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Il pane nell'architettura medievale, ovvero l'alternativa invisibile

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9 Presentazioni

Eike D. Schimdt, Direttore delle Gallerie Degli Uffizi

Marta Ragozzino, Direttrice del Polo Museale Regionale della Basilicata Vincenzo Santochirico, Presidente della Fondazione Sassi di Matera

15 Il pane.

Nutrimento del corpo e dello spirito nell’arte cristiana Maria Anna Di Pede

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Il pane nell’architettura medievale, ovvero l’alternativa invisibile Fulvio Cervini

31 Crusca e pane

Marco Biffi

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Nel segno del pane.

Simboli e realtà quotidiana nei dipinti degli Uffizi esposti nei Sassi di Matera Maria Matilde Simari

45 CATALOGO

75 Bibliografia

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Francesco Dal Ponte detto Francesco Bassano e bottega Cristo in casa di Marta e Maria

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Se nella tradizione iconografica italiana e occidentale il pane occupa uno spazio di grande visibilità simbolica, per le ragioni che anche questa mostra mette efficacemen-te a fuoco, non altrettanto si può dire del suo luogo di produzione. Il forno non è presenza forte nell’immagina-rio figurativo medievale e moderno, mentre uno spazio più incisivo, ma in fondo ancora sottotraccia, è guada-gnato da quelle architetture a loro volta legate alla prepa-razione della materia prima del pane – il molino – e alla sua lavorazione ulteriore – la cucina, che a sua volta può, ma non necessariamente, comprendere il forno1. L’aporia vale anche e soprattutto per la nostra percezione di questi luoghi, che salvo rare eccezioni non figurano nei manua-li di storia dell’architettura e finiscono per assumere, nel senso comune storiografico, un profilo debole. Un moli-no o una cucina, in questi termini, sembramoli-no moli-non valere una chiesa o un castello, ma in qualche caso neanche una torre o un ponte. Figuriamoci un forno, che nella cate-na produttiva è un congegno necessario ma in un certo senso sacrificato dal suo stesso funzionalismo: una vera microarchitettura semisferica o cupoliforme in pietra o mattoni, a sua volta contenuta spesso all’interno di un piccolo edificio che doveva servire al fornaio soprattutto a lavorare al coperto, come si può vedere nel bel forno me-dievale di Fixey in Borgogna (fig. 1), simile a una cappella absidata. Un congegno tecnologicamente ben collaudato

nella sua efficace semplicità, che poco cambia dal mondo antico a quello moderno2.

A un edificio come un forno, pubblico o privato che sia, non si chiede certo una particolare qualità architet-tonica, a meno che non sia finalizzata alla buona riuscita della cottura. Vale anche per il mulino o per la cucina, come rammenta anche il piccolo rame di Filippo Napole-tano qui in mostra: poiché a caratterizzare questi edifici è il rigore piuttosto che l’ornato, essi possono apparirci, se-condo il punto di vista, proiettati in un passato indistinto - per cui non sapremmo datare con puntualità l’edificio che Filippo dipinge - ovvero notevolmente moderni, tan-to evidente è un’essenzialità razionalista che par assai in anticipo sui tempi. A titolo di esempio possiamo gettare un’occhiata al molino Grifoni a Castel San Niccolò (Arez-zo), uno dei più antichi e meglio conservati della Toscana, tra quelli tuttora attivi. Che al di là del suo aspetto vetu-sto, sottolineato dall’ambiente suggestivo e dalle vasche lapidee (fig. 2), dove la farina cade da macine alimenta-te tuttora da forza idraulica, sappiamo esisalimenta-tere dal 1696. Al netto di qualche trasformazione, è da credere che in origine non fosse tanto più diverso. Ma neanche tanto diverso da un mulino ad acqua di due o tre secoli prima. Negli splendidi Mesi dipinti intorno al 1400 nella Torre

Aquila del Castello del Buonconsiglio a Trento i mulini di aprile e dicembre sono semplici scatole con ruota e tetto

Fulvio Cervini

Il pane nell’architettura medievale,

ovvero l’alternativa invisibile

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a due spioventi (ed è un peccato che tra le molte attività agricole o collegate alla terra non vi sia la panificazione)3. Allo stesso tempo, saranno tutti davvero medievali i forni “medievali” come quello in cui è stato recentemente aper-to ad Altamura un interessante museo d’impresa dedicaaper-to proprio al pane? Le apparenze, insomma, possono risulta-re spiazzanti proprio a causa delle persistenze.

Ma a pesare sulla sfortuna di forni e cucine è anche la difficoltà di percepirli come edifici indipendenti – perché non sempre lo sono – piuttosto che come parti di un complesso (come accade nella maggior parte dei casi). Meglio conosciute e studiate sono altre architetture per il lavoro, come le grange, che si segnalano spesso per dimensioni e arditezza quasi sperimentale nelle soluzioni adottate per le coperture, quasi sempre lignee. Si può fare una storia dell’architettura medievale (soprattutto cistercense, e soprattutto fra XII e XIII secolo), studiando solo le grange. Ma sembra che non si possa fare studiando solo i forni e le cucine, a meno di non privilegiare un approccio sostanzialmente archeologico.

In verità riconsiderare il contributo medievale alla storia delle preparazioni alimentari attraverso le formule architettoniche messe a punto soprattutto fra il XII e il XIV secolo non è tempo sperperato. L’approccio potrebbe anzi rivelarsi foriero di interessanti sviluppi, proprio perché il medioevo lavora sul tema con assiduità e originalità per molti versi insuperate, sviluppando soluzioni di grande qualità tecnologica che in alcuni casi rimarranno e in altri non avranno seguito.

Il nostro minimo sondaggio può ben avviarsi incro-ciando due classici della storiografia, non solo francese, sull’architettura medievale. Il primo è il Dictionnaire di

Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc, che ai forni dedica una voce tanto stringata quanto sintomatica4: quasi a ribadire da un lato la difficoltà di approccio al tema, e dall’altro un relativo disinteresse legittimato dal minima-lismo della loro architettura. Tant’è vero che Viollet parla di fours à pain escludendone quasi del tutto gli aspetti

co-struttivi, dando alla voce un taglio essenzialmente storico. In sostanza, vi si dice che il re di Francia permetteva che 2. Castel San Niccolò, Molino Grifoni, interno, particolare

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nelle città e nelle abbazie venissero stabiliti forni pubblici, posti sotto i controlli delle comunità, dei signori e degli abati, che in questo modo ne traevano un vantaggio. Ma talvolta questi forni erano esentati dal pagamento di dirit-ti alla corona, sempre per concessione del re. Alcune città ottennero comunque il privilegio di autorizzare la costru-zione di forni a volontà, mentre quasi sempre i castelli, anche di piccole dimensioni, avevano un loro forno, per l’ovvia necessità di nutrire i loro abitanti e affrontare gli assedi5. Se il grande architetto nulla dice di come questi forni erano costruiti, nondimeno fissa un punto fermo: i forni medievali sono molto raramente forni privati e fa-miliari. Pochi potevano permettersi un forno domestico: nelle comunità piccole e grandi si facevano turni di cot-tura al forno pubblico, pagando il servizio a chi lo gestiva. Ma questi forni servono anche ai viaggiatori. Nel 1251 un gruppo di cavalieri gerosolimitani provenzali, composto da almeno dieci persone, in viaggio verso Genova, allog-gia ad Albenga nell’ospedale di San Clemente che il loro ordine lì possedeva: ma non manca di fare un passaggio al forno pubblico per farsi cuocere una torta6. Il forno me-dievale, molto più che nel mondo moderno e contempo-raneo, è un’architettura pubblica, che svolge una funzione comunitaria, e quindi, in un certo senso, identitaria. In alcuni frangenti è la corporazione dei fornai a chiedere, e ottenere, una legittimazione anche iconografica, e insieme architettonica, del loro lavoro. Questo accade nel bel rilie-vo del XII secolo scolpito su un pilastro della cattedrale di Piacenza (fig. 3), dove un fornaio si appresta ad infornare con la pala due pagnotte offerte da altrettante donne (che evidentemente le hanno preparate in casa e ora le portano in cottura)7. Notevole è anche la rappresentazione del for-no, una cupola accessibile attraverso una bocca dal profilo pentagonale, sopra la quale c’è scritto che hec est columna fornariorum, perché erano stati proprio i fornai a pagare la

costruzione di quel sostegno. Dunque il lavoro dei fornai interagisce con l’architettura a più livelli. Un secolo più tardi, nel terzo arcone della facciata di San Marco, non ci si dimentica certo del pane, nella rassegna dei mestieri veneziani: solo che stavolta i fornai sono diventati panet-tieri, perché la preparazione del pane è sostituita dalla sua vendita (e dunque il forno non si vede)8.

Se queste forme di autocoscienza sono tendenzial-mente italiane, confermano la dimensione civica del-la anche alcuni veloci riscontri dall’altra silloge cdel-lassica che merita riconsiderare, e cioè l’antologia di fonti per la storia dell’architettura francese raccolta da Victor Mor-tet e Paul Deschamps. Nei conti dei baillaggi di Sens e di Vermandois all’anno 1248 si parla ad esempio sia di restauri che della costruzione ex novo di forni9; e ancora nel bilancio della Contea di Champagne per il 1287 si segnalano spese cospicue per il restauro dei forni pubblici, soprattutto per quanto riguarda le coperture (ma anche per mulini, grange, cucine e cantine)10. Del resto il forno è punto fermo degli stabilimenti monastici, perché serve 3. Colonna dei fornai. Piacenza, Cattedrale

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all’autosufficienza di un’abbazia. Non dobbiamo quindi stupirci se quatuor coquinae e un numero imprecisato

di furna siano esplicitamente menzionati nelle

istruzio-ni che l’abate di Lérins, monastero benedettino sull’isola omonima davanti a Cannes in Provenza, impartisce già entro il 1088 ai maestri che devono costruire l’abbazia fortificata11. La stessa celeberrima pianta carolingia di un’abbazia, conservata nella Biblioteca di San Gallo in Svizzera, evidenzia almeno tre panifici diversi, sempre collegati ad altrettanti birrifici. Due di essi sono adiacen-ti alle torri occidentali di san Michele e di san Gabriele, e molto probabilmente erano funzionali ai vicini alloggi per gli ospiti e i pellegrini. Il forno più grande, destinato alla comunità, sorgeva invece oltre il lato meridionale del

chiostro, ed era collegato direttamente alla cucina mag-giore, alla cantina e al refettorio. La pianta disegna tutti questi luoghi come edifici indipendenti, facendo dell’ab-bazia una sorta di piccola città. Non per questo dobbiamo pensare a un vero progetto esecutivo (ovvero alla pianta di un’abbazia effettivamente costruita), quanto piuttosto a uno schema distributivo ideale di luoghi e funzioni12.

Sta di fatto che l’idea del forno e della cucina come di edifici indipendenti, e non necessariamente inglobati in un complesso multifunzionale, non solo è peculiar-mente medievale, ma trova fra XII e XIII secolo parecchie applicazioni assai originali per creatività progettuale. Se infatti torniamo a Viollet-le-Duc ma passiamo alla voce consacrata alle cucine, ci imbattiamo in una trattazione 4. Fontevrault, Cucina abbaziale, esterno 5. Fontevrault, Cucina abbaziale, interno, particolare delle

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articolata che può finalmente dar conto di una qualità architettonica ancora in parte leggibile sugli elevati13. Viollet riconosce nella cucina un modello architettoni-co specifiarchitettoni-co, in cui si alternano due tipologie di edifici indipendenti: una a pianta centrale, circolare o poligona-le, con focolai e camini ricavati nelle nicchie – a volte si tratta di vere e proprie absidi – aperte lungo il perimetro; e un modello a pianta quadrata o rettangolare, diviso in navate da pilastri, che diventa prevalente nel XIV e nel XV secolo. L’isolamento era legato sia al pericolo dei ca-richi di fuoco, sia alla necessità di garantire una migliore aerazione degli ambienti. Ma al tempo stesso egli rico-nosce che l’unità monumentale perseguita a partire dal primo Cinquecento finirà per negare l’autonomia della cucina, che da allora sarà completamente assorbita negli organismi di palazzi, castelli e abbazie, fino a diventare pressoché invisibile dall’esterno. Se la cucina come tipolo-gia architettonica indipendente è una conquista dell’oriz-zonte culturale che siamo soliti definire romanico, è pur vero che la formula è stata presto accantonata malgrado la bellezza delle soluzioni proposte, che rivendicano un rango speciale nella storia dell’arte medievale.

Gli esempi più interessanti e succosi vengono dalla Francia occidentale, in cui forse è da vedere un labora-torio molto sensibile a queste soluzioni. La celebre cuci-na dell’abbazia di Fontevrault (figg. 4, 5), che potremmo scambiare per un battistero se non fosse per la selva di camini, è sintesi ingegnosa e deliziosa di bellezza e fun-zionalismo, specie nell’organizzazione di uno spazio in-terno dove la combinazione di focolai e canne fumarie suggerisce un sistema di coperture molto complesso, che articola con potenza la massa muraria. La stessa sequenza delle nicchie prevede un forte aggetto, tanto che la pian-ta polilobapian-ta conferisce alla struttura una forte vibrazione plastica e chiaroscurale14. Ancor più singolare, secondo da

ricostruzione proposta da Viollet, era la cucina che si pote-va vedere fino al tardo Settecento nell’abbazia di Marmou-tier presso Tours (figg. 6, 7): un solo vano circolare con cinque absidi e una scarsella, tutte in spessore di muro, e un esterno di aspetto cupoliforme, con piccoli comignoli simili più a sfiati che a vere canne, che sembra amplificare su scala monumentale, anche per la mancanza di ulterio-ri aperture, l’immagine di un forno. Se sintesi tra Fonte-vrault e Marmoutier doveva essere la cucina dell’abbazia di Vendôme, la già duecentesca cucina di Saint-Pierre a Chartres, impostata su due livelli con sei sostegni liberi al centro dell’aula, rappresentava invece lo sviluppo in senso gotico del codice estetico e funzionale di queste architet-ture fortemente e bizzarramente centralizzate. Dobbiamo 6. Marmoutier, Cucina abbaziale, esterno (secondo Viollet-le-Duc)

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rimpiangere che entrambe siano andate perdute, ma c’è da compiacersi che sia sopravvissuta la cosiddetta cucina di san Luigi nella Conciergerie a Parigi (fig. 8), valoriz-zata da un recente restauro, che costituisce il paradigma ideale delle cucine a navate, ovvero sale con volte di egua-le altezza. In verità questo ambiente è stato di recente attribuito, e con buoni argomenti, al tempo di Giovanni il Buono, e dunque al pieno XIV secolo (Viollet stesso pensava già a Filippo il Bello)15. Sicché il paradigma non è propriamente un archetipo. Qui l’idea forte è quella di sistemare i quattro grandi camini in posizione angolare, lasciando nove pilastri cilindrici al centro della grande sala, che era molto probabilmente articolata su due livel-li. Se a Fontevrault il termine di paragone poteva essere

un battistero o una chiesa dedicata al Santo Sepolcro, qui la soluzione sembra derivare dalle chiese a sala o dagli ospedali. Una sua versione ridotta, con quattro soli pi-lastri, viene applicata fra XIV e XV secolo nel castello di Montreuil-Bellay, dove la cucina, molto ben conservata, è ancora un edificio indipendente accanto alle mura: uno spazio che torna unitario, con grande canna fumaria cen-trale, che nasce come espansione della volta, e due latera-li, alte e rigide come stele.

Al pane, in senso lato, il medioevo aveva dedicato luoghi riconoscibili, e spesso di notevole dignità monu-mentale, proponendo addirittura modelli specifici per l’architettura delle cucine. Che questa specificità sia stata poi accantonata e misconosciuta è lamentato da Viollet 7. Marmoutier, Cucina abbaziale, pianta (secondo Viollet-le-Duc) 8. Parigi, Conciergerie, Cucina, pianta (secondo Viollet-le-Duc)

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in chiusura della sua voce, giungendo addirittura a im-maginare un sapore più schietto e genuino delle pietanze preparate nelle cucine medievali, rispetto a quelle del suo tempo. Che per un malinteso senso dell’ordine aveva mor-tificato l’alterità medievale, sostituendovi un funzionali-smo moderno che avrebbe lasciato interdetti gli architetti di allora. E finendo per svalutare lo stesso lavoro di cuochi e panettieri, così esaltato dalla civiltà romanica e gotica. Non sta a noi discutere tanto radicalismo. Ma abbiamo il dovere di riconoscere, ogni volta che mangiamo un pez-zo di pane, che dietro quel morso c’è una lunga storia, e che questa storia è attraversata da momenti di creatività alternativa che trovano felice espressione negli ultimi secoli di quel che chiamiamo medioevo, quando un’altra storia architettonica del pane e del cibo era possibile. E di ricordarci, soprattutto, che possiamo e dobbiamo essere costruttori e non soltanto consumatori.

Note:

1 Sviluppare una riflessone sul tema in poche righe può sembrare quasi insensato, a fronte dei contributi raccolti in una silloge davvero monumentale come La civiltà del pane. Storia, tecniche e simboli dal Mediterraneo all’Atlantico, atti del convegno (Brescia, 1-6 dicembre

2014) a cura di G. Archetti, 3 voll., Fondazione Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 2015: dove agli aspetti architettonici è dedicato un mirato e documentato intervento di X. Barral I Altet,

Architetture medievali del pane, pp. 1439-1455 (con vasta bibliografia)

che merita di essere ponderato in altra sede. Ci limiteremo pertanto a qualche minima glossa pertinente a questa circostanza.

2 Molto utile la messa a punto (con censimento delle strutture

esplorate archeologicamente) di C. Pizzinato, Focolai domestici, forni e piani di cottura dell’Italia medievale. Un primo bilancio, in “Archeologia

medievale”, 41, 2014, pp. 335-347.

3 Cfr. E. Castelnuovo, Il ciclo dei Mesi di Torre Aquila a Trento,

Provincia Autonoma di Trento, Trento 1987.

4 E. Viollet-le-Duc, Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XIe au XVIe siècle, V, Librairies-Imprimeries Reunies, Paris, s.d. (I ed. Morel, 1861), pp. 552-553.

5 Sul tema vedi pure, in sintesi, J. Mesqui, Châteaux et enceintes de la France médiévale. De la défence à la résidence, Picard, Paris, 2 voll.,

1991-1993.

6 Passaggio puntualmente rendicontato: A. Venturini, Un compte de voyage par voie de terre de Manosque à Gênes en 1251, in “Provence

Historique”, XLV, 1995, pp. 25-48.

7 Cfr., anche per ulteriori riscontri di contesto, F. Gandolfo,

Convenzione e realismo nella iconografia medioevale del lavoro, in Lavorare nel Medioevo. Rappresentazioni ed esempi dall’Italia dei secoli X-XVI, Atti del XXI convegno del centro di studi sulla spiritualità

medievale (Todi, 12-15 ottobre 1980), Università degli Studi di Perugia, Todi 1983, pp. 373-403.

8 G. Tigler, Il portale maggiore di San Marco a Venezia. Aspetti iconografici e stilistici dei rilievi duecenteschi, Istituto Veneto di Scienze,

Lettere e Arti, Venezia 1995, pp. 280-282.

9 V. Mortet, P. Deschamps, Recueil de textes relatifs à l’histoire de l’architecture et à l’histoire des architectes en France au Moyen Âge,

Editions du Comité des Travaux historiques et scientifiques, Paris 1995, pp. 891-892 (I ed. Picard, Paris, 1911, 1929).

10 Ivi, pp. 943-946.

11 Ivi, pp. 315-317. Cfr. Lérins, une île sainte de l’Antiquité au Moyen Âge, a cura di Y. Codou e M. Lauwers, Brepols, Turnhout 2009. 12 P. Erhart, La pianta di San Gallo. Un archivio di spazi monastici,

in Gli spazi della vita comunitaria, atti del convegno (Roma - Subiaco,

8-10 giugno 2015) a cura di L. Ermini Pani, Fondazione Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 2016, pp. 1-35.

13 Viollet-le Duc, Dictionnaire, cit., IV, s.d. (I ed. 1860), pp.

461-485.

14 Per cui vedi in particolare M. Melot, Les fumoirs de Fontevraud, in

“303”, 67, 2000, pp. 72-81.

15 Cfr. H. Delhumeau, Le Palais de la Cité, du Palais des rois de France au Palais de Justice, Actes Sud, Aristeas, Cité de l’architecture

et du patrimoine, Paris 2011 (e la recensione di J. Mesqui in “Bulletin Monumental”, 169, 2011, 4, pp. 360-362).

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Jan Steen

La colazione (o Il piccolo violinista) Particolare, cat.7

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