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II. NATURA E SOCIETÀ

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II. NATURA E SOCIETÀ

La costanza di un’abitudine è di solito proporzionale alla sua assurdità

Proust

La naturale insocievolezza dell’essere umano

Nel precedente capitolo si è fatto spesso riferimento all’idea della radicale antisocialità congenita nell’essere umano come a uno dei pilastri su cui si regge la visione antropologica di Leopardi. Come per il settore della politica, anche per la concezione della società a un certo punto l’autore sente di aver accumulato nello

Zibaldone una quantità di materiale tale da richiedere una risistemazione in forma

organica. Egli si ritiene pronto per portare a termine questo compito nell’ottobre del 1823: per l’importanza assunta dall’argomento, non stupisce che egli dia vita al pensiero più esteso dell’intero Zibaldone; tanto che in base ad una convenzione retorica, benché in maniera impropria, esso può essere definito come un piccolo “trattato” sulla società.

Il fatto che nelle intenzioni di Leopardi esso non costituisca tanto un contributo diverso e ulteriore quanto una riorganizzazione del suo pensiero in merito in un quadro compiutamente unitario appare chiaro fin dalle prime righe:

Vogliono che l’uomo per natura sia più sociale di tutti gli altri viventi. Io dico che lo è men di tutti, perchè avendo più vitalità, ha più amor proprio, e quindi necessariamente ciascun individuo umano ha più odio verso gli altri individui sì della sua specie sì dell’altre, secondo i principii da

me in più luoghi sviluppati. Or qual altra qualità è più antisociale, più esclusiva per sua natura

dello spirito di società, che l’amore estremo verso se stesso, l’appetito estremo di tirar tutto a se, e l’odio estremo verso gli altri tutti? Questi estremi si trovano tutti nell’uomo. Queste qualità sono naturalmente nell’uomo in assai maggior grado che in alcun’altra specie di viventi.1

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Già fra il gennaio e l’ottobre 1821 a più riprese egli aveva fissato i medesimi concetti in contesti diversi, sulla cui specificità qui non è possibile soffermarsi:

la società, spogliando l’uomo in fatto, di alcune sue qualità essenziali e naturali, è uno stato che non conviene all’uomo, non corrisponde alla sua natura; quindi essenzialmente e primitivamente imperfetto, ed alieno per conseguenza dalla sua felicità: e contraddittorio nell’ordine delle cose.2

nessun vivente, è destinato precisamente alla società, il cui scopo non può essere se non il ben comune degl’individui che la compongono: cosa opposta all’amore esclusivo e di preferenza, che ciascuno inseparabilmente ed essenzialmente porta a se stesso, ed all’odio degli altri, che ne deriva immediatamente, e che distrugge per essenza la società.3

l’uomo non è fatto per la società, o almeno per una società stretta, e d’uomini inciviliti […] questa è incompatibile con la natura umana, e contraddittoria ne’ suoi principii […].4

Insomma, considerati questi precedenti, pur senza svalutare in alcun modo la fecondità di un approccio diacronico, in riferimento al periodo antecedente al

Dialogo della Natura e di un Islandese per il nostro discorso non ritengo

strettamente necessario segmentare in diverse fasi la riflessione teorica sullo statuto della società umana in rapporto all’ordinamento naturale, concepita nelle sue linee portanti come una dottrina coerente, rispetto alla quale il “trattato” del 1823 non costituisce un approdo radicalmente nuovo5.

Un ulteriore aspetto che emerge fin dalle parole d’esordio è l’intento polemico a cui è improntato tutto il ragionamento: «Vogliono che l’uomo per natura sia più sociale di tutti gli altri viventi». Questa idea resisteva da lunghissimo tempo nella

2 Zib., 581; 22-29 gennaio 1821. Le «qualità essenziali» a cui si allude nel passo sono la libertà e

l’uguaglianza.

3 Zib., 872-873; 30 marzo-4 aprile 1821. 4 Zib., 1952-1953; 19 ottobre 1821. 5

Come sembra invece ritenere L. Baldacci, Il male nell’ordine, cit., pp. 42-43, secondo cui esso corrisponde ad una cesura che segna una definitiva destoricizzazione del problema della società da parte di Leopardi. D’altra parte sarebbe eccessivo sostenere che nel “trattato” l’autore non sviluppi ulteriormente le considerazioni precedentemente formulate ed in riferimento a questioni specifiche non le carichi di sfumature in parte originali, come avremo occasione di verificare in seguito.

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storia della filosofia, visto che datava almeno ad Aristotele, il quale aveva spiegato che l’uomo in quanto animale politico per sua stessa natura era fatto per vivere in società. La teoria della naturale socialità dell’essere umano era stata il bersaglio dei rilievi critici mossi da Hobbes, ma successivamente, anche come reazione agli esiti assolutistici della sua teoria politica, era stata rilanciata con grande energia nel panorama culturale europeo, tanto da proporsi come uno dei assi fondamentali del pensiero illuminista, prima di passare in eredità al gruppo degli idéologues. Come vedremo, tutto lascia pensare che Leopardi intendesse replicare proprio alle argomentazioni profuse dalla schiera dei philosophes a supporto di tale tesi.

Occorre puntualizzare che il motivo del dissenso fra Leopardi e gli esponenti della tradizione éclairée non si tanto pone al livello dell’accertamento di un dato di fatto, quanto a quello della sua corretta spiegazione. Accomunati dalla necessità di attenersi rigorosamente al metodo dell’osservazione empirica della realtà, essi non possono non trovarsi concordi nella dolorosa constatazione dei mali profondi da cui tutte le forme di convivenza umana sono state affette nel corso della storia. Ciò che Leopardi precisamente contesta è l’incapacità di risalire alle autentiche ragioni antropologiche che da sempre determinano tale negativa condizione della società:

Infinite forme di società hanno avuto luogo tra gli uomini per infinite cagioni, con infinite diversità di circostanze. Tutte sono state cattive; e tutte quelle che oggi hanno luogo, lo sono altresì. I filosofi lo confessano; debbono anche vedere che tutti i lumi della filosofia, oggi così raffinata, come non hanno mai potuto, così mai non potranno trovare una forma di società, non che perfetta, ma passabile in se stessa. Nondimeno ei dicono ancora che l’uomo è il più sociale de’ viventi.6

L’allusione ai «filosofi» e ai «lumi» lasciano francamente pochi dubbi su chi siano gli interlocutori polemici di questo passo7. Prima di approfondire il senso

6

Zib., 3774; 25-30 ottobre 1823.

7 Tuttavia nell’ultimo periodo l’uso del tempo presente («ei dicono ancora») può forse contenere un

implicito riferimento agli ideologi parigini, i quali peraltro si erano limitati ad assimilare le teorie elaborate in precedenza apportandovi poche varianti significative.

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delle pagine dello Zibaldone, sarà quindi opportuno passare in rassegna sinteticamente le posizioni di alcune delle personalità più in vista delle Lumières, delle cui opere presumibilmente Leopardi doveva avere qualche forma di conoscenza, diretta o indiretta.

Fin dalle Lettere persiane Montesquieu aveva aderito risolutamente all’idea della naturalità del vincolo sociale, e più precisamente all’ipotesi secondo cui il costituirsi della società non sarebbe che il risultato del normale allargamento del nucleo familiare:

Je n’ai jamais ouï parler du droit public qu’on n’ait commencé par rechercher soigneusement quelle est l’origine des Sociétés; ce qui me paroit ridicule. Si les hommes n’en formoient point, s’ils se quittoient et se fuyoient les uns les autres, il faudroit en demander la raison, et chercher pourquoi ils se tiennent séparés. Mais ils naissent tous liés les uns aux autres; un fils est né auprès de son pere, et il s’y tient: voilà la Société et la cause de la Société.8

Non ho mai sentito parlare di diritto pubblico senza che si sia cominciato a indagare accuratamente l’origine della società: cosa che mi sembra ridicola. Se gli uomini non la costituissero, se l’abbandonassero, se rifuggissero gli uni dagli altri, allora ebbe bisognerebbe chiedersene la ragione e indagare perché si tengano separati; ma essi nascono tutti vincolati gli uni agli altri; il figlio è nato dal padre e gli rimane legato: ecco la società e la causa della società.9

E nello Spirito delle leggi il desiderio di vivere in società era interpretato come una delle leggi fisiologiche universali ed eterne che presiedono all’esistenza umana.

Nel quadro della cultura settecentesca appare paradigmatica la posizione di Buffon. Anche agli occhi dell’autore dell’Historie naturelle la società si presenta alla stregua di una realtà naturale, che si forma spontaneamente in ogni contesto ambientale come estensione del vincolo biologico esistente fra i componenti della medesima comunità familiare: essa è considerata come la condizione indispensabile per la sopravvivenza stessa del singolo individuo. Questo tipo di impostazione conteneva al suo interno anche un evidente giudizio di valore: Buffon non stabilisce solo una differenza di grado, ma ravvisa una cesura

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qualitativa netta che separa le società animali, statiche e condannate ad un ritmo ripetitivo, dalla società umana, che avendo permesso all’uomo di perfezionare la sua intrinseca capacità razionale, va riconosciuta come lo strumento attraverso cui esso avrebbe imposto nel tempo la sua supremazia sull’universo.

Anche Voltaire si era prodigato energicamente nel sostenere le teoria del carattere naturale della condizione sociale. Pur ammettendo che l’acquisizione di un linguaggio articolato, necessario alla fondazione di aggregazioni sociali più ampie e strutturate come quelle costituite dalle nazioni antiche, non costituiva uno strumento immediatamente disponibile per l’uomo allo stato selvaggio, egli comunque concepiva le prime rudimentali forme di associazione come l’espressione di un istinto primario nella specie umana da cui nei fatti era pressoché impossibile discostarsi; un istinto che si manifesta in particolare nei confronti degli individui a cui si è legati da un vincolo familiare:

Ne voyons-nous pas […] que tous les animaux, ainsi que tous les autres êtres, exécutent invariablement la loi que la nature donne à leur espèce? L’oiseau fait son nid, comme les astres fournissent leur course, par un principe qui ne change jamais. Comment l’homme seul aurait-il changé? S’il eût été destiné à vivre solitaire comme les autres animaux carnassiers, aurait-il pu contredire la loi de la nature jusqu’à vivre en société? et s’il était fait pour vivre en troupe, comme les animaux de basse-cour et tant d’autres, eût-il pu d’abord pervertir sa destinée jusqu’à vivre pendant des siècles en solitaire? […]

Tous les hommes vivent en société; peut-on en inférer qu’ils n’y ont pas vécu autrefois? n’est-ce pas comme si l’on concluait que si les taureaux ont aujourd’hui des cornes, c’est parce qu’ils n’en ont pas toujours eu?

L’homme, en général, a toujours été ce qu’il est […]; il a toujours eu le même instinct, qui le porte à s’aimer dans soi-même, dans la compagne de son plaisir, dans ses enfans, dans ses petit-fils, dans les oeuvres de ses mains.

Voilà ce qui jamais ne change d’un bout de l’univers à l’autre. Le fondement de la société existant toujours, il y a donc toujours eu quelque société; nous n’étions donc point faits pour vivre à la manière des ours.10

9 Montesquieu, Lettere persiane, a cura di C. Agostini, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 162.

10 Voltaire, Essai sur les moeurs et l’esprit des nations et sur les principaux faits de l’histoire depuis

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Non vediamo […] ogni animale, al pari di ogni altro essere, seguire invariabilmente la legge imposta dalla natura alla sua specie? L’uccello fa il nido, come gli astri seguono il loro corso per un principio immutabile. Solo l’uomo sarebbe mutato? Se fosse nato per vivere solitario come gli animali carnivori, avrebbe forse potuto contraddire la legge di natura fino al punto di vivere in società? e se fosse nato per vivere in gruppo, come gli animali da cortile e tanti altri, avrebbe forse potuto sulle prime snaturare la sorte fino al punto di vivere in solitudine per secoli? […]

Tutti gli uomini vivono in società; si può inferire che in altri tempi non abbiano vissuto così? Non sarebbe come concludere che i tori oggi hanno le corna perché non ne hanno sempre avute?

L’uomo è sempre stato, in genere, quale è […]; egli ha sempre avuto un medesimo istinto che lo porta ad amarsi in sé stesso, nella compagna del proprio piacere, nei propri figli, nei propri nipoti, nelle opere delle proprie mani.

Ecco che cosa rimane sempre costante da un capo all’altro dell’universo. Il fondamento della società è esistito sempre, quindi è sempre esistita qualche forma di società, dunque noi non eravamo fatti per vivere alla maniera degli orsi.11

In quest’ottica, anche Voltaire riserva al genere umano un rango gerarchico privilegiato all’interno delle specie animali contraddistinte da una condizione gregaria:

Nous sommes, si je ne me trompe, au premier rang (s’il est permis de le dire) des animaux qui vivent en troupe, comme les abeilles, les fourmis, les oies, les poules, les moutons, etc.12

Se non sbaglio, noi siamo (se posso dirlo) al primo posto tra gli animali che vivono in gruppo, come le api, le formiche, i castori, le oche, le galline, i montoni, ecc.13

Non si può concludere questa rapida panoramica prima di aver citato le pagine dell’Enciclopedia, se non altro per il valore esemplare della temperie intellettuale di un’epoca che esse possono rivendicare. La voce «Società», pubblicata anonima ma da alcuni studiosi attribuita a Diderot, in effetti si presenta come una summa di molti dei motivi fin qui accennati. Essa trasmette l’idea tipicamente settecentesca secondo cui il genere umano costituisce un’unica società, naturalmente prodotta

11

Voltaire, Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni e sui principali fatti della storia da Carlomagno sino a Luigi XIII, 4 voll., Milano, Edizioni per il Club del libro, 1966, vol. I, p. 44.

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dalle necessità che creano tra gli uomini relazioni d’utilità reciproca. Coerentemente a questo orientamento, al suo interno si ribadisce l’opinione di Buffon che il pensiero e la parola sono un corredo insito fin dalle origini nella natura umana e che i legami fra consanguinei costituiscono la cellula primitiva della società più ampia; inoltre la condizione sociale è presentata come lo sfondo necessario non soltanto alla sopravvivenza fisica della specie, ma anche al raggiungimento del benessere psicologico degli individui:

les hommes sont faits pour vivre en société […]. Telle est en effet la nature et la constitution de l’homme, que hors de la société, il ne sauroit ni conserver sa vie, ni développer et perfectionner ses facultés et ses talens, ni se procurer un vrai et solide bonheur.14

Gli uomini sono fatti per vivere in società […]. La natura e la costituzione dell’uomo è tale, che, al di fuori della società, non potrebbe mantenersi in vita, né sviluppare e perfezionare le proprie facoltà e attitudini, né procurarsi una felicità salda e verace.15

A dimostrazione della socialità scritta nel codice genetico dell’essere umano, l’anonimo autore di questo piccolo “manifesto” illuminista cita la forza dei sentimenti spontanei che ci spingono a ricercare il contatto con i nostri simili, da cui è possibile ricavare una sensazione di appagamento grazie alla condivisione delle proprie sensazioni e ai legami fondati sulla stima reciproca:

si nous consultons notre penchant, nous sentirons […] que notre coeur se porte naturellement à souhaiter la compagnie de nos semblables, et à craindre une solitude entiere comme un état d’abandon et d’ennui. […] c’est dans la société que l’homme trouve le remede à la plûpart de ses besoins, et l’occasion d’exercer la plûpart de ses facultés; c’est là, surtout, qu’il peut éprouver et manifester ces sentimens, auxquels la nature a attaché tant de douceur, la bienveillance, l’amitié, la compassion, la générosité: car tel est le charme de ces affections sociables, que de-là naissent nos plaisirs les plus purs. […] jamais la joie n’est plus vive que lorsqu’on peut la faire éclater aux yeux des autres, ou la repandre dans le sein d’un ami; elle redouble en se communiquant, parce

13 Voltaire, Saggio sui costumi, cit., p. 43. 14 Encyclopédie, cit., vol. XV, p. 252. 15 Enciclopedia, cit., p. 841.

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qu’à notre propre satisfaction se joint l’agréable idée que nous en causons aussi aux autres, et que par-là nous les attachons davantage à nous […].16

se esaminiamo le nostre inclinazioni, sentiremo che […] il nostro animo tende naturalmente a desiderare la compagnia dei nostri simili, e a temere una solitudine totale come uno stato d’abbandono e di noia. […] nella società l’uomo trova modo di provvedere alla maggior parte dei suoi bisogni, e l’occasione di esercitare la maggior parte delle sue facoltà; ed in essa, soprattutto, può provare e manifestare quei sentimenti ai quali la natura ha conferito tanta dolcezza, come la benevolenza, l’amicizia, la passione, la generosità; tale è infatti il fascino di questi sentimenti socievoli, che da essi derivano i nostri piaceri più puri. […] mai si prova gioia più viva, di quando la si può manifestare agli altri o versare nel seno di un amico; essa si accresce nel comunicarsi, perché alla nostra soddisfazione si unisce la piacevole idea di causarne anche agli altri, e così di legarli ancor più a noi […].17

In particolare l’argomentazione dell’enciclopedista opera un forte investimento sull’universale sentimento di benevolenza dimostrato dall’uomo verso i propri simili come fondamento della vita morale dell’individuo; esso non contraddice ma integra il potente stimolo dell’amor proprio, inteso nei termini che saranno anche di Leopardi come impulso alla ricerca della propria personale felicità: un equilibrato bilanciamento fra questi due principi complementari garantisce la possibilità di conciliare il perseguimento dell’interesse individuale con la realizzazione del bene comune. Proprio in questa favorevole predisposizione verso gli altri si risolve l’istinto alla socialità, da cui derivano gli obblighi reciproci fra le persone:

Les moralistes ont donné à ce germe de bienveillance qui se développe dans les hommes, le nom de sociabilité. Du principe de la sociabilité, découlent, comme de leur source, toutes les lois de la société, et tous nos devoirs envers les autres hommes, tant généraux que particuliers. Tel est le fondement de toute la sagesse humaine, la source de toutes les vertus purement naturelles, et le principe général de toute la morale et de toute la société civile.18

16 Encyclopédie, cit., vol. XV, p. 252. 17 Enciclopedia, cit., p. 843.

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I moralisti hanno definito socievolezza questo germe di benevolenza che si sviluppa negli uomini. Dal principio della socievolezza sgorgano, come dalla loro sorgente, tutte le leggi della società e tutti i nostri doveri verso gli altri uomini, tanto generali che particolari. Ecco il fondamento di tutta la saggezza umana, la fonte di tutte le virtù puramente naturali, e il principio generale di tutta la morale e di tutta la società civile.19

Un ulteriore fattore che assicura un collegamento positivo fra gli uomini è fornito dall’ampia gamma di abilità differenti sviluppate naturalmente dai singoli individui: la loro rispettiva specializzazione è ritenuta la base su cui costruire un’integrazione cooperativa ispirata ad un criterio di mutua solidarietà:

nous voyons que la nature a voulu partager et distribuer différemment les talens entre les hommes, en donnant aux uns une aptitude de bien faire certaines choses, qui sont comme impossibles à d’autres; tandis que ceux-ci, à leur tour, ont une industrie qu’elle a refusée aux premiers; ainsi, si les besoins naturels des hommes les font dépendre les uns des autres, la diversité des talens qui les rend propres à s’aider mutuellement, les lie et les unit. Ce sont là autant d’indices bien manifestes de la destination de l’homme pour la société.20

vediamo che la natura ha voluto dividere e distribuire diversamente attitudini tra gli uomini, dando agli uni la disposizione a far bene determinate cose, che per altri sono quasi impossibili; mentre questi, a loro volta, hanno qualche abilità che ai primi è stata negata; così, se i bisogni naturali degli uomini sono tali da farli dipendere gli uni dagli altri, la diversità delle loro attitudini, che li mette in grado di aiutarsi scambievolmente, li lega e li unisce. Ecco altrettanti segni, dai quali risulta chiaro che l’uomo è destinato a vivere in società.21

Insomma dai contributi dell’Enciclopedia si profilava il quadro della società come un sistema potenzialmente armonico, in cui non si negava il pericolo di una collisione fra le passioni particolari, ma i motivi di frizione erano ritenuti superabili attraverso la promozione dei momenti di scambio e di integrazione positiva, assicurati dai bisogni reciproci che collegano necessariamente gli individui gli uni agli altri.

19 Enciclopedia, cit., p. 844.

20 Encyclopédie, cit., vol. XV, p. 252. 21 Enciclopedia, cit., pp. 843-844.

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Leopardi da parte sua sembra conoscere e tenere talmente presenti i testi dei filosofi illuministi che già nelle pagine dello Zibaldone antecedenti il “trattato” del 1823, con un rigore che probabilmente non tutta la critica sarebbe disposta a riconoscergli, in modo puntiglioso e sistematico procede a smontare una per una tutte le argomentazioni addotte a sostegno della loro tesi da parte dell’intellighenzia dei Lumi (e ciò conferma la dialogicità implicita attraverso cui prende corpo una parte consistente del suo discorso filosofico).

Leopardi affronta molto presto la questione del nesso istituito fra legame familiare e società generale; già nel settembre 1820, in dissenso dai vari Montesquieu, Buffon eccetera, egli avverte l’esigenza di puntualizzare che nello stato naturale la convivenza ravvicinata dei genitori con i figli durava soltanto per il tempo strettamente necessario alla crescita e alla maturazione di questi ultimi, raggiunta la quale è perfino dubbio supporre che gli uomini possedessero un grado sufficiente di memoria per riconoscersi dopo intervalli di distacco:

In quanto […] alla figliuolanza è certo che la natura ha dettato alcune leggi, o siano di semplice amore e inclinazione libera, o sieno anche sentimenti di dovere; ma non perpetui; solo fino a un certo tempo, come vediamo negli animali, che dopo alcun tempo è verisimile che non riconoscano affatto i propri figli, massime quegli animali che ogni anno ne producono più d’uno. E così avverrebbe all’uomo se il figlio arrivato all’età di provvedersi da se, si separasse dai genitori, e questi l’uno dall’altro, come fanno gli animali.22

In quest’ottica, per Leopardi il consolidarsi di legami familiari stabili codificati dal diritto positivo può essere interpretata come una conseguenza dell’introduzione del regime della proprietà privata e della sopravvenuta esigenza di conservare il patrimonio:

la necessità del concubitu prohibere vago, non prova nulla in favore della società, perchè anche gli uccelli si fabbricano il talamo espressamente e convivono con legge di matrimonio finchè bisogna all’educazione sufficiente dei prodotti di quel tal matrimonio, e nulla più; e non per questo hanno società. Nè la detta necessità, riguardo all’uomo, si estende più oltre di questo

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naturalmente, ma artifizialmente, e a posteriori, cioè posta la società, la quale necessita la perpetuità de’ matrimoni, e la distinzione delle famiglie e delle possidenze.23

Il rapporto fra famiglia e società fornisce un primo esempio dell’errore metodologico di quei filosofi che scambiando la causa con l’effetto sono ricorsi surrettiziamente a istituti convenzionali in realtà sorti soltanto dopo la fondazione della società con l’intento di dimostrare che essa è sempre esistita fra gli uomini:

gli effetti della società, quello che sola la società ha reso necessario, quello che non è vero se non posta la società, che senza questa non avrebbe avuto luogo ec., si fanno tuttogiorno servire nelle argomentazioni de’ filosofi a dimostrare la naturale sociabilità dell’uomo, la necessità della società assolutamente e secondo la nostra natura ec.24

Un discorso in parte analogo va fatto a proposito del linguaggio. Se la capacità di esprimersi attraverso la parola appariva a Buffon come un dato innato fin dalle origini nell’essere umano, viceversa Leopardi è disposto ad ammettere nella dotazione dell’umanità primitiva solo la capacità di emettere suoni inarticolati e di utilizzare un numero limitato di segni rudimentali, mentre interpreta l’estrema difficoltà nel dotarsi di uno strumento di comunicazione convenzionale ampiamente diffuso, che richiese difatti un processo molto lungo per essere conquistato, come una delle prove che smentisce l’ipotesi per cui la condizione associata corrisponda ad un disegno riconducibile all’intenzione della natura:

Una nuova considerazione intorno agli ostacoli che la natura avea posto all’incivilimento. Giacchè l’incivilimento essendo opera della società, e andando i suoi progressi in proporzione della estensione di essa società e del commerci scambievole ec.; e per l’altra parte, l’istrumento principale della società essendo la lingua, e questa avendo fatto la natura che non potesse essere uniforme se non fra pochissimi; si viene a conoscere come anche per questa parte la natura si sia opposta alla soverchia dilatazione e progresso della società, ed all’alterazione degli uomini che ne aveva a seguire. Opposizione che non si è vinta, se non con infinite difficoltà, con gli studi, e con cento mezzi niente naturali, facendo forza alla natura, come si sono superate tutte le altre barriere che la natura avea poste all’incivilimento e alla scienza.25

23 Zib., 250.

24 Zib., 3804; 25-30 ottobre 1823. 25 Zib., 937-938; 12-13 aprile 1821.

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E si tenga presente che per Leopardi il linguaggio è il supporto necessario per l’acquisizione e la fissazione della conoscenza e quindi è la premessa per lo sviluppo del processo di civilizzazione:

Considerando per una parte quello che ho detto p. 937. seguenti, intorno alla naturale ristrettezza e povertà delle lingue, e come la natura avesse fortemente provveduto che l’uomo non facesse fuorchè picciolissimi progressi nel linguaggio, e che il linguaggio umano fosse limitato a pochissimi segni per servire alle sole necessità estrinseche e corporali della vita; e per l’altra parte considerando le verissime osservazioni del Soave […] e del Sulzer […] intorno alla quasi impossibilità delle cognizioni senza il linguaggio, e proporzionatamente della estensione e perfezione ec. delle cognizioni, senza la perfezione, ricchezza ec. del linguaggio; considerando, dico, tutto ciò, si ottiene una nuova e principalissima prova, di quanto il nostro presente stato e le nostre cognizioni sieno direttamente e violentemente contrarie alla natura, e di quanti ostacoli la natura vi avesse posti.26

In generale, gli illuministi forniscono un’immagine falsata sul piano antropologico, nel momento in cui tendono a contrabbandare potenzialità effettivamente presenti nell’uomo primitivo, ma che non necessariamente avrebbero dovuto svilupparsi, per essenze che da sempre lo individuano rispetto alle altre specie animali:

Di molte facoltà umane che si considerano come naturali, o poco meno, o volute dalla natura ec., considerandole bene si vedrà, che la natura non ne avea posto nell’uomo neppure (per dir così) la disposizione, una disposizione cioè determinata, diretta, vicina, ma così lontana, ch’essa non è quasi altro che possibilità. Così è. Infinite sono e comunissime e giornaliere quelle facoltà umane, delle quali l’uomo non deve alla natura, altro che la purissima possibilità di acquistarle, e contrarle.27

Queste osservazioni risultano calzanti in special modo proprio in riferimento al problema dell’origine del linguaggio:

26 Zib., 1053-1054; 15 maggio 1821. 27 Zib., 2152; 23 novembre 1821.

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I muti hanno essi la facoltà della favella? No certo. Eppur quanto alla favella n’hanno tutta la

disposizione naturale quanta n’ha il miglior parlatore del mondo. Ma questa non è altro che possibilità, la quale il muto non riduce mai all’atto e non adopera in verun modo, perchè non

avendo udito, non impara dagli altri (cioè non si avvezza) a farlo, e coll’assuefazione, di cui non ha il mezzo, non acquista la facoltà. Ecco che cosa sono tutte le pretese facoltà naturali ed ingenite nell’uomo. E qual si crede più naturale della favella? principal caratteristica dell’uomo, e suo maggior distintivo dai bruti.28

Sempre in tema di confusione fra prima e seconda natura, Leopardi avverte che l’impulso apparentemente genuino e spontaneo di comunicare agli altri il nostro mondo interiore è percepito come tale soltanto perché funziona ed opera come una sorta di riflesso condizionato che si produce in maniera automatica nell’uomo

sociale, il quale a stento riuscirebbe ad immaginarsi privo di esso:

Non solo […] il piacere che si prova, ma anche alcuni incomodi (oltre i dolori delle sventure ec.) si vogliono quasi per naturale inclinazione partecipare agli altri, e questa partecipazione ci diletta, e ci dà pena il non conseguirla. Ne inferirai che dunque l’uomo è fatto per vivere in società. Ma io dico anzi che questa inclinazione o desiderio, benchè paia naturale, è un effetto della società, bensì effetto prontissimo e facile,perchè si dimostra anche ne’ fanciulli, e forse più spesso che negli adulti.29

E oltretutto il desiderio di espandere e condividere le nostre sensazioni può essere interpretato come un effetto secondario dell’aspirazione a riscuotere l’attenzione degli altri più che come una reazione naturale dell’animo:

Moltissimi piaceri non son quasi piaceri, se non a causa della speranza e intenzione che si ha di raccontarli. Tolta questa vi troveremmo un gran vuoto. Questa rende piacevoli le cose che non lo sono, anche le dispiacevoli ec. ec. Questi effetti però ponno riferirsi all’ambizione, al desiderio di parere interessante, ec. non a quello di comunicare e dividere le proprie sensazioni.30

Come è in parte già emerso dal contributo dell’Enciclopedia, nel clima culturale dell’Illuminismo godeva di ampio credito l’assunto in base al quale il

28 Zib., 2391; 20 febbraio 1822. 29 Zib., 230; 4 settembre 1820. 30 Zib., 1583; 29 agosto 1821.

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senso morale nei suoi contorni essenziali non andava interpretato come un risultato della pratica sociale, ma apparteneva alla costituzione naturale dell’uomo. Per comprovare l’idea del carattere naturale della vita associata, era infatti piuttosto diffusa la tendenza ad affermare l’esistenza di una legge naturale preesistente al diritto positivo, che risultava impressa nella mente di tutti gli uomini in modo tale da prescrivere ad essi gli obblighi essenziali a cui ciascuno era tenuto nei confronti dei propri simili. Questa concezione della legge naturale come norma razionale oggettiva insita nell’animo umano che spetta all’autorità politica rendere coattiva era stata formulata da Locke nei seguenti termini:

Lo stato naturale è governato da una legge di natura che è per tutti vincolante; e la ragione, che è poi quella legge stessa, insegna a chiunque soltanto voglia interpellarla che, essendo tutti gli uomini eguali e indipendenti, nessuno deve ledere gli altri nella vita, nella salute, nella libertà o negli averi.31

Da parte sua, Leopardi respinge seccamente l’idea secondo cui nel soggetto siano operanti sentimenti morali innati e universali, poiché considera i valori etici come il frutto delle convenzioni umane:

la legge naturale […] potrà esser considerata come un sogno. […] mettetevi nello stato primitivo dell’uomo. Vedrete che il far male agli altri per vostro bene non vi ripugna. Il vostro simile in natura non è una cosa così inviolabile, come credete. L’uomo solitario e selvaggio fa mondo da se, e il suo simile è come un’altra fiera del bosco.32

La natura in quanto natura assoluta e primitiva non ci ha dato idea di altri doveri che verso noi stessi, ed ha limitato le norme del giusto ai rapporti che l’animale ha con se stesso. […] eziandio nella propria specie, l’uomo assolutamente primitivo, non sente ingenitamente nessuna colpa a far male a’ suoi simili per suo vantaggio, come non la sentono gli altri animali[…].33

31 J. Locke, Trattato sul governo, cit., p. 6. 32 Zib., 209; 14 agosto 1820.

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L’uomo isolato non aveva bisogno di morale, e nessuna ne ebbe infatti, essendo un sogno la legge naturale. Egli ebbe solo dei doveri d’inclinazione verso se stesso, i soli doveri utili e convenienti nel suo stato.34

A Locke ma soprattutto ai suoi seguaci settecenteschi Leopardi rimprovera la l’incongruenza consistente nell’aver aderito ad un sano metodo empirista in campo gnoseologico da una parte e dall’altra di essersi attardati in ambito morale a difendere forme residue di innatismo che un’applicazione coerente dei loro stessi insegnamenti avrebbe dovuto rendere ormai insostenibili e superate:

Il bambino, quasi appena nato, farà dei moti, per li quali si potrebbe intender benissimo che egli conosce l’esistenza della forza di gravità dei corpi, in conseguenza della qual cognizione egli agisce. Così di moltissime altre cognizioni fisiche che tutti gli uomini hanno, e che il bambino manifesta quasi subito. Forse che queste cognizioni e idee sono in lui innate? Non già: ma egli sente in se ben tosto, e nelle cose che lo circondano, che i corpi son gravi. Questa esperienza, in un batter d’occhio, gli dà l’idea della gravità, e gliene forma in testa un principio: del quale di là a pochi momenti gli parrebbe assurdo il dubitare, e il quale ei non si ricorda poi punto come gli sia nato nella testa. Il simile accade appunto nei principii e morali e intellettuali. Ma le idee fisiche ognun concede e afferma non essere innate: le morali, signor sì, sono.35

Inoltre, argomenta Leopardi, se davvero il comportamento umano fosse vincolato a dei dettami impartiti da questa presunta legge naturale, essa proprio perché costituisce un impulso primario anteriore alla riflessione non dovrebbe corrispondere ad una dotazione esclusiva dell’essere umano, ma a rigor di logica dovrebbe costituire un patrimonio comune anche alle specie animali; senonché un’ipotesi del genere è categoricamente smentita dall’evidenza dei fatti:

è certissimo che l’amor proprio impedisce all’uomo sì nello stato naturale, sì molto più in qualunque altro, di poter mai essere perfettamente buono, cioè di pensieri e di opere perfettamente e perpetuamente consentaneo alla legge che chiamano naturale. […] E che cos’è questa legge naturale, che gli altri animali (perfetti sudditi della natura) non seguono, nè ponno seguire, impediti dallo stesso amor proprio, nè conoscono in verun modo? Non hanno ragione. Hanno però istinto, secondo voi altri, e la legge naturale, secondo voi altri, e la forza stessa del

34 Zib., 1641; 5-7 settembre 1821. 35 Zib., 4253-4254; 9 marzo 1827.

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termine, è istinto innato ec. indipendente dalla riflessione, e quindi dalla ragione. Dunque la legge naturale sarebbe tanto più conveniente agli animali che non hanno ragione da supplirvi; siccome sarebbe quasi una qualità animalesca nell’uomo libero e ragionevole. Secondo me hanno anche il principio di raziocinio, hanno libertà intera, e se la legge naturale è utile anzi necessaria all’uomo, perchè non dunque agli animali, o liberi, o no che sieno? Ora essi, che pur non sono corrotti, e non hanno spento, come voi dite di noi, l’impulso, la voce interna ec. agiscono quotidianamente, e in ogni loro bisogno, in senso contrario a detta legge.36

Ma come emerge da un’altra pagina dello Zibaldone, il bersaglio della polemica più che in Locke (che per la verità si era limitato a proclamare l’esistenza di leggi stabilite dalla natura valide per tutti gli uomini) va individuato in Voltaire, il quale più di altri aveva insistito nella rappresentazione dei principi etici come contenuti immediati della coscienza:

Se l’idea del giusto e dell’ingiusto, del buono e del cattivo morale, non esiste o non nasce per se nell’intelletto degli uomini, niuna legge di niun legislatore può far che un’azione o un’ommissione sia giusta nè ingiusta, buona nè cattiva. Perocchè non vi può esser niuna ragione per la quale sia giusto nè ingiusto, buono nè cattivo, l’ubbidire a qualsivoglia legge; e niun principio vi può avere sul quale si fondi il diritto che alcuno abbia di comandare a chi che sia, se l’idea del giusto, del dovere e del diritto, non è innata o inspirata (come vuole Voltaire, cioè

naturalmente e per innata disposizione nascente nelle menti degli uomini, com’ei son giunti

all’età di ragione) negl’intelletti umani.37

E infine al ritratto di una società civile concorde e operosa consegnata dalle pagine dell’Encyclopédie, Leopardi oppone la denuncia della piramide gerarchica secondo cui si dispongono i rapporti asimmetrici di subordinazione e di dominio implicati dalla divisione del lavoro, di cui peraltro si riconosce la necessità razionale una volta stabilita la convivenza sociale:

L’uomo nasce libero ed uguale agli altri, e tale egli è per natura, e nella stato primitivo. Non così nello stato di società. Perchè in quello di natura, ciascuno provvede a ciascuno de’ suoi bisogni e presta a se medesimo quegli ufficii che gli occorrono, ma nella società ch’è fatta pel ben comune, o ella non sussiste se non di nome, ed è al tutto inutile che gli uomini si trovano

36 Zib., 1458-1459; 6 agosto 1821. 37 Zib., 3349-3350; 4 settembre 1823.

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insieme, ovvero conviene ch’essi si prestino uffizi scambievoli, e provvedano mutuamente a’ loro bisogni. Ma ciascuno a ciascun bisogno degli altri non può provvedere: ovvero sarebbe cosa ridicola, e inutile, che io per esempio pensassi intieramente a te, tu intieramente a me, potendo nello stesso modo viver separati, e far ciascuno per noi. Dunque segue la necessità delle diverse professioni e mestieri, alcuni necessari alla vita assolutamente, ovvero tali quali li avrebbe esercitati l’individuo anche nella condizione naturale; altri non necessari, ma derivati appoco appoco dalla società e conducenti ai comodi e vantaggi che si godono (o si pretende godere) nella vita sociale […]; altri finalmente resi effettivamente necessari dalla stessa società […]. In somma, o la società non esiste assolutamente, o in essa esiste necessariamente la differenza dei mestieri e dei gradi.

Questo porterebbe le nazioni alle gerarchie, e così accadde infatti da principio, e accade ne’ popoli ancora non inciviliti, siccome ne’ civili.38

Nel sommario che precede si è taciuto volutamente il fatto che non tutte le obiezioni mosse alle concezioni antropologiche degli illuministi corrispondono a contributi originali di Leopardi. Come è noto, il fronte compatto formato intorno a questa problematica dai philosophes più in vista era già stato incrinato ad opera dell’intervento di Rousseau, che a partire dal Discorso sulla disuguaglianza aveva invitato a mettere seriamente in discussione la concezione della società umana come un dato ontologico. Stando alle sue ipotesi infatti l’uomo primitivo doveva essere pensato come un soggetto tendenzialmente isolato, che godeva di una condizione di equilibrio fra i propri desideri, limitati ai bisogni fisici elementari, e le risorse offerte spontaneamente dall’ambiente circostante: per questo motivo era ragionevole immaginare che nello stato di natura l’individuo, ancora sprovvisto di linguaggio e di capacità di riflessione ma guidato dal puro istinto, non dovesse percepire alcuna particolare esigenza di rinunciare alla propria libertà personale per riunirsi in società insieme con i propri simili. Rousseau congettura che soltanto in una fase successiva, in concomitanza con il presentarsi di una serie di circostanze fortuite che avrebbero finito per alterare quella condizione di originaria armonia, la fondazione della società, intesa come costruzione artificiale, si rese necessaria alla sopravvivenza dell’uomo. Alla libertà naturale subentrò così un sistema basato su un rapporto di reciproca dipendenza; e il genere umano

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cominciò a descrivere una curva di progressiva decadenza morale da cui non si è ancora risollevato. In particolare le ostilità esplosero dopo la scoperta dell’agricoltura, la spartizione delle terre e la fondazione della proprietà privata: da allora la storia documenta l’ineguaglianza, l’abuso del potere, il vizio, l’asservimento e la degradazione dell’uomo. Ma Rousseau non si ferma ad una condanna senza appello dei guasti prodotti dalla società civile. Nel Contratto

sociale egli infatti si dimostra disponibile ad ammettere la possibilità di una sorta

di riabilitazione condizionata della società. Qualora si riuscisse a costituire un corpo politico purificato da ogni particolarismo e da ogni forma di dipendenza personale grazie all’imperio della volontà generale, l’approdo allo stato civile risulterebbe pienamente riscattato in quanto avrebbe consentito all’uomo di differenziarsi dalle altre specie per assurgere alla dignità di essere intelligente dotato di una propria coscienza morale:

Ce passage de l’état de nature à l’état civil produit dans l’homme un changement très rémarquable, en substituant dans sa conduite la justice à l’instinct, et donnant à ses actions la moralité qui leur manquoit auparavant. C’est alors seulement que, la voix du devoir succédant à l’impulsion physique et le droit à l’appétit, l’homme, qui jusque là n’avait regardé que lui-même, se voit forcé d’agir sur d’autres principes, et de consulter sa raison avant d’écouter ses penchans. Quoiqu’il se prive dans cet état de plusieurs avantages qu’il tient de la nature, il en regagne de si grands, ses facultés s’exercent et se développent, ses idées s’étendent, ses sentimens s’ennoblissent, son âme tout entière s’élève à tel point, que si les abus de cette nouvelle condition ne le dégradaient souvent au dessous de celle dont il est sorti, il devrait bénir sans cesse l’instant heureux qui l’en arracha pour jamais, et qui, d’un animal stupide et borné, fit un être intelligent et un homme.39

Il passaggio dallo stato di natura allo stato civile produce nell’uomo un cambiamento molto notevole, sostituendo nella sua condotta la giustizia all’istinto e dando alle sue azioni la moralità che prima mancava loro. Solamente allora, subentrando la voce del dovere al posto dell’impulso fisico e il diritto al posto dell’appetito, l’uomo, il quale fino allora non aveva considerato che se stesso, si vede obbligato ad agire secondo altri principi e a consultare la sua ragione prima di ascoltare le sue inclinazioni. Sebbene in questo stato egli si privi di molti vantaggi che gli vengono dalla natura, ne guadagna in cambio altri così grandi, le sue facoltà si esercitano e si

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sviluppano, le sue idee si allargano, i suoi sentimenti si nobilitano, tutta la sua anima si eleva a tal punto che, se gli abusi di questa nuova condizione non lo degradassero spesso al disotto di quella da cui è uscito, egli dovrebbe benedire continuamente l’istante felice che lo strappò per sempre da quelle sue condizioni primitive e che di un animale stupido e limitato fece un essere intelligente e un uomo.40

Se Leopardi sottoscrive la pars destruens del pensiero di Rousseau relativa alla contestazione dell’immagine della condizione associata come dato biologico implicito nella natura umana, d’altra parte si mostra a dir poco scettico sulla piena attuabilità della sua proposta politica, perché in generale esclude che la tecnica umana possa mai ambire a poter competere con l’operato della natura:

L’uomo odia l’altro uomo per natura, e necessariamente, e quindi per natura esso, sì come gli altri animali è disposto contro il sistema sociale. E siccome la natura non si può mai vincere, perciò veggiamo che niuna repubblica, niuno istituto e forma di governo, niuna legislazione, niun ordine, niun mezzo morale, politico, filosofico, d’opinione, di forza, di circostanza qualunque, di clima ec. è mai bastato nè basta nè mai basterà a fare che la società cammini come si vorrebbe, e che le relazioni scambievoli degli uomini fra loro, vadano secondo le regole di quelli che si chiamano diritti sociali, e doveri dell’uomo verso l’uomo.41

Queste riserve manifestate da Leopardi nei confronti di Rousseau a proposito del rapporto fra natura e artificio si specificano attraverso considerazioni di carattere antropologico. Il poeta infatti tende a spingersi oltre il dettato del

Discorso sulla disuguaglianza, nel quale l’uomo allo stato selvaggio è sì

presentato come un soggetto a-socievole, cioè non costitutivamente incline alla vita sociale, di cui in origine non avvertiva alcuna necessità, ma non come un essere insocievole (né tantomeno come il più antisociale degli esseri viventi), assolutamente inadatto e refrattario alla società intesa nel senso pieno del termine come comunità solidale e non come mera «adunanza materiale d’uomini»42. Nella peculiare posizione sviluppata da Leopardi invece la denuncia del fatto che la

40

J.-J Rousseau, Il contratto sociale, cit., p. 29.

41

Zib., 2644; 2 novembre 1822. Naturalmente tale perplessità di fondo non significa che su diverse questioni specifiche Leopardi non raccolga stimoli non secondari provenienti non soltanto dai due Discorsi, ma anche dal Contratto sociale.

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«società stretta» non rientra nell’ordine naturale impone la conclusione che essa rappresenta un’alterazione contraria ad esso, e come tale è principalmente un veicolo di degenerazione, un male che si può al massimo arginare potenziando il più possibile le illusioni collettive, ma non sconfiggere: «la natura non si può mai vincere»: in questo senso lo Zibaldone approda ad un pessimismo radicale tendenzialmente estraneo all’opera di Rousseau, nel momento in cui non scorge alcun rimedio che possa riparare all’avvenuto distacco dalla natura:

il genere umano per natura […] è destinato […] ad un grado di società diverso affatto da tutti quelli che in esso lui ebbero luogo dal primissimo principio del suo (così detto) dirozzamento, fino al dì d’oggi […] La quale specie di società essendosi bentosto perduta, niun’altra specie di società perfetta ha potuto mai rimpiazzarla in non so quante migliaia d’anni, nè mai la rimpiazzerà, perchè la natura non si rimpiazza, nè più d’una sola perfezione (cioè del suo naturale stato) può convenire a niuna specie d’esseri creati, e quindi non più d’una felicità.43

Rousseau e questo Leopardi sono concordi nell’individuare nella società l’origine del male: ma il primo appare ancora convinto che una società profondamente rinnovata possa espellere da sé il male; il secondo no.

Tenendo presente sullo sfondo questo materiale pregresso elaborato nello

Zibaldone, è possibile procedere ad una lettura ravvicinata del “trattato”

dell’ottobre 1823. All’interno di esso Leopardi svolge un discorso complesso e articolato, le cui volute argomentative si dispongono tuttavia secondo una limpida architettura intellettuale. La solida struttura intorno a cui si organizza il ragionamento è garantita dalla decisione di prendere in esame i tre elementi che, pur senza segnare una cesura qualitativa netta, risultano presenti in misura maggiore nell’uomo rispetto agli altri organismi viventi, ossia l’intensità dell’amor proprio, l’estensione della coscienza e l’elevato grado di conformabilità, al fine di confutare la tesi della naturalità della condizione sociale, e al tempo stesso di evidenziare come la fondazione della società abbia recato alla generalità

42 Zib., 561; 22-29 gennaio 1821. 43 Zib., 3777-3778; 25-30 ottobre 1823.

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degli uomini più danni che benefici44; in questo senso il queste pagine integrano la spiegazione di ordine psicologico-esistenziale dell’infelicità fornita nella teoria del piacere del luglio 182045.

L’analisi di Leopardi non prende le mosse dalla constatazione della frequenza di determinati fenomeni negativi nel mondo storico, per farne magari il bersaglio di una deprecazione moralistica; il suo discorso procede da considerazioni segnatamente antropologiche per dimostrare con rigore “scientifico” l’oggettiva necessità del prodursi di una serie di effetti deleteri in ogni modello di formazione sociale.

Rispettando l’ordine seguito da Leopardi, si dovrà cominciare dal primo e probabilmente più importante argomento da lui addotto a riprova della sua teoria. Come è noto, egli concepisce l’amor proprio come un’energia biologica innata e inestirpabile che orienta il soggetto al perseguimento esclusivo del proprio bene e trova il suo necessario corrispettivo in un impulso di radicale ostilità nutrito verso gli altri individui: questo rende i rapporti fra gli uomini di natura essenzialmente antagonistica ed è sufficiente ad escludere la socievolezza dalle caratteristiche dell’uomo naturale.

In base a queste premesse di ordine antropologico, è evidente che Leopardi si pone in una posizione di frontale contrapposizione nei confronti delle correnti filosofiche secondo cui è esigua la porzione di azioni individuali potenzialmente nocive per gli altri, e quindi l’eventualità del conflitto può essere considerata episodica. Non soltanto Leopardi non può prendere sul serio nemmeno per un attimo il sogno di una comunità perfetta e finalmente pacificata in cui si era cullata la letteratura utopista, ma non nutre eccessiva fiducia neanche nella possibilità di costruire un modello armonicistico di società, in cui i momenti di

44 Peraltro i due aspetti del discorso sono strettamente connessi: per Leopardi la società in quanto non

rappresenta una condizione naturale è indicata come un fattore che contribuisce all’infelicità del genere umano.

45 Faccio riferimento allo sfondo della teoria del piacere, da tenere costantemente presente nel corso della

trattazione, anche per prevenire l’impressione che l’essenziale della traiettoria descritta dal pensiero leopardiano consista nel rilievo più o meno accentuato assegnato ai mali prodotti dalla società.

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collaborazione dei suoi membri in vista di un fine condiviso prevalgano sulle spinte centrifughe che ne disgregano il tessuto connettivo:

Per società perfetta non intendo altro che una forma di società, in cui gl’individui che la compongono, per cagione della stessa società, non nocciano gli uni agli altri, o se nocciono, ciò sia accidentalmente, e non immancabilmente; una società i cui individui non cerchino sempre e

inevitabilmente di farsi male gli uni agli altri. Questo è ciò che vediamo accadere fra le api, fra le

formiche, fra i castori, fra le gru e simili, la cui società è naturale, e nel grado voluto dalla natura. I loro individui cospirano tutti e sempre al ben pubblico, e si giovano scambievolmente, unico fine, unica ragione del riunirsi in società; e se l’uno nuoce mai all’altro, ciò non è che per accidente, nè il fine e lo scopo di ciascheduno è immancabilmente e continuamente quello di soverchiare o di nuocere in qualunque modo altrui. E talora gli uni fanno male ad alcun degli altri, o tutti ad un solo o a pochi, per lo solo oggetto del ben comune o del ben dei più, come quando le api puniscono le pigre. Nol fanno già esse per il bene di un solo. Nè chi ’l fa, lo fa pel solo ben suo, anzi pel bene ancora di chi è punito. Ed anche questo far male ad alcuno è un cospirare al ben comune. Ma nelle società umane quello non si trovò mai, questo sempre.46

Il che equivale a dire che, per adattare una formula d’autore, nella società umana il male è nell’ordine47.

Constatando la sostanziale inutilità degli sforzi di ogni tipo (sistemi politici, diritto, filosofia, costumi) fatti per rimediare a tale situazione strutturale, Leopardi deduce che

una società perfetta, e niente più perfetta che nel modo spiegato di sopra, senza il quale l’idea della società è contraddittoria ne’ termini; una società, dico, perfetta fra gli uomini, anzi pure una società vera è impossibile.48

L’assuefazione ad una convivenza assidua indubbiamente sviluppa un’esigenza psicologica di rapportarsi agli altri, su cui è possibile costruire un legame fra le persone; ma questo non è neanche lontanamente sufficiente a compensare

46

Zib., 3774-3775 (corsivi miei).

47 Il concetto compare dopo l’Islandese per la prima volta in Zib. 4174 dell’aprile 1826 (è il famoso passo

sul giardino) ed è poi ripreso in Zib. 4511.

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l’avversione che non soltanto la vita sociale non insegna a controllare, ma che anzi moltiplica all’ennesima potenza:

l’odio verso gli altri, qualità come naturale, così distruttiva della vera società, non solo in una società stretta non si scema nulla rispetto ai suoi simili da quel ch’egli era in natura, ma anzi, se non in potenza, certo in atto s’accresce a mille doppi […]. Onde se il vivente, stante il detto odio, è antisociale per natura, in virtù della società stretta, non pur diviene più sociale, ma infinitamente più antisociale che da principio […].49

Se in Rousseau la socievolezza, pur non essendo una qualità innata, è una potenzialità che può svilupparsi nell’uomo, per Leopardi al contrario il contatto assiduo con i propri simili non fa che potenziare la pulsione di odio nutrita verso di loro. Egli individua desolatamente nell’inclinazione a degradare l’altro a strumento della propria personale affermazione l’essenza dei rapporti sociali, fornendoci di essi un ritratto cupo che si traduce in un tragico rovesciamento del kantiano “regno dei fini”:

niente è nè sarà bastante di fare, che l’individuo di qualsivoglia società umana, conformata come si voglia, non dico giovi altrui, ma si astenga dall’abusarsi, o vogliamo dire dal servirsi di qualunque vantaggio egli abbia sugli altri, per far bene a se col male altrui, dal cercare di aver più degli altri, di soverchiare, di volgere in somma quanto è possibile, tutta la società al suo solo utile o piacere, il che non può avvenire senza disutile e dispiacere degli altri individui.50

Come si è visto, nella tradizione settecentesca generalmente si tendeva a fare assegnamento sulla sostanziale identità di bisogni e di interessi, che spinge gli uomini a riunirsi in vista del raggiungimento dell’utilità collettiva: in quest’ottica la proposta dell’Enciclopedia si interrogava sulle condizioni che rendessero possibile realizzare la conciliazione del proprio benessere con quello degli altri:

49 Zib., 3787. Cfr. a questo proposito le intelligenti osservazioni di A. Prete, Il pensiero poetante, cit., p.

120: «Leopardi, come Hobbes, non riconosce allo stato di natura quell’appetitus societatis della tradizione scolastica […]: senonchè l’asocialità dello stato di natura hobbesiano, attraverso la rinuncia al diritto su tutto e il trasferimento di questo diritto ad altri, attraverso il patto, si trasforma nell’“utilità” dello stato civile; l’asocialità dello stato di natura leopardiano si approfondisce con la formazione della “società stretta”, facendo del diverso un disuguale, del simile un avversario».

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Toute l’économie de la Société humaine est appuyée sur ce principe général et simple: je veux

être heureux; mais je vis avec des hommes qui, comme moi, veulent être heureux également chacun de leur côté: cherchons le moyen de procurer notre bonheur, en procurant le leur, ou du moins sans y jamais nuire.51

tutta l’economia della società umana poggia su questo principio generale e semplice: ‘ voglio esser felice; ma vivo con uomini che, come me, vogliono egualmente esser felici, ognuno per proprio conto; cerchiamo di procurarci la felicità, procurandola anche a loro, o almeno senza mai nuocere loro ’.52

Per Leopardi al contrario il divario fra l’incessante desiderio di un piacere senza limiti (acuito dai bisogni indotti dalla civiltà) e la scarsità delle risorse messe a disposizione dalla realtà pone costantemente gli interessi degli individui in contraddizione fra di loro, per cui la soddisfazione dell’uno comporta la privazione dell’altro secondo una legge necessaria:

Una società stretta pone necessariamente in contrasto gl’interessi degl’individui, rende necessario alla soddisfazione dei desiderii degli uni, il male degli altri; alla superiorità, ai vantaggi, alla felicità degli uni, l’inferiorità, gli svantaggi, l’infelicità degli altri; desta il desiderio di beni che non si possono conseguire senza il male degli altri, di beni che consistono nel male altrui, che corrispondono per lor natura ad altrettanti mali degli altri individui, ed altrettali, anzi, per lo più, maggiori che quei beni non sono.53

In termini moderni, si potrebbe affermare che Leopardi concepisce la dinamica sociale come un gioco a somma zero54.

Come è possibile aspettarsi conoscendo la visione disincantata dell’autore, questo conflitto permanente è risolto non in conformità ad un criterio di giustizia, ma secondo la dura legge dei rapporti di forza, intesa in senso lato come

51 Encyclopédie, cit., vol. XV, p. 252. 52

Enciclopedia, cit., pp. 843-844.

53

Zib., 3785-3786.

54 Come si ricorderà, il rapporto istituito fra libertà e schiavitù nel mondo antico risponde esattamente a

questo schema. Cfr. quanto Leopardi scrive nell’aprile del 1821 in Zib., 912: «la libertà vera e perfetta di un popolo non si può mantenere, anzi non può sussistere senza l’uso della schiavitù interna».

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disponibilità, in una dose superiore alla media, degli strumenti di varia natura (vigore fisico, potere, ricchezza, astuzia) che consentono di prevalere nella lotta competitiva:

è cosa certissima che tutto il mondo è il patrimonio della forza (sia fisica, cioè vigore, sia morale, cioè ingegno, arte ec. ch’è tutt’uno), e ch’egli è fatto per li più forti, ne segue che in una società stretta, inevitabilmente, qualunque forma se gli possa mai dare, i più deboli individui denno essere, furono sono e saranno la preda, la vittima, il retaggio de’ più forti. Onde non si può assolutamente dare, molto meno fra uomini, una società stretta, che ottenga il fine della società, cioè il ben comune degl’individui che lacompongono, ed il cui risultato sia il detto ben comune. Senza di cui la società non può avere ragione alcuna.55

La società stretta contraddice la ratio stessa che in linea teorica giustificherebbe la riunione stabile degli uomini in comunità organiche, cioè l’applicazione della volontà di ciascuna alla realizzazione dell’interesse pubblico; ed anche a un’analisi puramente quantitativa, è facile osservare che le qualità necessarie a imporsi sugli altri sono immancabilmente riservati a una minoranza portatrice di interessi specifici difficilmente conciliabili con quella che Rousseau avrebbe chiamato la “volontà generale”:

una società stretta nuoce necessariamente a grandissima parte (e la maggiore, perchè i più deboli sono sempre i più) de’ suoi individui: dunque il suo effetto è il contrario del fin proprio ed essenziale della società, ch’è il bene comune de’ suoi individui, o almeno dei più: dunque ella è il contrario di società, e ripugna per essenza non pure alla natura in genere, ma alla natura e alla nozione stessa della società.56

Per individuare la posizione di Leopardi può essere illuminante articolare ulteriormente il confronto con l’articolo dell’Enciclopedia dedicato specificamente al tema della società. Recependo l’orientamento egemone espresso dai Lumi, in esso da un lato si postulava l’uguaglianza naturale degli uomini, ma dall’altro veniva respinta l’uguaglianza politica come un’utopia pericolosa per l’ordine sociale. Al fine di mediare fra le due istanze, si sosteneva la necessità che

55 Zib., 3781. 56 Zib., 3786.

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coloro a cui spettavano le posizioni di potere le legittimassero attraverso il perseguimento del bene comune; ove questo patto venisse infranto, sarebbe compromessa gravemente la tenuta interna del corpo sociale:

si le bien public demande que les inférieurs obéissent, le même bien public veut que les supérieurs conservent les droits de ceux qui leur sont soumis, et ne les gouvernent que pour les rendre plus heureux. Tout supérieur ne l’est point pour lui même, mais uniquement pour les autres; non pour sa propre satisfaction et pour sa grandeur particuliere, mais pour le bonheur et le repos des autres. […]

Tel est le contrat formel ou tacite passé entre tous les hommes, les uns sont au-dessus, les autres au-dessous pour la différence des conditions; pour rendre leur société aussi heureuse qu’elle le puisse être; si tous étoient rois, tous voudroient commander, et nul n’obéiroit; si tous étoient sujets, tous devroient obéir, et aucun ne le voudroit faire plus qu’un autre; ce qui rempliroit la société de confusion, de trouble, de dissension; au lieu de l’ordre et de l’arrangement qui en fait le secours, la tranquillité, et la douceur. Le supérieur est donc redevable aux inférieurs, comme ceux-ci lui sont redevables; l’un doit procurer le bonheur commun par voie d’autorité, et les autres par voie de soumission; l’autorité n’est légitime, qu’autant qu’elle contribue à la fin pour laquelle a été instituée l’autorité même; l’usage arbitraire qu’on en feroit, seroit la destruction de l’humanité et de la société.57

se il bene pubblico richiede che gli inferiori obbediscano, lo stesso bene pubblico vuole che i superiori osservino i diritti di coloro che sono sottomessi loro, e che li governino solo per renderli più felici. Ogni superiore non è tale per se stesso, ma unicamente per gli altri; non per la propria soddisfazione o per la propria privata grandezza, ma per la felicità e la tranquillità altrui. […]

Tale è il contratto formale o tacito intercorso tra tutti gli uomini: gli uni sovrastano e gli altri sottostanno, secondo la differenza delle condizioni, onde rendere la società felice quanto può esserlo; se tutti fossero re, tutti vorrebbe comandare e nessuno obbedirebbe; se tutti fossero sudditi, tutti dovrebbero obbedire, e nessuno vorrebbe farlo più di un altro; il che riempirebbe la società di confusione, di disordine, di disaccordo, in luogo dell’ordine e della disciplina che ne costituiscono la saldezza, la tranquillità e la dolcezza. Il superiore è dunque obbligato verso gli inferiori, come anch’essi gli sono obbligati; l’uno deve procurare la felicità comune per via di autorità, e gli altri per via di sottomissione; l’autorità è legittima soltanto finché opera secondo la finalità per la quale è stata istituita; l’uso arbitrario che si potrebbe farne sarebbe la distruzione dell’umanità e della società.58

57 Encyclopédie, cit., vol. XV, pp. 253-254. 58 Enciclopedia, cit., pp. 846-847.

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Viceversa l’approccio di Leopardi ritorce contro la filosofia sociale illuminista le sue stesse categorie fondanti: la pericolosa eventualità che per il compilatore dell’Enciclopedia doveva essere assolutamente scongiurata per non travolgere la ragione stessa del patto sociale corrisponde ad una prassi abituale: l’abuso è interpretato infatti come la norma di fatto prevalente nei rapporti politici, originati per lo più dalla coercizione e non dal libero consenso degli individui (come voleva lo schema contrattualista), mentre una gestione dell’autorità improntata ad una saggia amministrazione è ammessa tutt’al più come un’eccezione alla regola:

il comando e la soggezione fra gli uomini è incontrastabilmente inevitabile che sebbene utili per istituto, il più delle volte sieno anzi dannosissime in effetto a chi ubbidisce e sottostà […]. Ed è ancora inevitabile che non di rado, (anzi quasi sempre), il comando e la signoria per l’origine medesima e per istituto sieno dirette al danno de’ sottoposti ed al solo bene de’ signori: come sono le signorie acquistate per viva forza o per arte, contro il volere e l’intenzione de’ subbietti, le quali si chiamano tirannie. E certo è che tutti o la più parte de’ principati passati e presenti hanno avuto principio dalla forza o dall’artifizio, e che tutti i troni d’Europa si possono, genealogizzando, far risalire a queste radici.59

In base a questa consapevolezza, riecheggiando l’ammonimento contenuto nel passo citato dell’Enciclopedia, Leopardi può legittimamente concludere che la società effettivamente risulta dissolta: e infatti a suo modo di vedere «una società vera è impossibile».

Il dato dell’oppressione “dispotica” esercitata dalla categoria dei forti nei confronti della massa dei deboli non può essere aggirato, perché basterebbe di per sé a giustificare il sospetto che una società stabile potrà essere un acquisto positivo per un’élite, ma alla maggior parte degli uomini non contribuisce a recare benefici apprezzabili: anche limitandosi ad un discorso che tenga presente esclusivamente il fattore numerico, se si volessero soppesare i pro e i contro attribuibili al consorzio sociale, per Leopardi è abbastanza evidente da quale parte dovrebbe pendere la bilancia; ma anche dal punto di vista qualitativo, non vi è proporzione

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fra l’entità delle acquisizioni, comunque limitate, e gli enormi costi che esse comportano.

I «filosofi» insomma non possono presentare i presunti valori assicurati dalla società come un patrimonio condiviso in termini universalistici. Leopardi sembra prefiggersi un compito di strenua demistificazione, che consenta di collocare nella giusta luce i risvolti drammatici trascurati dalla retorica dei fautori delle «magnifiche sorti» prospettate dalla civilizzazione; mostrare la reale consistenza di tali negativi risvolti sottovalutati o fraintesi dal paradigma culturale dominante permette di smascherare la filosofia sociale dell’Illuminismo come una falsa ideologia, colpevole di aver rappresentato alla stregua di un giovamento per la totalità degli uomini il prodursi nella società di vantaggi di cui in realtà usufruiscono esclusivamente gruppi particolari a scapito di tutti gli altri60.

L’antagonismo descritto nel “trattato” quindi non concerne esclusivamente il tenore delle relazioni private fra gli individui, ma nella sua essenza si riproduce a tutti i livelli, e si estende anche ai rapporti fra soggetti collettivi, come le formazioni politiche, le classi o le nazioni. Per dimostrare l’insocievolezza estrema dell’uomo Leopardi sceglie in particolare di approfondire il tema della guerra proprio perché lo ritiene l’esempio più lampante della terribile carica distruttiva che il contatto sociale scatena ai danni della specie nel suo complesso61. Già fra le popolazioni selvagge, il primo effetto rimarcabile prodotto dall’aggregazione fra gli uomini consiste nelle devastazioni e nelle carneficine prodotte dalle continue guerre, che non potevano concludersi se non con l’annientamento completo del nemico:

60 Sulla tendenza all’occultamento del prezzo da pagare per l’edificazione della civiltà cfr. A. Prete, Il

pensiero poetante, cit., pp. 128-129. Pur senza voler discutere il senso complessivo delle pagine assai perspicaci appena citate, mi permetterei di precisare soltanto che Leopardi rimprovera ai filosofi non tanto una rimozione totale dei malanni dai quali sono affette le società umane, di cui essi non negavano l’esistenza, quanto soprattutto un’incomprensione delle loro cause reali.

61 Rimarcare la frequenza di questo flagello era anche un modo per denunciare le illusioni di certa

sensibilità cosmopolitica, impegnata a profilare i contorni di una sola grande società che riuniva tutto il genere umano.

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