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Entrambi sono viaggiatori della seconda metà dell’Ottocento.

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Academic year: 2021

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Con questa tesi mi prefiggo l‟obiettivo di prendere in esame la vita e gli scritti di due viaggiatori toscani del XIX secolo. Doroteo Giannecchini, frate francescano nato a Pascoso di Pescaglia il 9 dicembre del 1837 e vissuto in Bolivia come missionario dal 1860 al 1900; e Carlo Piaggia, umile mugnaio nato a Badia di Cantignano nel 1827, e vissuto, salvo brevi rientri in patria, come avventuriero ed esploratore in Africa dal 1851 al 1882.

A differenza di quanto l‟apparenza sembrerebbe suggerire (cosa mai potrebbero avere in comune, al di là di essere tutt‟e due toscani e tutt‟e due aver vissuto nel XIX secolo, un timorato uomo del Signore che ha speso gran parte della sua vita a salvare anime in Sud America e un semicolto mugnaio, avventuriero, mezzo ateo che ha passato quasi trent‟anni della sua vita in Africa, andando a caccia di elefanti, imbalsamando uccelli e risalendo impervi corsi d‟acqua?) i punti di contatto tra queste due eclettiche figure sono parecchi e tutti quanti interessanti e gravidi di significato. Analizziamoli uno ad uno.

Entrambi sono viaggiatori della seconda metà dell’Ottocento.

Nel periodo che va dal 1867, anno della fondazione della Società Geografica Italiana, fino alla fine del secolo, l‟esplorazione naturalistica si affaccia sulla scena civile italiana con una repentinità e un potere di attrazione decisamente stupefacenti, al punto che Mazzotti nel suo libro Esploratori perduti. Storie dimenticate di naturalisti italiani di fine Ottocento, parla di una rivoluzione del costume e di una vera e propria moda (Mazzotti, 2011

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).

Nell‟arco di pochi anni nascono svariate riviste specializzate. I giornali dedicano ampi spazi al resoconto di lontani e affascinanti viaggi esotici. Le conferenze

1Quando testo è stato consultato nel formato digitale Kindle che non prevede la funzione

“pagina”; per questo la pagina non sarà indicata.

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tenute dagli esploratori di ritorno dai loro viaggi, sempre gremite da persone di ogni estrazione sociale, diventano un fenomeno di massa. Le esposizioni internazionali e coloniali danno la possibilità a milioni di persone di toccare con mano minerali, rocce, serpenti, coccodrilli, uccelli dai mille colori, ma anche manufatti come lance, spade, idoli in pietra e metallo e, in alcuni casi, dei veri e propri „selvaggi‟ in carne ed ossa!

La seconda metà del secolo XIX è inoltre caratterizzata dalla diffusione e dall‟affermazione nel mondo occidentale del positivismo e della teoria evoluzionista. Invero già nella prima metà dell‟Ottocento, come rileva Puccini (Puccini, 1991), lo storico e uomo politico Carlo Cattaneo, affermando che “le scienze umane contemplano il corso universale del genere umano, il quale solamente sotto certe leggi e con una certe serie di evoluzioni a poco a poco trae dall‟infantile ferocia del selvaggio e dalla squallidezza nativa del globo i popoli, i campi, le città, le arti, le scienze, i costumi”,

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già aveva introdotto nello studio dello sviluppo delle società umane, un concetto di chiara natura progressivo- evolutiva. Concetto per altro non nuovo nel panorama filosofico italiano visto che lo stesso Cattaneo modella il suo pensiero su quell‟idea già formulata da Gian Battista Vico per cui: le leggi che regolano e governano la storia, e “che permisero che prima fossero le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso le città, finalmente le accademie”, debbano essere fuori da influenze e interventi metafisici nel mondo umano.

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E‟ comunque a partire dagli anni Settanta del secolo XIX che le intuizioni storico-filosofiche di Cattaneo e Vico acquistano prestigio, trovando il loro riscontro scientifico nelle teorie di Darwin. Le leggi dell‟evoluzione (selezione naturale e sopravvivenza del più adatto) possono spiegarci non solo l‟origine della vita sulla terra ma anche, giustificandola, la stessa storia umana. In tal modo il “corso universale del genere umano” tracciato da Cattaneo assurge da pensiero filosofico conosciuto e apprezzato all‟interno di una ristretta cerchia di intellettuali ad autorevole e infallibile regola scientifica universalmente diffusa e acquisita.

Ecco che ora scienziati, naturalisti, esploratori, hanno un ulteriore, e scientificamente certificato, motivo per viaggiare e raggiungere le parti più

2Cattaneo, cit. in Puccini, 1991, p. 255.

3Vico, cit. in Puccini, 1991, p. 94

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inesplorate e selvagge del globo terrestre: Trovare conferma alla teoria evoluzionistica. I selvaggi diventano „fossili viventi‟ da studiare; si fanno calchi in gesso dei volti (peraltro con non poca difficoltà da parte dei viaggiatori che devono spesso ricorre a stratagemmi e inganni per convincere i selvaggi a sottoporsi allo sconcertante procedimento), si razziano manufatti ed oggetti (talvolta attraverso il baratto, più spesso attraverso la sottrazione forzosa),

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si fanno rilevazioni antropometriche, si cerca di raccogliere materiale organico come ciuffi di capelli, si scattano foto. Il tutto al precipuo scopo di ricostruire un percorso evolutivo che porti dalle scimmie antropomorfe all‟uomo occidentale, passando per i selvaggi.

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Questi due elementi caratteristici della seconda metà dell‟Ottocento – ampia popolarità del viaggio d‟esplorazione e diffusione del pensiero positivista – acquistano una valenza rilevante alla luce di una seconda tipicità dei due viaggiatori Giannecchini e Piaggia:

2- Entrambi sono estranei all’ambiente accademico.

I grandi esploratori della seconda metà dell‟Ottocento, Odoardo Beccari, Enrico Hillyer Giglioli, Filippo De Filippi, Elio Modigliani, Paolo Mantegazza, Loria, sono tutti esponenti del mondo accademico, direttori di museo, naturalisti, docenti universitari, studiosi. Giannecchini e Piaggia sono invece un frate francescano e un mugnaio in cerca di avventura, che poco sanno (forse nulla) di

4Ne è un curioso esempio il metodo usato da D‟Albertis in Nuova Guinea. L‟esploratore risale il fiume Fly con la sua rumorosa nave a vapore “Neva”. I selvaggi scappano spaventati, abbandonando il loro villaggi ed eclissandosi come ombre nel fitto della vegetazione tropicale. D‟Albertis comincia allora a lavorare come un archeologo: “scende a terra, entra nelle case vuote, deduce abitudini e costumi degli abitanti a partire dai pochi oggetti d‟uso che essi vi hanno lasciato ed edifica, su questa fragile impalcatura di illazioni, le sue ipotesi sui loro caratteri fisici, sui loro gusti, persino sulle loro parentele etniche … spesso prende gli oggetti più interessanti: armi, trofei, ornamenti, crani; e sempre lascia al loro posto merci occidentali” (Puccini, 1999, p. 176).

5Nel corso del tempo il lemma “selvaggio” ha mutato il suo significato. Oggi si tende a non usarlo perché ha in se una connotazione negativa di matrice razzista. Nel corso della tesi userò spesso questo termine, senza alcun riferimento alle sue implicazioni razziali, ma semplicemente perché è il termine usato comunemente dagli esploratori dell‟Ottocento per indicare i popoli non-occidentali.

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Darwin, di Spencer e di Cattaneo.

Eccoci così di fronte a una prima, duplice, peculiarità dei due esploratori toscani. Entrambi sono viaggiatori del XIX secolo ed entrambi sono alieni, per cultura e formazione, sia al pensiero scientifico-filosofico dell‟epoca sia agli stimoli intellettuali che spingono i naturalisti del XIX a secolo a partire per terre lontane. Sarà perciò interessante vedere in che modo e in che misura i due viaggiatori, seppur nella loro diversità, subiranno, o non subiranno, l‟influenza indiretta di questo pensiero dominante.

3- Entrambi compiono delle significative osservazione etnografiche.

Giannecchini nelle sue lettere private (ma non solo) ci fornisce molte interessanti osservazioni sugli usi, i costumi, la religione e i riti dei Chiriguanos, popolazione indigena sudamericana di lingua guaranì, migrata nei secoli XV- XVI dal Paraguay nella parte sud-orientale della Bolivia e stanziata ai piedi delle pendici orientali delle Ande, tra l‟alto corso del Rio Pilcomayo e il Rio Grande.

Piaggia invece ci parla abbondantemente nelle sue memorie degli Azande, popolazione africana stanziata nel Sudan orientale ad ovest del Nilo bianco e composta da un‟etnia complessa in cui gli Avongara, i guerrieri, costituiscono l‟aristocrazia dominante.

La peculiarità di entrambe le osservazioni sta nel fatto che sia Giannecchini che Piaggia sono i primi occidentali a scriverci di questi popoli lontani secondo una, seppur goffa e con tutti i limiti del caso, sistematicità scientifica. Quello che si sapeva dei Chiriguanos sudamericani o degli Azande africani, prima che i due esploratori toscani ce ne parlassero, era frutto esclusivo di osservazioni superficiali o di fantasiosi racconti orali.

4- Entrambi trascorrono molto tempo con i popoli osservati e ne imparano la lingua.

Per afferrare il valore di questi due caratteri distintivi, che allo sguardo di

uno studioso del XXI secolo paiono un duplice e ovvio requisito per compiere

delle osservazioni etnografiche degne d‟attenzione, cerchiamo di capire prima

chi e cosa è un viaggiatore naturalista dell‟Ottocento.

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Il Naturalista è un cacciatore civilizzato afferma Edward O. Wilson.

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Al di là delle sottese implicazioni sociobiologiche, questa definizione mi pare un buon inizio per capire cos‟era e cosa faceva l‟esploratore dell‟Ottocento.

Partiamo dal sintagma nominale il naturalista. L‟esploratore del XIX secolo non è un etnografo, né uno zoologo, né un geologo o un biologo; è, casomai, tutte queste cose messe assieme. Questo significa che nel suo lavoro si occupa indifferentemente di animali, come di piante o di popoli. Tutto è rilevante e importante allo stesso modo. Per questo leggeremo nei loro resoconti, senza apparente soluzione di continuità, descrizioni di paesaggi tanto quanto di mammiferi, uccelli, insetti e popoli. Per farcene un‟idea prendiamo una breve lettera indirizzata dall‟esploratore Amedeo Giulianetti

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al presidente della Società Geografica Italiana, marchese G. Doria e pubblicata sul Bollettino della Società Geografica nel 1897. Giulianetti scrive:

[…] aspettando che il “Merrie England” fosse in grado di salpare per la foce del Mambare sulla costa N.-E., da dove dovevo internarmi, feci due escursioni verso l‟interno dalla costa S.-E.. La prima ai monti che sorgono a poche miglia da Orangerie Bay, dove fui accolto benissimo dagli indigeni e feci collezioni di uccelli, di insetti e di piante. Andai poscia a Samarai o Dinner Island, da dove feci la seconda gita sulla grande isola, internandomi per poche ore e collezionandovi per circa sei giorni.

6Edward O. Wilson, cit. in Mazzotti, 2011.

7Amedeo Giulianetti nasce a Portoferraio nel 1869. Figlio di un marinaio ne avrebbe dovuto seguire le orme se l‟arrivo sull‟isola di una marchesa, tal Vittoria Altoviti Avila Toscanelli, non gli avesse offerto la possibilità, a quindici anni, di andare a Firenze a lavorare e studiare presso la Specola. Accompagnato da una lettera di presentazione Giulianetti viene affidato alle cure di Hillyer Giglioli, direttore del museo di Scienze Naturali, dove rimare per tre anni, applicandosi appassionatamente allo studio della biologia e dell‟anatomia animale. Nel corso dell‟apprendistato si perfeziona nella tecnica della tassidermia. Per questa ragione nel 1887 viene scelto da Lamberto Loria per una spedizione nell‟isola di Papua Nuova Guinea. Nel maggio del 1895 Giulianetti torna a trovare la famiglia a Portoferraio ma, dopo alcuni mesi di permanenza lascia nuovamente l‟Italia e nel febbraio 1896 salpa per la Nuova Guinea. In questo periodo compie delle spedizione in autonomia, tra cui la faticosa risalita del monte Scratchley. Passa alcuni mesi con gli indigeni del villaggio di Neneba e scrive due relazioni inviate a Doria e pubblicate nel Bollettino della Società Geografica. Dal 1898 non si hanno più sue notizie. Muore in Nuova Giunea, a soli trentatre anni, in circostanze mai chiarite (Peria).

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[…]

Si camminò sempre sotto densa foresta, ed a poche centinai di metri l‟un dall‟altro incontrammo diversi ruscelli, alcuni abbastanza grossi; i più notevoli ebbero i nomi di Green e di Clunas e Simpson.

[…]

Si dovette attraversare burroni ripidissimi, ed in alcuni punti fummo costretti ad aiutarci con rotang tesi da un albero ad un altro e con scale di legno sulle faccie (sic) quasi perpendicolari di enormi macigni, Sulla strada tra Simpon‟s Stone ed il campo sul Cirima trovammo alcuni alberi ricchi di gomma elastica apparentemente di buonissima qualità.

[…]

Rimasi sul monte Scratchley dal 9 settembre al 15 ottobre, facendo raccolta di uccelli, insetti e piante. Trovai i primi numerosi e tra gli altri ebbi una beccaccia, un beccaccino, un‟anitra diverse affatto da quelle che trovansi sulla costa, un merlo ed un Anthus. Gli insetti erano in generale molto scarsi, se si escludono 2 specie di coleotteri eccessivamente abbondanti. La cima dello Scratchely consiste principalmente in praterie che si estendono per miglia verso il monte Vicotria e si uniscono all‟immensa prateria del monte Alberto Eward, la cui vetta, a mio parere, potrebbe essere raggiunta dallo Schratchleay in 3 giorni.

Ai limiti della prateria incomincia una foresta di cipressi, alcuni alti sino a 40 o 50 metri, e aventi sempre le chiome piatte, come se fossero potati da un giardiniere. Nella prateria vi sono alcuni laghi, tre dei quali assai grandi e profondi.

[…]

La formazione geologica è principalmente di quarzo e di lavagna.

[…]

Dimenticavo dirle che sulla vetta dello Scratchley ebbi due esemplari di un cane selvatico, ed una Paradisea che potrebbe esser nuova.

Questa ha le penne di un bel nero con le otto remiganti primarie nel mezzo color di oro vecchio; una caruncola membranosa staccata di

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color giallo-arancio circonda l‟occhio; il becco somiglia a quello dell‟Astrarchia, ma è più appuntito.

[…]

Gl‟indigeni di Neneba sono di statura media e di corporatura robusta;

la loro pelle è color bronzo cupo, un po‟ più scura di quella dei Motu della costa S.E. Hanno senza eccezione, direi, i capelli cresputi corti, disposti a glomeruli serrati.8

Il resoconto prosegue con una descrizione dell‟acconciatura, dell‟abbigliamento e degli ornamenti degli uomini, dei ragazzi e delle donne Neneba; per poi passare alle loro armi, le loro abitazioni e le loro tombe. Così, in uno spazio ridotto, sei pagine in tutto, l‟esploratore Giulianetti condensa la sua esperienza in Nuova Guinea, parlandoci indifferentemente di popoli, di animali, di paesaggi, di conformazioni geologiche.

Prestiamo adesso attenzione, prima di trarre le dovute conclusioni e fare le necessarie osservazioni, alla seconda parte della definizione del biologo Edward O. Wilson: il naturalista è un cacciatore civilizzato. Il naturalista ottocentesco è un cacciatore; e lo è in una triplice accezione. Oltre a essere infatti un cacciatore letterale che colleziona animali esotici, è pure un cacciatore perché depreda i popoli che incontra delle loro armi, dei loro ornamenti, dei loro manufatti.

Fotografa, taglia ciuffi di capelli, profana tombe, fa calchi di volti umani. Ma è anche un cacciatore di dati, che in preda ad una “ambizione classificatoria”

(Puccini, 1999, p. 39) raccoglie informazioni di ogni genere.

Per queste ragioni il modus operandi del naturalista-cacciatore si caratterizza per due aspetti che sono carattere distintivo e allo stesso tempo limite del suo lavoro: la brevità dell‟osservazione, l‟ignoranza della lingua.

a) Brevità dell’osservazione

Il naturalista da bravo cacciatore non si trattiene in un territorio più del tempo necessario alla battuta. Giulianetti, abbiamo letto, soggiorna in un posto sei giorni, in un altro poco più di un mese. Soggiornare per lungo tempo in un

8Giulianetti, 1898, pp. 3-13.

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stesso posto non rientra nell‟economia dell‟esploratore del XIX secolo. Una volta raccolti gli esemplari zoologici interessanti, fatte le rilevazioni del territorio necessarie e compiuto le dovute osservazioni sulle bizzarrie dei selvaggi, ci si può spostare in un nuovo territorio.

b) Ignoranza della lingua

Come diretta conseguenza del punto uno, l‟esploratore non può, e non ha alcun interesse aggiungerei, a imparare la lingua dei popoli con cui viene a contatto. Troppo breve è il tempo che vi trascorre. Per di più spostandosi da una zona all‟altra viene a contatto con popoli che spesso parlano dialetti o lingue diverse. Per tale ragione studiare le lingue autoctone diventa impresa impossibile, se non fosse già vista come inutile, e l‟esploratore per comunicare con gli indigeni si avvale dell‟aiuto di un traduttore.

Queste due caratteristiche nel corso dell‟etnografia del Novecento verranno radicalmente ribaltate. Per l‟antropologo diverrà requisito necessario, per produrre un lavoro etnografico degno, soggiornare per un lungo periodo tempo con la popolazione e imparare a fondo la lingua locale.

Il lavoro che ci accingeremo a esaminare di Piaggia e Giannecchini, da questo punto di vista, è di spiccato interesse. Infatti i due esploratori toscani, sebbene per ragioni che non sono esattamente riconducibili a quella necessità epistemologica imposta agli antropologi novecenteschi dall‟osservazione partecipante, diserteranno smaccatamente il modus operandi degli esploratori loro coevi. Infatti 1) passeranno un periodo di tempo lungo assieme al popolo osservato (Piaggia più di un anno, Giannecchini, sebbene in modo discontinuo, quarant‟anni); e 2) ne impareranno a fondo la lingua.

Alla luce di queste preliminari osservazioni sembra evidente il valore che può avere un esame sia della vita che degli scritti dei due viaggiatori toscani;

magari raffrontando le loro considerazioni con quelle presenti nei resoconti di altri viaggiatori italiani loro coevi.

Che dire però della forma dei loro scritti? Sulla scia di quanto ormai

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viene fatto sia con la produzione etnografica del Novecento (Geertz, Writing Culture) sia con i resoconti di viaggio dell‟Ottocento (Puccini), può avere un senso studiare l‟aspetto stilistico-formale delle lettere private di Doroteo Giannecchini e delle memorie di Carlo Piaggia? Inoltre, considerato che sia Piaggia sia Giannecchini sono due viaggiatori al di fuori del pensiero accademico del XIX secolo, in che misura i loro scritti risentono in fondo del pensiero dell'epoca? Per esempio in relazioni a temi quali: l'imperialismo, il razzialismo, il darwinismo sociale, il positivismo; come si pongono Piaggia e Giannecchini?

Gli scritti

Gli scritti di Doroteo Giannecchini e di Carlo Piaggia, che prenderò in esame in questa tesi, sono piuttosto dissimili tra di loro. Nel caso del frate francescano si tratta di alcune lettere private, scritte in un periodo che va dal 1859 al 1879. Lettere scritte per una ristretta cerchia di persone (genitori, fratelli, sorelle, parenti e amici), la cui funzione, da una parte, è quella di fornire informazioni strettamente personali (quali lo stato di salute, le condizioni di vita, l‟umore etc.), dall‟altra quella di soddisfare la curiosità del padre, che dimostra uno spiccato interesse per la realtà indigena in cui il figlio si trova a predicare.

Nel caso del mugnaio di Badia di Cantignano si tratta invece di una serie di memorie, rimaneggiate più e più volte (tanto che di certi avvenimenti esistono ben tre versione diverse) e redatte al preciso scopo di trovare un editore disposto a pubblicarle; memorie quindi scritte tenendo a mente un vasto, eterogeneo e anonimo pubblico di lettori. Eppure, in queste loro diversità, gli scritti dei due toscani sono caratterizzati entrambi, oltre per quegli elementi contenutistici già visti, anche per essere stilisticamente piuttosto rozzi e incerti. Piaggia ha una bassa scolarizzazione e le sue memorie sono piene di errori ortografici; con un periodare spesso confuso e zoppicante, tanto da rendere difficile al lettore la comprensione stessa del pensiero che vuole comunicare. Giannecchini ha studiato presso il convento dei frati francescani di Lucca, conosce il latino, ha una padronanza della lingua italiana superiore a Piaggia. Nonostante ciò anche il frate commette spesso errori ortografici, usa calchi presi dallo spagnolo che in italiano non esistono, o hanno un significato diverso, e nella costruzione sintattica mostra spesso incertezze.

Tutto questo potrebbe indurci a tralasciare l‟aspetto stilistico degli scritti

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dei due viaggiatori toscani. Quale può essere l‟interesse formale di un epistolario privato scritto in un italiano incerto? Che valore può avere l‟analisi stilistica delle memorie di un semplice mugnaio? Il buon senso parrebbe suggerirci che la cosa più saggia da fare in questo frangente sia concentrarci sul dato presente negli scritti, tralasciando l‟aspetto puramente stilistico-formale.

Eppure, come è stato rilevato nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso da antropologi del calibro di Geertz, Clifford e Marcus, il resoconto di viaggio, il testo etnografico, gli appunti, i diari, posso essere tutti quanti esaminati sotto il profilo stilistico e letterario. Certo nella stragrande maggioranza dei casi non siamo di fronte alla levatura narrativa di autori come Conrad, Flaubert e Balzac (per parafrasare Geertz) o (aggiungiamo noi) di Manzoni, Verga e Salgari; eppure lo scritto etnografico merita sempre un'attenzione alla forma – seppur scarna, misera, rozza e piena di errori – oltre che al suo contenuto. La ragione sta nella natura ambigua dello scritto etnografico stesso che, oscillando, spesso in modo sfuggente, tra racconto personale e descrizione oggettivante, finisce per essere, alla fine, un prodotto non così dissimile dal romanzo ottocentesco. L‟esperienza sul campo stimola la produzione di un testo che si basa in massima parte sull‟esperienza soggettiva e sensoriale e non su un asettico esperimento di laboratorio; per questo la pretesa di costruire un testo che si vuole scientifico (oggettivo), partendo da un‟esperienza ampiamente biografica (soggettiva) è a di poco stravagante (Geertz, 1990, p.17).

Se quindi anche il resoconto etnografico più controllato, più

epistemologicamente strutturato, può essere analizzato nel suo aspetto estetico-

formale, perché non dovremmo fare lo stesso con quegli scritti che, sebbene

abbiano a tratti un loro valore naturalistico, restano pur sempre dei testi fatti di

storie, racconti, avvenimenti e avventure di chiara impostazione romanzesco-

narrativa, come quelli di Piaggia e Giannecchini? In fin dei conti il fatto di non

essere di fronte a dei testi di alta letteratura non è una valida ragione, di per se,

per non prendere in considerazione lo scritto sul piano stilistico-narrativo. Tanto

più che le memorie di Piaggia e le lettere di Giannecchini oscillano, in modo

ibrido, tra il desiderio di intrattenere (romanzo) e quello di informare (resoconto

scientifico), secondo un andamento che è tipico del resoconto di viaggio

ottocentesco; e in questo il loro studio si inserirebbe in quel filone di analisi

stilistico-formale già avviato da Sandra Puccini sugli autori ibridi del secolo

XIX (Puccini, 1999).

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Analizzare forma

Se ammettiamo che il reportage di viaggio può essere assimilato tanto a un romanzo quanto a un resoconto di laboratorio (e questo a prescindere dalla riuscita letteraria e dal valore scientifico del testo in questione) allora dovremmo fare i conti anche con due questioni, o dilemmi, come suggerisce Geertz (Geertz, 1990, p.16):

1- La questione della firma. Dove e in che modo si esplicita la presenza dell‟autore all‟interno del testo?

2- La questione del discorso. Come l‟autore bilancia la necessità di

comunicare fatti asettici e impersonali con la necessità di affascinare il lettore attraverso una struttura verbale seducente?

1- La questione della firma

Nel corso della produzione etnografica del Novecento la questione della firma è stata a lungo un dilemma. In un testo che vuole essere il più oggettivo possibile la presenza del soggetto, dell‟autore, è vista come elemento di disturbo che inquina il dato scientifico. Negli scritti dove l‟autore tiene strettamente sotto controllo la presenza del sé all‟interno della narrazione, tendendo a relegarla, non senza imbarazzo, nella prefazione, nelle note o nelle appendici,

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Geertz

9A tal proposito Mary Louise Pratt in Luoghi comuni della ricerca sul campo (in Scrivere le culture) parla di una vera e propria produzione letteraria ed editoriale a doppio binario:

“Racconti preliminari […] non sono sconosciuti nell‟ambito dell‟antropologia accademica. Al contrario, racconti personali dell‟esperienza sul campo sono un sotto-genere della letteratura antropologica, ma sono sempre stati accompagnati – di solito preceduti – da una monografia etnografica formale […]. Basti pensare a coppie di libri come Savage and the Innocent e Akwe-Shavante Society di David Maybury-Lewis; Under the Rainbow e The Headman and I di Jean-Paul Dumont; Yanomano: The Fierce People e Studying the Yanomamo di Napoleon Chagnon; Symbolic nomination e Riflections on Fieldwork in Morocco di Paul Rabinow. […]

E‟ nell‟ambito di questo sotto-genere che i diari di Malinowski sono stati pubblicati. Di queste coppie di libri, la monografia formale è la pubblicazione che conferisce capitale professionale e autorevolezza; i racconti personali vengono spesso considerati affettati, futili o variamente eretici. Ma nonostante interventi “disciplinari”, essi continuano a venire pubblicati, letti e,

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parla di atteggiamento olimpico (Geertz, 1990, p. 17).

Viceversa nel reportage di viaggio ottocentesco, l‟autore non perde occasione di mostrarsi al lettore – preoccupato di tenere unita la sua duplice immagine sia di uomo ardito, temprato dalla durezza delle imprese compiute, sia di uomo di scienza e di penna – ed è onnipresente all‟interno della narrazione. In questo caso Geertz parla di atteggiamento del sovrano (Geertz,1990, p.17).

Nei testi di Piaggia e Giannecchini il dilemma della firma, così com‟è vissuto dagli etnografi del Novecento, chiaramente non si pone. D‟altronde, almeno nel caso di Giannecchini, non mi sembra neppure di essere di fronte al prototipico esempio di scrittore sovrano che non perde occasione per dar di sé l‟immagine – così diffusa in quella produzione editoriale del XIX secolo fatta di articoli di giornale, resoconti di viaggio, memorie, trascrizioni di conferenze – dell‟impavido scienziato-avventuriero. Tutt‟altro. Il frate francescano sembra più interessato a offrire di sé un‟immagine di basso profilo, compiendo alcuni tentativi, dai risultati forse piuttosto discutibili, di seppellire il sé sotto un sottile strato fatto di umiltà e modestia francescana.

Per esempio il soggetto delle lettere è spesso presentato in terza persona, come quando racconta ai sui amici e parenti alcuni eventi miracolosi, quali la conversione in fin di vita di un‟indiana o la pioggia miracolosa mandata da Dio durante una siccità (“Corre frettoloso il Padre […] incomincia allora, a parlargli di Dio, della necessità del Battesimo. […] il Padre non tardò a somministrargli il Battesimo” oppure “Il Padre prese a parlargli che Dio li castigava […] Con tutto ciò il Padre gli promise che avrebbe pregato Iddio. […] Il giorno seguente di buon mattino il Padre celebrò la S. Messa.”) lasciando così nel dubbio il lettore sull‟identità del Padre in questione: l‟avvenimento è accaduto a Doroteo stesso o al suo compagno di missione?

Non dimentichiamo, inoltre, il costante riferimento del frate francescano a Dio, quale vero autentico artefice del suo successo, e quindi agente ultimo dell‟azione.

Di qui, conoscete che la conversione degli Indiani è spesso di Dio, della grazie e che il missionario non è altro che un debole strumento di

soprattutto, utilizzati come libri di testo all‟interno della disciplina. E presumibilmente per buone ragioni” (Pratt, 2001, p. 64).

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cui Iddio si serve.

Presentandosi ora in terza persona, ora come un “debole strumento” in mano di Dio, il frate si discosta dal modello dell‟esploratore-avventuriero pieno d‟ego che riesce sempre a cavarsi fuori dalle difficoltà grazie al proprio coraggio, alla propria scaltrezza e al proprio ingegno; e attraverso un interessante espediente letterario (non sono io quello che ha fatto queste cose bensì “il Padre Conversore”, “Iddio”) riesce a nascondersi tra le pieghe della narrazione, pur restando, tutto sommato, facilmente individuabile.

2- La questione del discorso.

Chiunque scriva si pone sempre, in modo conscio o inconscio, il problema del discorso. Questo dilemma è particolarmente palpabile nei reportage di viaggio ottocenteschi: Come rendere interessante e coinvolgente la lettura di dati frutto di un‟osservazione oggettiva (quali i dettagliati esami dei caratteri fisico- razziali dei popoli o le minuziose rilevazioni geologiche del terreno)? Come utilizzare uno stile narrativo seducente, senza discostarsi dai fatti e dal vero?

Ecco allora alternarsi nei reportage di viaggio ottocenteschi descrizioni fredde e neutrali (naturalistiche) a descrizioni calde e partecipi (letterarie). Il risultato è spesso un testo ibrido frutto di un autore anch‟esso ibrido (Puccini, 1999, p. 67).

Negli scritti di Giannecchini e Piaggia il tema dell‟ibridità del testo e la questione del teatro del linguaggio sono più che mai presenti e palpabili, con risultati letterari talvolta sorprendenti.

Giannecchini nelle sue lettere indirizzate a “genitori, fratelli, parenti e amici tutti”, alterna abilmente passaggi fatti di informazioni di carattere etnografico, spesso molto accurati e puntuali, a considerazioni di carattere personale e racconti di miracoli; compiendo passaggi stilistici (dal discorso diretto al discorso indiretto; dall‟indicativo presente al passato, per poi tornare alla forma presente; da un linguaggio formale controllato a un linguaggio di gusto squisitamente vernacolare) dimostrando di avere una padronanza del discorso linguistico-narrativo e una capacità di sedurre l‟ascoltatore per niente trascurabile.

Anche Piaggia, avendo messo più volte mano alle sue memorie, col

risultato di aver prodotto due, tre, versioni di uno stesso avvenimento, non

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manca di fornirci interessanti spunti di riflessione. Come nell‟occasione in cui, ospite del re zande Tombo, si trova a mangiare inavvertitamente una pietanza a base di carne umana. Dell‟avvenimento abbiamo a disposizione due distinte narrazioni. Una prima: sintetica, neutrale, controllata. Una seconda più descrittiva, più carica di emotività e partecipazione. Un‟interessante modifica stilistico-narrativa (con implicazioni anche di contenuto) gravida di spunti di riflessione e di domande che affronteremo nel capitolo a Piaggia dedicato.

L'ideologia

La seconda metà del secolo XIX si caratterizza per essere l'età degli imperi e dell'imperialismo. E benché oggi la scena storica dell'imperialismo sia liquidata dagli storici come politicamente pesante, economicamente pretenziosa e moralmente vacua (Betts, 1986, p. 11), la verità è che l'imperialismo fu a tutti gli effetti specchio fedele dello spirito del tempo. Sull'opportunità dell'impresa imperialista non vi fu all'epoca dei fatti dubbio alcuno. Betts scrive:

[…] gli argomenti per giustificare politicamente l'impero non riempirono mai pagine e pagine: in generale, furono considerati di per sé evidenti.10

Forti della presunzione di una supremazia culturale, tecnologica e razziale; gli europei trovarono del tutto naturale che l'occidente colonizzasse gli altri, i non- europei. Che gli avanzati avrebbero dominato gli arretrati era un fatto evidente, un indiscutibile dato storico (Hobsbawm, 2000, p. 66).

Questa idea della superiorità su un “mondo remoto di pelli scure”

(Hobsbawm, 2000, p. 66) fu un sentimento genuinamente popolare e le esposizioni internazionali di fine secolo ne furono un fulgido esempio:

Alla fine del secolo i “padiglioni coloniali”, prima praticamente ignoti, si moltiplicarono: diciotto fecero da complemento alla torre Eiffel nel 1889, quattordici attrassero i turisti a Parigi nel 1900. Si trattava senza dubbio di una pubblicità programmata, ma come ogni propaganda realmente efficace, commerciale o politica, essa aveva successo perché toccava corde sensibili nell'animo della gente. Le

10Betts, 1986, p. 155.

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esposizioni coloniali erano una grande attrattiva. In Inghilterra giubilei, funerali reali e incoronazioni erano tanto più importanti in quanto, come gli antichi trionfi romani, esibivano remissivi maragià in vesti ingioiellate, non prigionieri ma liberamente fedeli.11

Il senso di superiorità che unì i bianchi nell'età degli imperi fu traversale e transculturale. Tutti, ricchi, mezzani e poveri, ebbero, e manifestarono, questo sentimento di preminenza (razziale, culturale e tecnologica); godendo dei benefici che questo comportava, specie quando si trovarono di fatto nelle colonie:

A Dakar o a Mombasa il più modesto impiegatuccio era un padrone, e accettato come un “signore” da gente che a Parigi o Londra non si sarebbe accorta della sua esistenza; l'operaio bianco era un comandante di neri.12

In che modo questo sentimento di superiorità e di ineluttabilità dell'esperienza imperiale condiziona la vita e gli scritti di Carlo Piaggia e Padre Doroteo Giannecchini? Seppur di bassa estrazione socio-culturale e cresciuti al di fuori dei dibattiti accademici dell'epoca sulla superiorità razziale dei bianchi, il darwinismo sociale e l'inevitabilità della morte dei barbari,

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in che misura Carlo Piaggia e Padre Doroteo Giannecchini risentirono di questo imperante etnocentrismo? Come inserire in un ampio discorso di rapporti tra Occidente e gi altri, la vita e le opere dei due viaggiatori toscani?

Dalla fine del secolo scorso, sono stati fatti considerevoli sforzi, da parte di antropologi, storici e studiosi, di ridefinire il discorso tra noi (gli occidentali) e gli altri (i non-occidentali), mettendo in discussione l'etnocentrismo intrinseco alla produzione storica, etnologica e letteraria occidentale dei passati secoli;

rileggendo in chiave critica proprio questi scritti e compiendo un esercizio che Mary Louise Pratt non ha esitato a definito an exercise in humility (Pratt, 1992, p. 2).

In questa sede ci avvarremo del lavoro di alcuni tra i più autorevoli

11Hobsbawm, 2000, p. 83.

12Ibid., p. 83.

13Per una trattazione dettagliata, si veda: Traverso, 2002, p. 69.

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studiosi – tra cui Imperial Eyes. Travel Writing and Transuculturation di Mary Louise Pratt, L'Occidente e gli altri. Storia di una supremazia di Sophie Bessis, Orientalismo. L'immagine europea dell'Oriente di Edward W. Said, Noi e gli altri di Tzvetan Todorov – per capire in che modo e misura anche Carlo Piaggia e Doroteo Giannecchini, sono stati figli del loro tempo e hanno risentito del pensiero dominante dell'epoca, rappresentandone il sentimento nelle loro azioni e nei loro scritti.

Piano della tesi

La tesi sarà strutturata in tre sezioni.

Nella prima sezione (capitolo 1) sarà presentato un quadro storico- culturale del viaggio di esplorazione, analizzando in breve come si è evoluto il concetto di viaggio nel pensiero occidentale dall'antichità all'epoca contemporanea; come si caratterizza la figura del naturalista nel XIX secolo;

come e quando l'Italia si affaccia al viaggio naturalistico; e come si inserisce il discorso missionario (e della suo risveglio nelle coscienze cristiane dell'Ottocento) nel tema del viaggio.

La seconda sezione (capitoli 2, 3, 4) sarà dedicata a Padre Doroteo Giannecchini. Il capitolo secondo è una breve biografia del frate francescano, seguita da un capitolo il cui scopo è quello di fornire al lettore un quadro storico-culturale della complessa frontiera boliviana della seconda metà del secolo XIX; nel quarto capitolo saranno riportate e commentate alcune delle lettere che Giannecchini scrisse ai suoi familiari nel periodo che va dal 1859 al 1870. In questo capitolo ciascuna lettera sarà accompagnata da alcune considerazioni di carattere stilistico-narrativo.

La terza sezione (capitoli 5, 6, 7) sarà dedicata a Carlo Piaggia. Il capitolo cinque è una breve biografia del mugnaio di Cantignano, ricostruita sulla base delle sue stesse memorie. Nel capitolo sesto si tracciano per sommi capi le complesse vicissitudini editoriali delle sue memorie. E nel terzo capitolo si fa un‟analisi stilistico-formale di alcuni dei più significativi passi presenti nelle memorie.

In conclusione sarà tracciato un quadro generale di rapporti tra l'Occidente

e i paesi coloniali. E alla luce degli studi di Mary Louise Pratt, Edward W. Said

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e Sophie Bessis, verranno riletti alcuni brani degli scritti di Piaggia e

Giannecchini.

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1 VIAGGIARE NEL XIX SECOLO

In che modo il viaggio agisce come una forza che muta il corso della storia umana? Come può un semplice spostamento nello spazio influenzare gli individui, plasmare i gruppi sociali e modificare quelle durature strutture di significato che chiamiamo cultura?14

Partendo da questi interrogativi, Eric J. Leed in La mente del viaggiatore.

Dall’Odissea al turismo globale, sostiene il fondamentale valore allegorico del viaggio, che può essere assunto (almeno nella cultura occidentale) come paradigma non solo di ogni esperienza

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ma anche di ogni movimento effettivo o simbolico (e da qui l‟universale immagine della vita come viaggio, attraverso una sovrapposizione dei due movimenti, quello nello spazio e quello nel tempo).

In epoca antica il viaggio viene inteso come viaggio eroico: una maniera per rendersi noti al mondo, acquistare riconoscimenti ed estendere il potere;

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oppure come viaggio non eroico, caratterizzato da una partenza non volontaria ma forzata e provocato dalla necessità, dal mutamento, da un disastro o dalla violazione di una norma. La partenza forzata in questo caso dà luogo a un viaggio che è sofferenza (penitenza) e non traversata o guerra di espansione.

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In origine quindi il viaggio aveva valore in quanto spiegava il fato umano e la necessità, era spesso connesso alla sofferenza, alla punizione, e il suo senso era confermare un certo ordine nel mondo e dimostrare la posizione che al suo

14Leed, 1992, p. 13.

15Il viaggio è in se stesso l‟esperienza più autentica e diretta, come Leed dimostra attraverso un‟analisi linguistica del significato della parola esperienza e della sua radice indoeuropea

*Per (Ibid., 1992, p.15).

16E non solo. “La spedizione armata non era soltanto un modo in cui nel mondo antico un maschi ambizioso si faceva conoscere, era anche un mezzo per stabilire i confini della civiltà e del mondo” (Ibid, 1992, p. 47).

17Il viaggio non eroico è esemplificato dallo storico statunitense con la cacciata di Adamo ed Eva dal giardino di delizie e la conseguente peregrinazione di espiazione per il mondo dei due peccatori (Ibid., 1992, p. 21).

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interno ricopre un individuo o un gruppo.

Col tempo però il senso del viaggio si evolve, attestandosi su posizioni totalmente nuove. Per i moderni, il viaggio diventa manifestazione di libertà e fuga dalla necessità e dallo scopo. Alla sofferenza si sostituisce il piacere. E il desiderio di scoprire, e di accedere a qualcosa di nuovo, prende il posto del viaggio come conferma di un certo ordine del mondo.

1.1 La spedizione scientifica

Il mondo antico non aveva in senso stretto un concetto di scoperta, i limiti del mondo erano noti e stabiliti in virtù della struttura stessa dell‟universo. Un conquistatore come Alessandro Magno non voleva certo fare scoperte, quanto piuttosto impadronirsi di un mondo conosciuto e limitato. Inoltre la curiosità (che nella cultura contemporanea è strettamente connessa al viaggio e al senso del viaggiare) per tutta l‟epoca medievale non era intesa come una virtù. Leed scrive: “Sant‟Agostino, San Bernando e San Tommaso d‟Aquino avevano considerato la curiositas come un peccato veniale, una concupiscenza dell‟occhio. La concezione medioevale dei sensi come sentieri del peccato e della corruzione non poteva che determinare l‟atteggiamento teologico verso l‟osservazione del mondo, che era dunque considerata intrinsecamente sospetta e tendente a suscitare l‟amore per il mondo e la ricerca di conoscenze moralmente ingiustificabili” (Leed, 1992, p. 212).

Fu grazie a Francis Bacon che la curiositas venne classificata tra le virtù, generando una rimozione dei freni morali imposti alla ricerca del sapere (Leed, 1992, p. 213). Bacon sostenne che la causa della “caduta” fu la conoscenza morale, la ricerca della conoscenza del bene e del male e non quella della conoscenza della natura, che è innocente e addirittura comandata da Dio.

Non fu infatti quella conoscenza pura e innocente della natura, grazie alla quale Adamo diede il nome alle cose ricavandolo dalle loro proprietà, l‟origine e l‟occasione della Caduta, ma quell‟appetito ambizioso e imperioso della conoscenza morale, della distinzione del bene dal male, l‟idea che l‟uomo potesse ribellarsi a Dio e governarsi da solo fu causa e mezzo della tentazione.18

18Bacon, cit. in Leed, 1992, p. 213.

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Con Bacon i sensi furono assolti dall‟accusa di corruzione e riconosciuti come canale diretto per l‟anima. L‟assoluzione dei sensi (della vista prima di tutti) fornì, come scrive Leed, “l‟ideologia del viaggio serio che rimase valida per i successivi quattro secoli presso coloro che consideravano il viaggio come un modo di ottenere l‟esperienza diretta del mondo” (Leed, 1992, p. 216). E impadronirsi di questo mondo divenne la principale motivazione che dava dignità ai viaggi e che contribuì a far sorgere quell‟istituzione tipica dei secoli XVIII e XIX che è: la spedizione scientifica.

Sinteticamente potremmo dire che la spedizione scientifica moderna si caratterizza per tre atti: l'atto di osservare, l'atto di raccogliere, l'atto di descrivere (Leed, 1992, p. 247).

1) L’osservazione

Gli occhi, assolti dall‟accusa di corruzione, divengono il principale strumento per osservare il mondo, rubare con lo sguardo ogni dettaglio possibile. La natura diventa oggetto di estasiata ammirazione e accurata osservazione nella sua interezza. Tutte le scienze naturali sono coinvolte nell‟osservazione: botanica, zoologia, paleontologia, geologia, etnografia.

2) La raccolta

Impadronirsi del mondo diventa un atto fisico. Lo scienziato viaggiatore raccoglie tutto quello che può. Rocce. Pietre. Fossili. Animali. Insetti. Uccelli.

Mammiferi. Ma anche manufatti umani, oggetti, utensili, vestiti, capelli, unghie.

In uno sforzo di ammassare e ordinare materiale, per poi ricavarne, dall‟osservazione e dalla sperimentazione, dati utili per il progresso e il benessere dell‟umanità.

3) La descrizione

Ogni scienziato viaggiatore che si rispetti prende nota di quello che osserva e di quello che gli accade. Osservazioni, considerazioni, fatti, eventi.

Mette su carta quante più informazioni possibile; una volta tornato a casa,

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rileggerà il materiale rielaborandolo per formulare le sue teorie; infine, se sarà fortunato, troverà qualcuno disposto a pubblicare il suo diario.

Nel XIX secolo sarà il naturalista a impersonare il modello dello scienziato viaggiatore che, accompagnando i viaggi di scoperta, sarà preposto alle tre azioni di: osservare, raccogliere e descrivere.

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1.2 Il naturalista

Per tutto il periodo romantico (a cavallo tra Settecento e Ottocento) il viaggiatore compie un intenso lavoro di raccolta (tornando in patria con le stive delle navi ben colme di esemplari viventi, di collezioni di fossili o di piante, per rifornire musei di storia naturale, orti botanici, giardini zoologici) e di osservazione (per esempio raccogliendo il maggior numero di notizie sui climi e sulle relazioni esistenti tra lo sviluppo di determinati tipi di vegetazione rispetto

19Charles Darwin e Alfred Russel Wallace sono indubbiamente i più celebri e influenti tra i naturalisti conosciuti. Contribuirono alla formazione e all‟ispirazione anche degli esploratori italiani. Ma probabilmente il primo vero naturalista nel senso moderno (che osserva, raccoglie e descrive) fu Alexander von Humboldt. Humboltd nasce a Berlino nel 1769, compie diversi studi universitari, tra cui: scienze mercantili, scienze storiche, medicina, fisica, matematica e chimica. Nel decennio 1790-1799 compie alcune escursioni scientifiche lungo il Reno e in Europa, frequenta salotti, conosce Goethe e Schiller. Negli anni 1799-1804 compie un importante viaggio scientifico che lo porta in Sudamerica (Venezuela, Colombia, Cuba, Ecuador e Perù), naviga lungo l'Orinoco e scala, fin quasi alla vetta, il Chimborazo. Si sposta in Messico e Cuba. Gli Stati Uniti sono l'ultima tappa del grande itinerario, che si conclude con il ritorno a Parigi nell'agosto 1804 e la presentazione a Napoleone. Compie significative raccolte, come la collezione di minerali del Messico inviata all'Istitut de France. Fa osservazioni astronomiche e barometriche, si occupa di botanica, geografia e zoologia, osserva le popolazioni indigene che vivono sulla cordigliera delle Ande. Negli anni che vanno dal 1815 al 1833 frequenta assiduamente il mondo scientifico parigino e si dedica alla stesura del resoconto del suo viaggio in America. Muore a Berlino nel 1859. In breve potremmo dire che von Humboltd incarna quella che sarebbe stato il modello del naturalista ottocentesco:

uomo di vasta preparazione accademica, che accompagna importanti viaggio scientifici occupandosi di osservare, raccogliere e registrare qualsiasi fenomeno naturale senza distinzione (botanica, zoologia, paleontologia, etnografia, geografia) e sempre con competenza; infine, una volta rientrato in patria, si dedica alla stesura del resoconto di viaggio e alla formulazione di teorie scientifiche (Tagliavini, 1984, pp. 321-327).

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alle medesime fasce climatiche e sullo sviluppo delle diverse specie botaniche rispetto all'altitudine; misurando i fenomeni atmosferici, o la distribuzione orografica; osservando il magnetismo terrestre; comparando le diverse specie animali viventi con i reperti fossili, o le relazioni tra le specie e le modificazioni intervenute nell'ambiente o la somiglianza di specie animali di zone isolate con quelle dei continenti limitrofi). Il risultato di questo estenuante impegno è l'accumulazione di un enorme quantità di materiale (che va dalle raccolte ai diari di viaggio) che costituirà, in taluni casi, la base per la formulazione di nuove dirompenti ed esaustive teorie scientifiche.

Caratteristica imprescindibile del viaggio esplorativo è pertanto il resoconto che, sotto forma di diario o di giornale di bordo, si comporrà sempre di due elementi: la descrizione scientifica dei luoghi visitati e le impressioni personali. La curiosità, l'ispirazione, l'immaginazione, assieme alle osservazioni sulla geografia, la natura e la cultura umana, costituiscono il patrimonio conoscitivo-esperienziale del resoconto di viaggio; in un intreccio narrativo dai confini sfocati. Assieme all'abnegazione per la causa del progresso scientifico, il naturalista ci parla spesso di se e della sua esperienza intima, personale; che si manifesta spesso nella necessità di misurare le proprie forze in condizioni di vita totalmente nuove, complicate da un ambiente naturale ostile.

Nella seconda metà dell'Ottocento la figura del naturalista accrescerà sensibilmente la propria fama e popolarità, diventando al fine uno dei simboli stessi della propria epoca. Quali sono le cause di tanto successo?

L‟Ottocento è il secolo dell‟industrializzazione e (soprattutto nella sua seconda metà) del pensiero positivista e dell'imperialismo. Questi tre elementi influenzarono fortemente la diffusione del viaggio d‟esplorazione, caricandolo di un senso nuovo e pregnante! L‟industrializzazione e la meccanizzazione facilitarono sul piano materiale il viaggio.

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Gli stati europei poi, con le loro mire imperialistiche, individueranno nel viaggio di esplorazione un ottimo

20A titolo di esempio basti ricordare che nel 1831-1836, Darwin compie il suo viaggio esplorativo attorno al mondo su una nave a vela, un brigantino. Circa trent‟anni dopo (1865- 1868) l‟italiano Enrico Giglioli compirà un viaggio scientifico sulle orme ideali del viaggio di Darwin non più su di una nave a vale, bensì su di un imbarcazione ibrida: la regia pirocovetta Magenta.

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apripista per l'espansione egemonica.

Ma sarà il pensiero positivista del secondo Ottocento ha dare un contributo significativo al senso intrinseco del viaggio di esplorazione. Per tutto il periodo romantico (a cavallo tra Settecento e Ottocento) il viaggio naturalistico si caratterizza per una sincera abnegazione nei confronti della causa del progresso; e tutti gli scienziati che viaggiano sono accomunati dalla preoccupazione di raccogliere e osservare, nella convinzione che il materiale raccolto e le osservazioni fatte permetteranno all'uomo di trovare le risposte sull'origine della vita.

Dalla seconda metà dell'Ottocento la teoria evoluzionista – formulata dal celebre naturalista inglese Charles Darwin e fondamento del pensiero positivista – fornisce la risposta a lungo cercata. Questo fatto di per se contribuirà a modificare la natura del viaggio scientifico.

Non si partirà più per andare alla ricerca della risposta, bensì si partirà per andare a cercare le prove che confermano la risposta. Il viaggio si spingerà verso le regioni più inesplorate e selvagge della terra, muovendosi non più solo lungo le coste, ma penetrando all'interno dei continenti (e trasformandosi in viaggio fluviale – Betts, 1986, p.19).

L'evoluzionismo fornisce una risposta esauriente sulle origini della vita sulla terra; e la paleontologia e lo studio dei fossili, la zoologia e l'anatomia comparata, diventano ottimi strumenti per raccogliere informazioni e prove a favore della teoria darwiniana.

Tra queste si inserisce una nuova scienza, l'etnografia, che attraverso l'osservazione e la classificazione dei “selvaggi” (Betts parla di geometria delle razze – Betts, 1986, p. 197), si dedicherà allo studio sistematico dei così detti fossili viventi: Popoli sopravvissuti alle ondate sempre più ravvicinate e dilavanti della civiltà, che conservano il segreto delle origini dell‟intera umanità.

Ecco che l‟esigenza di provare, attraverso la certezza del dato inteso alla

maniera positivistica, l‟origine naturale di tutta la specie umana e di riempire di

contenuti il suo cammino evolutivo lungo una sequenza di stadi di sviluppo

uniformi e universali, diventa la molla che muove i naturalisti - attrezzati con

strumenti topografici e metereologici, materiali per la tassidermia, fucili e

povere da sparo, flaconi pieni d'alcool, torchi per erbario, macchine fotografiche

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e pesanti lastre di vetro - verso regioni inesplorate: i deserti del Corno d‟Africa, le foreste dell‟America meridionale, il Borneo, la Nuova Guinea, la Terra del Fuoco.

La spedizione scientifica avrà, come già visto nell‟introduzione, un grande successo anche sul piano culturale e sociale, diventando moda e vero e proprio fenomeno di massa (Mazzotti 2001). E finendo per innescare un meccanismo di auto-alimentazione che contribuirà alla diffusione del mito dell'esploratore su larga scala. L'eroe del XIX secolo è l'impavido naturalista: coraggioso e sprezzante della morte, ma anche colto e istruito.

1.3 Il missionario

Nel XIX secolo assieme allo scienziato naturalista, viaggiano anche semplici avventurieri, commercianti, uomini d'affare e missionari.

L‟Ottocento si caratterizza nella storia ecclesiastica per la sua dinamica missionaria progressista. In esso troviamo figure di ecclesiastici che hanno dato alla Chiesa un rinnovato vigore apostolico. Un vero movimento missionario che percorre le vie della geografia ecclesiale del tempo.

Nel corso del Settecento, con la Rivoluzione francese e l'epoca napoleonica, l'attività missionaria cattolica aveva subito un forte arresto anche per effetto della confisca dei beni della Congregazione de Propaganda Fide.

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Bisognerà attendere l'inizio del secolo XIX e l'operato di Bartolomeo Alberto Cappellari, futuro Gregorio XVI, (il quale il 1 ottobre del 1826 ottiene la prefettura di Propaganda Fide), perché il sentimento missionario cattolico rinasca. Ambientatosi presto in quest'ultimo ufficio, per lui del tutto nuovo, il Cappellari mostra una singolare capacità decisionale e una certa apertura. Così, pur con molte distinzioni sull'obbligatorietà delle leggi statali, raccomanda ai missionari di inculcare ai fedeli cinesi di opporsi al commercio dell'oppio,

21Dicastero della Curia romana, nel quale si concentrava il governo generale dell‟attività missionaria cattolica nel mondo. La sua fondazione risale a Gregorio XV, che la eresse con la Costituzione Inscrutabili divinae providentiae (1622), dotandola subito di larghi privilegi e di autonomia finanziaria. Fonte: http://www.treccani.it/enciclopedia/propaganda-fide-sacra- congregazione-de/

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consiglia di non pubblicare in Cina la legge tridentina sui matrimoni, accettando il male minore, insiste per una netta distinzione fra evangelizzazione e politica, ammette in qualche caso la partecipazione dei fedeli a cerimonie civili con usanze che avevano ormai perso ogni significato religioso.

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Più importanti sono la nomina di un metropolita cattolico per gli Armeni, che pone fine a una situazione confusa e dolorosa, e i suoi interventi per un graduale avvio alla sistemazione della gerarchia latinoamericana (raccomanda e ottiene la nomina di vescovi residenziali per semplice autorità del papa, senza nessun beneplacito spagnolo). Come consultore poi degli Affari straordinari, il Cappellari ha parte attiva nel concordato con i Paesi Bassi e nella questione dei matrimoni misti in Prussia.

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Al fervore religioso di papa Gregorio XVI (1831-1846) bisogna aggiungere altri fattori che contribuiscono considerevolmente al risveglio missionario cristiano, tra cui una forte corrente di restaurazione, anche in ambito religioso, come pure l'interesse per tutto ciò che sa di esotico o di storia antica, caratteristico del romanticismo. I primi stimoli missionari giungono dalla Francia post-napoleonica. Da Lione arrivano in Italia, tradotti, gli “Annali per la propagazione della fede”, un'opera di informazione sull'attività dei missionari.

E sempre dalla Francia giunge anche l'”Opera della propagazione della fede”; un istituto voluto da Pauline Marie Jaricot, il cui scopo è quello di raccogliere denaro per il sostegno dell'attività missionaria nel mondo.

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L'Italia reagisce positivamente a questi stimoli che giungono da oltralpe.

Pietro Zovatto in Storia della spiritualità italiana ricorda: Don Nicola Mazza di Verona, il quale progetta un piano per le missioni nella Guinea e nel Congo, oltreché per l'Africa centrale, che verrà poi realizzato da un suo discepolo:

Daniele Comboni (Zovatto, 2002, p. 524); Pio Brunone Lanteri che fonda gli Oblati di Maria Vergine, ordine che otterrà, da parte di Propaganda fide, l'incarico della missione in Birmania (Zovatto, 2002, p. 525); il vescovo di Mondovì, mons. Giovanni Tommaso Ghilardi, che progetta un autentico seminario per le missioni (un progetto che seppur non andrà mai in porto ci rivela il nuovo fermento missionario che anima gli uomini di Chiesa nella prima

22Fonte: http://www.treccani.it/enciclopedia/papa-gregorio-xvi_(Dizionario-Biografico)/

23Fonte: http://www.treccani.it/enciclopedia/papa-gregorio-xvi_(Dizionario-Biografico)/

24Zovatto, 2002, p. 524.

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metà del XIX secolo).

“Il secondo Ottocento – scrive Zovatto (Zovatto, 2002, p.525) – si apre al fervore della realizzazione delle missioni, facendo emergere non solo robuste personalità di missionari, ma anche l'attiva presenza di antichi ordini monastici e pauperistici. Basti ricordare il Cappuccino Guglielmo Massaia, che dedicò la sua operosità durante un quarantennio alle missioni dell'Etiopia, su cui riuscì ad adunare un prezioso materiale documentario scientifico. Furono attivi anche rami dell'ordine benedettino come quello dei Silvestrini con l'apostolato missionari a Ceylon o la Congregazione Cassinese, della primitiva Osservanza.

In questo periodo matura una novità assoluta – finora solo progettata – che è costituita dalla fondazione di istituti apostolici con specifica ed esclusiva attività missionaria”.

Dalla metà del secolo XIX anche le esplorazioni geografiche e l‟espansione coloniale europea, aprono alle missioni nuovi campi (regioni interne dell‟Africa, Oceania, zona settentrionale del continente americano ecc.);

e a loro volta le missioni contribuiscono al progresso delle conoscenze geografiche, offrendo occasioni per l‟intervento dei governi.

Tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, lo slancio missionario prosegue e si consolida: nel 1889 nasce in Francia l‟Opera di s. Pietro Apostolo per il clero indigeno; la Società del Verbo Divino viene fondata nel 1875, Missioni africane di Verona nel 1885, Missioni estere di Parma nel 1895 e Missioni della Consolata nel 1901.

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1.4 Viaggiatori italiani

L'Italia, almeno fino alla proclamazione dell'Unità, conosce pochi significativi viaggi d'esplorazione naturalistica. Fanno eccezione Giovanni Battista Brocchi, morto viaggiando in Sudan nel 1826, e pochi altri (Rodolico, 1966, p.3).

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E' a partire dal decennio 1860-1870 che, per volontà spesso di

25Per un approfondimento si veda il capitolo La spiritualità dell'Ottocento italiano in Storia della spiritualità italiana di Pietro Zovatto, 2002.

26Nel periodo preunitario merita di essere segnalata una rivista che si occupa di viaggi esplorativi: Antologia, fondata nel 1821 da Gian Pietro Vieusseux e chiusa d'autorità dal granduca Leopoldo II nel 1832. Benché il progetto su cui il periodico fiorentino nacque fu

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caparbi individui, il tema scientifico-esplorativo si impone sulla scena nazionale.

Quintino Sella (uomo politico, più volte ministro delle finanze, nonché appassionato alpinista) contribuisce a fondare nel 1863 il Club Alpino Italiano e nel 1881 la Società Geologica Italiana. Nel 1867, per opera di Cristoforo Negri e Cerare Correnti, si fonda la Società Geografica Italiana; e, sempre nello stesso anno, Giacomo Doria contribuisce alla nascita del Museo Civico di Storia Naturale di Genova. Nel 1869, per volontà di Odoardo Beccari, viene fondato a Firenze il Nuovo Giornale Botanico Italiano.

Al fianco della nascita di questi istituti si assiste nel decennio 1860-1870 ai primi viaggi d'esplorazione italiani. L'ambiente accademico, composto da zoologi, botanici, antropologi, etnografi e geografi, predilige mete come l'America Latina, l'India, la Melanesia, L'Indonesia, il Borneo e la Nuova Guinea. L'Africa, invece, resterà al momento meta di avventurieri e coraggiosi dilettanti (Puccini, 1999, p. 31).

Tra i viaggi più significativi del decennio ricordiamo: L'”ambasciata”

italiana in Persia (1862) a cui partecipano i naturalisti Filippo De Filippi, Giacomo Doria, Michele Lessona e Giacomo Lignana. La circumnavigazione del globo terrestre della Pirocorvetta Magenta (1865-1868) a cui partecipano Filippo De Filippi e Enrico H. Giglioli. L'esplorazione del Borneo (1865-1868) a cui partecipano Odoardo Beccari e Giacomo Doria. Il viaggio a Ceylon di Manfredo Camperio e quello in Giappone di Pietro Savio e Vittorio Sallier de la Tour (Puccini, 1999, p.32).

1.5 Viaggiatori “minori”

Moltissimi furono i viaggiatori, naturalisti, avventurieri e missionari italiani del XIX secolo. Ci furono accademici come Paolo Mantegazza (1831- 1910) e Enrico Hillyer Giglioli (1845-1909); preparati autodidatti come Elio Modigliani (1860-1932); aristocratici come Orazio Antinori (1811-1882);

botanici come Beccari Odoardo (1843-1920); avventurieri come Luigi Maria D'Albertis (1841-1901); irredentisti e garibaldini come Romolo Gessi (1831- 1881) celebri missionari come Daniele Comboni (1831-1881).

prevalentemente politico, Vieusseux dette ampio spazio ai temi scientifici e alla pubblicazioni di resoconti di viaggi esplorativi (Tavaglini, 1984).

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In mezzo (e spesso assieme) a tutti questi nomi celebri non mancarono

anche viaggiatori minori, forse meno conosciuti, perché non pubblicarono

memorie di successo, non furono parte dell'ambiente accademico, non fecero

sensazionali scoperte geografiche; ma che comunque contribuirono al successo

del viaggio esplorativo ottocentesco e al nome dell'Italia nel mondo (diventando

talvolta molto più conosciuti nei paesi dove operarono che non in Italia, come

attestano le biografie di molti missionari). Tra questi ci furono anche P. Doroteo

Giannecchini e Carlo Piaggia.

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2 GIANNECCHINI: CENNI BIOGRAFICI27

Padre Doroteo Giannecchini, al secolo Massimo, nasce il 9 dicembre 1837 a Pascoso di Pescaglia, piccolo paesino della provincia di Lucca, situato lungo la strada che porta a monte Matanna sulle Alpe Apuane.

Figlio di Gianni Antonio e Maria Domenica, studia sotto la guida del padre e dei parroci di Pascoso. Nel novembre del 1851 sostiene l'esame pubblico di grammatica latina, italiano, poetica e geografia per entrare nel seminario arcivescovile di S. Martino di Lucca. Il 30 agosto 1853 veste l'abito di S.

Francesco come novizio nel convento di S. Cerbore e dopo un anno, il 31 agosto 1854, professa i voti religiosi col nome di Doroteo. Segue corsi di materie letterarie nel convento di Colleviti di Pescia e di filosofia a Giaccherino di Pistoia. Si trasferisce nel convento francescano di Lucca dove segue i corsi di teologia. Il 18 ottobre 1858 riceve il diaconato nel palazzo vescovile di Pescia, concludendo un lungo percorso di studi severi e di rigorosa formazione alla vita francescana.

E' nel convento lucchese che Giannecchini matura la decisione di partire missionario. Nel corso della sua permanenza nel convento soffre di frequenti infermità. Per questo nelle ricostruzioni della vita di P. Doroteo Giannecchini, che si possono leggere in alcuni periodici di carattere religioso del XX secolo, si è ipotizzato che il giovane frate abbia preso la decisione di partire come missionario in ottemperanza a un voto fatto per guarire dalla malattia. Al di là delle fantastiche supposizioni formulate da zelanti biografi del pio frate, c'è da dire che il periodo di formazione francescana di Giannecchini corrisponde a una fase di forte fibrillazione e fermento missionario all'interno dell'ordine.

All'inizio dell'Ottocento, come conseguenza delle guerre d‟indipendenza, le missioni francescane in Sud America subiscono un tracollo devastante. Quasi tutte vengono abbandonate, distrutte, lasciate all'incuria. Poche sopravvivono, seppur malamente, grazie allo zelo di isolati frati intraprendenti. Bisognerà aspettare gli anni Trenta del secolo perché alcuni frati vengano incaricati, dai neonati stati latinoamericani, di riallacciare i contatti interrotti con la S. Sede.

27La fonte per la ricostruzione della biografia è, salvo diversa indicazione, C. Cannarozzi, 1925.

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