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DANNO PSICHICO E MOBBING

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Academic year: 2022

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DANNO PSICHICO E MOBBING

Avv.Umberto Oliva

Il tema affrontato in questo contributo si basa su due concetti –danno psichico e mobbing- che effettivamente vanno di pari passo.

Si può affermare, per restare in un ambito di patologie tipiche del mondo del lavoro, che il mobbing sta al danno psichico come il rumore sta all’ipoacusia, o l’amianto all’asbestosi, o il piombo al saturnismo. Insomma il danno psichico è il tipico danno subito dalla vittima di di mobbing.

E ciò è tanto vero che la teorizzazione del mobbing nasce proprio in seguito ad un percorso a ritroso –dall’effetto alla causa- intrapreso dagli psicologi del lavoro.

Nell’esperienza dell’Europa continentale, la questione “mobbing” prende corpo all’inizio degli anni ottanta, quando il Prof. Leymann e la sua scuola, in Svezia, iniziano a mettere in connessione la vasta casistica di ammalati che si presentavano in cura per problemi psicologici, con i problemi che queste persone denunciavano nei rapporti personali sul luogo di lavoro.

Da questa ricerca delle radici profonde del male nasce l’elaborazione del concetto di mobbing, quale condotta posta in essere da una pluralità di persone i quali, attraverso una pluralità di comportamenti caratterizzati da varie forme di prevaricazione, mirano ad eliminare la vittima dall’ambiente lavorativo in cui questa opera.

La cosa interessante da notare è che questa intuizione di partenza viene sviluppata, contemporaneamente, anche in altre aree del mondo occidentale ad economia sviluppata: in Inghilterra ad esempio, lo studioso Tim Field teorizza lo stesso fenomeno chiamandolo bullying at workplace; analogamente avviene negli Stati Uniti, seppure in questo Paese lo studio della c.d. violenza morale sul lavoro abbia conosciuto, specie inizialmente, una forte connotazione di tutela della donna, con l’esplosione del fenomeno dell’harassment.

Anche in Francia, seppure qualche anno più tardi, vengono autonomamente avviate ricerche su quello che lì viene chiamato harcelement morale.

Da questa circostanza, e dalla considerazione del fatto che un certo grado di conflittualità nel mondo del lavoro può ritenersi “fisiologico” e comunque è sempre esistito, può tranquillamente desumersi che non è un caso che in svariati paesi, all’incirca nel medesimo periodo, diversi studiosi siano giunti attraverso strade diverse a focalizzare la loro attenzione sul mondo del lavoro come possibile elemento scatenante di patologie psichiche.

E non è un caso che ciò sia avvenuto verso la fine degli anni ottanta, perché proprio in quel periodo il mondo del lavoro ha iniziato a conoscere massicciamente gli effetti delle grandi trasformazioni portate dalle nuove caratteristiche

Avvocato, Torino

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dell’economia attuale: la globalizzazione innanzitutto, che con il massiccio spostamento di enormi produzioni in paesi a basso costo di manodopera (l’area del Far East, per esempio) ha reso necessario operare tagli del personale in tutti i settori produttivi. Con la conseguenza, per chi rimaneva, di una sempre maggiore precarietà del posto di lavoro, da una parte, e di una esasperata rincorsa alla riduzione del costo aziendale dall’altra.

D’altra parte, il fenomeno -ancora più recente- delle grandi fusioni tra colossi ha provocato, nei settori interessati dal fenomeno, una incredibile serie di doppioni:

se due grandi banche, o due grandi compagnie assicurative, si fondono, migliaia di impiegati divengono in esubero, e quindi, in qualche modo, un tot devono essere eliminati.

E’ quindi evidente che, su un terreno del genere, la mala pianta del mobbing non poteva che svilupparsi velocemente: maggiore è la flessibilità o precarietà, maggiore sarà la possibilità che basti un nonnulla per spazzarti via dal lavoro;

maggiore sarà quindi la concorrenza tra colleghi, anche a mezzo di colpi bassi, per mantenere la propria competitività; e più facile ed invitante sarà per l’azienda elaborare strategie per l’eliminazione di quei dipendenti che, ad un certo punto della loro carriera e senza colpe, sono divenuti un segno meno nella lista delle “risorse umane”.

E’ questo dunque lo sfondo nel quale collocare le vicende di mobbing; una situazione di base quindi dove il livello di soglia di attenzione nervosa del lavoratore è già, per ragioni indipendenti dalla volontà dei singoli, molto alta.

La vittima di mobbing presenta dei disturbi psichici abbastanza tipizzati: stress, ansia, depressione, frustrazione, fobie, attacchi di panico, crollo dell’autostima;

disturbi che poi spesso non viaggiano da soli, ma accompagnati da patologie di tipo più prettamente fisico quali disturbi del sonno, aritmie, comparsa di eritemi cutanei, perdita di interesse sessuale, bulimia, tendenza al consumo di alcolici e droghe.

In questo quadro, le diagnosi più frequenti sono “disturbo dell’adattamento” e

“disturbo post-traumatico da stress”.

Da un punto di vista giuridico, e sta qui ovviamente il nucleo del mio intervento, la recente esperienza del mobbing ha mostrato un interessante percorso per giungere alla soluzione di quello che è uno dei grandi problemi tecnici che si affrontano nelle cause per il risarcimento del danno psichico: il problema della dimostrazione del nesso causale tra condotta e danno.

Mi riferisco precisamente alle sentenze del Tribunale di Torino-Sezione Lavoro 16 novembre 1999 e 30 dicembre 1999.

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Le due decisioni sono interessanti anche perché riguardano due fattispecie tra loro diverse.

Il primo caso (Erriquez c. Ergom Materie Plastiche S.p.A.) aveva ad oggetto un’ipotesi particolare di mobbing: il mobber non era il datore di lavoro, bensì il capo turno, diretto superiore della vittima.

Questi gli atti persecutori, che ebbe a subire la lavoratrice da parte del suo superiore: molestie sessuali; confinamento in una postazione di lavoro angusta e chiusa tra varie macchine e cassoni di lavorazione; isolamento rispetto agli altri colleghi di lavoro; frasi offensive e incivili. Tali condizioni di lavoro avevano generato nella vittima l’insorgenza di una patologia psichica temporanea e determinato nella stessa, dopo un periodo di malattia, la decisione a dimettersi dall’azienda.

Nella seconda decisione (Stomeo c. Ziliani S.p.A.) il mobber era invece il datore di lavoro stesso, che, al chiaro scopo di costringere la dipendente alle dimissioni, aveva messo in atto una serie di comportamenti tipici del bossing:

terrorismo psicologico con pressioni a rassegnare le dimissioni; assunzione di un’altra dipendente durante il periodo di malattia della vittima, che al ritorno sul posto di lavoro si trovò di fatto sostituita e quindi messa da parte; trasferimento dagli uffici amministrativi al magazzino, con conseguente demansionamento e impoverimento del bagaglio professionale.

Anche in questo caso la mobbizzata aveva sviluppato una temporanea sindrome ansioso-depressiva attiva, con insonnia, ansia, inappetenza e crisi di pianto.

Nelle decisioni in esame il comportamento dei mobbers è stato ritenuto fonte di responsabilità in base al combinato disposto degli articoli 32 Cost. e 2087 c.c., norme che tutelano, come noto, la personalità morale e la salute, fisica e psichica, dei lavoratori. Con la conseguente condanna dell’azienda al risarcimento del danno.

Allora, la prima cosa interessante da notare è che entrambe le sentenze in esame contengono, quale primo passaggio della parte motivazionale, e a livello di

“fatto notorio” ex art.115 cpc, un’esposizione sintetica del fenomeno del mobbing in azienda, corredata di dati e di informazioni tratti dalla letteratura in materia, soprattutto quella medico-scientifica.

Il giudice torinese ha giustificato questo incipit come una «doverosa premessa», tuttavia il richiamo al fenomeno in questione non risulta affatto ad colorandum ma, al contrario, esso è chiaramente indirizzato a fornire l’ossatura per il passaggio successivo della sentenza, quello concernente la questione cruciale dell’an debeatur.

L’estensore quindi ha mostrato, anche attraverso il richiamo al concetto di

“fatto notorio” di voler utilizzare il mobbing come cornice, nella quale inserire – riconducendo ad unità- tutta una serie di comportamenti posti in atto all’interno dell’azienda, di per sè privi di particolari connotazioni illecite o, comunque, non decisivi sotto il profilo dell’inadempimento.

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Così facendo il Tribunale ha potuto, da un lato, mettere chiaramente a nudo l’intento persecutorio degli autori delle molestie; dall’altro, attribuire a questi piccoli ma ripetuti illeciti il giusto rilievo ai fini dell’accertamento della responsabilità dei datori di lavoro evocati nei rispettivi giudizi.

Entrambe le sentenze si reggono pertanto su uno schema ricostruttivo di questo tipo: 1) dato di partenza: il mobbing come fatto notorio; 2) accertamento della sussistenza dei comportamenti datoriali riconducibili entro tale fenomeno; 3) accertamento del danno psichico e della sua riconducibilità al mobbing subito in azienda; 4) liquidazione del danno.

Ci pare in questa sede estremamente opportuno richiamare l’attenzione sull’approccio seguito dalle sentenze in esame riguardo l’accertamento del nesso di causa intercorrente tra le condotte persecutorie e le patologie psichiche accusate dalle vittime.

In particolare, il giudice del lavoro ha ravvisato il rapporto eziologico sostanzialmente su di un solo elemento, ovvero la concomitanza temporale tra l’ingresso della vittima nell’ambiente lavorativo e l’insorgenza della malattia psichica.

In buona sostanza il Giudice:

• Accertato, a mezzo di prova testimoniale, che la malattia lamentata dalla ricorrente era comparsa solo dopo l’ingresso in azienda e in concomitanza con l’esposizione al mobbing;

• Accertato, consultando la documentazione medico prodotta dalla lavoratrice, la sussistenza di un periodo di malattia psichica;

Ha concluso per la sussistenza di una malattia psichica degna di ristoro, sotto il profilo del danno biologico temporaneo.

Mi rendo ben conto di come la scelta operata dal giudice possa far storcere il naso a molti, in quanto ha superato a piè pari quello che sembrava un passaggio obbligato in casi del genere, quello cioè della CTU medico legale.

Tuttavia questo tipo di scelta merita, più che un giudizio di approvazione o meno, alcune importanti riflessioni:

1. E’ sempre così inevitabile il ricorso alla CTU medica, quando si è in presenza di malattie temporanee?

Ritengo personalmente di no. Si consideri infatti che un CTU, chiamato ad esprimersi in una causa del genere, al quesito “se la ricorrente abbia subito una malattia psichica” non avrebbe che potuto rispondere affermativamente, a meno di smentire, con un giudizio ex post e quindi per definizione inattendibile, la diagnosi posta da un collega mesi prima di fronte all’evento conclamato.

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2. Generalizzare una ricostruzione dell’esistenza del nesso di causa come quella suggerita dal Giudice torinese, non significa –tra l’altro- mettere in mano al magistrato uno strumento di responsabilità civile intesa più come regola di tipo

“sanzionatorio” che di tipo “risarcitorio”?

Probabilmente sì; tale impostazione infatti mette bene in luce come il nesso di causa, nel campo delle lesioni psichiche da persecuzioni sul lavoro, possa costituire un importante strumento di policy choice in mano dei giudici, che, in un campo sostanzialmente privo di certezze come la psichiatria, si trovano ad assolvere il difficile compito di individuare il nesso causale senza particolari ausili scientifici.

Ma questo, in verità, non deve essere visto come elemento negativo, tenuto conto del sempre più diffuso processo di depenalizzazione, che coinvolge in pieno le misure di sicurezza anti.infortunistiche del lavoro.

Di modo che un inasprimento della condanna civile diviene il giusto bilanciamento dell’alleggerimento di quella penale.

3. Siamo sicuri che una ricostruzione del nesso di causa quale quella offerta dal tribunale di Torino non finisca per confondere e sovrapporre concetti teoricamente diversi quali danno morale e danno psichico temporaneo?

Sicuramente sì, ma questo non è certo colpa dell’estensore.

La configurazione del danno psichico temporaneo costituisce infatti un noto problema, che deriva dalla sottile linea di demarcazione a suo tempo tracciata tra danno morale e danno psichico dalla Corte costituzionale in Sgrilli c. Colzi1.

La decisione del giudice di qualificare il perturbamento psichico delle vittime come danno biologico temporaneo ci sembra ineccepibile, essendo in entrambi i casi stata provata una patologia.

Infatti l’elemento distintivo più chiaro tra le due categorie di danno è senz’altro quello probatorio: per il risarcimento del danno psichico deve risultare una patologia, mentre per quanto riguarda il danno morale non è necessario provare la sussistenza di una malattia psichica, ma è sufficiente dare dimostrazione, anche tramite criteri presuntivi, del turbamento e delle sofferenze dell’animo. Ci pare cioè che l’elemento per distinguere tra danno morale e danno psichico non possa certo essere quello della durata nel tempo, data appunto la configurabilità di patologie temporanee.

Ma così ragionando, finiamo per ammettere una cosa lapalissiana: e cioè che danno psichico temporaneo possono essere una sola cosa, in cui la differenza sta soltanto nell’occhio di chi guarda.

1 Corte cost., 27 ottobre 1994, n. 372, in Foro it., 1994, I, 3297. Sulla distinzione tra danno psichico e danno morale si rinvia a quanto osservato in Monateri, Bona e Oliva, Il nuovo danno alla persona, Milano, 1999, 7-9.

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