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Parte I

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1. INTRODUZIONE

La coscienza del proprio patrimonio è il primo e decisivo passo verso la salvaguardia e la valorizzazione dei beni culturali e ambientali;

evidentemente, ogni intervento in questa direzione, compreso quello che sarà descritto in questo lavoro, sarà più difficilmente realizzabile lì dove questa coscienza difetta o manca completamente.

Negli ultimi anni molte piccole realtà italiane hanno scoperto i benefici che si possono trarre dalla valorizzazione della propria storia, delle tradizioni e della cultura. Non sfugge a questa logica la comunità analizzata in questo lavoro che proprio recentemente ha iniziato ad affrontare un discorso di riscoperta delle proprie radici e, parallelamente, a focalizzare l’attenzione sui modi per riappropriarsene attraverso una divulgazione didattica ad una cittadinanza finora poco attenta e male informata a riguardo, anche e soprattutto a causa delle pessime condizioni in cui versano le testimonianze storiche della città dopo decenni di abbandono.

Il lavoro prospettato attraverso le ricerche e il progetto relativo a questa tesi di laurea si inseriscono in tale contesto. Nello specifico, si tratta di un progetto di valorizzazione e riqualificazione storico-paesaggistica di una delle pochissime aree rimaste libere dal cemento nel comune di Colleferro, luogo in cui convergono la modernità della la sua vocazione industriale e la storia millenaria del territorio dove il comune si è sviluppato negli ultimi settanta anni. Con più precisione il sito scelto rappresenta l’unica area comunale avente una storia con radici così antiche e importanti: si tratta del colle dove sorge il Castello Vecchio, una struttura architettonica alto- medioevale oggi nel più completo abbandono, prossima a un insediamento urbano novecentesco con caratteristiche assai particolari.

Sotto la spinta nuova e crescente che l’amministrazione comunale sta

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rivolgendo al proprio patrimonio, con il presente lavoro si cerca di raggiungere due obiettivi necessari e paralleli: rendere fruibile un’area verde di grande interesse storico (proprio per la presenza dell’antico Castello) e iniziare un processo relativo al potenziamento del verde urbano in un territorio (bassa provincia di Roma) che, proprio a causa della sua spinta industrializzazione, si è ritrovato in questi anni a fronteggiare uno dei più gravi disastri ambientali nella storia di tutta la regione (del quale si dirà in seguito).

La struttura urbana di Colleferro fa idealmente riferimento alle teorie

“comuniste” degli utopisti ottocenteschi che trovano concreta attuazione solo nei primi decenni del Novecento e per mano di alcuni capitalisti europei (Crespi, Rossi, Leumann). Questi ultimi intraprendono la costruzione di villaggi industriali con una nuova organizzazione sociale, nella quale la dimensione lavoro-fabbrica sarebbe apparsa talmente totale da divenire unità di misura di tutte le cose, per altro giudicate da un padrone che diviene culturalmente padre di tutta la comunità (AA.VV., 1984). Tali comunità spesso si caratterizzano per una profonda cultura di dipendenza da quel sistema paternalistico. Con il venir meno di questo sistema (diventeranno presto superflue le gestioni di “piccoli sistemi totali” e il capitale industriale sarà indirizzato ad interventi più ampli) si scatena qualcosa di assimilabile ad una crisi d’identità. La storia di queste comunità finisce così per oscillare fra la passiva accettazione di un sistema e il rigetto dello stesso. In ogni caso, secondo studi recenti (Marozza, 1984), si perde la capacità di avere una lettura critica dell’ambiente sociale. In questo modo la memoria storica è rimossa e quelli che dovrebbero essere i beni culturali della comunità (manufatti industriali, tipologie urbanistiche, etc.) vengono vissuti passivamente e non difesi, non acquisiti dalla coscienza collettiva.

Un identico discorso può essere affrontato per tutti quei beni storici

appartenenti a tali comunità; edifici monumentali di un passato più o meno

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recente rimangono abbandonati all’usura del tempo e all’incuranza, esattamente come avviene per il sito oggetto di questa tesi.

Lo studio dell’area che vede sorgere il castello di Colleferro e il recupero di un insieme paesaggistico in stato di abbandono verrà affrontato scegliendo un punto di vista particolare, che si inserisce in un discorso culturale incentrato sulla divulgazione delle tematica del giardino storico, in particolare di quello medioevale, epoca nella quale il castello fu edificato. Il progetto terrà ovviamente conto delle esigenze di verde urbano di cui necessita la città, ma fonderà queste ultime con spazi e percorsi didattici destinati invece alla scoperta e all’apprensione di una tipologia di giardino storico poco nota eppure tanto frequente nelle epoche passate in tutta la penisola.

Per operare in questa direzione, si è scelta la soluzione del parco

tematico (annesso a un’area prevalentemente ricreativa) che assume una

valenza sia storica sia paesaggistica, rispondendo alle due differenti

problematiche che affliggono lo stesso territorio: l’abbandono del

patrimonio storico e il degrado ambientale.

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2. CENNI SUL CONCETTO DI PARCO TEMATICO

La fortuna dei parchi tematici, proliferati in questi anni in tutto il mondo, è legata principalmente al fatto che oltre a divertire questi insegnano qualcosa.

Spesso ci si trova di fronte a strutture dedicate allo svago (Disneyland è l’esempio più celebre), ma non mancano altre tipologie in cui le tematiche proposte sono volte all’approfondimento della storia, della scienza, del territorio. Si passa così dalla città medievale alla città del cinema, dal mondo rurale all’ambiente naturalistico (botanica, vulcanologia, etc.); i servizi offerti sono, naturalmente, di tipo didattico e formativo, ma negli ultimi tempi si sono sviluppate le possibilità di soggiornare, dormire e mangiare sul posto, all’interno o in prossimità del parco stesso.

Facciamo pure qualche esempio.

Il Bunratty Folk Park (Figura 1), in Irlanda, è uno dei più importanti parchi tematici con indirizzo storico realizzati in Europa. Ricrea la vita urbana e rurale di un villaggio vittoriano del IX secolo; in esso il visitatore viene condotto nel paesino dove sono stati ricostruiti tutti gli edifici tipici dell’epoca, dal cottage del contadino alla residenza del signore di campagna.

Figura 1 - Bunratty Folk Park, Irlanda.

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Oltre all’architettura dell’epoca viene anche ricreata l’atmosfera, con i mestieri degli artigiani e dei contadini: il fabbro, il panettiere, la maestra di scuola, il poliziotto, il contabile di banca, l’azienda agricola con tanto di animali e utensili per il lavoro nei campi. Inoltre, il parco offre la possibilità di effettuare percorsi didattici per le scuole in cui gli studenti vengono guidati in un percorso attraverso i secoli, dalla preistoria al XIX secolo, per conoscere la storia dell’Irlanda. Il risultato è che, in breve tempo e divertendosi, si fa un tuffo nel passato dell’Irlanda ottocentesca apprendendo la sua storia e le sue tradizioni.

(http://www.tafter.it/dettaglio.asp?id=181)

Il parco di Vulcania si trova nel cuore della Francia (Auvergne) ed è considerato il primo parco europeo del vulcanismo. Vulcania porta i visitatori in un viaggio alla scoperta dei vulcani e del centro della terra attraverso filmati, schermi interattivi e percorsi tra rocce vulcaniche, colate di lava e discese in profondi crateri.

(http://www.vulcania.com/spip.php?article290)

Tropical Islands è stato costruito sotto una cupola nella Germania orientale. Al suo interno è stato ricreato artificialmente lo scenario dei tropici, con spiagge bianchissime e acque cristalline, e dove i visitatori possono affittare camere con vista mare, oppure portarsi la tenda da campeggio e dormire direttamente sulla spiaggia.

(http://www.parksmania.it/parco.php?pid=628)

L’Italia in Miniatura (Figura 2) è, invece, un parco tematico italiano

situato sulla costa Adriatica. Si tratta di un percorso a metà strada tra il

gioco e la conoscenza del territorio che si snoda sulla riproduzione in scala

della nostra penisola (http://www.italiainminiatura.com/ )

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Figura 2 - L'Italia in miniatura.

Nell’ultimo decennio si è assistito ad un particolare fenomeno di sensibilità rispetto a questo tipo di parchi che ha portato comuni e scuole (spesso in collaborazione) alla creazione di piccoli parchi tematici all’interno di asili e scuole pubbliche. Il “5 libera tutti” è un giardino didattico che nasce nell’ottobre 2004 nel quartiere Laurentino a Roma, proprio all’interno di un asilo. Un giardino davvero particolare, perché particolari sono i loro fruitori: i bambini. Doveva essere ovviamente bello, divertente, profumato e tranquillo. L’odore delle piante, il sapore dei suoi frutti, la vista della loro forma, esercitano infatti una grande influenza sulle emozioni e sui comportamenti delle persone e quindi anche dei bambini. È importante sottolineare che la realizzazione di un giardino didattico vede in prima persona gli utenti come attori critici delle dinamiche che portano allo sviluppo di questa struttura. Questo accade perché l’elemento naturale, in quanto tale, necessita di interazioni consapevoli e quotidiane: dalla realizzazione del luogo alla manutenzione consapevole e costante anche durante i periodi di chiusura delle scuole. Il giardino si rende fondamentale per sviluppare potenzialità comportamentali ecologiche affinché questo venga letto come elemento interrelazionale della naturalità e come una parte costante del proprio mondo.

(http://www.greenflora.it/giardino_didattico.htm).

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Figura 3 - 5 libera tutti, Roma.

Restando in Italia, l’esempio più classico e probabilmente più attinente a questo lavoro è un’opera del più grande paesaggista del nostro Paese: il Paese dei Balocchi di Pietro Porcinai. Non poteva che nascere a Collodi (come ampliamento del già esistente Parco di Pinocchio) dove l’antico villaggio è rimasto come un secolo fa: una cascata di case che termina a ridosso della Villa Garzoni e del suo scenografico Giardino e dove lo scrittore Carlo Lorenzini trascorse la sua infanzia. Si tratta di un percorso fantastico (fiabesco) attraverso oltre un ettaro di macchia mediterranea, ornato da ventuno sculture in bronzo e acciaio di Pietro Consagra (http://it.encarta.msn.com/media_221633476_761556395_1_1/Collodi_Il_p aese_dei_balocchi.html).

Quanto al tema del Medioevo, l’unico esperimento di parco tematico in

Italia è stato proposto in una mostra temporanea (dal giugno 2007

all’ottobre 2008), allestita nella Rocca Borromeo, sul lago Maggiore

(Varese), nella quale si illustrava anche un progetto di giardino. Un’equipe

di architetti, storici e museologi alla quale la principessa Bona Borromeo ha

affidato l’incarico (Daniele Jalla, Luisella Italia, Massimo Venegoni, Mauro

Ambrosoli e Lucia Impelluso), si è preoccupata di raccogliere informazioni

soprattutto da testi e dipinti dell’epoca, individuando in seguito diverse

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tipologie di giardino. Il percorso realizzato è costantemente affiancato da spiegazioni simboliche (poste sulle pareti delle sale) degli elementi costituenti ciascun giardino. Attualmente, i tre giardini riproposti sono stati allestiti nelle sale della Rocca, ma già nella prossima primavera sarà possibile ammirare le piante poste a dimora nel giardino della Rocca stessa.

Il percorso espositivo nelle Sale Scaligere rimanda alle immagini dei manoscritti miniati del Roman de la Rose e della Citè des Dames, ai ragazzi e poi alle ragazze del Decameron, ai testi di Piero de’ Crescenzi sui lavori agricoli (http://www.finesettimana.it/festa.asp?id=33059).

A Vasanello (Viterbo), all’interno di un castello decisamente ben conservato, è stato ricostruito un giardino di piante autoctone anteriori alla scoperta dell’America, sulla base di due importanti documenti: la pianta dell’Abbazia di San Gallo del 756 e il Capitolario De Villis di Carlo Magno con la sua lista di piante.

(http://galleriamedievale.blog.dada.net/post/541010/%22Oltre+il+giardino+

+Ceramisti,+Botteghe+d'Arte+e+Piante+Antiche+nel+Castello+Orsini+di+

Vasanello%22).

Figura 4 - Il giardino del castello di Vasanello, Viterbo.

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L’analisi di questi ultimi due parchi tematici è stata di ausilio anche ai

fini del presente lavoro dedicato al parco tematico di Colleferro. In entrambi

i casi, infatti, si è fatto largo uso di testi medievali per la comprensione

prima e la riproposta poi del giardino medievale, esattamente come è

avvenuto per l’elaborazione della presente tesi.

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3. CENNI STORICI SULL’ARTE DEI GIARDINI

L’arte dei giardini, come tutti gli altri fenomeni relativi al genio dell’uomo, è strettamente legata alle tendenze sociali e religiose di un’epoca.

La sua evoluzione nel corso dei secoli rappresenta allo stesso tempo un documento storico e la sua chiave di lettura. Gli elementi esistenti al suo interno hanno subito variazioni nell’importanza che le civiltà hanno loro dato, ma la loro presenza è rimasta tale sia nel tempo che nello spazio. In altre parole, non esiste un giardino che non sia in qualche modo un quadro offerto agli occhi o ancora una creazione architettonica. A seconda del frammento storico focalizzato, questa o quella di tali costanti prenderà il sopravvento, ma non cesserà mai di esistere all’interno del giardino. Il continuo oscillare tra naturalezza e artificio, tra estetica pittoresca ed estetica architettonica, tra sensazione e struttura, costituisce l’evoluzione stessa dell’arte dei giardini e permette di definire e “classificare” i diversi stili (Grimal, 2005). Non sempre esiste però un chiaro collegamento tra la collocazione temporale di un giardino e lo stile che maggiormente lo definisce, anche per le ovvie difficoltà di conservazione, nel tempo, dei suoi elementi costituenti. I materiali di un giardino sono evidentemente fragili, per cui dei giardini antichi la storia ha di frequente consegnato al mondo contemporaneo “solo” la descrizione di un poeta o la visione più o meno veritiera di un pittore. Così, i giardini del mondo arabo o della Persia non ci appaiono più se non attraverso evocazioni quasi leggendarie. Eppure, l’arte del giardino non può essere considerata meno importante dell’architettura:

Se si ripercorrono le pagine della storia dell’uomo, ci si renderà conto che

nessuna civiltà è mai stata priva dei suoi giardini. Gli elementi che li

costituiscono, come l’acqua, la luce, le piante, risvegliano nell’uomo

sensazioni profonde e spesso irrinunciabili. Gli alberi crescono e muoiono

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come succede agli uomini, ma mentre in natura la vita stessa delle piante è spesso ostile, nel giardino diventa amica. Questa è la sua prima e forse più grande conquista. Da epoca a epoca, gli stili tenderanno a sfumare più o meno lentamente verso evoluzioni spesso inattese, senza che manchino collegamenti col passato meno recente o tentativi di rottura con lo stesso.

Sarebbe superficiale, ad esempio, non vedere nessi tra il giardino inglese e l’arte classica che pare volesse rinnegare, o tra il giardino rinascimentale e quello romano distante più di mille anni (Grimal, 2005).

Il giardino Medievale, che si è preso come tema di questa tesi, non sfugge a questa logica. Perso nel buio di lunghi secoli poco documentati e certamente per niente floridi e felici, resta aggrappato a quel sottile filo conduttore che lo collega al mondo antico. Pur con un nettissimo cambiamento sul piano politico (caduta dell’Impero Romano) e parallelamente religioso (passaggio dal paganesimo al cristianesimo), è evidente che l’arte dei giardini nell’età di mezzo (come è sintetizzato nelle pagine seguenti) ripropone temi già visti in epoca romana, già noti nell’antica Grecia o nel lontano Oriente. Resta infatti quel binomio forte che lega la natura alla religione, alla perfezione, ma anche all’ideale di vita, al riposo, alla contemplazione. Chi ha vissuto e rappresentato o raccontato del giardino medievale è indubbiamente ispirato all’arte romana, alla sua idea di paesaggio. Scrivono Cardini e Miglio (2002) che nel tardo Medioevo (XII secolo) il giardino entrava trionfalmente nelle corti europee per il tramite della cultura francese (cortese) e non senza l’influenza dei modelli orientali e di quelli latini, che comportava l’incontro con gli horti romani della tarda Repubblica e dell’Impero. E in ugual misura, sarebbe assolutamente fuori luogo non notare una continuità nell’arte rinascimentale, nel giardino all’italiana, con le sue forme rigide e precise, con il suo ordine.

Il giardino medievale è esattamente questo: disciplina e regola, le sue forme

sono sempre nette, squadrate. Ma ha qualcosa che lo distingue da tutte le

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altre arti delle epoche precedenti e successive: il giardino medievale è un

ambiente sempre chiuso, non solo riservato, ma protetto. L’esterno, ciò che

può esserci fuori dalle mura di un castello, di un monastero, è ostile,

pericoloso, insicuro. Il giardino diventa quindi rifugio e riparo; a volte sarà

un orto da lavorare per i frutti che darà e che in periodi bui possono

tracciare la linea che separa la morte dalla sopravvivenza, a volte sarà

campionario di erbe medicinali o aromatiche, a volte sarà spazio ombroso o

ventilato per conversare o ascoltare musici, e ancora, a volte sarà un

ambiente semplicemente “bello”, decorato e rilassante.

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3.1 L’EVOLUZIONE DEL GIARDINO DAI POPOLI DELLA MESOPOTAMIA ALL’IMPERO ROMANO

Dalle informazioni relative ai primi documenti e alle prime testimonianze risulta che i primi giardini degni di tale nome si trovassero in mezzo a deserti, Mesopotamia prima ed Egitto poi (Grimal, 2005).

Sembrerebbe dunque che le prime civiltà ad aver attribuito qualche senso a quest’arte, siano state proprio quelle che per evidenti ostili condizioni ambientali sembravano non doverne mai vedere per tutta la loro storia.

Nella Mesopotamia di più di tremila anni fa, invece, si era già riusciti ad acclimatare le palme e a rendere coltivabile la terra del delta fino ad allora sterile. Potendo svilupparsi su un substrato degno, la palma riusciva ad ombreggiare il suolo rallentando l’altrimenti inevitabile disseccamento delle piante sottostanti, favorendo la condensa notturna e quindi permettendo di realizzare giardini. Tali opere erano rese ancor più meravigliose dalla continua irrigazione a dorso d’uomo e dalle cure di ogni tipo riservate alle colture più fragili. Seguendo questi principi, i babilonesi non tardarono a ricevere in dono dalla natura le delizie derivanti dall’acclimatazione delle specie che la stessa aveva negato fino ad allora a quei luoghi. È facile vedere questi giardini come una sorta di sfida contro l’ostilità che proprio la natura aveva riservato a queste terre. Una sfida evidentemente vinta dall’uomo. In effetti questa fu la chiave di lettura dei Greci prima e dei Romani poi per queste opere che vennero ammirate ben più per le difficoltà superate nel realizzarle che per la loro bellezza.

La realtà dei fatti non era però esattamente questa. I giardini di

Mesopotamia avevano inizialmente carattere religioso. Con l’espansione del

mondo babilonese e con la conseguente conquista di territori situati più a

nord e climaticamente più adatti all’arte dei giardini, questi acquisirono più

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importanza oltre che magnificenza: si comincia a pensare il giardino come simbolo di conquista, e il simbolo per antonomasia della grandezza di questa civiltà è sicuramente costituito dai celebri Giardini Pensili attribuiti alla regina Semiramide. Terrazze di mattoni, crudi all’interno e cotti all’esterno, attraversate da gallerie e sale in cui si trovava ombra e refrigerio.

I giardini di Semiramide furono per i Greci una delle Meraviglie del Mondo.

La conquista romana della Grecia rappresenta il primo passo verso una

vera e propria “arte dei giardini”. Se fino a quel momento si erano attribuiti

al giardino per lo più valori sacri, religiosi e mistici, con i romani nasce una

nuova idea: quella di giardino paesaggistico. Il giardino romano non è una

copia di modelli già noti e le soluzioni che adotta, sia estetiche che

funzionali e botaniche, sono originali: derivano da una acquisizione e

metamorfosi di contributi culturali provenienti da civiltà, con cui i romani

erano entrati in contatto, più evolute riguardo al verde decorativo. Tutte

queste informazioni vennero adattate al territorio, alla mentalità e ai modi di

vita autoctoni.

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3.2 IL GIARDINO NELL’ETÀ DI MEZZO

All’analisi del giardino medioevale, visto soprattutto attraverso le fonti documentarie, è opportuno premettere alcune considerazioni storico-sociali.

L’era medievale vede succedere all’egemonia romana ed alla disgregazione dell’impero, il progressivo differenziarsi di tre mondi e tre culture:

bizantina, araba ed europea (Maniglio Calcagno, 1983). Al contrario di quel che successe in Oriente dove i giardini non furono mai abbandonati (in Figura 5 due esempi di giardino arabo medievale) grazie principalmente alla continuità della tradizione religiosa (oltre che di quella imperiale), questa arte conobbe in Occidente una sorta di eclissi.

Figura 5 – Esempi di giardini medievali

Il giardino Orientale, nel Medioevo, mantiene splendore e grandiosità.

Nello stesso periodo, l’Occidente attraversa un periodo nel quale i giardini divengono molto meno maestosi e ricchi di quanto non lo fossero durante l’Impero Romano.

Nelle figure in alto, esempi di

giardino arabo medievale:

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La società romana della parte Occidentale dell’Impero, dopo il 476 d.C.

(da quando, cioè, i popoli germanici foederati fondarono al suo interno regni nei quali convivevano l’elemento romano e quello “barbarico”), continuò a lungo a mantenere i suoi caratteri e i suoi quadri istituzionali, a livello provinciale e municipale, ma vide progressivamente decadere e destrutturarsi quelli socioeconomici e culturali. In particolare, mutarono progressivamente le abitudini alimentari, i caratteri produttivi e il rapporto con l’ambiente e con la natura (Cardini e Miglio, 2002).

I popoli insediatisi all’interno dei confini erano portatori di un’alimentazione basata sui grassi animali e sulle proteine: per procurarsela occorrevano spazi aperti per l’allevamento. All’agricoltura si sostituì un’economia principalmente di raccolta; boschi e brughiere tornarono a invadere in parte le aree che in età romana erano state deputate all’agricoltura; scomparvero (o si contrassero) quelle estensioni di terreno che i Romani avevano adibito a horti, pomaria, viridaria, i quali avevano assunto funzioni inaspettate: alimentare, igienica, terapeutica, estetica, simbolica; erano stati insieme luoghi dell’utile e del piacere.

L’afflusso di queste genti mise in crisi l’antica volontà dell’uomo, sostenuta da una tecnica sapiente, di controllare la natura e di piegarla al suo volere governando la qualità delle colture e la nascita, la crescita e la maturazione di piante, fiori e frutti, gestendo la qualità dei suoli, l’apporto delle specie animali, il flusso delle acque, in un equilibrato rapporto con il clima delle singole aree e con l’avvicendarsi delle stagioni. Quasi scomparve, con quello che siamo abituati a definire alto Medioevo (secoli V-IX), il prodigioso effetto dell’incontro tra natura e cultura in uno spazio in cui il mondo vegetale, quello animale e quello delle acque si uniscono per dar vita al giardino.

Scomparvero ma non tramontarono tradizioni antiche rilette attraverso

una diversa tensione religiosa; si affievolì il gusto dei fiori ma non

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scomparve il piacere dei fiori e del loro dono. Nel VI secolo Venanzio Fortunato non può donare gigli e rose, che non crescono nel suo giardino:

offre allora a Radegonda, regina madre dei Franchi, purpuree viole “tinte di rosso regale” ed erbe odorose; e insieme ricorda, col risveglio della primavera (la stagione della resurrezione di Cristo), l’abitudine pagana di ornare di fiori porte e balconi ed invita ad ornare di fiori gli altari.

Comunque sia, nello studio del giardino medievale va considerata la grande differenza tra giardino religioso e laico. Dei primi, esistono ancora oggi numerose testimonianze di solito ben conservate dall’attività continua e secolare dei monaci. Riguardo ai secondi, invece, non solo non sono rimasti esempi da ammirare e studiare, ma sono di difficile reperimento anche i documenti che ne trattano. Volendo, dunque, affrontare un discorso sulle caratteristiche del giardino medievale è strettamente necessaria una premessa.

Gran parte della cultura medievale è orale; nei giardini come in qualunque altra forma di attività agricola o artigianale c’è una “memoria delle mani” che ricorda ancora di più quella che passa dalla memoria alla scrittura. Esistono, come detto, pochi documenti storici a riguardo, spesso imprecisi e di difficile accesso. Ed è inoltre evidente che non sono sopravvissuti fino ad oggi esempi reali di giardini medievali, come accade di frequente per quelli rinascimentali o addirittura quelli di epoche più lontane (romana).

Spesso le notizie più interessanti si trovano in dipinti, miniature,

tappezzerie, descrizioni letterarie dell’epoca. Sono notizie importanti, a

volte dettagliate, ma proprio per la loro natura “creativa” è sempre difficile

affermare con certezza dove finisca la realtà e dove inizi l’immaginazione,

l’ideale di vita; anche se tali documenti rilevano spesso evidenti ripetizioni

di luoghi comuni, riproponendo per “inerzia iconografica” immagini più

antiche e se nelle scene rappresentate sarebbe un azzardo voler decifrare

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dati oggettivamente riferibili alle condizioni ed alle apparenze del paesaggio umanizzato, il linguaggio figurativo adottato nella rappresentazione degli elementi del mondo naturale è spesso dimostrativo di un particolare modo dell’uomo medievale di intendere la natura e costituisce comunque una interessante verifica del suo interesse e della sua comprensione per vari aspetti della vita naturale (Maniglio Calcagno, 1983).

Non crediamo che ogni ricordo e ogni tradizione del giardino antico fossero bruscamente scomparsi. Lettori curiosi conoscono ancora Plinio il Vecchio e Palladio (Rutilius Taurus Emilius Palladius, scrittore latino), e tra i più amati di tutto il Medioevo, c’è Ovidio, poeta solito ad abbondare in descrizioni di paesaggi e giardini.

Tutto ciò, riferimenti letterari o figurativi che siano, è indispensabile per

ricostruire e interpretare la concezione dei giardini medioevali. Ed è sulla

base di questi riferimenti, di cui si è fatta un’attenta rassegna in questa tesi,

che si è basata l’ipotesi progettuale di seguito riportata.

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4. FONTI PER LO STUDIO DEL GIARDINO MEDIOEVALE

Nella manualistica specializzata per lo studio storico del giardino (Grimal, 2005; Maniglio Calcagno, 1983; Zoppi, 1996), vengono citati di regola, insieme ai trattatisti, letterati e pittori che, attraverso la loro opera, ci permettono di raffigurare, sia pure virtualmente, il giardino medioevale.

Anche nella presente tesi, si è ritenuto indispensabile far riferimento a tali contributi.

In particolare, sono di seguito riportati gli autori e gli artisti che più hanno aiutato a comprendere le sfumature e le simbologie che il giardino civile, ossia legato al vivere urbano o extraurbano in borghi e castelli, ha assunto nel lungo periodo del Medioevo.

L’enciclopedista Isidoro di Siviglia (Etymologiae), nel VII secolo, definisce l’hortus in modo significativo:

Si chiama orto (parola che fa derivare da orior, nascere), perché vi nasce sempre qualcosa. Negli altri terreni nasce qualcosa solo una volta l’anno; l’orto invece non è mai senza frutto. 1

In questa osservazione sembra di cogliere l’eco dell’idea dell’eterna primavera già proposta da Omero a proposito del giardino di Alcinoo. Ecco dunque rinvenire l’idea classica di piegare la natura alla volontà dell’uomo, facendola mimare un’eterna primavera grazie alla scelta e alla disposizione sapiente delle piante.

Circa due secoli dopo, il monaco Rabano Mauro, nel trattato De Rerum Naturis, riprendeva alla lettera Isidoro, distinguendo tra le nobili erbe coltivate nell’orto e quelle più vili che crescono spontanee nei campi.

1

Isidori Hispalensis Episcopi Etymologiarum sive Originum libri XX, 10, 1, ed. W. M. Lindsay, 2 voll., ii,

Oxonii, 1911, p.201

(21)

Rabano legge e presenta secondo allegoria la terra, i campi, la coltura delle erbe e dei fiori. Tra le erbe che crescono spontanee nei campi c’è il fieno che nutre la fiamma e che indica allegoricamente la natura umana (bello quando fiorisce e marcio come i peccatori quando appassisce). L’orto invece rappresenta il Paradiso, la Chiesa.

Alberto Magno in pieno Duecento (De vegetalibus et plantis) fornisce un inventario di essenze volto a precisarne la qualità dal punto di vista farmacologico, che resta una grande testimonianza di osservazione concreta e di verifica sperimentale.

Nel primo Trecento è impossibile non menzionare Dante Alighieri; la sua Commedia fornisce elementi adattissimi a comprendere in che modo ed in che senso la via che porta al giardino sia un cammino iniziatico. La Divina Commedia non inizia in un giardino: è un percorso che dalla selva oscura (la hylè dei chartrensi) porta al Paradiso terrestre, dal quale il poeta potrà poi ascendere al Paradiso vero e proprio. Dante ripercorre a ritroso la storia della caduta dell’umanità nel peccato; dalla condizione di peccatore si libera dei peccati per liberarsi poi anche di quello originale. La selva oscura nella quale ha inizio il viaggio è, nella sensibilità medievale, il deserto nel quale Adamo fu cacciato dopo il peccato; l’iter dalla tristezza al peccato è quello dal peccato alla purezza recuperata. Nel Paradiso terrestre cantato da Dante nel XXVIII canto del purgatorio, si ritrovano tutti gli elementi del giardino medievale: il prato alberato, la fontana, l’albero centrale, la barriera intorno.

Vago già di cercar dentro e dintorno la divina foresta spessa e viva,

ch’a li occhi temperava il nuovo giorno,

sanza più aspettar, lasciai la riva,

prendendo la campagna lento lento

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su per lo suol che d’ogni parte auliva.

Un’aura dolce, senza mutamento avere in se, mi ferìa per la fronte non di più colpo che soave vento;

Per cui le fronde, tremolando, pronte tutte quante piegavano a la parte u’ la prim’ombra gitta il santo monte;

non però dal loro esser dritto sparte tanto, che li augelletti per le cime lasciasser d’operare ogne lor arte;

ma con piena letizia l’ore prime, cantando, ricevìeno intra le foglie, che tenevan bordone a le sue rime.

Tal qual di ramo in ramo si raccoglie per la pianta in su ‘l lito di Chiassi, quand’Eolo Scilocco fuor discioglie. 2

La descrizione della foresta dell’Eden (divina foresta) rimanda al mondo classico. Mossa da un leggero vento, allietata da voli e canti d’uccelli, percorsa da un fiume di acque limpidissime tra rive fiorite, il Paradiso Terrestre (situato in luogo altissimo) si risolve in una suggestione assai più musicale che descrittiva, intesa a rendere più che i colori e le forme, il respiro calmo e solenne di una natura solitaria e incontaminata.

Nel pieno Trecento l’arte dei giardini era oramai giunta a una piena maturità. Si trattava di una riacquisizione dell’antica cultura, arricchita dalle

2

A. Dante, Divina Commedia, Purgatorio, XXVIII, 1-21.

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esperienze più recenti.

Il giardino, anche come risultato di sapienza agricola e di un nuovo modo di considerare il vivere civile, si propone in termini maturi grazie a un’opera di straordinario successo. Si tratta di Ruralia commoda (I piaceri della campagna) del giurista e medico bolognese Pietro de’ Crescenzi.

Scritta in latino nel 1300 fu ben presto tradotta (volgarizzata) in franco- settentrionale e in italiano e da queste hanno preso le mosse altre versioni in diverse lingue.

Un’opera di grande fortuna della quale si contano oltre centoquaranta manoscritti, un numero che testimonia la sua straordinaria diffusione tra re, signori, personaggi eccellenti e monaci. L’opera, divisa in dodici libri, esamina ordinatamente tutti gli aspetti della vita agricola nonché quelli connessi con l’allevamento, la caccia e la pesca. È senza dubbio il lavoro di un esperto che aveva letto e studiato attentamente i trattati latini di agricoltura della fine della Repubblica e dell’Impero.

Ai giardini de’ Crescenzi riserva due libri, con questa premessa: “Ne’

libri passati avevamo trattato degli arbori e delle erbe, secondo che sono

utili al corpo dell’uomo, ma ora è da dire delle predette cose, secondo che

all’animo danno diletto”. Non più alimentazione e salute, bensì piacere

della mente (e quindi del corpo). Il VI libro ha come modello soprattutto

Palladio, affronta gli orti destinati all’alimentazione, con una dichiarata

attenzione alle virtù terapeutiche: vengono indicati il clima più adatto ai

lavori stagionali, discussa la scelta dei terreni e la selezione delle sementi,

l’irrigazione, le malattie delle piante, i modi della raccolta. Si enumerano

centotrentuno specie vegetali coltivabili, indicate per ordine alfabetico. Le

piante sono coltivate in piccole aiuole tracciate con l’aiuto di una fune,

larghe due piedi (circa 70 cm) e lunghe a piacere. Si raccomanda di ripartire

lo spazio disponibile in modo che una metà sia destinato alle colture

primaverili e l’altre alle autunnali. Il libro VIII tratta invece dei giardini

(24)

ornamentali, il tono si fa più alto ed il discorso più intenso, meno vicino alla tradizione dei trattati, fin dall’indicazione delle sue finalità: piacere per l’anima e salute per il corpo.

Questo trattato, dunque, non dà solo precise e accurate indicazioni per una agricoltura razionale, per vari modi e tipi di coltivazione in pianura ed in collina, ma descrive dettagliatamente tre modelli definiti di giardini:

quelli “d’herbe piccole”, i “Verzieri” per le mezzane persone e quelli “de’

Re e degli altri ricchi signori”, ripartiti, come evidente, secondo il rango sociale dei proprietari perché “i giardini devono essere grandi o piccoli a seconda della nobiltà, della potenza e ricchezza dei proprietari”. Tutti, grandi o piccoli che siano, sono destinati allo svago, alla fruizione serena di una natura perfettamente controllata e sottomessa. Si tratta di giardini adiacenti alle abitazioni e collegati ad esse da una recinzione .

Figura 6 - Pietro de’ Crescenzi, Ruralia commoda,

volgarizzamento in francese. Fiandre, XV secolo. Il lavoro negli

orti accostati alle case e sullo sfondo nei campi nei diversi mesi

dell’anno. Sulla destra: una pergola, cesti intrecciati, la

falciatura di un prato; sulla sinistra: la zappatura di un’aiuola

(da “Nostalgia del Paradiso”, 2002).

(25)

In queste descrizioni è, inoltre, evidente anche il riferimento ai ricchi e vasti giardini siciliani del periodo islamico, veri e propri parchi con le più varie essenze, attraversati da corsi d’acqua e arricchiti con peschiere, voliere, labirinti.

Figura 7 - Pietro de’ Crescenzi, Ruralia commoda, volgarizzamento in francese. Fiandre, XV secolo.

Interno di un palazzo signorile fortificato (da

“Nostalgia del Paradiso”, 2002).

Nell’estate del 1340, Francesco Petrarca aveva assoldato una schiera di

contadini del luogo per costruire argini, così che a lui sarà concesso di avere

il luogo sacro alle Muse, il giardino della poesia dove celebrare i trionfi

della sacrosanta antiquitas. Trasformato in prato un campo vicino alla fonte

della Sorga, a Valchiusa, ripulito dai sassi e riempito di terra riportata, il

lavoro si dimostrò inutile perché il tumultuoso fiume aveva comunque

travolto tutto. È quasi superfluo sottolineare la continuità con la cultura

della Roma antica, quella Roma piena di ville e di giardini dei suoi poeti e

oratori illustri (oltre che dei suoi imperatori) e ancora ben noti in età

(26)

Medievale. Cicerone, Lucrezio, Ovidio, Catullo, Virgilio, Giovenale, solo per ricordarne alcuni, avevano tutti una o più ville nella campagna romana, luoghi dove ambientare i loro dialoghi filosofici, le loro poesie, luogo dove poter crescere spiritualmente. Secondo Petrarca, dei grandi scrittori antichi bisogna imitare le forme, i modi linguistici e stilistici cercando di ricalcare e riproporre l’equilibrio, la qualità e la misura che essi rivelarono. Il suo giardino ripropone una descrizione dello spazio che cerca di far rivivere il mondo classico: il giardino perde il suo carattere religioso per divenire

“rifugio” degli dei e delle Muse in cui si celebra l’antiquitas.

Sono molte le descrizioni del giardino (e dei lavori necessari per crearlo e mantenerlo) conservate in alcune epistole e nei diari dello stesso Petrarca.

Nella lettera a Guido Sette il poeta esalta il paesaggio di Valchiusa come luogo della pace e del riposo, della tranquillità e della solitudine, con queste parole: “è il luogo della pace, la casa dell’ozio, il riposo delle fatiche, il rifugio della tranquillità, l’officina della solitudine.” Dal 1348 Petrarca lascia notizie precise dei lavori effettuati nei suoi giardini: si tratta di annotazioni specifiche e tecniche (prese nel momento e completate a distanza di tempo, per quanto riguarda i risultati) in cui il poeta è presente solo in quanto ortolanus, la sua attenzione è rivolta solo alle piante.

Riportiamo di seguito qualche esempio.

- [Parma 1348] 8 dicembre, tempo sereno, nel pomeriggio, all’ora nona, ho affidato alla terra piantine di issopo e rosmarino, con le radici, nell’orticello più lavorato, con la volontà di sperimentare.

Buon esito.

- [Parma 1349] 4 febbraio, tra l’ora nona è il tramonto, tempo nuvoloso ed umido

ma senza vento, ho trapiantato un melo non molto vecchio ma di più anni, da un

luogo più lontano dalla casa ma ombroso, ad uno più vicino ma soleggiato, in una

fossa abbastanza profonda, ma senza concime o altro aiuto esterno, coperta con terra

nera e grassa, rincalzata alla perfezione.

(27)

Piace aspettare il risultato.

Finora niente.

Alla fine si è seccato.

- [Parma 1349] 26 giugno, alla sera abbiamo trasferito due piante di ruta, una già in seme, l’altra più giovane ma con le radici, dall’orto di don Luca Crostoni all’orticello più lavorato.

La prima ha attecchito rigogliosamente.

La seconda dapprima ha languito, poi, abbondantemente irrigata, si è ripresa.

- [Milano 1357] 4 aprile, al tramonto, luna piena, terreno umido, tempo gelido più di quanto dovrebbe in questo mese, abbiamo impiantato in profonde fosse nell’orticello di Sant’Ambrogio sei lauri e un ulivo trasportati da Bergamo. Due sembrano gli ostacoli: la messa a dimora a distanza di qualche giorno e la natura del terreno non adatto soprattutto all’ulivo. Erano piante abbastanza giovani, tutte con le radici.

Tutte si sono seccate completamente.

I tentativi di trapiantare il lauro a Milano proseguirono, vediamo con quali esiti.

- [Milano 1359] 16 marzo, nel pomeriggio, quasi all’ora nona, mi è piaciuto ritentare la fortuna. Così abbiamo piantato cinque lauri mandati da Como dal nostro Taddeo, in fosse ugualmente profonde nell’orto di Santa Valeria a Milano. […] Tra l’altro dovrebbe portare un grande vantaggio al successo dei sacri arboscelli il fatto che l’insigne signor Giovanni Boccaccio da Certaldo, ad essi e a me amicissimo, arrivato per caso in quell’ora, fu presente alla messa a dimora. Tutte le piante erano con le radici, alcune anche con pane di terra originario; inoltre erano state portate avvolte con molta attenzione, non solo le radici ma anche i tronchi, e trapiantate subito.

A metà aprile le due più grandi stanno già seccandosi, le altre non promettono di meglio. Credo davvero che questa terra sia nemica a quest’albero.

L’amico Giovanni Boccaccio, viene descritto come un esperto in materia.

In effetti il suo Decameron contiene informazioni preziose alla nostra

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ricerca. Questo capolavoro non è soltanto un insieme di novelle, è un romanzo di formazione dotato di una robusta e coerente umanità. Al pari della Commedia dantesca, è il racconto iniziatico della liberazione dalla paura e dal peccato. Nella Firenze sconvolta dalla peste che ha cancellato ogni tratto di ordine etico, civile e sociale, un gruppo di uomini e di donne dominato dalla paura e dall’angoscia si riunisce per fuggire non solo il contagio, ma anche e soprattutto i suoi effetti spiritualmente e moralmente devastanti. Esce dalla città condannata e vive in luoghi che appaiono sereni, non attaccati dall’orrore circostante. L’insieme delle novelle darà di nuovo un senso al mondo, lo “rifonderà”. Già nell’introduzione alla prima giornata il Boccaccio scrive:

Era il detto luogo sopra una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, da vari arboscelli e pinte tutte di verdi fronde ripiene piacevoli a riguardare; in sul colmo della quale era un palagio con bello e gran cortile nel mezzo, e con logge e con sale e con camere, tutte ciascuna verso di sé bellissima e di liete dipinture ragguardevole ornata, con fratelli da torno e con giardini meravigliosi e con pozzi d’acque freschissime e con volte di preziosi vini. 3

Fin dalla prima giornata il novellare è attività rituale che si svolge “in un pratello nel quale l’erba era verde e quivi sopra la dolce erba si puosero in cerchio a sedere.” Alla fine delle prime due giornate si decide di non novellare per due giorni e di riprendere il terzo giorno in un altro luogo. A questo punto entra in gioco il giardino (inteso come natura governata dall’uomo). È un giardino rigorosamente a pianta centrale, cinto da pergolati e roseti, che racchiude un prato nel mezzo del quale “è una fonte di marmo bianchissimo e con meravigliosi intagli.” Le mura del giardino difendono dalla natura sgretolata e, insieme agli alberi, gli arbusti e le vie dritte, creano percorsi che fanno riaffiorare la chiusura e la geometria,

3

Boccaccio, Decameron, Giornata I, Introduzione.

(29)

garanzia dell’ordine riconquistato nel loro “Eden terrestre”; un Eden non voluto dalla grazia divina ma costruito secondo quelle leggi che garantiscono il progresso umano. Dunque non Paradiso terrestre ma paesaggio edenico, simbolo della riconquista di una dignitas perduta e negata dalla peste. È evidente il riferimento alla corte francese descritta nel Roman de la Rose, come è evidente la suggestione del Boccaccio anche verso le culture classica e orientale; va sottolineata l’insistenza dell’autore verso il “bello ordine” del giardino, davanti al quale i giovani concordano che “se paradiso si potesse in terra fare, non sapevano conoscere che altra forma che quella di quel giardino gli si potesse dare.” È intorno alla fontana (non più nel prato) che si svolgerà ora il novellare. E così si snoda il romanzo, tra paesaggi meravigliosi e novelle che spesso non riescono a non subire fascino e influenza del paesaggio stesso. In una celebre pagina del Filocolo poi ripresa da una novella del Decameron, il tema (omerico) dell’eterna primavera si afferma attraverso il racconto di un atto di magia: la costruzione, magica, di un giardino fiorito in pieno inverno.

Il giardino aveva fatto il suo ingresso trionfale nelle corti europee già alla fine del XII secolo, giunto per il tramite della cultura cortese e non senza l’influsso dei modelli Orientali e latini. Nella Firenze del repubblicanesimo, l’immagine del giardino come teatro di un percorso iniziatico, è sostituita con quella di giardino come percorso e crescita filosofica, da ottenere attraverso la narrazione di novelle rigorosamente legate tra loro (Decameron), la discussione (Il Paradiso degli Alberti) e il dibattito politico (Orti Oricellari). In questo contesto l’idea di giardino si addensa di reminescenze di corti passate.

Giovanni di Gherardo da Prato scrive nel Quattrocento il sopraccitato

romanzo Il Paradiso degli Alberti come simbolo della felice situazione

(30)

dell’Italia meridionale durante il regno del sovrano svevo. Ricchezze naturali indotte, clima temperato, abbondanza di commerci, operosità della cultura artistica. È un giardino simbolo di potere e benessere, in una trama intessuta di superlativi: “E di ridotto in ridotto fontane erano ordinate con acqua dolcissima e chiara, con condotti abbondissimamente in grandissime conche rovesciando e di sopra con infiniti zampilli rinfrescando e ruggiando tutto l’aiere e le fronde.”

Leon Battista Alberti tratta diffusamente del giardino della villa e delle sue varie parti nel suo “De Architettura” (“non potranno mancare giardini allietati da splendide piante, e un porticato da cui si può godere sia sole che ombra”).

La tradizione cortese, come visto, è forte e limpida nella mente di alcuni dei poeti sopraccitati (Boccaccio su tutti); per quanto distante nello spazio, questa influenza è radicata anche in Italia. La cultura cortese maturata tra il XII e il XIII secolo fa del giardino, nelle forme di prato e verziere, il luogo deputato agli incontri poetici e amorosi, alle discussioni nelle quali si parlava d’amore secondo i canoni d’una cultura nata all’interno della rinascita platonica e ovidiana.

Chrétien de Troyes descrive nel “Roman de Tristan” e nel “Roman de

Erec ed Enide” giardini recinti, paradisi di frutti e fiori eterni, in cui

regnano la magia e gli incantesimi. Chrétien era poeta legato a Maria

contessa di Champagne; Maria era la figlia di quell’Eleonora duchessa di

Aquitania che aveva partecipato alla seconda crociata potendo ammirare i

bellissimi giardini orientali che circondavano Damasco. La corte del XII

secolo è già il luogo per eccellenza della vita elegante dei principi e al

tempo stesso luogo pericoloso, ricco di misteri e inganni. Si tratta di quel

giardino incantato destinato a ritrovarsi in un’infinità di fiabe.

(31)

E ancora, il “Roman de la Rose”, scritto nel 1220 da Guillaume de Lorris e completato nel 1280 da Jean de Meung, ci presenta un giardino fatto di colori e di profumi, in cui proliferano specie vegetali diverse, alberi da frutto e piante ornamentali, ed in cui l’acqua porta la frescura. Metafora dell’amore “cortese”, il giardino simboleggia il percorso che il cavaliere compie per raggiungere la felicità.

Figura 8 - Guillame de Lorris e Jean de Meun, Roman de la Rose.

Francia, XV secolo. Nel giardino di Dèduit, l’Amante abbraccia

una rosa che cresce in un vaso di giunco. La chiusura del giardino è

accennata nel bordo della miniatura; sullo sfondo spalliere di rose

rosse. (da “Nostalgia del Paradiso”, 2002).

(32)

Figura 9 - Guillame de Lorris e Jean de Meun, Roman de la Rose. Francia, XV secolo. Il giardino, chiuso, ricco di alberi da frutto, bordato da spalliere di fiori, attrezzato con incannucciate e grate, è diviso in due parti da una recinzione lignea. Una con fontana e sedili, l’altra con aiuole (da

“Nostalgia del Paradiso”, 2002).

Alla fine del XV secolo a Venezia viene pubblicato un testo che eserciterà una particolare suggestione sul gusto del nuovo secolo:

Hypnerotomachia Polyphili di Francesco Colonna; un libro che può essere

considerato l’anello di congiunzione tra la cultura medievale e quella

umanistica, poiché scritto sul finire del Medioevo e modello, non solo per

quanto riguarda i giardini, nell’età Rinascimentale (confluiscono in questa

opera i temi desunti dalle Metamorfosi di Ovidio e dalla più esoterica

letteratura medievale). Si tratta di un racconto a metà tra fiaba e leggenda

che si snoda in un percorso descritto dettagliatamente; poco alla volta si

delinea agli occhi del lettore il più fantastico giardino che mai architetti e

scultori avessero ideato (Mastrocco, 1981). È evidente, nel libro, la

(33)

contemporanea presenza di erudizione e allegoria moraleggiante, sull’onda delle emozioni sprigionate nel Roman de la Rose. Un filo logico lega le allegorie della Hypnerotomachia e le altre allegorie dei giardini all’italiana:

l’ascesi alla verità attraverso la conoscenza della natura e la descrizione del messaggio nascosto nelle rovine antiche. La storia narrata è infatti quella di un viaggio, un cammino della saggezza, un percorso iniziatico, esattamente come avviene nella Commedia dantesca seppur in termini e toni diversi; il viaggio di Polyphilo inizia con lo smarrimento nel labirinto, quindi con la ricerca della via. Questo la dice tutta sull’affinità filosofica con alcuni dei testi sopra citati.

Le fonti pittoriche sono ugualmente importanti. Il borgo, elemento integrante e tipico del paesaggio medievale, è efficacemente ritratto da Cimabue, Paolo Uccello (Figura 10), Giotto (Figura 11), Beato Angelico (Figura 12), Lorenzetti, Duccio di Buoninsegna (ma lo stesso Boccaccio lo raffigura nel suo Decameròn) con alte mura, colli scoscesi che si levano bruscamente dalle pianure dove rare piantagioni arboree trovano posto su irreali pendii.

Figura 10 - Paolo Uccello: San Giorgio e il drago.

Nell’alto Medioevo le poche piante schematizzate, quasi ideogrammi,

entrano nelle composizioni artistiche come elemento di fondo e sono ancora

(34)

lontane dall’indicare una razionale e ordinata sistemazione dello spazio naturale. Solo alla fine del Trecento le testimonianze pittoriche documentano la lenta metamorfosi in atto nel rapporto uomo-natura, evidenziato da una maggiore cura nel modellare il paesaggio con strutturazioni più aderenti all’ambiente circostante.

Figura 11 - Giotto: Miracolo della fonte.

Figura 12 - Beato Angelico: Annunciazione.

(35)

Un modello di hortus conclusus è rappresentato dal piccolo dipinto (olio su tela) del “Maestro del Giardino Paradiso” (Figura 13) dell’inizio del sec.

XV, di un ignoto autore renano conservato a Francoforte, che riproduce l’ideale medievale di bellezza di natura assoluta e sovraterrena. Infatti in uno spazio delimitato da mura merlate sono rappresentati fiori perfetti, alberi e cespugli di ogni specie, carichi contemporaneamente di fiori e frutti.

Figura 13 - Maestro del Giardino Paradiso.

Nell’arte del primo Medioevo gli oggetti naturali hanno scarsa aderenza

con la realtà; il simbolo prevale sulla descrizione: alberi, fiori e cespugli,

che siano rappresentati individualmente nel bassorilievo o nella

rappresentazione musiva o pittorica, o ancora in una composizione artistica,

tendono ad una schematizzazione o idealizzazione che a volte rende

difficile l’identificazione scientifica degli elementi vegetali riprodotti. In

seguito questi stessi elementi verranno arricchiti ed utilizzati per

(36)

rappresentare la perfezione dell’Eden, il giardino paradisiaco che, circondato dalle alte mura, rappresenterà nella concezione medievale un’isola di godimento estetico, di perfezione extraterrestre.

Attraverso una visione d’insieme di queste fonti, appaiono due principali modi di rappresentare la natura:

- una natura idealizzata e poetica, con concezione lirico-idealista di perfezione naturale;

- un paesaggio simbolico in cui gli oggetti naturali rappresentati hanno scarsa relazione con la realtà, ma vogliono presentare quel mondo medievale fuori dalle mura, smisurato, insicuro e degradato.

Questo paesaggio naturale modellato dall’uomo, esisteva all’interno del

castello come dentro i conventi e i monasteri. Gli spazi verdi, che nei secoli

precedenti erano destinati quasi unicamente agli ambienti monastici, tra il

Duecento e il Trecento (dopo la riorganizzazione del paesaggio agrario e la

rinascita delle città), tornano ad essere parte costitutiva degli insediamenti

urbani e suburbani. Orto e vigna diventano parte integrante della residenza

gentilizia e popolana. Aiuole perfette, alberi carichi di frutti, siepi fiorite,

delicati profumi, melodie di fontane: il giardino torna ad essere un’allegoria,

un luogo senza tempo immerso in un’eterna primavera. Dalle recinzioni

claustrali monastiche fino alle dettagliate e meravigliose descrizioni

letterarie, il giardino riflette non solo la complessa vicenda storica del

Medioevo europeo ma anche il rapporto sottile tra messaggio filosofico e

teologico da una parte e concreta esperienza botanica e naturalistica

dall’altra. Il giardiniere medievale ripete il gesto “creatore” di Dio, conosce

le norme sapienti per piegare la natura, per ricreare, se non la realtà,

l’illusione dell’Eden perduto.

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