INTRODUZIONE
Il presente lavoro, che ha ad oggetto il dibattito tra paternalismo giuridico e antipaternalismo, prende avvio dalla lettura della principale opera di John Finnis, Legge naturale e diritti naturali, come paradigmatica del perfezionismo, e di Una teoria della giustizia di John Rawls, come esempio del liberalismo, con il fine di riflettere sul ruolo garantito all’autonomia dell’individuo nella scelta pubblica dello Stato.
Finnis è riconosciuto come uno dei massimi esponenti contemporanei del giusnaturalismo visto il suo impegno nell’avvicinare alla sensibilità moderna la problematica del diritto naturale. Non restringe la questione del diritto naturale al problema dell’esistenza o meno di leggi non fatte dall’uomo e della loro eventuale giuridicità, ma come i grandi giusnaturalisti del passato cerca di dare una spiegazione del diritto alla luce dei suoi valori fondamentali e delle esigenze della ragion pratica, nel rispetto del presupposto della validità logico-speculativa delle tesi filosofiche più accreditate della teoria del diritto contemporanea, in particolar modo del principio dell’avalutatività della scienza.
Il suo pensiero si inserisce in una tendenza interpretativa della filosofia di Tommaso d’Aquino che ha origine con l’articolo di Germain Grisez del 1965 sul primo principio della ragion pratica (bonum est faciendum et prosequendum, et malum vitandum) e che si può definire “neoclassica”1, in
1 Cfr. G. Grisez, The First Principle of Practical Reason: A Commentary on the Summa Theologiae, I-2, Question 94, Article 2, in «Natural Law Forum», 10, 1965.
Cfr. anche F. Viola, Introduzione, in J. Finnis, Legge naturale e diritti naturali, Torino, Giappichelli, 1996. F. Di Blasi, I valori fondamentali nella teoria neoclassica della legge naturale, «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 2, 1999, p. 210 e G. Zanetti (a cura di), Filosofi del diritto contemporanei, John M.
Finnis e la nuova dottrina del diritto naturale, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1999, pp. 37-38.
contrapposizione con la neoscolastica in voga nella prima metà del novecento, che aveva interpretato i principi della legge naturale come veri e propri imperativi. Pur riconoscendo l’incompletezza e l’ambiguità delle parole del proprio Maestro, Finnis considera la ragion pratica come conoscenza che permette di formulare proposizioni sulla natura umana. La conoscenza pratica del bene umano, sul piano epistemologico e metodologico, viene ritenuta antecedente alla conoscenza speculativa della natura umana poiché costituisce un mezzo per individuare i beni fondamentali verso cui l’uomo si rivolge così da delinearne implicitamente la vera natura: noi non deduciamo, in altri termini, dalla natura questi beni, ma analizzando verso quali beni si rivolge la nostra ragione possiamo renderci conto della nostra vera natura. I principi della ragion pratica sono pertanto naturali, non in quanto dedotti immediatamente dalla natura, ma perché avvalendosene l’uomo può apprendere sul piano intellettuale i fini della recta ratio verso cui indirizzarsi.
E’ bene subito sottolineare come i principi della ragionevolezza pratica non vadano inseriti direttamente in un piano etico e considerati come moralmente obbligatori. Solo attraverso la considerazione di tutti i beni (o valori) fondamentali individuati da Finnis, ai quali possiamo giungere rispettando le esigenze della ragionevolezza pratica, è possibile stabilire ciò che è moralmente obbligatorio e individuare un ideale di vita buona, di completa fioritura dell’uomo (‘flourishing’).
Sarà utile analizzare le basi di questa teoria, come paradigmatica della corrente del perfezionismo, per comprendere come sia trattato il tema dell’autonomia dell’individuo nell’ottica di una rivalutazione del ‘bene comune’, concetto ormai discreditato dalla teoria giuridica contemporanea, che è radicata in una società pluralistica, nella quale sembra impossibile un
accordo sul significato stesso di questa espressione, che pare ormai divenuta un ossimoro. L’utilitarismo inoltre ha contribuito ad una distorsione ulteriore dell’immagine del bene comune, visto come una mera sommatoria dei beni degli individui o come un bene totale della collettività incurante dei singoli.
Finnis pone il bene comune alla base della società, considerandolo come la condizione per realizzare i progetti personali di vita e partecipare ai valori fondamentali della natura umana. Gli individui, per perseguire i propri obiettivi, devono necessariamente istituire rapporti di tipo cooperativo con altri individui e il bene comune riguarda proprio questi rapporti; in questo senso, nella teoria di Finnis il diritto serve a coordinare le azioni di ciascuno con quelle di ogni altro in vista della piena realizzazione umana2. Questa coordinazione implica un ideale di amore di sé che abbraccia ogni possibilità della fioritura umana secondo una comunanza di valori, così da modellare una concezione del diritto che vada al di là di un insieme di prescrizioni che stabiliscono l’ordine sociale. In base ad esse è possibile giudicare non solo la forma delle norme, ma anche il loro contenuto, rivalutando il ruolo della giustizia ai fini della piena partecipazione alla realizzazione dei valori fondamentali.
Anche per Tommaso, del resto, una legge che non sia diretta espressione della ragione non ha alcuna forza direttiva.
La stessa autorità non trae la propria legittimazione dalla volontà divina né si basa su atti volontari, come un contratto o il consenso sociale, ma deve essere riferita alla realizzazione del bene comune e di conseguenza alla soluzione dei problemi di coordinazione delle azioni; i singoli devono essere così guidati nella conoscenza dei valori fondamentali che sono alla base dei loro personali progetti di vita da impulsi non solo coercitivi, ma
2 J. Finnis, Law as Co-ordination, in «Ratio Iuris», 2, 1989, pp. 97-104.
anche e soprattutto direttivi. Il ruolo dell’autorità è contraddistinto quindi dalla massima delicatezza, quasi assimilabile a quello della ragione, alla stregua di una guida morale e sociale.
Nella rappresentazione di Finnis l’individuo sembra, dunque, fortemente attratto dal bene comune e quindi votato ad un profuso impegno nella sua realizzazione sotto la direzione attenta dell’autorità.
Un approccio diverso, ma altrettanto interessante per analizzare il tema dell’autonomia dell’individuo e la sua considerazione da parte dell’autorità pubblica, è quello del liberalismo di John Rawls3. È lo stesso Rawls a collocare la propria dottrina contrattualista in una “posizione intermedia tra il perfezionismo e l’utilitarismo”4, rappresentandola, per un verso, come alternativa alle teorie sostanzialistiche-perfezionistiche e per altro verso a quelle utilitaristiche, che sottopone ad una critica demolitoria5.
Una teoria della giustizia rivoluziona fin dalla data della sua pubblicazione (1971) il panorama della filosofia politica.
Rawls presenta una teoria normativa della giustizia come equità (‘justice as fairness’) che secondo una moderna concezione liberal-democratica vuole essere una rivisitazione generalizzata e il più possibile astratta della teoria tradizionale del contratto sociale di Locke, Rousseau e Kant. Lo stato di natura è sostituito
3 Cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 2010.
4 Ivi, p. 315.
5 Rawls rimprovera in particolare agli utilitaristi di non prendere sul serio la pluralità degli individui e dei gruppi che compongono la società, che vengono sostanzialmente trattati come se fossero una cosa unica. Propone una argomentazione deontologica, contraria a quella teleologica degli utilitaristi. Cfr. S. Veca, La prospettiva contrattualista di John Rawls, in Ricerche politiche. Saggi su Kelsen, Horkheimer, Habermas, Luhmann, Foucault, Rawls, Milano, Il Saggiatore, 1982, p. 136; Cfr. M.
Patriarca, John Rawls: che cosa merita l’uomo. Le ragioni dell’equità, Roma, Armando editore, 1985, pp. 52-53; Cfr. S. Maffettone, Introduzione a Rawls, Roma- Bari, Laterza, 2010.
da un’ipotetica posizione originaria, “che garantisce l’equità degli accordi fondamentali in essa raggiunti”6.
L’oggetto della giustizia è costituito dalla struttura di base della società, o meglio dal “modo in cui le maggiori istituzioni sociali distribuiscono i doveri e i diritti fondamentali e determinano la suddivisione dei benefici della cooperazione sociale”7.
Una teoria della giustizia generalizzata e astrattamente applicabile alle più importanti istituzioni della nostra società è sicuramente utile per individuare la giusta sfera di autonomia che dovrà essere garantita all’individuo e di conseguenza il rapporto individuo-società-autorità.
In questa continua tensione tra perfezionismo e liberalismo, paternalismo e antipaternalismo, diritto e morale, entrano in gioco anche alcuni concetti della cultura classica come quelli di “felicità” e di “amicizia”. Finnis e Rawls dedicano ampio spazio sia alla felicità, intesa come principio etico, che caratterizza le loro teorie del bene, sia all’amicizia, considerata da entrambi come un legame necessario al raggiungimento del bene comune.
6 Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 38.
7 Ivi, p. 28.
CAPITOLO I
Coordinate sul tema dell’autonomia dell’individuo e del rapporto tra diritto e morale.
Nessuno può costringermi a essere felice a suo modo (nel modo cioè in cui egli si immagina il benessere degli altri uomini), ma a ognuno è lecito ricercare la propria felicità per la via che a lui sembra buona, purché alla libertà degli altri di tendere ad analogo scopo, la quale può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale, egli non rechi pregiudizio alcuno (cioè non pregiudichi questo diritto degli altri)8.
Kant, influenzato dall’illuminismo francese, segna attraverso il tema della felicità il discrimen tra etica moderna e etica antica, lasciando in eredità ai pensatori liberali un’impostazione antieudaimonista.
L’etica antica, tradizionalmente individuata nella filosofia di Aristotele, si contraddistingue per il forte legame tra felicità e vita sociale. Il cittadino greco, infatti, sembra trovare la sua completa realizzazione all’interno della comunità; ciò implica un universo condiviso di valori, grazie ai quali la completa fioritura del singolo sarà condizione per il sussistere e il prosperare della vita della polis. Al contrario Kant legge il concetto di felicità in chiave edonistica rendendolo del tutto privo di implicazioni morali, ma soprattutto ne elimina la dimensione universale:
l’orizzonte della felicità sarà da qui in avanti quello del singolo individuo.
Su queste basi nel 1859 Mill scrive On liberty, in cui sostiene che ciascuno è libero di perseguire la propria felicità come meglio crede senza che altri possano esercitare su di lui alcuna coazione, sia pure ove ritengano di farlo a suo vantaggio;
8 I. Kant, Sul detto comune “può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica”, in N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu (a cura di), Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino, UTET, 1956, p. 263.
l'unico caso in cui si può interferire con l’autonomia dell’individuo è quando questi la eserciti a danno di qualcun altro; solo ed unicamente in questo caso l'umanità è giustificata ad agire in modo coercitivo allo scopo di proteggersi.
Il principio è che l’umanità è giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire sulla libertà di azione di chiunque soltanto al fine di proteggersi: il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri. Il bene dell’individuo, sia esso fisico o morale, non è una giustificazione sufficiente. Non lo si può costringere a fare o non fare qualcosa perché è meglio per lui, perché lo renderà più felice, perché, nell’opinione altrui, è opportuno o perfino giusto:
questi sono buoni motivi per discutere, protestare, persuaderlo o supplicarlo, ma non per costringerlo o punirlo in alcun modo nel caso si comporti diversamente9.
Si pongono così i presupposti della posizione antieudemonologica che comporta, in linea di massima, la neutralità delle istituzioni in tema di felicità nel riconoscimento di una pluralità di concezioni della stessa. Non la comunità ma i singoli cittadini saranno protagonisti della ricerca della propria felicità. Espressione di questa concezione è anche l’idea condivisa da Alexis de Tocqueville, secondo cui se su di una questione all’interno della moltitudine degli uomini ci fosse anche un solo dissenziente, tutti gli altri non avrebbero alcun diritto a farlo tacere:
se tutti gli uomini, meno uno, avessero la stessa opinione, non avrebbero più diritto di far tacere quell’unico individuo di quanto ne avrebbe lui di far tacere, avendone il potere, l’umanità10.
9 J. S. Mill, Saggio sulla libertà, trad. it. S. Magistretti, Milano, Il saggiatore, 1981, pp. 32-33.
10 Cfr. Ivi, p. 40.
È possibile a questo punto intendere la felicità in senso soggettivo come “uno stato di soddisfazione dovuto alla propria situazione nel mondo”11 e in senso oggettivo come interazione felice tra l’individuo e il tutto, quindi tra il cittadino e il contesto statale.
Allo stesso tempo andrà considerato il parallelo concetto di infelicità, nelle stesse due accezioni, che messo in rapporto con il tema dell’autonomia dell’individuo andrà a configurare un vero e proprio ‘diritto all’infelicità’12.
Parlare di diritto all’infelicità porta a vedere in una prospettiva particolare l’opposizione tra paternalisti e antipaternalisti13. Secondo Gerald Dworkin, il “paternalismo”14 è una concezione etico-politica secondo la quale lo Stato, o un soggetto da questo autorizzato, ha il diritto-dovere di usare la coercizione contro la volontà di un individuo adulto, anche qualora le sue scelte siano razionali, ponderate e soprattutto libere da coazione, al fine di tutelarne il bene e in particolare di evitare che questi possa cagionarsi un danno fisico o economico15.
Per antipaternalismo giuridico moderato si intende invece la concezione etico-politica in base alla quale lo Stato non è legittimato ad usare la coercizione contro la volontà dell’individuo che coscientemente voglia tramite un’azione o un’omissione arrecarsi un danno. Entra così in campo il famoso principio del danno (‘Harm to Others Principle’) di Mill, il quale
11 Voce Felicità in N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, UTET, 1971, p.
384.
12 Cfr. G. Zanetti, Amicizia, felicità, diritto. Due argomenti sul perfezionismo giuridico, Roma, Carocci, 1998, p. 22.
13 Cfr. G. Maniaci, Contro il paternalismo giuridico, Torino, Giappichelli, 2012.
14 Cfr. G. Dworkin, Paternalism, in R. Sartorius (ed. by), Paternalism, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1983, p. 20, cit. in Maniaci, Contro il paternalismo giuridico, cit., p. 2.
15 Cfr. Maniaci, Contro il paternalismo giuridico, cit., p. 2.
può essere riferito, secondo gli antipaternalisti moderati, a tutti gli individui che siano adulti, razionali, sufficientemente istruiti o con capacità di conoscenza e liberi da costrizioni di vario genere16.
Per l’antipaternalismo radicale, infine, lo Stato non ha alcun margine di intervento nella sfera dell’individuo, a prescindere dalle condizioni in cui egli si trovi. Sono assai pochi, invero, a sostenerne le ragioni, poiché assai pochi dubitano che in alcuni casi sia doveroso riservare un certo margine d’azione allo Stato, basti pensare alle persone affette da gravi handicap fisici o mentali, nonché ai minori di età o a coloro che vengano a trovarsi in stato di totale incoscienza17.
Kant utilizza un argomento antipaternalista nell’analizzare il rapporto individuo-stato:
un governo fondato sul principio della benevolenza verso il popolo, come il governo di un padre verso i figli, cioè un governo paternalistico in cui i sudditi, come figli minorenni che non possono distinguere ciò che è loro utile o dannoso, sono costretti a comportarsi solo passivamente, per aspettare che il capo dello stato giudichi in qual modo devono essere felici, e ad attendere solo dalla sua bontà che egli lo voglia, è il peggior dispotismo che si possa immaginare18.
Oggi l’influenza antipaternalista sull’uomo della strada è sicuramente forte e deriva dai principi sempre attuali dell’illuminismo e della Rivoluzione francese che permeano la maggior parte delle costituzioni e delle carte di diritti internazionali; non sembra in genere ammissibile che uno stato imponga un particolare ideale di felicità comune ad ogni singolo individuo. Il diritto all’autonomia individuale è tutelato ormai come una delle libertà fondamentali dell’uomo; il potere di
16 Ivi, p. 3.
17 Ivi, p. 6.
18 Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, cit., p. 255.
decidere del proprio destino e di organizzare il piano della propria vita in relazione agli interessi e agli ideali che riteniamo migliori è anche il valore principale della concezione antipaternalista, secondo la quale ognuno dovrà essere libero di arrecare a sé quel che ad ogni altro potrà apparire come un danno in quanto l’individuo è padrone del proprio corpo e della propria mente, che non appartengono a Dio o ad una autorità terrena, tanto meno alla comunità.
L’autonomia è un concetto complesso, “un insieme di libertà, capacità o opportunità che lo Stato dovrebbe, rispettivamente, tutelare, sviluppare, creare”19, e può essere raggiunta ad un livello sufficiente solo se vengono rispettate alcune fondamentali condizioni. Il soggetto innanzitutto deve poter essere in grado di prendere decisioni razionali, non determinate da un’immaturità psicologica derivante dalla minore età o da psicopatologie permanenti o temporanee. Tali difetti, in linea di massima, possono consentire l’interferenza dello Stato nella sfera dell’autonomia dell’individuo. In secondo luogo la volontà di compiere azioni che attentino al proprio bene (o, forse, meglio, a quel che ad altri appare tale) deve essere sufficientemente libera da coazione o pressioni coercitive. Inoltre la volontà di arrecarsi un danno deve essere duratura, stabile nel tempo, non può essere preda dell’impulsività o dell’incertezza di una decisione. Il soggetto deve essere competente in relazione a ciò che sta per compiere e deve conoscere o essere in grado di conoscere le conseguenze del proprio agire. Su questo punto, in ottica antipaternalista, si ammette la possibilità di un’interferenza dello Stato molto limitata e dettata da una procedura puntuale, non certo sostanziale, che non deve curarsi della disciplina dei desideri, delle preferenze e del piano di vita degli individui ma
19 Maniaci, Contro il paternalismo giuridico, cit., p. 76.
solo delle circostanze di tempo e di luogo in cui tali desideri verranno realizzati. Lo Stato non deve valutare il percorso di vita dell’individuo, ma deve mettere in condizione ogni soggetto di scegliere tra i progetti di vita (o di non vita), mettendolo al corrente delle conseguenze dannose della sua azione.
Se il valore dell’autonomia è contraddistinto dal diritto di realizzare il proprio piano di vita, sembra doveroso configurare il corrispondente ‘diritto ad essere lasciati in pace’.
Un diritto all’infelicità nel rapporto individuo-Stato è sicuramente configurabile in una concezione liberale e questo si ripercuote nel rapporto tra diritto e morale e sull’integrazione dell’individuo nella società, ma è giusto analizzare anche l’approccio perfezionista, ed i suoi esiti paternalistici. In questa concezione l’individuo è parte della collettività, e quindi in continua relazione con essa; per usare la definizione di Aristotele, il cittadino è membro del tutto della polis, intesa come
‘holon’, una totalità costituita dalle singole parti differenziate (“l’altro secondo la specie”20), in contrapposizione con il termine
‘pan’ che indica il tutto costituito da più parti non specificatamente individuate.
È indispensabile che ogni individuo venga indirizzato, anche con mezzi coercitivi, verso un ideale di eccellenza morale;
lo Stato dovrà aiutare i soggetti a perfezionarsi in un percorso di crescita che miri ad una fioritura completa delle possibilità del soggetto. Con la fioritura di ogni singolo soggetto sarà possibile un netto miglioramento della collettività.
La lettura di Rawls focalizza l’attenzione sull’individuo, come antecedente logico rispetto alla collettività, ed è paradigmatica del pensiero liberale moderno. Tale pensiero si scontra con quello di Finnis, interprete di una originale
20 Cfr. Aristotele, Metafisica, trad. it. di A. Russo, Roma-Bari, Laterza, 1973, 1045a 7-10.
concezione del perfezionismo, che non deve essere per forza inteso come moralismo giuridico. Una concezione del genere infatti sembra scontrarsi irrimediabilmente con alcuni principi presenti nella maggior parte delle costituzioni occidentali come il pluralismo etico e culturale, che non tollera l’imposizione di modelli di vita, seppur virtuosi, propri di uno Stato etico.
Il tentativo di Finnis, conscio di queste problematiche, è quello di sottolineare come il sistema delle virtù possa essere insegnato e in qualche modo indotto: l’uomo come un bambino può e deve essere educato al riconoscimento di quello che davvero risponde ai suoi fini e di ciò che è dannoso o futile; deve essere accompagnato per mano verso una giusta fioritura, anche sotto la paura di una coercizione, che è in taluni casi strumento necessario a comprendere gli obiettivi di benessere e felicità, insiti nella profondità della natura dell’uomo.
Questa concezione è criticata dal pensiero liberale, secondo Dworkin21, ad esempio, l’idea che gli uomini possiedano determinati desideri e bisogni in virtù della loro natura è più che altro un’ideologia che cela, nonostante l’uso di nozioni oggettive, l’imposizione di un modello di comportamento ed interferisce, quindi, indebitamente con il bene dell’autonomia dell’individuo.
Sarebbe necessario poter misurare e verificare empiricamente beni come il benessere e la felicità per potervi poggiare una teoria che possa essere applicata alla vita di un gruppo di soggetti. Per Dworkin è oggettivamente impossibile, ad esempio, prescrivere il raggiungimento di valori come quello dell’amicizia ad un individuo, che nonostante gli uomini siano naturalmente sociali, preferisca non coltivare tale tipo di virtù per il raggiungimento del proprio benessere: “dal fatto che qualcosa fa
21 Cfr. R. Dworkin, Virtù sovrana. Teoria dell’uguaglianza, Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 237-238.
parte della natura umana non segue che ci si debba conformare alla propria natura”22.
È interessante allora concentrarsi su una posizione di perfezionismo moderato, che cerca di contemperare il valore dell’autonomia individuale con le possibili interferenze di uno Stato etico; certo non è facile un bilanciamento quando ci sono in gioco valori indeterminati ed è difficile pensare ad una procedura coerente con cui uno stato possa indurre i soggetti ad essere, ad esempio, più o meno coraggiosi.
Tutto questo non è estraneo al classico problema liberale della separazione tra diritto e morale, anzi, ne costituisce le basi teoriche, e non è un caso che alcuni autori, come Finnis, cerchino di superare il dogma della separazione tra diritto e morale, sancito, ad esempio, da Hart. Lo stesso Hart, del resto, in The Concept of Law23 (1961) sostiene la tesi che ci sarebbe un
“contenuto minimo di diritto naturale” in tutti i sistemi giuridici delle società mediamente sviluppate, ovvero una corrispondenza tra diritto e morale, la cui funzione sarebbe quella di rispondere ad alcuni problemi basilari della convivenza tra gli esseri umani.
La nozione di individuo propria della tradizione liberale è quasi completamente scevra dalle esigenze della collettività; il liberalismo infatti “ha sempre come suo costante punto di riferimento la difesa dei diritti dell’individuo […] contro i diritti delle ‘astrazioni’ (il popolo, la collettività ecc.) perché l’individuo è la sola realtà esistente e quelle astrazioni sono poi composte da individui”24.
22 B. Celano, Dialettica della giustificazione pratica, Torino, Giappichelli, 1994, p.
577.
23 Cfr. H. L. A. Hart, The Concept of Law, trad. it. di M. Cattaneo, Torino, Einaudi, 1991.
24 N. Matteucci, Il liberalismo in un mondo in trasformazione, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 78.
Proprio in relazione alle problematiche relative all’autonomia dell’individuo Joseph Raz offre un singolare punto di vista. Egli considera la persona autonoma quando può dirsi autrice della propria vita; in ogni caso non ritiene opportuno interpretare l’autonomia in senso assoluto, ma sostiene la possibilità che tale bene subisca delle limitazioni, che possono essere previste a favore di una più grande autonomia altrui o a favore di una più grande autonomia futura della stessa persona. Il pensiero tipicamente liberale di Raz è singolare in quanto elaborato su basi non propriamente individualistiche: Raz si mostra infatti convinto che esista una definita public culture come sostrato dei diritti soggettivi maggiormente presi in considerazione dai liberali. Tale concezione filosofica può essere definita ‘perfezionismo liberale’25.
Martin D. Farrell critica questa impostazione osservando come siano configurabili due tipi di anti-individualismo: uno moderate e uno unrestricted26. Gli anti-individualisti moderati ritengono che la concezione del bene all’interno di una società sia condivisa e che quel che è giusto e buono per tutta la comunità lo sia anche per la parti che la costituiscono. Gli altri sostengono invece che sia possibile configurare un bene per la comunità che non sia anche un bene per le singole parti. A tal proposito Farrell ritiene che solo apparentemente Raz adotti la prima prospettiva, l’unica conciliabile con l’idea di autonomia, e non a caso lo definisce: “More liberal than Devlin, less liberal
25 “Raz è un esponente del positivismo giuridico della scuola analitica, ma è nello stesso tempo un filosofo morale di ispirazione neoaristotelica, sostenitore del naturalismo in etica; è inoltre filosofo politico liberale che però si oppone al neutralismo dominante nella tradizione liberale contemporanea e rivendica la legittimità del perfezionismo e di una moralità liberale fondata sul valore dell’autonomia a giustificazione e guida delle istituzioni politiche liberali.” A. E.
Galeotti, Joseph Raz e il perfezionismo liberale, in Zanetti, Filosofi del diritto contemporanei, cit., pp. 101-102.
26 Cfr. M. D. Farrell, Autonomy and Paternalism: The Political Philosophy of Joseph Raz, in «Ratio Juris», 1991, pp. 52-60, cit. in Zanetti, Amicizia, felicità, diritto. Due argomenti sul perfezionismo giuridico, cit., p. 80.
than Hart”27, intravedendo nel suo pensiero un certo autoritarismo e una difesa di valori morali che sembra considerare oggettivi.
L’autonomia concettualmente non ha bisogno di valori oggettivi. Questo concetto sta alla base della famosa disputa sulla contaminazione del diritto con la morale, quindi non a caso Farrell richiama Lord Devlin e Hart. La questione è paradigmatica del tema dell’autonomia dell’individuo qui affrontata. Il Wolfenden Committee Report, pubblicato nel 1957 dalla Committee on Homosexual Offences and Prostitution in Gran Bretagna, è uno studio che contiene raccomandazioni per le leggi che regolano il comportamento sessuale. Prende il nome dal presidente della comitato, Sir John Wolfenden, che utilizzando le scoperte della psicoanalisi e delle scienze sociali invita ad evitare interferenze pubbliche nella regolamentazione degli atti sessuali ed auspica la depenalizzazione del legame omosessuale privato tra adulti consenzienti (la normativa di attuazione di queste raccomandazioni è stata emanata nel Sexual Offences Act del 1967). L’ispirazione liberale è chiara; il comitato ha una concezione antipaternalista e antimoralistica e partendo dall’Harm principle di Mill distingue tra azioni self- regarding e other-regarding: la legge non dovrebbe occuparsi delle prime, adducendo come motivazioni criteri di moralità.
Secondo il report l’ambito del diritto e della morale devono rimanere rigidamente separati e che il regno della morale privata non può diventare business pubblico.
Lord Patrick Devlin, nella celebre disintegration thesis, fa notare come una morale condivisa sia una prerogativa per la difesa della società:
27 Ibidem.
Without shared ideas on politics, morals, and ethics no society can exist [...] A common morality is part of the bondage. The bondage is part of the price of society; and mankind, wich needs society, must pay its price28.
H. L. A. Hart d’altra parte, ritiene che sia inaccettabile che sia l’autonomia dell’individuo a pagare il prezzo per la realizzazione della società e che sia tutelata la morale positiva attraverso le strutture coercitive del diritto:
No doubt we would all agree that consensus of moral opinion on certain matters is essential if society is to be worth living in. [...]
So much is obvious. But it does not follow that everything to which the moral vetoes of accepted morality attach is of equal importance to society; nor is there the slightest reason for thinking of morality as a seamless web: one wich will fall to pieces carrying society with it, unless all its emphatic vetoes are enforced by law29.
Argomentazioni forti contro il principio di Mill e contro una visione del diritto nettamente separato dalla morale sono quelle di Joel Feinberg30, che ammette la regolamentazione giuridica delle self-regarding actions. L’autore immagina una scena tipica dei film western: un fortino è attaccato da un numeroso gruppo di indiani. Tra gli uomini che hanno il compito di difendere donne e bambini c’è John Wayne, che, in preda allo sconforto, decide di compiere l’estrema self-regarding action, l’harm to self. In questo caso, osserva Feinberg, le conseguenze della sua azione si ripercuoteranno anche sugli altri ed essa causerà un danno per tutta la comunità. Del resto lo stesso Hart ritiene che ‘nessun uomo sia un’isola’; ogni azione del singolo si riversa inevitabilmente sulla comunità di appartenenza.
28 P. Devlin, The Enforcement of Morals, Oxford, Oxford University Press, 1965, cit.
in Zanetti, Amicizia, felicità, diritto, cit., pp. 80-81.
29 H. L. A. Hart, Immorality and Treason, in R. M. Baird-S. E. Rosenbaum, Morality and The Law, Buffalo (NY), Prometheus Books, 1988, p. 50, cit. in Zanetti, Amicizia, felicità, diritto, cit., pp. 80-81.
30 Cfr. J. Feinberg, Harm to Self, Oxford, Oxford University Press, 1986, p. 22.
Lo studio delle questioni relative al rapporto tra diritto e morale, paternalismo e antipaternalismo (e di riflesso concezioni perfezioniste e liberali), rende chiaro che il tema dell’autonomia dell’individuo è inscindibile da quello della previsione dei limiti dell’azione pubblica da parte dello Stato e dà modo inoltre di riflettere sui rapporti che intercorrono tra la comunità, intesa come un tutto politico, ed ogni singolo soggetto che ne fa inevitabilmente parte. Su quest’ultimo aspetto Ronald Dworkin, in occasione della decisione della Corte Suprema in merito alla sentenza Bowers v. Hardwick31, delinea due diversi modi di raffigurare la comunità. Da una parte la si può intendere come un semplice raggruppamento, un mero aggregato atomistico, che implica il rischio di una tirannia della maggioranza, la quale potrebbe influire anche sul tema dell’agire morale. Dall’altra come un tutto, che privilegia l’idea della comunità, come indipendente dai singoli individui ed antecedente agli stessi.
Conscio dei punti deboli di entrambe le visioni, ne suggerisce una in cui il tutto non abbia alcuna priorità e riesca ad integrare ognuna delle sue parti, il cosiddetto ‘modello orchestra’32. La vita di un’orchestra presuppone una serie di atti necessariamente collettivi che derivano dalla coordinazione di atti individuali.
Questo non vale certo per azioni che esulano dagli scopi della collettività, come per esempio l’attività sessuale dei musicisti che la compongono. Come del resto le leggi, le sentenze, le decisioni del potere esecutivo del governo sono atti politici formali, non certo imputabili ai singoli individui. Al di là del rapporto continuo tra individuo e tutto, la comunità politica non deve pretendere di coordinare tutti gli aspetti della vita dei singoli, soprattutto quelli che non la influenzano direttamente. Così come
31 Bowers v. Hardwick, 478 U.S. 186 (1986). Sentenza nella quale si afferma la costituzionalità di una legge della Georgia che configura la sodomia come reato.
32 Cfr. R. Dworkin, La comunità liberale, in A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Roma, Editori riuniti, 1992, pp. 195-228.
non sembra possibile pensare che per suonare meglio una sinfonia di Beethoven un’orchestra debba coordinare l’attività sessuale dei suoi componenti, anche la comunità politica dovrebbe astenersi dal disciplinare di quelle attività che non aumentano direttamente il benessere della collettività.
Anche questa concezione, d’altra parte, non è esente da critiche, come sottolinea Selznick, secondo il quale la comunità politica non ha, in realtà, un proprio fine speciale: “governare significa infatti accettare una responsabilità complessiva per il benessere dei governati”33:
Selznick nega la separazione tra diritto e morale ed auspica un intervento pubblico al fine di costruire un ideale di eudaimonia che contemperi una felicità soggettiva e una oggettiva.
Le istituzioni politiche devono formulare dei giudizi i quali hanno influenza sulla prosperità, sull’educazione, e sull’ordine morale [...]. La comunità è l’intera matrice all’interno della quale gli individui incontrano ed esperiscono una vita comune.
La qualità di questa più ampia comunanza non può essere ignorata34.
Lo scopo di un’orchestra o di un fortino, essendo aggregazioni ridotte, può risultare chiaro e condiviso, ma non può valere altrettanto per la comunità politica intesa in senso generale, sempre alle prese con questioni difficilmente definibili e con una serie complessa di obiettivi da raggiungere, che non si limitano alla sopravvivenza e al benessere della comunità.
Ecco così riaffacciarsi il tema della felicità. Se si considera il tutto, ovvero la comunità politica, come qualcosa di più di una semplice orchestra, per molti sembra possibile configurare un
33 Cfr. Philip Selznick, Il compito incompiuto di Dworkin, in A. Ferrara, Comunitarismo e liberalismo, cit., pp. 229-241.
34 Ivi, p. 231.
intervento normativo per tutti gli aspetti della vita sociale.
Moderne forme di moralismo giuridico possono basarsi su una verità etica oggettiva o su un concetto di morale condivisa. Nel primo caso si contrappone ad una concezione liberale e antipaternalista, che si incentra sull’autonomia dell’uomo, una verità secondo la quale “determinate pratiche sono moralmente reprensibili e dunque meritano di essere proibite”35. Nel secondo caso, riconducibile alla disintegration tesi di Lord Devlin, si assume come valida l’opinione diffusa sulla moralità o meno di una determinata pratica in una comunità, in un dato momento storico.
Molte delle attuali posizioni giusnaturaliste del perfezionismo, come quella di John Finnis, sono tuttavia caratterizzate da un moralismo più moderato. Dopo la disputa tra Hart e Devlin a proposito del Wolfenden Committee Report e la sentenza Bowers v. Hardwick, anche la sentenza Romer v.
Evans36 è occasione di scontro tra esponenti del liberalismo e sostenitori del perfezionismo sul tema del legal enforcement of morals. Precisamente viene sollevata una questione di costituzionalità sul secondo emendamento della costituzione dello Stato del Colorado. Tale emendamento, entrato in vigore nel 1992 a seguito di un referendum, avrebbe impedito, all’interno dei confini del Colorado, di porre in essere azioni legislative, esecutive o giudiziali finalizzate a riconoscere ai cittadini omosessuali lo status di “protected class”. Finnis, chiamato ad esprimere un parere, cerca di giustificare razionalmente l’emendamento partendo dal concetto aristotelico e platonico di amicizia per sottolineare come la condotta omosessuale sia radicalmente incompatibile con il bene comune
35 M. J. Sandel, Il discorso morale e la tolleranza liberale, in A. Ferrara, Comunitarismo e liberalismo, cit., pp. 251-273.
36 Romer v. Evans, 517 U. S. 620 (1996).
derivante dalle relazioni di amicizia. Secondo Finnis le tesi sostenute al riguardo dai due autori dimostrerebbero che nella società ateniese del IV secolo a. C. era presente una moralità pubblica contraria alla condotta omosessuale, vista come qualcosa di vergognoso, immorale e sostanzialmente sbagliato.
Con queste argomentazioni Finnis fa notare come già prima dell’avvento del cristianesimo fosse presente una certa morale condivisa contro tali atti.
L’approfondimento del concetto di “assoluti morali”37 rende chiare le ragioni dell’avversione di Finnis verso le pratiche omosessuali. Si tratta sostanzialmente di norme che non ammettono eccezioni sul piano morale. Gli assoluti morali ad esempio non tollerano l’aborto, il suicidio, l’adulterio, gli atti omosessuali e la blasfemia. Secondo Finnis tali norme sono legittimate “dalle basi cogenti della fede e della ragione” e sono radicate già nel pensiero aristotelico:
non ogni azione né ogni passione accoglie la medietà, alcune infatti hanno nomi che immediatamente le connettono strettamente alla cattiveria, come ad esempio malevolenza, imprudenza, invidia, e, tra le azioni, adulterio, furto, omicidio.
Infatti tutte queste cose, e quelle simili, sono biasimate per essere ignobili esse stesse, e non i loro eccessi né i loro difetti38.
Le pratiche vietate dagli ‘assoluti morali’ possono essere anche viste dal punto di vista della ragionevolezza pratica, la quale pretende che ogni azione sia finalizzata al conseguimento di uno dei beni fondamentali. Necessariamente qualunque azione che non persegua un valore fondamentale, o lo contrasti, viene considerata razionalmente ingiustificabile.
37 Finnis, Gli assoluti morali. Tradizione, revisione e verità, tr. it. di A. M.
Maccarini, Milano, Ares, 1993, p. 18.
38 Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di Carlo Natali, Roma-Bari, Laterza, 2012, II, 6, 1107a 9-13.
Contro questa impostazione paternalista si pone il pensiero liberale di Martha Nussbaum, la quale prende posizione contro Finnis nel dibattito provocato dalla sentenza Romer v. Evans.
L’autrice evidenzia criticamente il ruolo svolto nel diritto dalle emozioni, e in particolar modo dal “disgusto” e dalla
“vergogna”39, dubitando che esse possano costituire una guida affidabile per l’azione pubblica dello Stato.
Secondo Nussbaum certe emozioni non dovrebbero costituire un fatto rilevante e frequente nel diritto. Il disgusto esprime un sentimento di ripugnanza nei confronti di coloro che vengono ritenuti portatori di contaminazione ed ha attinenza con la relazione problematica che abbiamo con la nostra ‘animalità’.
Da questo livello primario individuale si propaga fino ad essere proiettato verso gruppi di persone socialmente più vulnerabili. È chiaro come tale emozione non possa costituire un criterio ragionevole, perché non sempre coincide con l'individuazione di un pericolo reale. Nussbaum ritiene che il disgusto attualmente svolga un ruolo importante nel diritto, come giustificazione della repressione di certi atti o della discriminazione di certe pratiche.
Tale ruolo normativo andrebbe rivisto, in quanto il disgusto non può essere un criterio di orientamento degno di guidare l'azione pubblica.
Altrettanto vale per il sentimento della vergogna, la quale non dovrebbe essere usata come strumento di punizione o di deterrenza da parte dello Stato. Spesso diventa invece insieme all’umiliazione e all’imbarazzo uno dei mezzi di coercizione utilizzati per mettere in luce le debolezze dell’uomo.
La commistione di tali emozioni con il diritto non contribuisce all’accrescimento della tutela del bene fondamentale dell’autonomia individuale. Nussbaum cerca così di delineare i
39 Cfr. M. Nussbaum, Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, Roma, Carocci, 2004.
tratti di una ‘teoria liberale progressista’ in grado di rafforzare il sistema dei diritti civili e delle libertà individuali. Si basa sull’Harm Principle di Mill e sulla distinzione tra azioni self- regarding e other-regarding, come elemento fondamentale per definire la sfera di significato della libertà individuale.
Nussbaum afferma inoltre di condividere l’impostazione liberale di Rawls, il quale antepone il valore del singolo individuo rispetto al benessere sociale e riconosce ad ognuno pari libertà.
Ogni singola persona infatti possiede una sfera inviolabile di libertà basata sulla giustizia, in nessun modo comprimibile dalla collettività. Queste sono, per l'autrice, le due componenti fondamentali di una liberalismo progressista in grado di difendere la dignità e la libertà dell'individuo e di tenere conto della vulnerabilità della natura umana, senza approfittarsene.
In definitiva le capacità che una società liberale dovrebbe sviluppare sono: “la capacità di intrattenere ed apprezzare relazioni di interdipendenza con gli altri […]; la capacità di riconoscere l’imperfezione, l’animalità e la moralità in se stessi e negli altri”40. Attraverso tali capacità il proposito della Nussbaum di realizzare una società che segua i principi del liberalismo progressista potrebbe finalmente concretizzarsi:
una società che riconosca la propria umanità e che non ci nasconda da essa né la nasconda a noi stessi; una società di cittadini che ammettano di essere tutti vulnerabili ed esposti al bisogno, e che rinuncino alle richieste grandiose di onnipotenza e di perfezione che sono state al centro di una tale quantità di miseria umana nella storia, tanto a livello pubblico che privato41.
Nussbaum adotta una visione liberale della società, condividendo il pensiero di Rawls e rigettando al contempo il perfezionismo di Finnis. Finnis vuole dimostrare che l’uomo è
40 Ivi, p. 402.
41 Ivi, p. 35.
portato dalla sua natura a ricercare razionalmente il bene, al contrario Nussbaum ritiene che l’uomo sia caratterizzato soprattutto dalle emozioni, che ne contraddistinguono il lato animale.
§.1.1. Amicizia, paradigma del rapporto tra individuo e comunità.
Il diritto all’infelicità non può essere considerato solo dalla prospettiva del singolo individuo, ma deve essere analizzato anche dalla prospettiva della comunità. È necessario, allora, approfondire il rapporto individuo-collettività, al fine di completare la riflessione sul legal enforcement of morals. La nozione di ‘amicizia’ può essere utile a sviluppare ed arricchire tale tematica, data la sua connessione con il tema della felicità e la sua sospensione tra la sfera privata e quella politica. Dopo una ricostruzione storica del termine è importante spiegare, nell’ottica della disputa tra diritto e morale, come la filosofia liberale moderna, pur essendo riuscita ad affermare il principio del relativismo etico, non si sia affrancata del tutto da una concezione antica di amicizia politica, intesa come un sentimento morale universale42.
Sia Finnis che Rawls danno estrema rilevanza all’amicizia e fondano le loro dottrine su basi aristoteliche. Il primo la annovera tra i valori fondamentali, uno dei principi della legge di natura; il secondo la pone come mezzo principale nell’apprendimento del sentimento morale di giustizia.
Già nel mondo antico, del resto, questo concetto ha una grande importanza e si contraddistingue per la pluralità di significati e per il superamento del riferimento alla sfera privata, elementi che dovrebbero caratterizzare anche l’attuale discussione sul concetto di felicità43. L’analisi del termine
‘philia’ potrebbe servire così a far emergere il concetto di infelicità politica, ossia il diritto dell’individuo visto in relazione
42 Cfr. Zanetti, Amicizia, felicità, diritto, cit., pp. 97-99.
43 Cfr. ivi, pp. 100-112.
alla collettività politica che garantisce la scelta tra la possibilità di instaurare rapporti di amicizia e quella di non integrarsi.
È possibile notare una duplice sfaccettatura dell’amicizia nell’Antigone di Sofocle. La ragazza decide di dare degna sepoltura al corpo del fratello Polinice, nonostante un decreto del sovrano, Creonte, lo vietasse.
Nella tragedia si delineano due concezioni dell’amicizia, da una parte la philia non politica della fanciulla, dall’altra la philia politica del sovrano. Antigone, infatti, promuove l’ideale del genos, concentrandosi su principi etici e religiosi; al contrario Creonte considera nemico della patria colui che ha agito con empietà verso di essa e ritiene le leggi della polis superiori a quelle divine. La donna collega l’amicizia al concetto di giustizia e non le attribuisce alcuna connotazione politica; mentre il sovrano valuta soltanto l’aspetto politico della philia, in quanto mira esclusivamente a ristabilire l’ordine dello Stato senza curarsi dei principi di giustizia delle leggi divine.
L’amicizia, dall’Antigone in poi, viene trattata come un
‘problema politico’, “collegato alla riflessione sulla giustizia e alle modalità di appartenenza dell’individuo alle comunità con le quali sceglie di auto identificarsi”44.
Anche Aristotele conosce un concetto di amicizia ampio e ricco di significati. La base comune può essere individuata indifferentemente nella virtù, nel piacere o nell’utile. Nel senso più pieno philia indica quella relazione in cui un uomo agisce esclusivamente per amore dell’altro. Per questo Finnis la ritiene uno degli aspetti fondamentali del benessere dell’uomo: “l’amore di sé esige che si vada oltre l’amore di sé”45. Questo tipo di relazione sembra operare come la ragionevolezza pratica, in quanto adotta un punto di vista terzo rispetto a quello dei singoli
44 Ivi, pp. 105-106.
45 Finnis, Legge naturale e diritti naturali, cit., p. 154.
individui, in cui la prospettiva del bene del soggetto e del proprio amico si fondono. L’eudaimonia, per Aristotele, è strettamente collegata al concetto di amicizia virtuosa, ma non per questo è possibile trascurare quella derivante dal piacevole o dall’utile. In generale l’amicizia può essere vista come la “forma di comunità umana più comunitaria”46, nella quale gli amici raggiungono il benessere personale soltanto collaborando al bene comune.
L’amicizia risponde così all’esigenza pratica di promuovere il bene comune all’interno della comunità e tale esigenza implica direttamente il concetto di giustizia. Per Aristotele infatti ogni comunità che si voglia ritenere giusta deve necessariamente basarsi su una forma di philia che faciliti la cooperazione:
sembra che l’amicizia e il giusto abbiano le stesse cose per oggetto e le stesse persone per soggetto. Infatti tutti convengono che in ogni comunità vi è una forma di giustizia ma anche di amicizia47.
L’uomo è inteso come animale sociale che tende alla perfezione della polis a cui giunge solo tramite forme intermedie di associazione, come la famiglia e i villaggi. Entrambe, pur influenzando la vita degli uomini fin dalla nascita, sono insufficienti a garantire completamente il loro benessere. Solo all’interno di una comunità completa, che riesca a coordinare le azioni delle famiglie e delle associazioni intermedie, è possibile raggiungere una forma di amicizia virtuosa e perfetta, detta teleia.
Aristotele contribuisce a conservare la pluralità di significato del termine philia e consente di riflettere sul tema specifico dell’amicizia politica, definita homonoia. La concordia si riscontra “quando i cittadini hanno eguali vedute sui loro
46 Ibidem.
47 Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1159b 25-28; 1155b 28-29.
interessi e prendono le stesse decisioni e mettono in atto ciò che hanno deciso in comune”48; ciò rende stabile l’ordine politico della polis. La concordia è configurata come una delle tante forme di amicizia, fondamentale per la collettività, ma non per questo superiore alle altre. Il cittadino di Aristotele, allora, non è considerato esclusivamente nella sua dimensione individuale e privata, ma è continuamente immerso in relazioni più o meno profonde con gli altri. Proprio grazie a questa concezione è possibile contemperare le posizioni di Antigone e Creonte e non considerarle come due monadi irrelate49.
Nell’era moderna l’ottica liberale e individualista ha solitamente trascurato la ricchezza di significati del concetto di amicizia e si è concentrata sull’accezione afferente alla sfera privata, relegandone l’aspetto politico al ruolo marginale di strumento per ottenere reciproci vantaggi.
Finnis, grazie a una base aristotelica, è riuscito a restituire all’amicizia l’antica pluralità di significati e la rilevanza
‘politica’ che ebbe nell’antichità, includendola tra i beni fondamentali dell’uomo e considerandola indispensabile per il raggiungimento del bene comune. E tuttavia egli non ritiene che essa sia sufficiente al raggiungimento del completo benessere della comunità.
Finnis inoltre rende la sua concezione di philia compatibile con il legal enforcement of morals, ritenendo che essa debba sempre conciliarsi con un ideale di flourishing. Un diritto all’infelicità, in questa ottica, non può essere certamente.
configurabile, in quanto non sarebbe in grado di fornire alcun bene alla persona, tanto meno di contribuire al raggiungimento del bene comune all’interno della società.
48 Ivi, 1167a 26-28.
49 Cfr. Zanetti, Amicizia, felicità, diritto, cit., p. 116.
Rawls, invece, si concentra maggiormente sull’aspetto politico della philia, così da concepirla idealmente come la condivisione di un sentimento morale basato sui principi di giustizia. Presupponendo che tutti gli uomini abbiano un sentimento morale e che riconoscano i medesimi principi di giustizia, l’amicizia diventa uno strumento per integrarsi all’interno della collettività; in questa accezione, l’amicizia rispecchia il concetto aristotelico di homonoia.
Anche Rawls, sebbene muova da premesse liberali, ha una concezione di amicizia politica talmente forte da non prendere veramente in considerazione il fatto che possa essere configurato un diritto all’infelicità meritevole di tutela50. L’amicizia è un mezzo utile all’apprendimento morale e al rafforzamento delle relazioni di coordinazione e cooperazione all’interno delle associazioni intermedie tra le famiglie e lo Stato.
La logica liberale moderna, contraddistinta dall’accettazione del pluralismo etico, cade in una contraddizione evidente, in quanto, promuovendo il concetto di una amicizia politica universale, non riesce a riconoscere l’esistenza della pluralità di tipi di philia che contraddistinguono la varietà dei gruppi intermedi. I legami che si creano in queste comunità più ristrette tendono spesso a scontrarsi creando conflitti di natura morale. È quindi necessario riconoscere la validità dei vari significati dell’amicizia, in modo da tenere in egual considerazione tutte le relazioni che caratterizzano la vita degli uomini. I legami familiari e quelli che si instaurano all’interno delle varie associazioni intermedie non dovrebbero essere posti in secondo piano rispetto alla philia politica, intesa come homonoia.
50 Cfr. ivi, p. 120.
Il coordinamento tra le diverse realtà sociali e i vari significati di amicizia richiede allora un ‘passo indietro’ rispetto alla previsione di una philia universale e totalizzante, come nelle teorie di Finnis e Rawls. La collettività politica, quindi, deve essere disposta a concedere un diritto all’infelicità e non deve imporre un proprio ed unico ideale di eudaimonia, configurando un sistema etico. Non è possibile configurare una amicizia politica secondo un ethos universale, tale da ammettere l’integrazione di valori morali nel diritto51.
Il liberalismo giuridico deve allora liberarsi dalle catene della concezione di concordia, come amicizia politica fondata su determinati valori morali, se vuole essere coerente con la visuale pluralista che riconosce giuridicamente le varie realtà sociali frutto delle varie concezioni di amicizia. Riconoscendo il pluralismo di significato della philia ogni individuo sarebbe in grado di scegliere tra la felicità di integrarsi all’interno della comunità e quella di chiamarsi fuori dalla collettività.
In conclusione è necessario puntualizzare cosa si può intendere con pluralismo della philia:
pluralismo della philia significa, in altri termini, una forma di pluralismo che può rendere conto sia di forme di pluralismo etico sia di pluralismo di genere, sia di pluralismo relativo a categorie entry-exit, sia di pluralismo etnico, o religioso, o relativo agli stili di vita, e così via. L’esistenza di un gruppo identificabile da vincoli di amicizia è sufficiente52.
Se accettiamo di dare una forza del genere alla concezione di amicizia, possiamo risolvere i problemi in merito all’interferenza tra diritto e morale, nonché dare il giusto spazio alla parte nel rapporto con il tutto, legittimando il diritto all’infelicità, e in generale tutelare il bene fondamentale dell’autonomia
51 Cfr. ivi, p. 121.
52 Ivi, p. 126.
dell’individuo. Essere autonomi non può consistere nel condividere un sentimento morale universale e totalizzante, sebbene eccellente e virtuoso, ma vuol dire poter far parte di diverse comunità contemporaneamente, ognuna caratterizzata da una relazione di amicizia diversa, e allo stesso tempo essere membro della collettività nel suo complesso.
CAPITOLO II
Finnis e Rawls: perfezionismo contro liberalismo.
L’analisi delle maggiori opere di John Finnis (Legge naturale e diritti naturali) e John Rawls (Una teoria della giustizia) può essere paradigmatica per la comprensione delle concezioni filosofiche del paternalismo-perfezionismo e del liberalismo. Lo scopo è quello di riuscire ad individuare il pensiero che riesce maggiormente a rispondere all’esigenza di bilanciamento tra il bene dell’autonomia dell’individuo e quello della collettività e a definire così i margini della possibilità di intervento pubblico del ‘tutto politico’. Viste le contrastanti opinioni sul tema della contemperazione tra morale e diritto è impossibile ricercare una risposta assoluta che metta d’accordo tutti, ma è auspicabile stimolare il confronto su un tema che coinvolge uno dei beni fondamentali dell’uomo: l’autonomia individuale.
Da una parte è opportuno prendere in considerazione il pensiero perfezionista, che privilegia il concetto di bene, come impegno massimo nello sviluppo della propria natura umana, tentando di ricostruire la dottrina del diritto naturale di Finnis.
Dall’altra il pensiero liberale basato sulla prevalenza del concetto di giusto su quello di bene e sulla necessità di eguale considerazione di ogni cittadino (individuo) da parte dello Stato (tutto politico), soffermandosi sulla teoria della giustizia di Rawls.
Il presente lavoro, pur privilegiando l’analisi della teoria della giustizia come equità, tiene conto del fatto che A Theory of justice sia stata seguita da Political Liberalism, in cui l’autore cerca di superare le aporie riscontrate nella sua più famosa teoria,
in seguito al dibattito filosofico scaturito dalla sua prima pubblicazione53.
In particolare Rawls cerca di limitare la portata universale della teoria della giustizia come equità, contestualizzandola più concretamente all’interno delle “società liberaldemocratiche occidentali”54. A Theory of Justice non sarebbe stata in grado di rispondere al quesito che si pone Rawls all’inizio della nuova opera: “come è possibile che esista e duri nel tempo una società stabile e giusta di cittadini liberi e uguali profondamente divisi da dottrine religiose, filosofiche e morali incompatibili, benché ragionevoli?”55. Il nuovo lavoro, nell’intento di limitare la portata universalistica della prima teoria, abbandona la precedente prospettiva, ritenuta “metafisica”56, ed adotta una prospettiva ‘politica’, effettivamente conciliabile con la realtà.
Rawls attraverso il liberalismo politico analizza nuovamente le caratteristiche delle società che lo circondano:
una società democratica moderna non è caratterizzata soltanto da un pluralismo di dottrine religiose, filosofiche e morali comprensive, ma da un pluralismo di dottrine comprensive incompatibili e tuttavia ragionevoli. Nessuna di queste dottrine è universalmente accettata dai cittadini; né c'è da attendersi che in un futuro prevedibile una di esse, oppure qualche altra dottrina ragionevole, sia mai affermata da tutti i cittadini, o da quasi tutti.
Il liberalismo politico assume che, ai fini della politica, una pluralità di dottrine comprensive ragionevoli ma incompatibili
53 Cfr. Hart-Rawls, Le libertà fondamentali, Torino, La Rosa, 1994; Cfr. B. de Filippis, Il problema della giustizia in Rawls, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992.
54 Cfr. Maffettone, Introduzione a Rawls, cit., pp. 79-89. Per quanto riguarda la priorità della libertà: “ritengo che essa sia necessaria in quelle che chiamerò
‘condizioni razionalmente favorevoli’, ovvero in circostanze sociali e politiche che consentano l’effettiva istituzione e il pieno esercizio di queste libertà”; Hart-Rawls, Le libertà fondamentali, cit., p. 40.
55 Cfr. Rawls, Liberalismo politico, Milano, Edizioni di Comunità, 1994, p. 6.
56 Cfr. L. Baccelli, John Rawls fra giustizia e comunità, in Zanetti, Filosofi del diritto contemporanei, cit., p. 84; De Filippis, Il problema della giustizia in Rawls, cit., pp.
63-65.
sia il risultato normale dell'esercizio della ragione umana entro le libere istituzioni di un regime democratico costituzionale57.
Accettando l’esistenza di un pluralismo di interessi, di concezioni e di valori, cerca di contemperare la teoria della giustizia come equità con un nuovo concetto: il ‘consenso per intersezione’ (overlapping consensus). Tale espressione (l’immagine dell’intersezione rimanda volutamente alla figura matematica) dà l’idea della possibilità che venga a crearsi uno spazio in cui le varie ‘dottrine comprensive’ convergano su una stessa concezione politica, pur mantenendo le proprie motivazioni religiose, filosofiche e morali. Così, anche società contraddistinte dalla promozione di valori inconciliabili tra loro possono trovare uno spazio comune caratterizzato dalla condivisione di alcuni valori. Questa concezione politica non deve essere intesa come una sorta di compromesso. Ogni società infatti agisce autonomamente e può essere considerata come “un modulo, una parte costitutiva essenziale che si adatta a varie dottrine comprensive ragionevoli, le quali hanno un’esistenza duratura nella società da essa regolata, e trova in queste un sostegno”58.
Rawls ritiene che la giustizia come equità possa aspirare ad ottenere un overlapping consensus a due condizioni. Per prima cosa è fondamentale ricercare tale consenso esclusivamente sul piano politico; in secondo luogo, è necessario superare la concezione tradizionale che considera possibile un’unica teoria del bene, fondata sulla razionalità e la ragionevolezza dell’uomo.
Questa nuova teoria sembra fare un passo in avanti verso l’accrescimento del bene dell’autonomia individuale attraverso la considerazione effettiva del pluralismo delle dottrine. Ogni
57 Rawls, Liberalismo politico, cit., pp. 5-6.
58 Ivi, p. 30.