quantitativa e/o ladilazione dei termini di pagamento degli stessi debiti) e la soddisfazione dei debiti da attuarsi non più attraverso il rigido schema che connotava la disciplina previgente -concordato con garanzia, concordato con cessione dei beni e c.d. concordato misto- ma con “qualsiasi forma”. Ad esempio, la lett. a) del comma 1° dell’art. 160 l.f. elenca: “cessione di beni, accollo, o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l’attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito”.

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In base all’attuale disciplina, l’imprenditore può presentare una domanda di concordato già completa del piano concordatario rivolto ai creditori, oppure con riserva.

Nel caso in cui decida per la prima ipotesi, la domanda deve essere corredata da tutta una serie di allegati: un’aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa; uno stato analitico dell’attività con i relativi valori; l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione; l’elenco dei titolari di diritti reali o personali su beni di proprietà o in possesso del debitore; un piano contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta. La proposta e gli allegati devono essere inoltre accompagnati dalla relazione di un professionista indipendente, scelto dal debitore, avente gli stessi requisiti di indipendenza e imparzialità richiesti per l’ attestazione dei piani di risanamento. Il professionista deve accertare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano (art. 161, 3°comma, l.fall).

Dopo la riforma del 2012, il debitore può presentare anche una domanda di concordato incompleta, con riserva di presentare successivamente la proposta, il piano e gli altri allegati richiesti (art 161, 6° comma l.f). In questo modo, è data la possibilità all’ imprenditore di preparare la complessa documentazione richiesta, al riparo da eventuali azioni esecutive, dato che il divieto per i creditori di esercitare tali azioni scatta subito dopo la pubblicazione del ricorso per l’ammissione a concordato.

Insieme alla domanda di concordato con riserva, l’imprenditore deve depositare anche i bilanci relativi agli ultimi tre anni di esercizio e l’ elenco dei creditori con i rispettivi crediti.

Quando viene presentata una domanda incompleta, il giudice fissa un termine per la formulazione della proposta, fra un minimo di sessanta ed un massimo di cento venti giorni. Entro questo termine, il debitore

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può presentare una proposta di concordato, oppure la richiesta di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti; ma se non presenta né l’una né l’altra, la domanda di ammissione di concordato viene rigettata. In questo caso, può essere contestualmente dichiarato il fallimento, se ne viene fatta istanza da un creditore o del pubblico ministero e sussistono i relativi presupposti: per questo è richiesto che, insieme alla domanda con riserva, siano depositati anche i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi.

Se alla domanda con riserva non fa seguito l’ammissione alla procedura di concordato o l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, il debitore perde la facoltà di presentare una nuova domanda di concordato con riserva per un periodo di due anni. (art 161 9°comma).

Ricevuta la domanda, il tribunale procede con una prima fase di istruttoria, svolgendo un controllo preliminare volto ad accertare se sussistono i presupposti per l’ammissione alla procedura (qualità di imprenditore commerciale e stato di crisi), la completezza e la regolarità della documentazione. Verifica inoltre il rispetto dei limiti stabiliti dalla legge, per quanto riguarda il contenuto della proposta; trattamento da riservare ai creditori privilegiati, e correttezza dei criteri per la formazione delle classi.

Prima di pronunciarsi, il tribunale deve ordinare la comparizione del debitore in camera di consiglio, per consentirgli l’esercizio del diritto di difesa. Può, inoltre, assegnare un termine per l’integrazione della proposta e dei documenti (art 162 comma 2° l.f). Se l’accertamento ha esito negativo, il tribunale dichiara inammissibile la domanda di concordato. Inoltre, su istanza di un creditore o del pubblico ministero, ove sussistono i presupposti richiesti, può dichiarare il fallimento del debitore.

Se, invece, ritiene ammissibile la proposta, il tribunale, con decreto, dichiara aperta la procedura di concordato preventivo (art 163). Con lo

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stesso provvedimento il tribunale designa gli organi della procedura: il giudice delegato, cui è attribuita la direzione della procedura, un commissario giudiziale, che svolge funzioni di controllo e vigilanza (art .165).

Sempre con il decreto di ammissione, il tribunale convoca l’adunanza dei creditori.

La presentazione della domanda di concordato produce effetti sia nei confronti del debitore che nei confronti dei creditori anteriori.

A differenza del caso di fallimento, il debitore conserva l’amministrazione ordinaria dei suoi beni, mentre per l’amministrazione straordinaria avrà necessità di un’autorizzazione da parte del tribunale. Devono in particolare essere autorizzati gli atti previsti all’ art 167 d l.f. .

Gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione e compiuti senza la necessaria autorizzazione, sono inefficaci nei confronti dei creditori anteriori al concordato (art 167, comma 2°). Inoltre possono provocare la revoca dell’ammissione alla procedura.

Gli effetti per i creditori anteriori sono in larga parte coincidenti con quelli che si producono in seguito a dichiarazione di fallimento.

Infatti, dalla data della pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese i creditori anteriori non possono, a pena di nullità, inviare o proseguire azioni esecutive e cautelari individuali sul patrimonio del debitore, fino a quando il decreto di omologazione del concordato diventa definitivo.

Intervenuta l’ammissione alla procedura, il procedimento per la concessione del concordato si articola in due fasi: l’approvazione della proposta da parte dei creditori e la successiva omologazione del concordato da parte del tribunale. L’approvazione del concordato preventivo avviene in apposita adunanza dei creditori, presieduta dal giudice delegato (art 174). Il commissario giudiziale illustra la proposta definitiva del debitore, la quale diventa immodificabile con

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