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I ricordi queste ombre troppo lunghe del nostro breve corpo.

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Academic year: 2021

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3 Introduzione

Passato

I ricordi queste ombre troppo lunghe del nostro breve corpo.

Questo strascico di morte che noi lasciamo vivendo.

I lugubri e durevoli ricordi.

Eccoli già apparire : melanconici e muti.

Fantasmi agitati da un vento funebre.

E tu non sei più che un ricordo.

Sei trapassata nella mia memoria.

Ora sì posso dire che m’appartieni.

E qualche cosa fra di noi è accaduto irrevocabilmente.

Tutto finì così rapido!

Precipitoso e lieve il tempo ci raggiunse.

Di fuggevoli istanti ordì una storia ben chiusa e triste.

Dovevamo saperlo che l’amore brucia la vita e fa volare il tempo.

1

In questa poesia di Cardarelli i ricordi sono uno strascico di morte, ombre troppo lunghe di una vita breve, lugubri, melanconici, muti, ma soprattutto durevoli; fantasmi di un passato che non è più.

Di una storia rapida e breve, di fuggevoli istanti il tempo fa una storia ben chiusa e triste.

La memoria ci rammenta tragicamente la brevità della vita.

Eppure se il tempo non trasformasse i brevi istanti in storie ben chiuse che ne sarebbe di noi?

Se la nostra mente non fosse in grado di viaggiare nel tempo, oscillando tra passato, presente e futuro, legando tra loro le esperienze e ad esse il sé, come potremmo sostenere di aver vissuto, ma anche di vivere?

Forse saremmo condannati ad un’immanenza scissa, a ripetere esperienze senza trarre dagli insegnamenti del passato la possibilità di modificare uno schema esistenziale.

Senza un passato in cui ricostruire premesse e conseguenze, come potremmo immaginare il futuro?

Ed anche se è doloroso ricordare chi non c’è più o qualcosa che è finito e andato, come sarebbe non poter ricordare affatto, cioè non avere la possibilità, neppure nella memoria, di tornare ai luoghi amati, di riascoltare care parole, assaporare gusti e rivedere volti di persone che in quel lontano presente significarono molto per noi?

La memoria è una risorsa, il nostro orizzonte, anche se ovviamente non sempre quello che ha da raccontarci può essere piacevole: possiamo provare dolore, rabbia, rimorso, angoscia, paura; ma pure da queste emozioni possiamo cogliere l’opportunità di conoscerci e comprenderci.

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Cardarelli V., Poesie, Mondadori, Milano 1942

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4 La soluzione non è dimenticare; certo, talvolta la rimozione può essere un compromesso psichico accettabile in fasi in cui la gestione di alcuni ricordi appaia insostenibile; ma la strada della libertà e del benessere passa per forza da se stessi, non eludendosi più, bensì accogliendosi e riservandosi del tempo per l’introspezione volta a tessere il vissuto e a dotarlo di senso.

E la scrittura appare il dispositivo più adatto a tale compito: l’impegno richiesto nella ricerca di uno stile narrativo soddisfacente, anche dal punto di vista estetico, e di una struttura che debba essere necessariamente coerente; nonché lo sdoppiamento tra narratore e personaggio della narrazione, trasforma l’attività del ricordare da drammatica a drammaturgica, inserendo la possibilità del come se, ma anche quella di catarsi implicita in ogni narrazione in cui gli eventi, anche i più dolorosi, siano inquadrati in una prospettiva di senso tesa a valorizzare l’evoluzione e le risorse messe in campo dal sé-eroe nell’affrontare le sfide esistenziali.

Ma avere cura della propria storia e della propria crescita significa anche darsi l’opportunità di fondare l’identità in modo provvisorio, fluido e revisionabile, sulla vita incarnata, sulle esperienze e il significato che esse hanno assunto nella nostra maturazione cognitiva ed emotiva: in un’epoca più volte definita come quella della morte del soggetto unitario è possibile quindi trovare in questa dimensione l’opportunità di accettare l’ineliminabile dubbio esistenziale, i propri limiti e imparare ad amare l’assenza di confini rigidi; di contro, l’angoscia della perdita di punti di riferimento potrebbe far cadere nella tentazione di un’adesione rigida e riduzionista a modelli estrinseci nostalgici che tentano di riaffermare strumenti di identificazione e di contrapposizione noi/loro, le cui conseguenze purtroppo sono evidenti in una realtà geopolitica globale contrassegnata da guerre culturali e di religioni, discriminazioni razziali e sessuali.

Accettare sé, la propria storia, i propri limiti, le proprie pulsioni ed emozioni, le proprie zone d’ombra, implica necessariamente accettare l’altro da sé, con il suo vissuto e la sua peculiare unicità, per potersi accogliere reciprocamente in un dia-logo empatico e solidale.

I temi affrontati in questo lavoro caratterizzano in qualche modo l’intera mia esistenza, ovvero sin da piccola mi sono trovata a riflettere sui ricordi e sull’identità.

Figlia di immigrati, spesso potevo contare sull’affetto dei parenti solo attraverso il ricordo: molto presto ho percepito con dolore il passare del tempo e ho iniziato precocemente a trattenere i momenti conservando fotografie, oggetti significativi e scrivendo pagine di diario.

Avevo così la consolante sensazione di poter far rivivere dentro me ciò che era andato e spesso le

conversazioni famigliari, dopo i mesi estivi passati in Egitto, vertevano su racconti di episodi

occorsi durante la permanenza tra i nostri cari.

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5 C’era una sorta di rete di ricordi che riusciva a tenerci legati benché lontani; ma ci fu uno strappo che mi costrinse a comprendere anche che la memoria non è un dato stabile e sicuro: la demenza senile sopraggiunta in mio nonno, per cui non ci riconosceva più, mi mise a confronto con la dura realtà di ricordi non più condivisibili. Capii cioè che il valore della memoria risiede anche nella sua socialità, che è bello ricordare sapendo che si tratta di ricordi condivisi e che le persone che ricordiamo possono fare la medesima cosa.

Negli ultimi giorni della sua vita io ero là, vicina a lui, spesso in silenzio, mentre lui disorientato e altrettanto in silenzio guardava ore ed ore la televisione, incapace di afferrare quello che vedeva perché ormai privo di qualunque riferimento.

Ogni tanto si voltava verso di me chiedendomi chi fossi; ma né il mio nome né quello di mio padre, suo figlio, parevano risvegliare in lui spiragli di luce.

Talvolta mi raccontava con gusto un unico episodio della sua infanzia: la notte che, durante la villeggiatura al mare, uscì, fuggì dalla finestra per poi rientrare prima che i genitori si svegliassero.

Mi sono sempre chiesta perché proprio questo episodio era riuscito ad ancorarsi e a salvarsi dal generale oblio che lo aveva fatto regredire anche sul piano del controllo delle funzioni vitali.

Perché non ricordava chi fossi io, ma riusciva a raccontare con dovizia minuziosa quella notte?

I ricordi non sono tracce stabili ed il loro percorso talvolta accidentato e misterioso.

Figlia di immigrati musulmani in una società a maggioranza cattolica, mi sono trovata anche a pormi domande circa la cultura e l’identità: per chi nasce in coerenza con un determinato contesto può non insorgere l’interrogativo sulla propria appartenenza; ma per chi, come me, si trova tra istanze distanti e talvolta in conflitto non è possibile aderire spontaneamente ad un modello culturale.

I miei genitori hanno oscillato tutta la vita tra il tentativo disperato di fare di me e di mia sorella delle comuni musulmane in terra straniera e il desiderio di tornare in patria dove tale compito, a loro avviso, sarebbe stato più semplice.

Ma ormai noi eravamo dei pesci fuori d’acqua, con la costante sensazione di non poter dire in modo semplice chi fossimo.

L’incontro con la filosofia alle superiori rappresentò una vera e propria svolta esistenziale: il fatto

che il dubbio, la domanda siano, non solo legittimi, ma addirittura alla base della libertà di pensiero,

mi incoraggiarono ad accettare la mia condizione esistenziale meticcia e a resistere alla tentazione

di aderire ad uno dei due modelli dominanti nella mia infanzia per sentirmi finalmente appieno

qualcuno di preciso in un contesto definito.

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6 Cominciai a nutrire orgoglio per la mia condizione che mi permetteva di gettare uno sguardo strabico sul mondo, di abbracciarlo tutto e comprendere meglio situazioni complesse.

L’amore per la filosofia si tradusse nella scelta di continuarne gli studi all’università: qui l’incontro con la cultura femminista e poststrutturalista ha definitivamente suggellato la mia condizione incerta: grazie alle riflessioni teoriche sul nomadismo di Braidotti, sul passing di Hostert (di cui si tratterà nel primo capitolo), ma in generale grazie alla produzione di quelli che prima della modernità erano gli altri (ex colonizzati, donne, gay/lesbo/transgender) ho potuto finalmente considerare la mia posizione di donna non bianca figlia di immigrati musulmani come una rara coincidenza esistenziale che potesse favorire la mia maturazione (seppure a costo di dolorose scelte) anziché inibirla.

Al termine degli esami universitari, quando avrei potuto infine prendere parola ed esprimere attraverso la tesi quello che avevo raccolto lungo un percorso eterogeneo, segnato da diversi interessi apparentemente distanti dalla filosofia in senso stretto (dal cinema alla videoarte, passando per l’antropologia culturale, la psicologia e la pedagogia, ma anche per culture lontane, come quella giapponese) mi ritrovai in una grave crisi di scrittura: mi sentivo incapace anche solo di pensare a cosa scrivere e avrei certo preferito continuare a dare esami, rimanendo in seconda linea.

Così colsi l’occasione di sfruttare il mio diploma magistrale per partecipare al concorso per l’insegnamento alla scuola primaria, l’ultimo che mi permetteva di accedere senza la laurea specialistica in scienze della formazione.

Tentai senza grande impegno né convinzione, ma la vita riserva sempre incredibili sorprese.

E così lo superai brillantemente, ritrovandomi rapidamente catapultata in una classe senza mai aver svolto anche una sola ora di supplenza.

Ero spaventata all’idea che, in risposta alle esigenze complesse, sia didattiche che umane, che il mio nuovo lavoro richiedeva, io avessi a disposizione solo un vecchio bagaglio di conoscenze scolastiche di anni addietro.

E nei quindici anni successivi ho tentato di diventare di fatto un’insegnante, concentrandomi soprattutto sulla qualità della relazione, cercando di mettere in campo la mia umanità, la mia storia e la mia sensibilità; ma soprattutto partecipando a numerosi corsi di formazione accomunati dall’idea dell’inclusione (Cooperative Learning, Flipped Classroom, utilizzo delle teconologie in particolar modo per gli alunni disabili e dsa, metodo analogico per l’insegnamento della matematica, ecc.).

Oggi per me la cattedra è un ostacolo ingombrante e sono una ferma sostenitrice di un

apprendimento che parta dal basso, dall’esperienza; sto molto attenta ai miei tempi di parola, perché

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7 credo che la lezione cattedratica non possa che annoiare ed allontanare chi invece quando arriva a scuola il primo giorno freme dalla voglia di imparare.

Uno degli elementi su cui mi sono trovata a riflettere, quando ancora insegnavo italiano, è la bizzarra discrepanza tra il frenetico desiderio dei bambini di raccontare le proprie esperienze e la difficoltà invece ad organizzarle in una esposizione scritta.

In quella difficoltà mi sono riconosciuta ed ho cominciato a chiedermi perché accada ciò.

Cercando del materiale utile per agevolare i miei alunni nel percorso espressivo mi sono quindi imbattuta nel testo che posso considerare la svolta anche nel mio percorso universitario:

Laboratorio dell’autobiografia – Ricordi e progetti di sé edito da una casa editrice ritenuta dal mondo degli insegnanti particolarmente valida, ovvero la Erickson, mi ha introdotto al metodo autobiografico come dispositivo di cura di sé.

Nella puntuale, seppur breve, introduzione sono contenuti tutti i temi che poi sono stati da me approfonditi ed esposti in questo lavoro: connessione tra identità e memoria personale, tra formazione e progetto di sé; ed alla base l’assunto che la mente sia naturalmente narrativa.

Dal punto di vista strettamente didattico si insiste sull’importanza di un apprendimento che faccia leva sul vissuto particolare ed unico di ciascun alunno e si invita ad utilizzare la scrittura autobiografica in una sorta di laboratorio ben organizzato e strutturato.

Il testo offre poi alcuni esempi di attività da proporre in classe: attività che svolsi con i miei alunni di allora e da cui potei trarre la conclusione che desiderare scrivere di sé non coincida con l’immediata competenza a farlo; che sta a noi educatori adulti offrire gli strumenti necessari per incoraggiare i più piccoli a parlare, anzi scrivere di sé senza timore; e questo può accadere se sostituiamo il solito tema generico in cui un alunno può sentirsi perso come in mare aperto, con attività mirate e definite, partendo da stimoli adeguati, definendo i temi, incentivando il confronto tra le varie esperienze, e solo alla fine chiedere una pagina scritta.

Il successo dell’attività svolta quell’anno scolastico, che io misurai soprattutto nella soddisfazione degli alunni e nella loro attesa dell’ora in cui svolgevamo gli esercizi inerenti alla scrittura di sé, mi convinse che quella potesse essere la strada per riprendere il mio percorso universitario, interrotto per lungo tempo.

Nacque così l’idea di affrontare le tematiche della memoria personale connessa all’identità e quella

della scrittura autobiografica come opportunità autonoma e libera di potersi dotare di significato,

per riprendere entusiasmo esistenziale e soprattutto per tornare ad amare la propria avventura, che è

assolutamente unica e merita di essere narrata; in questo modo la mia vita passata di bambina

spaesata in senso letterale, impossibilitata ad aderire ad un modello riduzionista identitario, si

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8 incontrò con la mia vita presente di allora, insegnante alla ricerca di strumenti adeguati per favorire la spontanea emersione del vissuto da parte dei ragazzi.

Sono stata tanti anni lontana dall’università, ma in questo lavoro vedo che non ho mai smesso di cercare, di pormi domande e di leggere testi meravigliosi che come ciliegie si tiravano l’un l’altro.

Un ricordo particolare a cui sono molto legata è l’immagine di me in sala parto che, in attesa di un evento che, anche se ripetuto, rimane sempre incredibilmente sconvolgente, leggo concentrata Sodoma di Proust: perché appunto le domande sono come ciliegie e, avventurandomi nella tematica della scrittura autobiografica come cura di sé, ho sentito crescere in me l’esigenza di confrontarmi con i maestri dell’autobiografia e della narrazione dei ricordi.

Proust è stato un’esperienza intensa, oscillante tra estasi e noia (lo ammetto), ma che alla fine ha lasciato in me una traccia indelebile, la traccia che può lasciare solo chi riesce ad andare oltre il proprio tempo e a parlare a qualunque individuo di qualunque tempo.

Per ogni grande dell’autobiografia serbo dei ricordi vividi e intensi: Papini uomo finito lo associo al mare d’agosto, l’inaspettato Alfieri al giardino di casa mia, le avventure incredibili di Casanova io le ho vissute principalmente al riparo del mio focolare…

In questi lunghi anni, talvolta senza crederci fino in fondo, ho continuato a studiare per arrivare a questo punto esistenziale: la necessaria chiusura di un cerchio che mi impediva di intraprendere convinta nuovi interesse e nuove strade.

Non posso che essere felice di concludere il mio percorso in seno all’Università, sigillare il mio amore salvifico per la filosofia, con un approfondimento inerente al sé e alla sua storia personale come possibile fonte di crescita cognitiva ed emotiva.

Tutta la mia vita è ragionevolmente qui dentro.

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