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La mancanza che ci fa pieni Davide Rondoni

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Academic year: 2022

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La mancanza che ci fa pieni Davide Rondoni

LETTURE - DENTRO IL PERCORSO

Un seme, una donna, un fatto di cronaca... Davanti a tutto, il poeta MARIO?LUZI ha sempre cercato «qualcosa pari alla vita». Dando voce all’umano. E al punto più infuocato di ciascuno di noi: le domande, che nessun potere può soffocare. Quarta tappa del viaggio letterario che accompagna il lavoro su Il senso religioso

In un’opera di Mario Luzi scritta alla fine del millennio si incontra una figura che guarda la luce del giorno trascorrere sulla Val d’Orcia. E dice:

(...)

È lungo, eppure su di lei passa, finisce

se ne va

il giorno umano e non umano,

le sfugge dall’incavo dei suoi piccoli monti, si eclissa tra le pieghe dei suoi aridi dossi, se ne va il giorno e l’uomo

e la vita ch’è in loro se ne va

avendo e non avendo

saputo qual è stata la sua parte...

ma è stata - lei lo sa -. È stata e questo la fa piangere

talora di grazia e di letizia.

La vita se ne va tra coscienza e non coscienza («sapendo e non sapendo») del suo significato, della sua «parte». Il tempo, come la valle, è il teatro di questo essere tra certezza e incertezza del senso delle cose e del vivere. Ma - conclude - lei sa che una parte è stata, un significato è dato. Lei chi? La valle medesima, la vita? La poesia?

Le domande che abitano la vita di un uomo sono il cuore del vivere. Anche se inespresse o di più, represse, le domande che cercano di mettere a fuoco quale sia stata la mia, la

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nostra parte in questa piccola valle del tempo (o valle di lacrime, come canta il Salve Regina composto da Ermanno lo Storpio) sono il punto più infuocato di noi. Il finale pianto

«di grazia e di letizia» è il segno supremo di un sentimento di sproporzione e di gratitudine. Una parte, un senso ultimo il vivere di un uomo ce l’ha - lui a volte lo sa, a volte gli sfugge. La vita, che nella poesia ha voce e nella valle si manifesta, lo “sa”, lo custodisce.

Luzi mi raccontò che prima di scrivere questo meraviglioso, arduo e musicantissimo libro (Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini) aveva pensato di non pubblicare più nulla.

Era già molto anziano, finiva il secolo e il millennio, pensava di aver già dato quel che poteva. Poi, mi disse, gli era apparso in sogno Simone Martini, il fine pittore trecentesco, e gli sembrò che quella e altre figure chiedessero a lui, estremo poeta, di narrare uno strano mai realizzato viaggio, il ritorno dalla corte di Avignone alla sua (di Mario e di Simone) città di Siena. Ne nacque un libro prodigioso di poesia, di pensieri luminosi e oscuri sull’esistenza, sull’arte, sui movimenti dell’animo e della storia. E alla fine del secondo millennio un poeta riuscì a usare nuovamente quel termine, letizia, che intesseva la coscienza di Francesco, santo e tra i primi poeti della nostra Italia, che con il suo Cantico aveva fissato nella esperienza del mondo, nelle cose del vivere il tema, il teatro, il dramma di ogni autentica poesia.

Voce che ridesta. Luzi era così: estremo e ribaldo - dentro i modi gentili e riguardosi - rispetto alle dominanti correnti scettiche e nichiliste della cultura e della poesia a lui coevi.

«Ho guardato a Campana, a Rebora», ci diceva, dunque a figure della poesia in cui visione poetica ed esperienza del mondo diventano un unico “ardore”. E, come Dante, intese la poesia come un viaggio che approssima al mistero dell’essere.

Fu lettore e incoraggiatore e prefatore dei miei primi versi (e di quelli di altri nuovi poeti), fu compagno di viaggi, di conferenze, di letture. Di discussioni, di scoperte. Fu umile e profondo maestro. Ora è voce che trae, che orienta. Che ridesta.

Mario Luzi è stato uno dei maestri di poesia e di pensiero del Novecento italiano. La sua voce ha significato per tantissimi la possibilità di una inquieta, attenta e apertissima interrogazione della vita.

La sua storia lunga di poesia (il primo libro pubblicato nel ’35, La barca, e l’ultimo postumo lo scorso anno, dopo la sua morte avvenuta nel 2005) ha mostrato come la mens dell’uomo contemporaneo può stare di fronte all’avvenimento del mondo senza cedere a un triste scetticismo o al pregiudizio ideologico, mali così diffusi nella cultura.

Per Luzi, come ha ripetuto in molte pagine dei suoi saggi e delle interviste, la poesia è il luogo in cui l’esperienza umana si svela, si tende nelle sue domande più alte e ineludibili.

Testimonianza dell’umano e del valore della parola che lo esprime, più forte e persistente di ogni violenza manifesta o occulta. In un crescendo che ha distinto l’opera di Luzi per il secondo Novecento, la dimensione interrogativa è diventata non solo un segnale inconfondibile del suo stile - con evidente peso della eredità leopardiana - ma anche una

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specie di fuoco, di motore sempre rinnovato della sua voce. Fino alla poesia estrema, lasciata in appunto prima di morire, dove la morte è vista come un’altra possibilità, misteriosa nel suo compiersi.

Ho ammirato e frequentato Mario Luzi fin da quando, poco più che diciottenne, mi ritrovai tra le mani il mio primo libretto di poesia. Avevo letto già la sua opera omnia pubblicata da Garzanti. In copertina, la sua foto con la sigaretta tra le dita. Di quella voce tersa, abitata da musicalità alte e da echi di toscanismi schietti e lontani, non capivo granché. Ma il suo andamento mi traeva a qualcosa che mi apparve eccitante, abissale, movimentato. Di quella voce, che taluni ideologi neoavanguardisti ritenevano da eliminare, non potevo cogliere l’ampiezza dei laboratori da cui sorgeva: da Leopardi, appunto, e specialmente da Dante, fino ai grandi attraversamenti delle stagioni simboliste francesi, della poesia latinoamericana, le traduzioni di Shakespeare e Racine, e altre più eccentriche letture. Ma avvertivo l’inizio di un grande viaggio che mi avrebbe portato non solo ad attraversare i territori ventosi delle grandi voci della poesia italiana e internazionale contemporanea - i poeti vicini a Luzi, se pur diversissimi, come Caproni, Bigongiari, Betocchi, Heaney, Mutis e tanti altri -, ma soprattutto a sentire sempre di più la forza, l’eversiva potenza delle domande che dinanzi all’evento del mondo documentano la natura dell’uomo. Le stesse domande che Leopardi, non a caso modello della “naturalezza” del poeta secondo Luzi, movimenta nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia e in altri luoghi eterni (strana una eternità di parole...).

L’atteggiamento del domandare, in Luzi, non è solo nella evidente presenza delle interrogazioni che si inseguono in molte sue poesie, ma nella stoffa stessa del pensiero poetico: l’uomo è per natura un’incessante interrogazione che entra e mette in questione l’avvenimento del mondo. In Luzi la domanda è la struttura dell’essere umano. Nessun altro gesto più del vivere domandando dimostra la profondità e l’irriducibilità del fenomeno umano, del suo essere “mancanza” e coscienza acuta di tale mancanza. Un senso di sproporzione, di malinconia che però è forza, non deprime. Una tristezza che aumenta l’impeto di impegno con le apparenze e con il profondo del vivere:

Di che è mancanza questa mancanza, cuore,

che a un tratto ne sei pieno?

di che?

Rotta la diga

t’inonda e ti sommerge

la piena della tua indigenza...

Viene, forse viene, da oltre te un richiamo

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che ora perché agonizzi non ascolti.

Ma c’è, ne custodisce forza e canto la musica perpetua... ritornerà.

Sii calmo.

La domanda umana mette in crisi ogni presunta certezza, anche la fede, dove invece che essere misterioso accordo con l’accadimento del mondo e con il suo mistero essa diviene schema, ideologia, impigrita percezione del reale. Non è una poesia consolatoria quella di Luzi, ma urgente. Spesso disorientante nel suo acume indefettibile: punta in alto (o in profondo, che è lo stesso), non si contenta di descrizioni, di facili sentimenti, di emozioni immediate. La poesia stessa è un evento, e mentre si compone con abilità artistica non perde il suo connaturato rischio ontologico: parole che legano all’essere o vanità...

Susine e radar. Le occasioni, i viaggi, le presenze, la donna (pivot della sua poesia, come ha scritto un acuto critico francese, cioè distributrice, movimentatrice del gioco...), sono indagate con la sincera tensione di scoprire a quale movimento segreto rimandano. La mente del poeta - la mens come intendono gli antichi, organo centrale della coscienza, non cervelluccio - è continuamente rapita oltre le apparenze, ma dalle apparenze guidata nell’inizio del viaggio. Pochi poeti ho visto gustare il mondo come Mario. Sentirne la presenza viva. Mi regalò per i miei piccoli - ero andato proprio in Val d’Orcia a trovarlo - una sporta di susine dolcissime. E ricordo, in una delle ultime cene fatte insieme poco prima della sua morte, come stupì e surclassò molti di noi commensali per allegria e appetito. Fu poeta attentissimo agli inizi, al germinare degli eventi persino minimi (stupenda una sua lunga poesia sul seme), grazie anche alla influenza esercitata dal pensiero di Teilhard de Chardin. Non aderì mai a una letteratura che non fosse “come vita”, fu civile in senso alto e ampio, rifiutò le lusinghe dell’ideologia come scrive nella magnifica Presso il Bisenzio. Patì e disse gli smarrimenti dell’amore (In due, o la poesia violenta e dolcissima che apre il postumo Autoritratto). Diede voce a passaggi gravi della storia (la poesia per il ritrovamento del corpo di Aldo Moro Acciambellato in quella sconcia stiva..., le crisi della democrazia). Accettò da Giovanni Paolo II l’incarico onorevole e duro di stendere una Via Crucis che uscì netta, odorosa, romanica. E scrisse per il teatro le inquietudini della figura di Ipazia (poi banalmente strumentalizzata di recente), o la vicenda di santa Rosalia per l’amata Palermo. Lesse con acume Rimbaud, san Paolo, l’Apocalisse, il vangelo di Giovanni. Stese pagine mirabili di lettura di altri poeti, da Dante a Montale. Fu disponibile ai più giovani fino alla morte. Alcuni organi laicisti di stampa non pubblicarono mai recensioni su di lui (anche Montale se ne guardò bene - aveva capito che Mario muoveva altrove dal radar del suo sornione scetticismo), se non per strumentalizzarlo politicamente dopo alcune sue prese di posizione da senatore a vita.

Non è amato dagli accademici, che preferiscono poeti più atti a essere smontati e ridotti a esercizio di stile. Qui troppa luce, o troppa ombra. Troppa vita. «Cantami qualcosa pari alla

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vita», aveva chiesto fin dall’inizio. Lo aveva supplicato il poeta tormentoso e lucente che ha voluto “con-fondersi” con il movimento del mondo - misterioso, attraente, drammatico, diventando lui stesso e la sua opera «vita fedele alla vita».

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