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IL RICORSO PER L’EFFICIENZA DELLE AMMINISTRAZIONI E DEI CONCESSIONARI DI SERVIZI PUBBLICI (DECRETO LEGISLATIVO 20 dicembre 2009, n. 198)

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IL RICORSO PER L’EFFICIENZA DELLE AMMINISTRAZIONI E DEI CONCESSIONARI DI SERVIZI PUBBLICI (DECRETO LEGISLATIVO 20 dicembre 2009, n. 198)

La class action nei confronti della p.a. è stata introdotta nel nostro ordinamento dal D.Lgs. 20 dicembre 2009, n. 198, in attuazione dell’art. 4 della legge 4 marzo 2009, n. 15 (comunemente conosciuta come legge Brunetta), al dichiarato fine di modificare ed integrare il sistema di valutazione delle strutture e dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche.

Il ricorso per l’efficienza costituisce un apposito mezzo di tutela giurisdizionale nei confronti delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici che si discostano dagli standard qualitativi ed economici previsti dalla legge o dalle rispettive carte di servizio o che violano le norme preposte al loro operato

1

, a prescindere dalla natura pubblica o privata del soggetto che eroga la prestazioni.

Ciò dovrebbe stimolare una elevata performance delle strutture pubbliche ed una costante responsabilizzazione degli operatori, anche in ragione della massima pubblicità del giudizio. E’ previsto, infatti, che la diffida che precede il ricorso, l’atto introduttivo del giudizio, la sentenza di condanna che accerti la violazione e le misure adottate per eliminare la disfunzione accertata siano tutti pubblicati sui siti istituzionali degli enti coinvolti nel giudizio e nel contempo immediatamente comunicati al Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, nonché agli organismi di regolazione e di controllo, agli organismi interni di valutazione (OIV), alla Commissione per la trasparenza e l’integrità delle pubbliche amministrazioni

1 In particolare, i principi e criteri direttivi stabiliti dall’art. 4, c. 2, lett. l) della ‘‘legge Brunetta’’ sono

quelli di «consentire a ogni interessato di agire in giudizio nei confronti delle amministrazioni, nonché dei

concessionari di servizi pubblici, fatte salve le competenze degli organismi con funzioni di regolazione e

controllo istituiti con legge dello Stato e preposti ai relativi settori, se dalla violazione di standard

qualitativi ed economici o degli obblighi contenuti nelle Carte dei servizi, dall’omesso esercizio di poteri

di vigilanza, di controllo o sanzionatori, dalla violazione dei termini o dalla mancata emanazione di atti

amministrativi generali derivi la lesione di interessi giuridicamente rilevanti per una pluralità di utenti o

consumatori». Inoltre, secondo la norma delegante, tale azione può essere proposta anche da parte di

associazioni o comitati a tutela degli interessi dei propri associati; il relativo giudizio è devoluto alla

giurisdizione esclusiva e di merito del giudice amministrativo; è prevista come condizione di

ammissibilità la previa diffida all’amministrazione o al concessionario ad assumere, entro un determinato

termine, le iniziative utili alla soddisfazione degli interessati. In esito al giudizio, il giudice impartisce

all’amministrazione (o al concessionario) l’ordine di porre in essere le misure idonee per rimediare alle

violazioni, alle omissioni o ai mancati adempimenti. Nei casi di perdurante inadempimento, è prevista la

nomina di un commissario. Viene precisato che l’azione collettiva non consente il risarcimento del danno

e che la sentenza definitiva comporta l’obbligo di attivare le procedure relative all’accertamento di

eventuali responsabilità disciplinari o dirigenziali. Infine, sono previste forme di idonea pubblicità del

procedimento giurisdizionale e della sua conclusione.

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(CIVIT) e alla procura regionale della Corte dei Conti, nei casi in cui si ravvisino profili di responsabilità erariale.

Il ricorso per l’efficienza è un’azione processuale sui generis, caratterizzata da una intrinseca trasversalità, essendo destinato ad operare in un contesto normativo, economico e sociale quanto mai articolato e complesso, in un’ottica di ottimizzazione della produttività del settore pubblico, fornendo al contempo alla collettività uno strumento di controllo diffuso e di accrescimento del tasso di democraticità e trasparenza nella gestione della cosa pubblica

2

.

La class action pubblica viene spesso paragonata all’azione collettiva di diritto comune a tutela del consumatore di cui agli articoli 139, 140 e 140 bis del D. Lgs. 6 settembre 2005, n. 2006, ma da questa differisce profondamente per ratio e ambito di applicazione.

Viceversa, ne condivide lo spirito solidaristico di tutela del soggetto debole.

Le azioni uti singuli, infatti, sono inidonee a tutelare efficacemente gli interessi del consumatore/utente che spesso si trova a fronteggiare veri e propri colossi industriali. Ed anche quando non sia il consumatore in senso tecnico a richiedere tutela, la difesa dei diritti di classe esige forme di aggregazione che evitino l’isolamento, perché il soggetto in solitudine versa inevitabilmente in una situazione di debolezza e di asimmetria informativa ed economica rispetto a interlocutori spesso invisibili o difficilmente raggiungibili.

2 Inizialmente la previsione dell’azione collettiva nei confronti della p.a. era contenuta nella bozza del testo del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, recante l’«Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni», con il quale il Governo, dando attuazione alle deleghe contenute negli artt. da 2 a 7, legge n. 15/2009 (‘‘legge Brunetta’’), ha delineato una riforma organica della disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, intervenendo in particolare in materia di contrattazione collettiva, di valutazione delle strutture e del personale, di valorizzazione del merito, di promozione delle pari opportunità, di dirigenza pubblica e di responsabilità disciplinare. Il D.Lgs. n.

150/2009 ha come obiettivi dichiarati quelli di assicurare: una migliore organizzazione del lavoro; il

rispetto degli ambiti riservati alla legge e alla contrattazione collettiva; elevati standard qualitativi ed

economici delle funzioni e dei servizi; l’incentivazione della qualità della prestazione lavorativa; la

selettività e la concorsualità nelle progressioni di carriera; il riconoscimento di meriti e demeriti; la

selettività e la valorizzazione delle capacità e dei risultati ai fini degli incarichi dirigenziali; il

rafforzamento dell’autonomia, dei poteri e della responsabilità della dirigenza; l’incremento

dell’efficienza del lavoro pubblico ed il contrasto alla scarsa produttività e all’assenteismo; la trasparenza

dell’operato delle amministrazioni pubbliche anche a garanzia della legalità. La riforma ‘‘Brunetta’’ del

lavoro pubblico e` commentata in Giorn. Dir. Amm., n. 1/2010, da G. D’AURIA, Il nuovo sistema delle

fonti: legge e contratto collettivo, Stato e autonomie territoriali, 5; F.G. GRANDIS, Luci ed ombre nella

misurazione, valutazione e trasparenza della performance, 23; B. CIMINO, Selettività e merito nella

disciplina delle progressioni professionali e della retribuzione incentivante, 29; S. BATTINI, L’autonomia

della dirigenza pubblica e la «riforma Brunetta»: verso un equilibrio fra distinzione e fiducia?, 39.

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A tal proposito la nostra Carta Costituzionale risulta quanto mai attuale.

In particolare, l’art. 2 della Costituzione impone l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale in riferimento non solo al singolo, ma anche alle formazioni sociali in cui l’individuo svolge la sua personalità.

Gli artt. 41, 42 e 43 della Costituzione, inoltre, lungi dal dover essere letti in chiave meramente privatistica, pongono - quali limiti esterni ed invalicabili all’iniziativa economica privata, al godimento della proprietà privata e all’esercizio dell’attività di impresa - l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la dignità umana.

Da ultimo ma non per ultimo, merita attenzione l’art. 118 capoverso della Costituzione che, nel sancire il principio di sussidiarietà cd. orizzontale, impone al settore pubblico di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli ed associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale.

Il leitmotive è sempre uno ed uno solo: l’interesse sociale nelle forme del fine sociale, della funzione sociale, dell’interesse generale.

Naturalmente per realizzare pienamente la sussidiarietà ‘solidale’ è necessario predisporre strumenti di ascolto, di consultazione e di dialogo con la P.A., così da innescare processi di garanzia e di tutela a trecentosessanta gradi di diritti primari - quali la salute, l’ambiente, il paesaggio, la cultura - la cui soddisfazione piena ed effettiva passa sì attraverso il rispetto delle regole giuridiche del buon andamento dell’azione amministrativa, ma non può prescindere da una partecipazione effettiva ed attiva del cittadino.

In questo contesto, va esaltata la funzione di raccordo e di stimolo della class - action pubblica, il cui esperimento, avendo come obiettivo il risultato di una buona amministrazione, non mira alla “punizione” delle pubbliche amministrazioni che si assumono inadempienti, quanto piuttosto ad eliminare disfunzioni e disservizi per il bene della collettività nella sua interezza.

La class - action, dunque, come momento di sollecitazione e strumento di

controllo sui tempi delle prestazioni, sulla trasparenza, sull’efficacia e

sull’economicità dell’attività amministrativa, nonché sul rispetto degli

standard di qualità dei servizi resi.

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D’altronde, da più di venti anni nel nostro ordinamento si susseguono numerose riforme di riassetto dell’apparato amministrativo nel suo complesso, con la duplice finalità di modernizzazione e aziendalizzazione del settore pubblico e di avvicinamento delle istituzioni al territorio.

L’obiettivo è la realizzazione di una amministrazione pubblica che faccia meglio e costi meno, ma soprattutto che sia capace di rispondere ai bisogni di una società in continuo mutamento.

La pubblica amministrazione di oggi è chiamata ad affrontare sfide impegnative, prima tra tutte quella di anticipare i bisogni dei cittadini, mantenendo un atteggiamento attivo che consenta l’individuazione rapida e la soluzione efficace dei problemi.

Bisogna saper “ascoltare” le esigenze per superare la convinzione diffusa che le organizzazioni pubbliche siano distanti dai problemi della gente.

In questo contesto l’azione collettiva pubblica si pone come istituito giuridico a carattere collaborativo, destinato ad instaurare meccanismi virtuosi di correzione e di miglioramento della funzione pubblica

3

, in un’ottica di superamento della tradizionale contrapposizione tra interessi pubblici da un lato, ed interessi privati dall’altro.

La class action, dunque, non mira tanto a tutelare il singolo per l’accertata lesione alla propria situazione giuridica soggettiva, che pur deve sussistere al fine di legittimare l’esperimento dell’azione stessa, quanto piuttosto ad eliminare le disfunzioni del sistema, alimentate spesso da comportamenti di superficialità e di inadeguatezza politica e professionale, non più tollerabili anche in ragione delle acclarata perdita di credibilità e di competitività economica del Paese nel panorama comunitario ed internazionale.

3 Così il parere del Consiglio di Stato, Sezione consultiva per gli atti normativi, Adunanza 9 giugno 2009,

n. 1943/09, richiesto dal Ministro per la Pubblica amministrazione e l’innovazione con nota del 26

maggio 2009 sullo schema di decreto legislativo di attuazione dell’art. 4, legge 4 marzo 2009, n. 15; il

parere è consultabile nel sito www.giustizia-amministrativa.it . «[i]n entrambe le ipotesi si cerca di

indurre il soggetto erogatore dell’utilità a comportamenti virtuosi nel suo ciclo di produzione, onde

evitare di scaricare il costo dell’inefficienza sugli utenti; ma questo obiettivo è perseguito in modo

indiretto se il produttore è un privato che agisce per scopi egoistici e nell’esercizio della sua libertà di

iniziativa economica, mentre nella seconda ipotesi è perseguito direttamente, proprio perché

l’organizzazione amministrativa è chiamata dalla legge a realizzare il bene pubblico. Allora ben si

comprende, pur nel comune denominatore della visione aziendalistica, la differenza fondamentale tra

impresa privata e pubblica amministrazione, per cui solo la seconda è avvinta dal principio di legalità: il

buon andamento che caratterizza l’azione pubblica, anche se inteso in senso non formale, deve inserirsi

nella cornice dei pubblici poteri disegnata dall’ordinamento giuridico».

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Da qui la previsione di un penetrante intervento del giudice amministrativo fin dentro le maglie organizzative delle amministrazioni pubbliche.

D’altra parte, la incisività della class action pubblica può essere valutata solamente nel lungo periodo, laddove – come detto - la sua funzione non è quella di sanzionare le amministrazioni, quanto quella di consentire ai cittadini di far emergere le disfunzioni e i disservizi al fine di eliminarli.

Eppure le và da subito riconosciuto il merito di essere l’espressione più immediata e diretta di una volontà politica volta a valorizzare logiche di solidarietà sociale ed economica a tutela di interessi superindividuali; e ciò non è assolutamente un dato trascurabile in considerazione dell’attuale momento storico e sociale in cui ogni aspetto della quotidianetà sembra dominato da logiche individualistiche ed egoistiche, al punto che il pronome personale “IO” è utilizzato perfino nel linguaggio comune per indicare alcuni tra i gadgets tecnologici di maggior successo (I- Pod, I-Phone, I-Pad giusto per citare i più conosciuti).

Sul piano squisitamente procedimentale, va sottolineato che la competenza in materia è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

La disciplina sul ricorso per l’efficienza consta di complessivi 8 articoli, che descrivono: i requisiti di legittimazione attiva e passiva e i presupposti dell’azione (art. 1); i rapporti con le azioni collettive di diritto comune (sia inibitoria che risarcitoria) e con le procedure di risoluzione non giurisdizionale delle controversie pendenti dinanzi alle autorità di regolazione e controllo (art. 2); l’iter procedimentale ed i tempi di presentazione del ricorso, che è proponibile solamente dopo il decorso di 90 giorni dalla diffida all’amministrazione o al concessionario, senza che l’inadempimento ovvero la inefficienza/disfunzione lamentata sia stata eliminata, e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei 90 giorni dalla presentazione della diffida (art. 3).

L’articolo 4 descrive il contenuto della sentenza, escludendo in ogni caso una condanna al risarcimento del danno dell’ente soccombente, con salvezza degli ordinari rimedi risarcitori.

Il successivo art. 5 prevede l’ottemperanza e la nomina di un commissario

ad acta da parte del giudice amministrativo, al fine di assicurare

l’esecuzione della sentenza, nel caso in cui l’ente soccombente non

provveda ad eliminare la disfunzione nei tempi e nei modi indicati.

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L’ottemperanza, però, è prevista solamente per le sentenze di condanna delle pubbliche amministrazioni e non anche per quelle nei confronti dei concessionari di servizi pubblici.

Gli articoli 6 e 7 disciplinano rispettivamente la fase del monitoraggio e quella della efficacia e dell’entrata in vigore della normativa.

Infine, l’articolo 8 stabilisce che dall’attuazione della disciplina di cui al D.

Lgs. n. 198/2009, non devono comunque derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (il cd. limite dell’invarianza finanziaria).

Per quel che concerne le sentenze fino ad oggi intervenute, si osserva che la

prima in ordine di tempo è la n. 552/2011 della sez. terza bis del Tar Lazio –

Roma (nota come sentenza sulle “classi pollaio”); più recente è la sentenza

n. 2054/2013 del Tar Campania – Salerno, sez. I, entrambe disponibili sul sito

www.giustiziaamministrativa.it.

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