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Discrimen » Verso un sindacato di legittimità sulle scelte politico-criminali?

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Academic year: 2022

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L a Corte Costituzionale ha rivendicato la competenza a sindacare la ragionevolezza delle leggi penali cosiddette di favore (sentenza n. 394 del 2006), costitute, nel caso di specie, dalle nuove cornici sanzionatorie delle falsità nelle liste elettorali, come riformate dalla legge 2 marzo 2004, n. 61.

La conseguenza precipua della pronuncia – che ha dichiarato l’illegittimità della lex mitior – è stata la riespansione dell’area del penalmente rilevante, rispetto alla circonferenza attribui- tale dal legislatore del 2004. L’intervento ha richiamato l’at- tenzione delle Camere Penali di Firenze e Bologna, che, con assoluta tempestività, il 9 febbraio 2007 hanno organizzato, a Firenze, un apposito incontro di studio.

Sono stati chiamati a intervenire quattro noti giuristi – due penalisti e due costituzionalisti –, che dall’angolazione delle rispettive discipline hanno affrontato le molteplici sfaccetta- ture del tema. I riflessi della pronuncia, infatti, non si esauri- scono sul terreno del diritto penale e, segnatamente, su quel- lo, fondamentale, della riserva di legge. La nuova giurispru- denza della Corte, che, ci si augura, non debba consolidarsi, assume un’indubbia rilevanza istituzionale, perché offusca il discrimine tra la discrezionalità legislativa e il controllo di le- gittimità da parte della Corte Costituzionale, il quale deve fare salvo il merito delle scelte politico-criminali.

Si sono volute qui riunire le relazioni del convegno fiorenti- no, il cui titolo, riproposto in copertina, evoca lo spettro, af- fatto attuale, di una trasformazione del ruolo della Corte Co- stituzionale nella materia penale.

€ 5,00

Zilletti- OlivaVerso un sindacato di legittimità sulle scelte politico-criminali?

L’UCPI, Unione delle Camere Penali Italiane, sorta nel 1983, è l’associazio- ne degli avvocati penalisti che, attra- verso 122 Camere Penali territoriali, raccoglie oggi circa 9.000 aderenti. Tra gli altri scopi statutari, si prefigge di promuovere la conoscenza e la diffu- sione dei valori fondamentali del dirit- to penale e del giusto ed equo processo, coltivando studi ed organizzando ini- ziative culturali e di politica giudiziaria – con attenzione particolare ai temi dell’attualità del diritto vivente affin- ché sia garantita a tutti la piena frui- zione dei diritti costituzionali posti a base dell’ordinamento giuridico penale e processuale.

LORENZOZILLETTIè Presidente della Camera Penale di Firenze FRANCOOLIVAè Presidente della Camera Penale di Bologna

Il controllo di costituzionalità delle norme di favore

Verso un sindacato di legittimità sulle scelte politico-criminali?

Edizioni ETS

a cura di

Lorenzo Zilletti Franco Oliva

vince letta ETS

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Il controllo di costituzionalità delle norme di favore

Verso un sindacato di legittimità sulle scelte politico-criminali?

a cura di Lorenzo Zilletti

Franco Oliva

Edizioni ETS

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© Copyright 2007 EDIZIONI ETS

Piazza Carrara, 16-19, I-56126Pisa info@edizioniets.com www.edizioniets.com

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PDE, Via Tevere 54, I-50019Sesto Fiorentino [Firenze]

ISBN 978-884671875-4

www.edizioniets.com

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Verso un sindacato di legittimità sulle scelte politico-criminali?

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Indice

Presentazione

Lorenzo Zilletti e Franco Oliva 9

Relazioni

Fausto Giunta 13

Luca Mezzetti 33

Gaetano Insolera 39

Nicolò Zanon 53

Gli autori 61

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Presentazione

Dobbiamo confessarlo, abbiamo proprio peccato di inge- nuità.

Quando si diffuse la notizia che alcuni giudici di merito avevano sollevato questione di legittimità costituzionale delle fattispecie di falsità nelle liste elettorali, come modificate dalla legge n° 61/2004, la nostra reazione istintiva fu di suf- ficienza e distacco.

Forgiati ai costanti insegnamenti della dottrina, che dava conto di come e perché la Corte Costituzionale non si fosse mai spinta – in materia penale – sino a pronunciare sentenze additive in malam partem, e confortati in tal senso dalla plu- ridecennale giurisprudenza della Corte medesima, eravamo fermamente convinti che giammai la questione avrebbe tro- vato accoglimento.

La storia ci ha dato torto, mettendo a nudo quell’inge- nuità e un certo ottimismo nel sottovalutare gli ammonimen- ti di chi, consapevole che un organo come la Corte autoco- struisce sostanzialmente i propri limiti di intervento, invitava ad atteggiamenti più prudenti.

Superata la prima sorpresa, seguita alla pubblicazione della sentenza costituzionale n° 394/2006, non abbiamo stentato a convincerci che quella decisione meritasse una ri- flessione approfondita.

E ciò perché la sua importanza ci sembrava travalicare il caso concreto, tutto sommato abbastanza marginale.

A venir messi in gioco, con quel tipo di intervento della Corte, ci parevano principi fondamentali, per il rispetto e l’affermazione dei quali gli avvocati penalisti, riuniti nelle Camere Penali, da decenni sono impegnati in dure battaglie:

quello di legalità, di riserva assoluta di legge in materia pe- nale, di ripartizione di poteri.

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Abbiamo, pertanto, deciso di riunire attorno a un tavolo quattro autorevoli studiosi, portatori di saperi diversi: da un lato due penalisti, Fausto Giunta e Gaetano Insolera; dall’al- tro due costituzionalisti, Luca Mezzetti e Nicolò Zanon, inter- rogandoli sui dubbi che ci agitavano e proponendo loro una riflessione sotto l’egida di un titolo convegnistico volutamente schietto e provocatorio: Corte Costituzionale e norme penali di favore: verso un sindacato di legittimità sulle scelte politico criminali?

Le relazioni, che potrete leggere in questi “Atti”, non han- no certo deluso le aspettative degli organizzatori del Conve- gno, la Camera Penale di Firenze e quella di Bologna.

Comune a tutti i relatori, la conclusione di come, attraverso il controllo sulle norme penali di favore, improntato sul para- metro della ragionevolezza-razionalità, piuttosto che su quel- lo della ragionevolezza-uguaglianza, la Corte si sia prodotta in valutazioni di critica legislativa, attinenti più al merito delle scelte di politica criminale, che non al piano delle censure di legittimità.

Giudizio severo, dunque, dettato dal timore che la senten- za n° 394/2006 non rimanga un precedente di forza limita- ta, ma costituisca piuttosto un vulnus per il riparto delle at- tribuzioni tra poteri disegnato dalla Legge fondamentale.

La qualità e la quantità degli argomenti, che tutti i relato- ri hanno messo alla base della critica da loro formulata, ci induce a una riflessione conclusiva: se avessimo dovuto scri- vere il titolo del Convegno dopo l’ascolto delle relazioni, quel punto interrogativo non l’avremmo apposto.

Avv. LORENZOZILLETTI

Presidente della Camera Penale di Firenze

Avv. FRANCOOLIVA

Presidente della Camera Penale di Bologna

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Relazioni

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1 Per un commento, v. E. GIRONI, Le guarentigie del Consiglio superiore della magistratura, in Foro. it., 1983, I, c. 1801; D. PULITANÒ, La “non punibilità” di fronte alla Corte costituzionale, ivi, c. 1806 s.

Fausto Giunta

1. Comunque la si giudichi, la recente pronuncia della Corte costituzionale n. 394 del 2006, che ha dichiarato ille- gittime le fattispecie di falsità nelle liste elettorali come mo- dificate dalla legge 2 marzo 2004, n. 61, riveste sicura e no- tevole importanza: non tanto per l’oggetto, quanto e soprat- tutto per il valore di precedente che essa potrà assumere in futuro.

Se si prescinde, infatti, dalla lontana sentenza n. 148 del 1983, con la quale la Corte ammise in linea di principio il controllo di legittimità sulle c.d. norme penali di favore, ma senza giungere all’accoglimento della specifica questione sol- levata1, è questa la prima volta che la Corte si spinge fino a dichiarare l’incostituzionalità di una disciplina favorevole al reo in nome del principio di uguaglianza, ossia censurandola per irragionevole mitezza.

Il ragionamento della Corte, debitore in larga misura degli argomenti prospettati dai giudici remittenti, si articola in quattro fondamentali passaggi: a) la legge n. 61 del 2004, nel modificare la previgente normativa costituita dal d.p.r.

16 maggio 1960, n. 570, ha previsto per le falsità nelle liste elettorali la pena dell’ammenda da euro 500 a 2000, in luo- go dell’originaria reclusione da due a cinque anni; b) la di- sciplina penale delle falsità nelle liste elettorali, tanto nella vecchia versione quanto in quella novellata e dichiarata in- costituzionale, è speciale rispetto alle fattispecie di falsità do- cumentale previste agli artt. 476 e 479 c.p.; c) la normativa speciale introdotta dalla legge n. 61 del 2004 sottrae, dun-

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que, alcune ipotesi alla disciplina codicistica generale dettata per le falsità documentali, assoggettandole a un trattamento sensibilmente più favorevole al reo, non soltanto per quel che concerne la misura della pena, ma anche sotto il profilo del- l’acquisita natura contravvenzionale della fattispecie specia- le, che consente al reo l’ulteriore vantaggio di poter provoca- re l’estinzione del reato per oblazione ex art. 162 c.p.; d) detto trattamento di favore è irragionevole, posto che le fatti- specie speciali di false autenticazioni nelle liste elettorali, ol- tre a essere strutturalmente identiche alle corrispondenti fat- tispecie codicistiche generali, ne condividono sia il bene giu- ridico, consistente nella fede pubblica, sia il disvalore di azione insito nella falsità.

La conclusione cui perviene la Corte è duplice. Da un lato, la sentenza n. 394 rassicura sul primato della riserva di leg- ge, in base al quale le scelte politico-criminali spettano al le- gislatore, in ragione della sua investitura democratica diret- ta. Dall’altro lato, si ammette lo scrutinio di costituzionalità anche in malam partem delle norme penali di favore, ossia

“delle norme che stabiliscano, per determinati soggetti o ipo- tesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni”.

Detto altrimenti, la Corte distingue tra la valutazione politi- ca generatrice di una fattispecie penale, propria ed esclusiva del potere legislativo, e il controllo di tale scelta sotto il pro- filo dell’uguaglianza-ragionevolezza, di cui rivendica la com- petenza e legittima gli effetti anche in malam partem. Essi – si soggiunge – non discenderebbero né dalla creazione di un nuovo divieto, né dalla manipolazione di norme esistenti, bensì dalla rimozione della disposizione irragionevolmente discriminatoria, la quale determinerebbe, per l’appunto, la riespansione della norma generale derogata dalla lex mitior.

La Corte non manca di fornire i criteri di identificazione delle norme penali di favore, precisando che esse, proprio per il fatto di sottrarre “soggetti o ipotesi” alla disciplina generale

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2 Per la medesima conclusione, sia consentito rinviare a F. GIUNTA, La vicenda delle false comunicazioni sociali. Dalla selezione degli obiettivi di tutela alla cornice degli interessi in gioco, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2003, p. 663 e spec. 664.

3 V. Corte cost., sent. n. 161 del 2004.

4 In tal senso, il responso della Corte Giust. CE, con sent. 3 maggio 2005, C-387/02, C-391/02 e C-403/02, in Dir. pen. proc., 2005, p. 782. V. però le fonda- te riserve espresse in precedenza da A. di MARTINO, Disciplina degli illeciti societari in bilico tra legalità nazionale e legittimità comunitaria, in Guida dr., 2002, n. 45, p. 117. In effetti, l’art. 2. lett. f, della direttiva 68/151 CEE fa generico riferimento alle “misure necessarie” affinché “l’obbligo della pubblicità per le società concerna (…) il bilancio e il conto profitti e perdite di ogni esercizio”. Anche l’art. 6 della medesima direttiva delimita l’obbligo di “adeguate sanzioni per i casi di (…) man- cata pubblicità del bilancio e del conto profitti e perdite, come prescritta dall’art. 2, paragrafo 1, lettera f”, sottolineando che, da punto di vista testuale, l’istanza di pubblicità, cui si riferisce la direttiva, è cosa diversa dalla veridicità dell’informa- zione societaria: altro è la garanzia esterna della sindacabilità della contabilità, con- sistente nella omogeneizzazione dei criteri di ostensione delle condizioni della so- cietà, altro è l’intrinseca attendibilità dell’informazione offerta.

più severa, devono risultare compresenti nell’ordinamento al- la norma cui si deroga2, rimanendo escluso che “detta quali- ficazione possa esser fatta discendere dal raffronto tra una norma vigente e una norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell’area di rilevanza penale o di mitigazione della risposta punitiva”.

Con ciò la Corte viene a ribadire – tanto per tornare su un caso che molto ha impegnato la dottrina degli ultimi anni e la stessa Consulta3 – che le fattispecie vigenti di false comu- nicazioni sociali di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c., anche ove si considerassero in contrasto con gli obblighi comunitari di tutela in materia di trasparenza societaria4, non possono co- munque ritenersi norme di favore rispetto alla vecchia for- mulazione del delitto di “falso in bilancio”, integrando il loro avvento un’ipotesi di avvicendamento normativo tipico della successione di leggi, nel cui contesto la disciplina prevista dai vigenti artt. 2621 e 2622 c.c. risulta favorevole e, come tale, applicabile retroattivamente.

Ne esce confermata, dunque, la distinzione concettuale tra norme di favore, delle quali la Corte rivendica oggi il sinda-

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5 Amplius F. GIUNTA, op. loc. cit.

cato sotto il profilo della ragionevolezza, e norme favorevoli, la cui rilevanza si esaurisce all’interno della disciplina del- l’intertemporalità5.

D’altronde, se, come precisa la Corte, il principium indivi- duationis della norma di favore risiede nella sua portata de- rogatoria rispetto al disposto di un’altra norma penale vigen- te, è evidente che tale efficacia viene a mancare di fronte a un (eventuale) obbligo di tutela disatteso (sia esso costituzio- nale o comunitario), per l’ovvia ragione che la disciplina de- rogatoria non può assumere come tertium comparationis una norma penale che non esiste e nemmeno l’aspettativa della sua esistenza.

2. La nozione di norma di favore proposta dalla Corte me- rita di essere ulteriormente approfondita. Essa, infatti, aven- do natura essenzialmente relazionale, sembrerebbe potersi identificare con qualunque enunciato normativo, in origine anche non penale, in grado di (contribuire a) descrivere una sottofattispecie il cui trattamento penale è favorevole rispetto alla disciplina prevista dalla norma generale derogata. Indif- ferente, per converso, parrebbe l’oggetto della disposizione di favore: essa, sviluppando il pensiero della Corte, differenzia in modo favorevole al reo la disciplina penale della sottofat- tispecie indifferentemente con riguardo ai soggetti attivi o alle condotte. Più in generale sembrerebbe che qualunque elemento costitutivo sia suscettibile di connotare in termini specializzanti la norma di favore: non solo i requisiti che af- feriscono alla fattispecie oggettiva, quali l’oggetto materiale e l’evento, ma anche quelli che attengono alla fattispecie soggettiva. Si pensi a una sottofattispecie di reato differen- ziata attraverso la tipizzazione di forme del dolo fortemente selettive, come il dolo specifico e quello intenzionale, tanto più se richieste congiuntamente dalla norma di favore.

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Alquanto sfuggente rimane invece la distinzione effettuata dalla Corte tra norme che sottraggono alla disciplina genera- le “ipotesi” speciali, le quali, come si diceva, possono risulta- re irragionevolmente “di favore”, e disposizioni che contri- buiscono alla definizione della fattispecie di reato attraverso la delimitazione del suo ambito operativo, incapaci invece di rilevare come norme di favore.

Bisogna dire che, a prima vista, tale distinzione può appa- rire chiara e convincente tanto sul piano descrittivo, quanto dall’angolazione del sindacato di ragionevolezza. Invero, mentre il giudizio sul limite “esterno” della fattispecie penale ha direttamente ad oggetto la scelta politico-criminale effet- tuata dal legislatore, l’intervento della Corte che verte sul rapporto di specialità tra la norma generale più severa e quella speciale di favore dà l’impressione di essere meramen- te “ripristinatorio”. Esso, limitandosi a espungere la norma derogatoria irragionevolmente favorevole, parrebbe pur sem- pre rispettoso delle scelte “generali” del legislatore, poiché ispirato dalla sola logica della coerenza intrasistematica.

Proseguendo su questa linea di pensiero, la dichiarazione di illegittimità della norma di favore non comporterebbe nuove scelte politico-criminali, né invaderebbe un ambito riservato dalla Costituzione alla competenza esclusiva del potere legi- slativo: la Corte – è questa prima facie l’impressione – effet- tuerebbe un intervento di natura tecnica, diretto all’afferma- zione del principio di uguaglianza all’interno delle scelte, certamente vincolanti e non messe in discussione, già effet- tuate dal legislatore nel momento in cui ha posto la più seve- ra fattispecie generale.

Sennonché, a ben vedere, la nozione di disciplina di favore offerta dalla Corte è tutt’altro che compiutamente definita.

Considerato che la nota caratterizzante della norma di favore risiede nella sua natura relazionale, la quale si coglie nella portata derogatoria del suo contenuto di disciplina, c’è da chiedersi se e in che misura sull’individuazione della norma

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penale di favore possa influire la tecnica normativa adopera- ta per conseguire l’effetto discriminatorio in bonam partem.

Scriminanti, cause di non punibilità, condizioni obiettive di punibilità, immunità, solo per fare degli esempi, sono istituti favorevoli al reo, solitamente previsti da enunciati normativi diversi da quello che pone la fattispecie incriminatrice e fi- nalizzati a sottrarre a quest’ultima “soggetti o ipotesi” che altrimenti ricadrebbero sotto i rigori della sua cornice san- zionatoria. Da qui la domanda se anche tali norme siano su- scettibili di integrare altrettante disposizioni penali di favore;

con la conseguenza, in caso di risposta affermativa, di non poter più distinguere, se non in termini generalissimi e ap- prossimativi, tra norme incriminatrici, insindacabili sotto il profilo della ragionevolezza in bonam partem, e norme di fa- vore. A quel punto, infatti, sarebbe illogico restringere il con- cetto di disciplina di favore alla sola ipotesi in cui il tratta- mento favorevolmente discriminatorio venga introdotto da un enunciato normativo diverso da quello che pone la regola generale derogata, ben potendo insinuarsi la disciplina di fa- vore nello stesso ordito normativo generatore della regola ge- nerale ed esserne geneticamente coeva.

Il riferimento è alle zone franche create dal legislatore at- traverso la descrizione del fatto tipico, tutte le volte in cui ta- li esenzioni possano considerarsi alla stregua di una discipli- na di favore irragionevolmente discriminatoria. Un esempio potrà facilitare la messa a fuoco del problema. Si ipotizzi che il legislatore riformi la fattispecie di truffa descrivendo la condotta come induzione di un soggetto che versa in errore a realizzare un atto di disposizione patrimoniale produttivo di danno patrimoniale e ingiusto profitto. Si ipotizzi ancora che con un distinto enunciato normativo si preveda la non puni- bilità per l’eventualità che il soggetto indotto alla disposizio- ne patrimoniale versi già in errore. Ebbene, potrebbe ritener- si quest’ultima previsione una norma di favore? Parrebbe di sì, perché essa sottrae irragionevolmente alla disciplina gene-

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6 F. MANTOVANI, Diritto penale, Delitti contro il patrimonio, Padova, 2002, p. 192 s.

7 Cfr. R. BARTOLI, Reati elettorali: una “piccola” riforma dalle “grandi conse- guenze”, in Dir. pen. proc., 2004, p. 802 s.

rale un’ipotesi particolare, decretandone la non punibilità.

Ma in che cosa differisce il caso immaginario sopra esempli- ficato dall’attuale fattispecie di truffa? Com’è noto, infatti, l’art. 640 c.p. si caratterizza per la medesima e deprecabile lacuna di tutela6, poiché, ancorando la condotta tipica al re- quisito dell’induzione in errore, lascia esente da pena l’ap- profittamento dello stato di errore in cui versa la vittima per ragioni indipendenti dalla condotta dell’agente.

In breve: essendo, per una nota e pacifica definizione, il reato un illecito caratterizzato dalla modalità della condotta, il ritaglio legislativo della condotta tipica è suscettibile di produrre esclusioni che potrebbero equivalere alle medesime discriminazioni in bonam partem creabili con apposite nor- me derogatorie, con conseguente illimitato ampliamento del sindacato della Corte costituzionale.

3. Chiusa questa parentesi sulla nozione di norma penale di favore offerta dalla Corte costituzionale, torniamo al caso preso in considerazione dalla sentenza n. 394 del 2006.

Per sgomberare il campo da possibili equivoci, è bene chiarire che la legge 2 marzo 2004, n. 61 è ampiamente cri- ticabile proprio per la scelta politico-criminale di banalizzare la risposta sanzionatoria rispetto a fatti che, per la loro in- dubbia nocività, meritano di essere contrastati con una pena adeguatamente deterrente7. Peraltro, l’introduzione di una punizione particolarmente mite per le falsità nelle liste elet- torali risulta addirittura odiosa nella misura in cui appaia espressione di una difesa corporativa volta a minimizzare il disvalore di un reato collegato all’attività politica. Si può avere cioè la sgradevole impressione che la classe politica ab-

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8 Ai fini della nostra riflessione poco rileva la natura di tali fattispecie, ossia se esse costituiscano ipotesi autonome di reato o circostanze attenuanti, anche se, rite- nendole reati autonomi, la mitezza del trattamento da esse previsto assume maggio- re effettività in quanto viene sottratta agli esiti del giudizio di bilanciamento con eventuali aggravanti concorrenti. Con riguardo alla questione specifica della natura giuridica del peculato d’uso alla luce della recente giurisprudenza, v. da ultimo D. GUIDI, Il delitto di peculato, Milano, 2007, p. 211 s.

bia inteso concedere a se stessa, attraverso lo strumento della legge, una consistente attenuazione della responsabilità, mantenendo immutata, per i non appartenenti alla “casta”, la severità dei reati di falso previsti dal codice penale.

Altra e ben diversa questione, invece, è se competeva alla Corte costituzionale la correzione di questo difetto; la qual cosa equivale a chiedersi se tale critica di merito, ancorata a fondate valutazioni politico-criminali, potesse assurgere a censura di legittimità nel rispetto dell’assetto costituzionale complessivo.

Prima di affrontare questa complessa problematica, sia consentito tratteggiare alcuni possibili sviluppi della pronun- cia in esame, immaginando l’applicazione del principio af- fermato dalla Corte ad altre fattispecie speciali di favore at- tualmente vigenti.

Ci si limiterà ad alcuni esempi, iniziando dalle fattispecie

“d’uso” – peculato (art. 314, comma 2, c.p.) e furto (art.

626, n. 1, c.p.) – le quali già oggi sono punite meno grave- mente delle corrispondenti ipotesi generali8. Ebbene, potreb- be il nostro futuro legislatore, in considerazione della mode- sta gravità di detti fatti, ridurre ulteriormente e sensibilmen- te la pena per essi prevista? La risposta affermativa, oggi, non potrebbe darsi più per scontata, perché detta normativa di favore – secondo il recente dictum della Consulta – si por- rebbe in deroga alla regola generale. Per cui, ove la pena di nuovo conio legislativo fosse, per esempio, la reclusione fino a sei mesi per il peculato d’uso e la multa per il furto d’uso, la questione potrebbe essere sottoposa al vaglio della Corte,

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9 Tale competenza, del resto, non è stata modificata dall’intervento della pure ambigua legge 102 del 2006. In tal senso v. Cass. pen., sez. I, 18 gennaio 2007, n. 1294, in www.dirittoegiustizia.it, quotidiano on line del 31 gennaio 2007, con nota critica di E. FORTUNA. V. anche G. GAMBOGI, Omicidio e lesioni colpose da sini- stro stradale: aspetti processuali di una riforma apparente, ivi, 16 settembre 2006.

con la conseguenza, se vi sarà coerenza, di una verosimile censura di illegittimità.

E ancora. A voler seguire il ragionamento della Corte, l’o- micidio del consenziente, punito oggi con la reclusione da sei a quindici anni, non potrebbe essere assoggettato dal legisla- tore a una sanzione particolarmente mite, come ad esempio la reclusione fino a due anni, posto che, in tal modo, ipotesi speciali di omicidio verrebbero sottratte alla disciplina gene- rale e assoggettate a un trattamento di favore oltremodo lon- tano da quello ordinario. Invero, tra l’omicidio del consen- ziente e l’omicidio comune vi è la stessa identità di bene giu- ridico, che, come rileva la Corte, intercorre tra le fattispecie codicistiche di falsità documentale e le falsità nelle liste elet- torali. A fortiori, verrebbe a sfumare la prospettiva di regola- re attraverso la depenalizzazione dell’omicidio del consen- ziente il problema dell’eutanasia su richiesta del paziente.

Non si tratterebbe di una scelta politico-criminale, magari discutibile quanto si vuole, ma pur sempre di merito, bensì di una irragionevole disparità di trattamento.

Per non dire poi – venendo a fattispecie di applicazione assai frequente – delle lesioni personali colpose. Come noto, il d lgs. 28 agosto 2000, n. 274, istitutivo della giurisdizione penale di pace, ha devoluto alla cognizione del giudice ono- rario la competenza a sanzionare le lesioni personali colpose anche gravissime, connesse alla circolazione stradale9. La deroga alla disciplina ordinaria non riguarda solo il giudice competente e il rito, ma il trattamento sanzionatorio, posto che, nel caso di riparazione del danno, il reato può essere di- chiarato estinto. Non solo: ove tale epilogo non si verifichi, per le lesioni colpose rimesse alla cognizione del giudice ono-

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10 F. GIUNTA, Il delitto di lesioni personali: la disgregazione di un’unità tipolo- gica, in Studium iuris, 2003, p. 1188 s.

11 Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, Padova, 2007, p. 757 s.

rario non sono previste sanzioni detentive; per esse è possibi- le solamente l’irrogazione della pena pecuniaria o, nei casi più gravi, l’applicazione della permanenza domiciliare.

Com’è evidente, ci si trova in presenza di una sottofattispecie del delitto di cui all’art. 590 c.p.10, punita, quando viene pu- nita, con pena incomparabilmente più mite per durata e in- trinseca afflittività, rispetto a quella comminata dal codice penale per ipotesi simili.

4. Naturalmente, sulle discipline di favore e le ulteriori prospettive politico-criminali cui si è fatto cenno, si potrebbe discutere a lungo. Ciascuna di esse infatti sarebbe suscettibi- le di critica. Limitando l’attenzione alle già considerate fatti- specie speciali introduttive di un trattamento favorevole (po- sto che, come si è detto, esse riproducono il rapporto tra nor- me preso in considerazione dalla Corte), si potrebbe osserva- re, ad esempio, che un’eccessiva mitezza nella punizione del- le c.d. fattispecie d’uso indebolirebbe la tutela di importanti beni giuridici; che l’attenuazione della risposta sanzionatoria per l’omicidio del consenziente risulterebbe addirittura cri- minogena e ancor più grave sarebbe la sua depenalizzazione essendo la vita un bene comunemente ritenuto indisponibile.

All’odierna disciplina delle lesioni personali colpose connesse alla circolazione stradale, infine, si potrebbe obiettare di condurre alla monetizzazione di un fondamentale bene del- l’individuo, qual è integrità personale11.

Per converso, sarebbe certamente sostenibile che l’uso mo- mentaneo della cosa altrui, seguito dalla immediata restitu- zione, comporti un’offesa al patrimonio del tutto incompara- bile con quella insita nella spoliazione definitiva, al punto da meritare unicamente una sanzione extrapenale adeguata alla

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12 Cfr. per esempio F. MANTOVANI, Eutanasia, in Dig. disc. pen., vol. IV, 1990, p. 430.

modestia del conflitto sociale che la condotta crea. Conside- razioni non dissimili potrebbero avanzarsi a giustificazione di un’accentuazione del trattamento di favore previsto per il peculato d’uso, posto che in tal caso il danno per la pubblica amministrazione è diverso da quello insito nella condotta ap- propriativa tipica del peculato comune. E ancora: la depena- lizzazione dell’omicidio del consenziente potrebbe costituire la soluzione legislativa per regolamentare l’eutanasia consen- suale. Del resto, anche chi non condivide quest’ultima posi- zione, e ritiene che l’eutanasia debba mantenere il suo mar- cato stigma penalistico, propone una sensibile attenuazione del trattamento previsto per detta ipotesi di omicidio del consenziente, in modo da rendere la pena condizionalmente sospendibile o comunque eseguibile nella forma dell’affida- mento in prova12; per questa via si intenderebbe coniugare la riaffermazione di un principio – quello della sacralità della vita – con la sostanziale impunità dell’autore. Quanto alla giurisdizione penale di pace, infine, essa, come noto, si ispira al modello della giustizia conciliativa nella premessa che la vittima delle lesioni colpose connesse alla circolazione stra- dale abbia un interesse prevalente per il risarcimento e un interesse mancante alla punizione del reo. Non si spieghereb- be altrimenti la loro perseguibilità a querela, introdotta già dalla legge n. 689 del 1981.

Come si diceva, le valutazioni anzidette, siano esse adesive o critiche rispetto alle singole e futuribili discipline di favore che sono state prese in considerazione, hanno natura politi- co-criminale e dunque di merito, perché attengono all’an e al quantum della punizione. Ne consegue che la distinzione operata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 394 del 2006 tra l’introduzione di nuova fattispecie, preclusa alla Corte, e il ripristino della disciplina generale attraverso la ri-

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13 Cfr. L. PALADIN, Corte costituzionale e principio generale d’uguaglianza, in Scritti in onore di Vezio Crisafulli, Padova, I, 1985, p. 620; G. INSOLERA, Democra- zia, ragione e prevaricazione. Dalle vicende del falso in bilancio ad un nuovo ripar- to costituzionale nella attribuzione dei poteri?, Milano, 2003, p. 51.

14 In argomento, da ultimo E.R. BELFIORE, Giudice delle leggi e diritto penale, Milano, 2005, p. 274 s.

mozione della norma derogatoria favorevole, che si vorrebbe invece consentita, può conciliarsi con le differenti competen- ze, assegnate dalla Costituzione rispettivamente al legislatore e alla Consulta, unicamente se si muove da una concezione ristretta della ragionevolezza, intesa come precipitato del principio dell’uguaglianza di trattamento in senso stretto, ai sensi dell’art. 3, comma 1, Cost. Solo quando la Corte censu- ra discriminazioni dei cittadini per sesso, razza, lingua, reli- gione, opinioni politiche nonché condizioni personali o socia- li13, il suo controllo si fonda su un parametro definito e si estrinseca effettivamente in valutazioni intrasistematiche delle scelte legislative; e ciò, indipendentemente dalla circo- stanza che la scure del suo giudizio si abbatta su norme in- criminatici o di favore. Negli altri casi l’accertamento della sproporzione per difetto passa attraverso valutazioni di meri- to e apprezzamenti politico-criminali, del tutto simili a quelli coperti dal principio della riserva di legge, posto che il para- metro della ragionevolezza viene a rilevare come autonomo criterio di razionalità intrinseca della normativa14.

Nella recente pronuncia n. 394 del 2006 la Corte si impe- gna inevitabilmente, ancorché in modo implicito, in valuta- zioni di critica legislativa, che – come si è detto – sono condi- visibili e fondate, ma che attengono al merito politico-crimi- nale e, come tali, presentano la stessa natura delle valutazio- ni che compie il legislatore quando pone le medesime norme o le fattispecie generali entro le quali si inscrivono le discipli- ne derogatorie in bonam partem. In breve: attraverso il con- trollo sulle norme di favore improntato al parametro della ragionevolezza-razionalità, piuttosto che su quello della ra-

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15 Sulla depenalizzazione dei furti nei grandi magazzini, con specifico riguardo all’esperienza tedesca e all’impiego, a tal fine, dell’istituto di cui al § 153a StPO, v. le considerazioni di C.E. PALIERO, Minima non curat praetor, Padova, 1985, p. 474.

16 Il riferimento è alla sentenza n. 508 del 2000 che ha dichiarato l’illegittimità del delitto di vilipendio della religione di stato (art. 402 c.p.).

gionevolezza-uguaglianza, la critica di merito si trasforma in censura di legittimità, senza che la scelta politico-criminale di natura ablativa venga compiuta da un organo direttamen- te rappresentativo del corpo sociale e, naturalmente, senza rimedi nei confronti del responso di illegittimità.

Da questa angolazione risulta difficilmente spiegabile, per riprendere il pensiero della Corte, che il giudice delle leggi, mentre non sarebbe autorizzato a censurare l’abrogazione di una fattispecie generale (per esempio, il delitto di furto), in quanto tale scelta del parlamento è coperta dalla garanzia della riserva di legge, potrebbe dichiarare illegittima per di- fetto di intrinseca razionalità politico-criminale la depenaliz- zazione del furto d’uso o del furto nei grandi magazzini: op- zione, quest’ultima, peraltro plausibile se si considera che detti furti rientrano nel rischio per lo più assoggettato, o co- munque assoggettabile, a copertura assicurativa15.

Lo stesso argomento usato dalla Corte al fine di affermare la compatibilità del suo intervento ablativo in malam partem con il principio della riserva di legge – ossia il carattere tec- nico della valutazione e la portata meramente intrasistemati- ca della valutazione di ragionevolezza – viene smentito dal- l’alternativa, scartata dalla Corte, ma teoricamente possibile, che non avrebbe posto tensioni con il principio della riserva di legge. Invero, la Consulta avrebbe potuto ripristinare l’u- guaglianza di trattamento adeguando la pena prevista per le fattispecie codicistiche più gravemente punite al livello di quella più bassa comminata dalla norma speciale di favore.

“Sebbene il ripristino dell’uguaglianza violata – ha osservato la Corte in altra occasione16– possa avvenire non solo elimi-

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nando del tutto la norma che determina quella violazione ma anche estendendone la portata per ricomprendervi i casi di- scriminati (…), in sede di controllo di costituzionalità di nor- ma penali si dà solo la prima possibilità. Alla seconda, osta, infatti, comunque la particolare riserva di legge stabilita dal- la Costituzione in materia di reati e pene (art. 25, secondo comma)”. Con la sentenza n. 394 del 2006 la Consulta ha scartato invece tale opzione perché, all’evidenza, l’ha ritenu- ta poco efficace sul piano preventivo, dimostrando così che, a fronte dell’obiettivo dichiarato, identificato nel ripristino del principio di uguaglianza, la scelta effettuata non è stata tecnica, bensì politica, in quanto svincolata da precisi para- metri di esercizio, ma caratterizzata piuttosto da ampia li- bertà nella valutazione dei fini perseguiti.

5. L’approdo cui perviene la Corte va esaminato anche da un’altra angolazione. Non può farsi a meno di ricordare, in- fatti, che il controllo sulla ragionevolezza delle pene è nato storicamente all’ombra del principio di offensività, quale ga- ranzia contro il rischio che il parlamento democraticamente eletto si trasformi in un nuovo Leviatano. Ebbene, non può non colpire che questo prezioso strumento di revisione critica dei tariffari di pena, mentre è stato utilizzato dalla giurispru- denza costituzionale con assoluta parsimonia nel campo del- le tante (troppe) sproporzioni per eccesso, per rimediare alle quali esso era stato originariamente prospettato nel campo penale, d’ora in avanti potrà essere impiegato con accresciu- ta duttilità per censurare i casi di minor rigore punitivo.

I consensi che raccoglie in dottrina quest’ultima prospetti- va e, in modo speculare, la rassegnazione (ma che non sia una condivisione?) con cui si accettano oggi le sproporzioni per eccesso, sembrano segnali di una situazione spirituale della nostra cultura penalistica, che appare più sensibile al- l’istanza di difesa sociale che ai cardini di un diritto punitivo garantito dalla legalità delle pene.

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È chiaro però che proprio questa dilatazione dei poteri della Corte nel campo penale apre nuovi scenari, nel senso che il sindacato di ragionevolezza sulle norme di favore, mi- rando a correggere la “legislazione per sottrazione”, pone in termini nuovi la questione, oggi massimamente attuale, della legittimazione della Corte a operare nel campo penale con effetti in malam partem.

6. La critica di politicizzazione rivolta alla Corte costitu- zionale proviene – è noto – da una parte del mondo politico.

Come tale, essa può risultare strumentale e finanche estrema nella misura in cui considera la Corte alla stregua di un au- tonomo soggetto politico, che agirebbe politicamente sotto mentite spoglie e magari all’insegna dell’antipolitica. Si trat- ta di una critica avvertita come infamante e delegittimante, comprensibilmente respinta dagli assertori del carattere “tec- nico” degli interventi della Corte. Nondimeno, è difficile ne- gare – e la sentenza 394/2006 lo conferma – che la Corte, nell’interpretare il suo ruolo di garante della Costituzione, tende a porsi da ultimo quale contropotere legislativo, pronto a correggere – per quel che qui più interessa – anche gli sbandamenti della politica criminale.

Non è certo ininfluente, a questo proposito, la tradizionale estrazione politica di una parte almeno dei giudici costituzio- nali, non solo nel senso della matrice partitica della loro no- mina, ma del loro essere (stati) politici, con ruoli di grande responsabilità: deputati, senatori o ministri, anche Guardasi- gilli. Il sistema consente che della Corte faccia parte un giu- dice che è ha votato o finanche proposto una legge che la Corte medesima si potrà trovare a giudicare.

Certamente, la recente intraprendenza della giurispruden- za costituzionale può collegarsi a quel complesso di fattori storici e istituzionali che viene indicato, con enfasi talvolta esageratamente e non disinteressatamente disfattista, come crisi della legalità, della riserva di legge, del parlamentari-

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17 F. GIUNTA, Il giudice e la legge penale. Valore e crisi della legalità, oggi, in Scritti in ricordo di Giandomenico Pisapia, vol. I, Milano, 2000, p. 75 s.

smo e in radice della politica; crisi che spiegherebbe storica- mente e giustificherebbe istituzionalmente la sovraesposizio- ne compensativa del potere giudiziario.

Alla base di questa rappresentazione dello stato dell’arte vi è un fondo di verità. Agli inizi degli anni ’90, il passaggio al sistema maggioritario, da un lato, e la concomitante delegitti- mazione della politica a seguito di Tangentopoli, dall’altro, hanno determinato un nuovo modo di vedere la giustizia pe- nale nel suo complesso17. Proprio perché il diritto penale, per la prima volta nella nostra storia recente, veniva utilizzato in modo sistematico e ampio nei confronti delle classi dirigenti e del ceto politico, esso appariva non più come il prodotto del confronto politico, assicurato dalla riserva di legge, ma come il precipitato dell’etica pubblica. All’immagine secolarizzata di un diritto penale che viene dal basso della composizione degli interessi, si affianca prima e si sovrappone poi la più nobile concezione di un diritto che viene dall’alto dell’assiolo- gia e che per questo ha bisogno più di qualità, che di rappre- sentatività, anche al prezzo di apparire aristocratico e medie- vale, in quanto fondato sul principio di autorità morale. Pro- prio perché l’aumentato peso del decisionismo politico, assi- curato dal premio di maggioranza, giungeva nel momento di massima crisi della politica, messa sotto accusa dalla magi- stratura, l’accresciuta forza del Parlamento è stata bilanciata, con una sorta di istinto istituzionale, dalla nuova giurispru- denza della Corte, che si è sentita investita del ruolo di estre- mo difensore dell’equilibrio tra i poteri. A ciò si aggiunga lo scadimento della qualità tecnica e politico-criminale della le- gislazione penale (aspetto, questo, che non è nuovo: per ri- manere nel campo delle falsità nelle liste elettorali, si pensi alla disciplina, originaria e tuttora vigente, della prescrizione, che, a norma dell’art. 100, comma 2, del d.p.r. 570 del 1960

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è di appena due anni).

Forse mai come in questi ultimi anni è stato evocato il pe- ricolo insito nel dispotismo democratico e nella dittatura del- la maggioranza, paventato da Alexis Tocqueville. Ma qual è il rimedio? Può consistere nella trasformazione del ruolo del- la Corte costituzionale, senza che sia ripensata la sua compo- sizione e lo stesso meccanismo che produce il controllo di co- stituzionalità?

La tesi che qui si avanza è che il modo in cui funziona lo scrutinio di legittimità sia inadatto ad assicurare un adegua- to controllo di costituzionalità nel campo penale, soprattutto con riguardo alla violazione del principio di legalità, che, es- sendo chiamato a regolare il raggio di azione del potere giu- diziario, ha bisogno di essere assicurato in modo pieno ed ef- fettivo.

Si pensi al controllo di costituzionalità sulla determinatez- za della norma penale. La formulazione determinata della norma penale – si insegna – mira a contenere la discreziona- lità del giudice, ossia a delimitarne il raggio di azione. Sen- nonché è altrettanto noto che spetta al giudice penale stesso sollevare la questione, ossia chiedere alla Corte che sia me- glio delimitato il suo potere di ius dicere. Ne consegue che la questione viene sollevata solo quando il giudice non condivi- de, nello specifico caso, la discrezionalità che gli riconosce la norma indeterminata, ossia quando non vuole assumersi la responsabilità connessa all’esercizio della sua potestà puniti- va. Quando, invece, riterrà di poter bene impiegare detta di- screzionalità, a poco varranno le osservazioni delle parti pro- cessuali (segnatamente della difesa), posto che al giudice la questione apparirà manifestamente infondata. Del resto, è noto che, per verificare la determinatezza di una fattispecie penale, uno dei criteri cui ricorre la giurisprudenza costitu- zionale sia quello del diritto vivente ovvero dell’“interpreta- bilità” dell’enunciato normativo. Ne consegue che quando il giudice ritiene di poter interpretare la fattispecie, il vizio di

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18 In argomento cfr., per tutti, F. PALAZZO, Corso di diritto penale, Torino, 2006, p. 135.

19 Cass. pen., sez. IV, 15 novembre 2006, Cesolini, in Guida dir., 2007, n. 1, p. 79.

determinatezza risulta sanato di fatto, o meglio non più rile- vabile, con grave alterazione degli equilibri tra legislativo e giudiziario nella produzione del diritto penale18.

In breve: il filtro della valutazione politico-criminale del giudice a quo – il rilievo, si badi, non vale solo per il control- lo sulle norme di favore – si fonda su un previo giudizio di condivisione o meno dell’opzione politico-criminale. Quando la scelta legislativa è condivisa dal giudice, non residua spa- zio alcuno per la dichiarazione di non manifesta infondatez- za della questione. Si pensi alla recente pronuncia della Cor- te di Cassazione che ha ritenuto immune da irragionevolezza il divieto, previsto dall’art. 6 del d. lgs. 274/2000, di sospen- dere condizionalmente le nuove pene irrogabili per i reati de- voluti alla competenza del giudice di pace19. Il giudizio della Corte di Cassazione è certamente plausibile; esso però non è

“tecnico”, ma politico-criminale.

7. Inconvenienti analoghi, in quanto collegati al sistema di rilevazione delle questioni di legittimità da sottoporre al va- glio della Consulta, potranno riscontrarsi in futuro in rela- zione allo scrutinio delle norme penali di favore. Il loro con- trollo di costituzionalità, infatti, presuppone un previo giudi- zio da parte del giudice remittente, che, com’è ovvio, dichia- rerà la questione “non manifestamente infondata” nella mi- sura in cui non condividerà la scelta politico-criminale della deroga legislativa in bonam partem.

Così, per riprendere il campionario degli esempi che si so- no sopra considerati, nell’ipotesi in cui il legislatore atte- nuasse in misura consistente la pena prevista per il peculato d’uso, è plausibile ritenere che l’irragionevolezza della scelta

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20 V. ad esempio la questione sollevata, al riguardo, da Corte App. Napoli, ord.

legislativa avrà buone possibilità di essere sollevata, per la ragione assorbente, e destinata a rimanere implicita, che il peculato, anche quando è solamente d’uso, è espressivo co- munque di un malcostume che rende il fatto inviso. Assai più della disuguaglianza di trattamento introdotta dalla nor- ma di favore, decisiva sarà la valutazione politico-criminale, e all’occorrenza anche etica, che il giudice maturerà in rela- zione allo specifico fatto storico punito con mitezza.

Diversamente, è ipotizzabile che la futuribile depenalizza- zione del furto d’uso possa sfuggire al controllo di legittimità, ove la fattispecie concreta sottoposta al vaglio del giudice a quo avesse ad oggetto una cosa mobile di modesto valore, sempre che – s’intende – il giudice condivida la valutazione politico-criminale di lasciare esenti da pena le sottrazioni ba- gattellari.

L’attenuazione o l’abolizione della pena per l’omicidio del consenziente dipenderà, all’evidenza, dalla personale etica del giudice e dal suo orizzonte valoriale. Perché mai dovreb- be sollevare la questione di legittimità, ove ritenesse in ter- mini metagiuridici che la vita sia un bene disponibile soprat- tutto nei casi di malattie terminali e dolorose?

Infine, il fatto che non sia stata finora sollevata la questio- ne di legittimità costituzionale per il trattamento di favore previsto per le lesioni personali colpose connesse alla circola- zione stradale, dimostra che i giudici di pace condividono la scelta politico-legislativa di assoggettare detta fattispecie alla loro giurisdizione, con tutto ciò che essa comporta sul piano del trattamento sanzionatorio. Questo rilievo non esclude, naturalmente, che nel caso di lesioni personali colpose giudi- cate per connessione dal giudice togato, quest’ultimo possa mostrarsi critico nei confronti della scelta effettuata dal d. lgs. 274 del 2000, nel qual caso le chances che il controllo di costituzionalità si attivi saranno certamente maggiori20.

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15 aprile 2004, respinta dalla Corte Costituzionale con ordinanza n. 187 del 2005, in quanto il giudice remittente aveva omesso di estendere la censura anche all’art.

4, comma 1, lett. a, del d. lgs. 274 del 2000, che, attribuendo al giudice di pace la competenza per le lesioni personali colpose connesse alla circolazione stradale, co- stituiva il necessario presupposto del sistema sanzionatorio di favore denunciato dal giudice a quo.

8. La sentenza 394/2006 non esprime soltanto l’odierna predisposizione della Corte nei confronti degli interventi ad- ditivi in malam partem, finora assai rari e comunque critica- ti; essa si iscrive in un panorama assai più ampio e comples- so, nel cui contesto non può non rilevarsi che esiste una spin- ta, proveniente da più parti, a disancorare il diritto penale dall’alveo della legalità legislativa per polarizzarlo principal- mente sul momento del giudizio, che diventa predominante.

Significativi sono i frequenti parallelismi – ricorrenti nel di- battito nostrano d’oggi – con l’esperienza di common law, dove però diverso è il percorso che conduce alla funzione giudicante, peraltro tradizionalmente condivisa con la giuria popolare.

Questa tendenza (che talvolta diventa tifoseria) intesa a svalutare l’impronta legislativa del diritto penale si associa però a un altrettanto evidente atteggiamento di conservatori- smo ordinamentale: le architravi costituzionali del sistema penale devono restare immutate (fatta salva, s’intende, la svalutazione della riserva di legge, evidentemente ritenuta garanzia minore), benché evolva significativamente l’impor- tanza e l’autonomia del momento giudiziale.

Il rischio estremo è un capovolgimento del senso e del te- sto dell’art. 101 Cost., che è numero palindromo: se è ridut- tivo ritenere che il giudice sia soggetto soltanto alla legge, nella misura in cui questo principio viene strumentalmente ricordato per mortificare la fondamentale importanza della funzione interpretativa, esiziale sarebbe ritenere che la legge sia soggetta al giudice; a partire dalle norme di favore.

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Luca Mezzetti

La sentenza 394 del 2006 si configura come una delle più recenti (ma sicuramente non l’ultima) di una serie piuttosto ampia di sentenze della Corte costituzionale in materia, che vanno apprezzate e valutate in un contesto sistemico che contingentemente ci induce in questa sede a riflettere su al- cuni profili concernenti, in particolare, la definizione delle norme penali di favore ed i confini del sindacato di legitti- mità, e che ci impongono una riflessione di più ampio respiro sul ruolo che, in generale, la Corte costituzionale progressi- vamente si è trovata a volere o dovere svolgere all’interno del nostro sistema costituzionale, e più in particolare un riferi- mento a quella sua funzione fondamentale che consiste nel controllo di legittimità costituzionale delle Leggi, e più in particolare nel controllo esercitato sulle norme penali.

Accennerò rapidamente ai profili che non mi convincono in seno a questa sentenza, e poi cercherò di ricollegarmi alle premesse che ho fatto.

Un primo punto problematico concerne la stessa definizio- ne delle norme penali di favore che la Corte in sostanza riba- disce, in quanto si richiama alla precedente fondamentale sentenza capostipite, la 148 del 1983, che aveva comunque considerato ammissibile il sindacato di legittimità costituzio- nale anche su norme penali di favore. La distinzione che francamente non convince è quella fra norme penali che sot- traggono determinate fattispecie, o gruppi di fattispecie, o gruppi di soggetti, all’applicabilità ed al rigore della norma penale, sindacabili secondo la Corte sotto il profilo della le- gittimità costituzionale, e norme che invece delimitano l’ap- plicabilità a determinati gruppi o fattispecie di soggetti della norma stessa, invece non sindacabili ad avviso della Corte in quanto tale sindacato urterebbe contro la barriera rappre-

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sentata dall’articolo 28 della legge n. 87 del 1953 che, disci- plinando il funzionamento della Corte, oppone un argine estremamente debole e travalicato centinaia di volte in tutti questi anni dall’irrompere torrentizio della Corte sulla scena del sistema politico istituzionale, e vorrebbe escludere la sin- dacabilità di tutti i profili concernenti le cosiddette “political questions”, cioè le questioni aventi sotto il profilo del sinda- cato di legittimità costituzionale natura o rilevanza di tipo politico. Come si possa distinguere fra norme che sottraggo- no determinate fattispecie o soggetti al rigore della norma penale, e l’altra ipotesi delle norme che si limiterebbero a circoscrivere tale applicazione, francamente è un problema di natura teorica ed ermeneutica da esercitarsi sul terreno contingente dell’esperienza concreta, che risulta di proble- matica esperibilità.

Da questa prima osservazione ne discende una seconda.

Quali possono essere i confini del sindacato di legittimità costituzionale riferiti all’una o all’altra categoria di norme?

Sostiene la Corte che le norme che sottraggono determinate fattispecie sono sindacabili, e quelle che invece delimitano sono insindacabili. Già con tale distinzione la Corte compie un passo in avanti di estrema pericolosità, peraltro sulla scorta delle premesse contenute nella sentenza precedente- mente menzionata del 1983. Si tratta di un passo ulteriore che la Corte compie, lambendo spazi che invece dovrebbero rimanerle preclusi.

Analoghe considerazioni valgono sul versante della pun- tualizzazione dei principi, terzo punto al quale si voleva ac- cennare, di diritto intertemporale.

La Corte accenna al criterio della compresenza di due norme all’interno dell’ordinamento, di cui una generale e l’altra speciale. Anche sotto questo profilo è opera d’arte er- meneutica di difficilissima praticabilità la individuazione della compresenza all’interno dello stesso contesto sistemico di due norme, una legge generale e una lex specialis.

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Un ulteriore profilo che induce ad assumere un atteggia- mento critico è quello relativo allo status costituzionale che la Corte costituzionale, anche su tale versante differenziando in modo molto sensibile, si sente di riconoscere ai principi ri- spettivamente di irretroattività e di applicabilità della legge più favorevole.

Mentre sul versante del principio di irretroattività procla- mato dall’articolo 25 della Costituzione la Corte ne ribadisce la intangibilità, adotta sull’altro versante, quello dell’appli- cabilità del trattamento contemplato dalla legge più favore- vole al reo, un atteggiamento che la porta a differenziare uti- lizzando il grimaldello della ragionevolezza e della conse- guente legittimità costituzionale della legge che disponga tale tipo di trattamento. Ovviamente non si può che essere d’ac- cordo con la Corte costituzionale e non si possono esprimere dubbi nel confermare l’intangibilità, come del resto fa la Corte del principio di irretroattività posto dall’articolo 25 della Costituzione, ma lo stesso principio della lex mitior in realtà gode di uno stato costituzionale di eguale dignità.

Si potrebbe affermare, come del resto hanno fatto anche alcune pronunce della Corte di Giustizia, che non si tratta di un principio espressamente contemplato dalla Costituzione, ma l’obiezione immediata che si può fare, come del resto, al- meno sotto questo profilo, riconosce la stessa Corte costitu- zionale, è che si deve ritenere che si tratti di principio fonda- mentale penetrato all’interno del nostro sistema costituziona- le, in virtù del fatto che è stato riconosciuto da varie disposi- zioni contenute in trattati internazionali, ad esempio il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 di New York, dalla Convenzione di Roma del 1950 sulla tutela dei diritti fondamentali (CEDU), dalla Carta di Nizza del 2000 sui diritti fondamentali del cittadino europeo (che non rive- ste natura giuridica direttamente vincolante, ma è costante- mente riconosciuta dalla stessa Corte costituzionale come ausilio interpretativo fondamentale, ai fini dell’esercizio del

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sindacato sulla legittimità costituzionale delle leggi interne).

Si deve stabilire quale rango assegnare al primato delle norme internazionali e delle norme comunitarie, così come traspare dal combinato disposto degli articoli 11 e 117 della Costituzione, e bisogna capire se e in quale ipotesi tale pri- mato arretri di fronte ad altri principi invece di natura inter- na che si ritengono non negoziabili e inderogabili rispetto a tale primato.

Inevitabilmente viene in rilievo sotto questo profilo il vec- chio (ma sempre attuale) problema del bilanciamento fra principi e diritti o fra diritti e diritti: ciò che la Corte costitu- zionale fa in questa sentenza consiste, a mio avviso in modo

“strabico”, nel bilanciare un principio con un diritto ove in realtà dovrebbero essere bilanciati due principi fra di loro.

In altri termini: la Corte afferma che il trattamento penale più blando riservato a determinate fattispecie, che vengono qualificate come di natura contravvenzionale e quindi punite con l’ammenda anziché come delitti puniti con pene detenti- ve, collide con il principio democratico, cioè della sovranità popolare e dello sviluppo fisiologico del processo di forma- zione della volontà politica del corpo elettorale. Si allude al contenuto delle norme costituzionali contenute negli articoli 48 e seguenti della Costituzione, ma si incorre nell’errore di bilanciare questo principio in connessione con l’articolo 3 della Costituzione, il principio di eguaglianza, laddove inve- ce il termine di raffronto avrebbe potuto e dovuto essere il principio di libertà. Quindi il confronto è semmai, volendo ragionare in termini di esigenze fisiologiche o di principi fi- siologici dell’ordinamento, fra il processo fisiologico di svol- gimento di sviluppo di formazione della volontà politica del corpo elettorale da una parte e, dall’altra, la tutela del prin- cipio cardine, dell’asse fondamentale attorno al quale ruota tutto il sistema costituzionale: il principio di libertà come va- lore fondamentale della persona umana. Conta di più, in altri termini, il principio-valore della libertà o il principio-

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valore dello svolgimento fisiologico del processo democratico, di tutela dell’ordinato svolgimento dei processi elettorali?

In realtà il problema dello sconfinamento del ruolo degli organi di giustizia costituzionale nelle “political questions”

non è nuovo. Non nuovo non solo se lo riferiamo agli ultimi decenni, ma anche per il fatto che è stato studiato già dai primi anni del Novecento, ad esempio in seno al famoso sag- gio di Edouard Lambert, “Il governo dei giudici e la lotta contro l’emarginazione sociale negli Stati Uniti”: si tratta di problema che ha ascendenze addirittura in Rosseau e Monte- squieu.

Non è dunque un problema nuovo quello del ricorso a strumenti non espressamente contemplati dalla Costituzione, o di profilo non squisitamente giuridico, utilizzati dai giudici per sindacare la legittimità costituzionale delle leggi. Giova ricordare, sotto tale profilo, che questo ordine di riflessioni ha portato in alcuni ordinamenti, soprattutto quelli di cultu- ra e di esperienza francofona, a rigettare rigorosamente, al- meno agli albori delle loro esperienze, l’istituzione di organi di giustizia costituzionale aventi natura giurisdizionale, do- tandoli dei poteri che oggi conosciamo.

Sul versante della ragionevolezza si può osservare, in con- siderazione del fatto che si tratta di uno strumento che ha ascendenze di lungo corso, che tale strumento abbia cono- sciuto un tendenziale stravolgimento nella fase attuale di svi- luppo della giurisprudenza costituzionale italiana, configu- randosi come una sorta di grimaldello buono per tutte le oc- casioni e per tutte le stagioni, che viene giustificato con un uso spesso improprio o inattuale o storicamente datato del riferimento, che si ritrova già in John Hart Ely ed in tutta la giuspubblicistica nordamericana degli anni Quaranta e Cin- quanta, alla funzione antimaggioritaria della Corte Costitu- zionale.

Il punto è che, prescindendo dalla funzione antimaggiori- taria o promaggioritaria della Corte Costituzionale, la Corte

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stessa si è venuta ritagliando un proprio spazio politico che contingentemente può essere assimilato come “Weltan- schauung” a quella propugnata dalla maggioranza.

Il problema però non si sposta di molto, per il fatto che il ruolo che la Corte gioca, piaccia o non piaccia, è un ruolo che mal si concilia con il sistema disegnato dal costituente:

che si tratti di uno sviluppo che può essere ritenuto in linea con l’assetto degli altri poteri dello Stato all’interno del no- stro sistema costituzionale è pure vero. Se ci chiediamo per- ché la Corte si ritaglia tanti spazi all’interno del sistema co- stituzionale trovo che la risposta, non per banalizzare il pro- blema che evidentemente è di dimensioni enormi, almeno in parte può risiedere nel fatto che a loro volta gli altri poteri dello Stato – ci si riferisce in particolare, come è ovvio, al Parlamento, o meglio al raccordo Parlamento-Governo – hanno dato luogo ad un forte stravolgimento del loro ruolo.

La Corte interviene sulle “political questions” per il fatto molto semplice che le stesse non vengono adeguatamente e tempestivamente affrontate dal Parlamento. Ormai da anni e anni il Parlamento non concepisce più leggi di grande respi- ro, preferendo delegare in larghissima misura l’attività nor- mativa al Governo, affinché produca una quantità smisurata di decreti legislativi, ovvero autorizzando lo stesso Governo perché produca una quantità non meno smisurata di regola- menti di delegificazione. È evidente che in questo panorama di latitanza il Parlamento lavora a singhiozzo e quando ope- ra tende a demandare, a delegare, ad accantonare i problemi affidandone la soluzione ad altri organi dello Stato. È ovvio che in tale situazione si aprono non brecce ma varchi.

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Gaetano Insolera

1. Sono note le vicende che, nella passata legislatura, han- no posto con insistenza il problema della sindacabilità, da parte della Corte costituzionale, delle c.d. norme penali di favore.

Sono entrati nel lessico quotidiano i concetti di abuso di potere legislativo, di norme penali ad personam, di amnistia mascherata.

A distanza di più di venti anni si è quindi riproposta, in un panorama invero assai diverso, quella questione della sin- dacabilità di “odiose forme di privilegio” che si era imposta a cavaliere tra gli anni ’70 e ’80, in sintonia con una fonda- zione costituzionale dell’illecito penale.

Il tema si inscrive in una cornice i cui lati sono occupati da altri due argomenti: i controlli di ragionevolezza esercita- bili dalla Corte e la riserva di legge che connota la materia penale.

È noto come la giurisprudenza costituzionale abbia fatto succedere all’iniziale self restraint nell’utilizzo del paradigma della ragionevolezza, per valutare il rispetto del principio di eguaglianza da parte delle norme penali (e tributarie), un at- teggiamento di progressiva e sempre maggiore apertura. Sen- za poter ripercorrere in questa sede i molteplici passaggi e li- mitandoci all’orizzonte del diritto penale, basti ricordare al- cune tappe: dalla fondamentale sentenza n. 26 del 1979, in cui la Corte perveniva ad una censura di irragionevolezza at- traverso una valutazione in chiave costituzionale degli inte- ressi protetti dalla norma penale, alla sent. n. 189 del 1987, in cui si censurava l’assenza di un bene giuridico tutelato at- traverso la penalizzazione del fatto.

Ma il sindacato di ragionevolezza tende a delinearsi com- piutamente, allontanandosi dagli originali limiti logico-forma-

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li, per lungo tempo difesi dalla Corte, quando il suo paradig- ma si completa con il riferimento al principio di proporziona- lità della pena, a sua volta coniugato con la finalità rieducati- va a questa ultima assegnata dall’art. 27, 3° comma Cost.

Parallelamente, tuttavia, tra i penalisti, non si sono mai sopite le perplessità riguardanti il possibile conflitto tra i mo- delli argomentativi appena richiamati e il disposto dell’art.

28 L. n. 87/1953, che stabilisce l’insindacabilità delle scelte riconducibili all’ambito discrezionale del potere legislativo:

norma ordinaria che, giova ricordarlo, nella materia penale, trova puntuale copertura costituzionale nel corollario della legalità costituito dalla riserva di legge. Nella stessa prospet- tiva, del resto, i dubbi suscitati da meccanismi decisori atipi- ci elaborati dalla Corte, con il ricorso a sentenze interpretati- ve di rigetto ma, soprattutto, manipolative o additive.

Proprio a proposito di queste ultime si parla di sentenze

“normative”. In questo modo si tocca il cuore della questione che le accomuna alle decisioni che, attraverso variegati per- corsi, censurando l’irragionevolezza della incriminazione, possono collidere con il riparto della attribuzione dei poteri disegnato dalla legge fondamentale. È questo un profilo che può sfuggire se non si ricorda la singolarità da quest’ultima attribuita alla materia penale proprio attraverso il disposto dell’art. 25, 2° comma.

Occorre ricordare comunque che gli interventi “contenuti- stici” della Corte, consentiti dai controlli di ragionevolezza, sono stati quantitativamente modesti, considerata la percen- tuale delle sentenze di accoglimento. Hanno inciso su settori specifici (e “indifendibili”) – ad esempio il diritto penale mili- tare – ovvero hanno eliminato alcuni “oggetti” marginali, inu- tili o poco presentabili dall’armamentario penalistico. Quindi quei controlli potrebbero rappresentare un necessario e tollerabile strappo al principio di legalità: una delicata cosme- si sul volto del nostro sistema di incriminazioni, affidata alla saggezza e all’equilibrio dei giudici della Consulta, costretti ad

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agire in sostituzione di un potere politico pigro e confuso.

Queste caratteristiche, tali da ridimensionare le preoccu- pazioni per la tenuta della riserva di fronte ai controlli di ra- gionevolezza, hanno visto alcune eccezioni. In termini positi- vi, penso agli interventi sulla parte generale del Codice Roc- co, ad esempio a proposito di presunzioni e accertamento della pericolosità sociale. Ma, questa volta in termini negati- vi, non si può dimenticare la forte conflittualità tra poteri, conseguita all’uso del sindacato di ragionevolezza nella sua massima incidenza contenutistica in campo processuale pe- nale: sono le vicende che riguardano la “deformazione”, a partire dal 1992, del codice accusatorio del 1988. Un brac- cio di ferro tra Corte e Parlamento, durato quasi dieci anni e conclusosi con la riforma dell’art. 111 Cost. e la L. n.

63/2001, attuativa del “giusto processo”. Ma la lettura della Sent. n. 26 del 2007 fa purtroppo ritenere che si sia tornati allo stile argomentativo di quegli anni!

Questo, in estrema sintesi, lo stato del dibattito sui con- trolli di ragionevolezza in materia penale e sui loro rapporti con il quadro costituzionale dell’attribuzione di poteri. Oc- corre, tuttavia, precisare come esso si sia consolidato nella prospettiva riduttiva del sistema di incriminazioni, ovvero in chiave di adeguamento del diritto penale ai principi di ga- ranzia espressi dalla Legge fondamentale.

Bene, se erosione della riserva si è verificata, ciò è comun- que avvenuto su rime consone all’impianto fondamentale del sistema di principi espresso dalla prima parte della Costitu- zione.

Infine, in tempi recenti l’attenzione si è concentrata su un’articolazione dei controlli di ragionevolezza che possiamo definire, con un margine di approssimazione, comunitaria.

In un contesto caratterizzato, da un lato, dalla ridefinizio- ne in termini reticolari e sovranazionali del sistema delle fon- ti, e dall’altro, da una indiscussa incompetenza della Comu- nità europea in materia penale, si è posto il problema della

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possibilità di invalidazione di norme nazionali che risultino in contrasto con scopi di tutela espressamente ricavabili dalle fonti sovranazionali.

Ma la proiezione “comunitaria”, che l’esperienza recente ha posto in modo esemplare, si è caratterizzata per un’ulte- riore particolarità che ci consente di segnare un preciso colle- gamento con la questione “nazionale” dei limiti dei controlli di ragionevolezza rispetto alla riserva. Essa, infatti, si è indi- rizzata verso un sindacato capace di supplire ad un asserito deficit di tutela. In questo modo si è proposto il mai sopito problema della possibilità di coniugare ragionevolezza (mo- dulata sul paradigma di scopo della norma sovraordinata) e obblighi di tutela penale.

Ciò ci conduce ad un nodo comune alle due prospettive, interna e comunitaria.

Alla già esaminata compatibilità tra riserva e operare in bonam partem del sindacato della Corte costituzionale, cor- risponde quella relativa alla diretta applicabilità del diritto comunitario in termini disapplicativi dell’incriminazione da parte dell’ordinario giudice interno, eventualmente a seguito di un intervento interpretativo della CGCE. Prospettive en- trambe compatibili con l’art. 25, 2° comma, Cost.

Tutt’altro scenario è, invece, quello che si apre prospettan- do l’inverso percorso, ossia quello che consenta alle Corti, at- traverso il controllo di ragionevolezza, di corrispondere ade- guatamente ad obblighi di tutela penale desumibili dalla Co- stituzione o dalle fonti comunitarie.

2. Fino alla Sent. n. 394/06, sul piano interno e su quello sovranazionale, le soluzioni sembravano convergere, pur con percorsi argomentativi diversi.

A livello interno, si intersecavano due diversi profili: l’uno riferibile alla stessa valutazione di ammissibilità di questioni che vogliano espandere l’area di rilevanza penale, l’altro ri- guardante comunque la loro fondatezza.

Riferimenti

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