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La responsabilità ex D. Lgs. 231 del 2001 e le ipotesi di vicende modificative dell ente

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Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752 Direttore responsabile: Antonio Zama

La responsabilità ex D. Lgs. 231 del 2001 e le ipotesi di vicende modificative dell’ente

The liability provided by Legislative Decree 231 of 2001 and the hypotheses of events modifying the entity

03 Giugno 2021

Italia Caminiti, Stefano Solida

*Contributo sottoposto con esito positivo a referaggio secondo le regole della rivista

Abstract

Lo scritto si propone di analizzare come le vicende modificative dell’ente possano comportare, in alcuni casi e a determinate condizioni, il trasferimento sull’ente di nuova costituzione delle sanzioni pecuniarie e interdittive che dovrebbero essere applicate all’ente preesistente.

Esaminando le ipotesi di vicende modificative espressamente prese in considerazione dal legislatore e quelle sulle quali, invece, nel silenzio del D. Lgs. 231 del 2001, si è pronunciata la giurisprudenza, si vedrà che non sempre la costituzione di una nuova entità giuridica o lo scorporamento di un’attività da un ente preesistente ad una società terza comporta l’esenzione dalla responsabilità per gli illeciti amministrativi commessi dall’ente preesistente.

Addirittura, anche la cessazione di una società – per ragioni sia fisiologiche che patologiche – non implica de plano l’inapplicabilità delle sanzioni comminate all’ente durante l’esercizio della sua attività.

Le scelte del legislatore – e quelle della giurisprudenza nei casi di silenzio della normativa – restano di difficile lettura e certamente non vanno esenti da critiche e da problematiche applicative.

The paper is intended to analyze how the legal entity changes, may entail the transfer on the newly established legal entity of the administrative and interdictive sanctions which should be applied to the pre- existing legal entity, in some cases and under certain conditions.

Analyzing the changes cases expressly considered by the Law and the ones on which, being silent the Legislative Decree 231 of 2001, case law has ruled, we’ll see that the establishment of a new legal entity or the activity spin off by a pre-existing legal entity to a third company entails the exemption from the liability for the administrative violations committed by the pre-existing entity.

Even the termination of a Company – due both to physiological and pathological reasons – doesn’t implicate the inapplicability de plano of the sanctions imposed to the legal entity during its activity.

The lawmaker choices – or the judicial decisions, in case of Law silence -remain difficult to read and undoubtedly they are not exempt from criticism and application problems.

Sommario

1. Le vicende modificative dell’ente 1. La trasformazione

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2. La fusione 3. La scissione

4. La cessione e il conferimento di azienda

2. Le vicende modificative collegate alla cessazione dell’attività da parte dell’ente.

1. La liquidazione dell’ente 2. Il fallimento dell’ente.

Summary

1. The hypotheses of events modifying the entity 1. The Changes

2. The Merger 3. Merger

4. Sale and transfer

2. The hypotheses of events modifying the entity related to the termination of the activity by the entity a) Bankruptcy

b) Liquidation

1. Le vicende modificative dell’ente

Il D. Lgs. 231/2001, alla sezione II, Capo II, contiene la disciplina dedicata alle “vicende modificative dell’ente” ovvero a quelle operazioni societarie che investono la vita dell’ente sotto forma di

“riorganizzazioni strutturali che ne mutano, più o meno profondamente, i tratti fisionomici; o che addirittura ne provocano la formale ‘scomparsa’”[1]. Si tratta, in altri termini, di vicende societarie particolarmente complesse che stravolgono la struttura societaria e – soprattutto – organizzativa dell’ente non solo da un punto di vista formale ma, anche e soprattutto, sostanziale.

Per facilitare la comprensione dell’impatto che hanno le vicende modificative sulla responsabilità amministrativa degli enti, se da un lato è opportuno distinguere gli effetti di ogni singola operazione, dall’altro, è necessario tenere a mente che il principio che governa la materia impone che “ la responsabilità non debba mai comunicarsi ad altri enti, in un modo o nell’altro, diversi da quello cui l’illecito era originariamente imputabile”[2].

Tale principio – che rappresenta, a parere degli scriventi, l’esplicazione del principio di colpevolezza di derivazione penalistica – combinato con le singole peculiarità delle vicende modificative, consente all’interprete di orientarsi in un mondo giuridico particolarmente ostico, non solo per la fisiologica complessità tecnica della materia, ma soprattutto perché – per ciò che attiene la prospettiva strictu sensu penalistica – all’esito del processo di modifica dell’ente, non è escluso – come si dirà nel prosieguo – che in presenza di reati presupposto commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente, questi potrebbe essere destinatario di un rimprovero ai sensi del D. Lgs. 231/2001.

Da qui nasce la necessità di comprendere, oltre che la dinamica normativa che individua l’ente destinatario del rimprovero, anche i presidi e i dovuti accorgimenti che – in via preventiva – devono essere oggetto di un rigoroso vaglio (anche) in chiave 231, onde evitare che, come detto, all’esito di un’operazione societaria, l’ente che ne deriva possa essere esposto al pericolo di una sanzione interdittiva o pecuniaria tra quelle previste dal Decreto.

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Le operazioni societarie di trasformazione, fusione e scissione richiedono lo sviluppo di un vero e proprio procedimento che, a seconda della specifica vicenda modificativa, risulta essere più o meno complesso. Se per lungo tempo è prevalsa la tesi secondo la quale si trattasse di vicende di tipo estintivo, al contrario – oggi – sono pacificamente considerate vicende che agiscono a livello organizzativo, sulla base del principio di continuità aziendale: un principio che va, senza ombra di dubbio, letto – per ciò che qui interessa – nella prospettiva della disciplina del D. Lgs. 231/2001.

a. La trasformazione

La trasformazione, disciplinata dagli artt. 2498 e ss c.c., è uno degli strumenti di autonomia privata volto a consentire adattamenti dell’assetto organizzativo sulla base delle esigenze societarie e comporta sostanzialmente la modifica dell’atto costitutivo. La trasformazione – che richiede il rispetto di un procedimento ad hoc – è attuata a seguito di un’apposita delibera assembleare e produce un mutamento del tipo di società in altro tipo di società o in ente non societario. Al fine di una corretta disamina degli effetti della trasformazione in chiave 231 è necessario rammentare che la regola cardine che sorregge l’istituto de quo è la continuità dei rapporti giuridici sancita dall’art. 2498 c.c. a mente del quale “ con la trasformazione l’ente trasformato conserva i diritti e gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti anche processuali dell’ente che ha effettuato la trasformazione”.

La trasformazione, quindi, non comporta un mutamento dell’identità del soggetto giuridico che, come visto, accede a tutti i rapporti giuridici pre-esistenti all’operazione societaria, di talché – anche nella prospettiva del D. Lgs. 231/2001 – nel caso di trasformazione, “resta ferma la responsabilità [dell’ente]

per i reati commessi anteriormente alla data in cui la trasformazione ha avuto effetto” (cfr. art. 28 del D.

Lgs. 231/2001).

Da un punto di vista pratico, gli effetti della trasformazione sul piano 231 sono molto semplici non essendo intaccata l’identità[3] dell’ente post-trasformazione quanto, piuttosto, l’assetto organizzativo . In questa ottica, il legislatore del 2001 ha optato per una “traslazione” di responsabilità dell’ente per i fatti commessi prima dell’operazione societaria e, pertanto, all’ente trasformato si applicheranno sia le sanzioni interdittive sia quelle pecuniarie che la confisca di cui all’art. 19 del D. Lgs. 231/2001.

Ai sensi dell’art. 27, comma 1, del D. Lgs. 231/2001, in ogni caso, i soci non sono responsabili solidalmente dei debiti dell’ente per le sanzioni amministrative eventualmente irrogate in virtù dell’applicazione del D. Lgs. 231/2001; norma, quest’ultima, che si pone in evidente discontinuità rispetto agli artt. 2500-quinquies e 2500-sexies, comma 4, c.c. che sanciscono la responsabilità personale dei soci per le obbligazioni sorte prima della vicenda modificativa.

Nonostante la linearità e semplicità dell’istituto della trasformazione – rispetto alle altre operazioni societarie in disamina – ci si potrebbe trovare al cospetto di alcune particolari ipotesi che potrebbero dare luogo a fenomeni elusivi della responsabilità ai sensi del D. Lgs. 231/2001.

Su questo aspetto è fondamentale premettere che la trasformazione può essere “omogenea” o “eterogenea”.

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In caso di “trasformazione omogenea”, la vicenda riguarderà il mutamento da un tipo ad un altro tipo di ente, pur restando nell’ambito delle c.d. “società lucrative”. Il codice civile, infatti, regola espressamente la trasformazione da società di persone in società di capitali, ex art. 2500-ter c.c., e da società di capitali in società di persone, ex art. 2500-sexies c.c.. È, inoltre, ammesso, senza dubbio, il passaggio da una società di persone ad un’altra o da una società di capitali ad un’altra. In questi casi, resta ferma, come visto, la responsabilità dell’ente trasformato per i reati commessi anteriormente alla data in cui la trasformazione ha avuto effetto (cfr. art. 28 del D. Lgs. 231/2001).

La linearità del quadro testé descritto potrebbe, invece, risentire in relazione ad alcune particolari ipotesi di c.d. “trasformazioni eterogenee” che si verificano – in via generale – quando si passa da una società lucrativa ad una società mutualistica ovvero a un ente non societario o, ancora, a una

“comunione d’azienda”.

L’art. 2500-septies c.c. prevede espressamente la disciplina della trasformazione da una società di capitali in consorzi, società consortili, società cooperative, comunioni di azienda, associazioni non riconosciute e fondazioni; ciononostante parte della dottrina notarile ammette – in questo caso – anche il passaggio di una società di persone in un ente non societario, seppur non disciplinato espressamente dalla legge[4]

. È consentita altresì la trasformazione di società cooperative in società lucrative o in consorzi (art. 2545- decies c.c. e art. 2545-undecies c.c.) e di consorzi, società consortili, comunioni di azienda, associazioni riconosciute e fondazioni in società di capitali (art. 2500-octies c.c.), pur prevalendo un orientamento interpretativo della dottrina a favore di una tassatività dei casi di trasformazione specificamente regolati[5].

Qualora, però, si voglia aderire alla tesi di senso contrario, si potrebbe verificare un apparente dubbio interpretativo in relazione al quadro normativo delineato dall’art. 28 del Decreto, nelle ipotesi di

“trasformazione eterogenea” c.d. “regressiva”: si pensi al caso di trasformazione da società unipersonale a impresa individuale, oggetto di un acceso dibattito dottrinale.

Sul punto, è opportuno rilevare – come anticipato – che una corrente maggioritaria[6] ritiene non ammissibili tutte quelle trasformazioni non espressamente tipizzate dalla legge, attribuendo alla disciplina codicistica un valore tassativo; tesi che, peraltro, trova conferma nella giurisprudenza di legittimità. In senso contrario, invece, si è espresso il Consiglio Nazionale Notarile[7] che, vice versa, ha manifestato un favor nei confronti della trasformazione da società unipersonale a impresa individuale. A sostegno dell’ammissibilità di tale forma di trasformazione, autorevole dottrina[8], peraltro, fornisce oggi alcune condivisibili argomentazioni, tra le quali, prima fra tutte, il rispetto di uno dei principi cardini dell’ordinamento: il principio di economicità dei mezzi giuridici. Infatti, è necessario considerare che, nel caso in cui si volesse concludere per la non applicabilità della disciplina di cui agli artt.

2498 e ss. c.c. sulla trasformazione – che ammette un mutamento del tipo di ente in via diretta – bisognerebbe ricorrere ad un procedimento “indiretto”, che passa necessariamente dallo scioglimento della società e vede la prosecuzione dell’attività in forma individuale. Questa ipotesi, però, rappresenta certamente uno strumento più gravoso per l’autonomia privata, poiché non permette l’applicazione della regola della continuazione dei rapporti giuridici, di cui all’art. 2498 c.c.

Posto che il codice civile non fornisce, in realtà, una definizione della “trasformazione” – che è, però, genericamente e concordemente intesa come il cambiamento da un tipo di ente ad un altro – quanto unicamente una disciplina sugli “effetti”, la dottrina a sostegno di questa chiave ermeneutica ritiene che il decalogo delle diverse tipologie di trasformazione non sia tassativo, ma sia il frutto di una scelta imposta dalla legge delega.

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In tal senso, perciò, e tenuto conto che non è rinvenibile neppure una definizione giuridica di “ente”, siffatto orientamento si fonda sull’assunto per cui “ente” – inteso quale modello organizzativo dell’attività imprenditoriale svolta con metodo economico – sia anche l’impresa individuale[9].

Alla luce delle considerazioni finora esposte, in tema di responsabilità ex D. Lgs. 231/2001, sono prospettabili due possibili scenari, nessuno dei quali, in ogni caso, teso a sfuggire alle disposizioni del Decreto e, soprattutto, alla ratio ad esse sottesa.

Infatti, da un lato, qualora si propendesse per la non applicabilità dell’istituto della trasformazione al caso in esame, l’alternativa imposta dalla legge sarebbe lo scioglimento della società e ciò al fine di consentire agli ex-soci di intraprendere eventualmente un’attività di impresa in forma individuale . Ne deriva che, nell’ambito della responsabilità ex D. Lgs. 231/2001, non potranno applicarsi gli orientamenti giurisprudenziali relativi alla liquidazione, della quale si dirà infra.

Se, invece, si aderisse alla prospettiva opposta, che ritiene ammissibile la trasformazione da società ad impresa individuale – in ossequio al principio di economicità sopra citato – gli effetti prodotti sarebbero quelli tipici della trasformazione – appunto – e, quindi, ai sensi dell’art. 2498 c.c., la continuazione dei rapporti giuridici.

Quale diretta conseguenza, allora, all’ente risultante, sub specie impresa individuale, deve ritenersi applicabile l’art. 28 del D. Lgs. 231/2001[10]: l’impresa individuale, pertanto, risponderà – a parere di chi scrive – per gli illeciti commessi prima della trasformazione. Una soluzione che solo apparentemente sembra in contrasto con la giurisprudenza che ha escluso dai destinatari del Decreto le imprese individuali. Quanto proposto, infatti, trova conforto nel già menzionato art. 2498 c.c., a mente del quale l’ente che risulta dalla trasformazione conserva tutti i diritti e gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti anche processuali dell’ente pre-esistente (i.e. permane l’attività nel cui ambito il reato presupposto era stato commesso).

L’esempio consente, al di là di un effettivo riscontro applicativo, di comprendere come le peculiari discipline in disamina – quella societaria relativa alla trasformazione e quella propria del D. Lgs.

231/2001 – possono intersecarsi e porre spunti di riflessione sulla tenuta del “Sistema 231”

. Non v’è dubbio che l’art. 28 del D. Lgs. 231/2001 potrebbe trovare un ostacolo applicativo nel caso si aderisse all’orientamento più risalente che, come visto, non consente di parlare di trasformazione: in questa ipotesi, infatti, l’applicazione delle sanzioni per i fatti commessi prima dell’operazione societaria, atteso il passaggio “obbligato” dello scioglimento dell’ente, ci si ritroverebbe dinanzi al paradosso di doversi confrontare con il vuoto normativo del Decreto con riferimento alla liquidazione di cui si dirà infra § 2.1.

b. La fusione

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Tra le vicende modificative dell’ente, la fusione è quella che certamente tipizza maggiormente il principio di continuità aziendale, così assumendo notevole importanza sotto il profilo delle implicazioni ex D. Lgs.

231/2001. La fusione è definita come una concentrazione giuridica, tramite aggregazione, di due o più società “che si fondono” in un’unica entità e, in questa ottica, si caratterizza per un procedimento assai più complesso rispetto a quello visto per la trasformazione e che può assumere differenti connotati giuridici. Procedimento che, in estrema sintesi, prevede l’approvazione, da parte dell’assemblea delle società partecipanti, del progetto di fusione redatto dai rispettivi organi amministrativi oltre che un periodo di opposizione per i creditori. Se l’opposizione viene respinta o non proposta in tempo utile, l’atto di fusione si perfeziona e dal momento dell’iscrizione nel registro delle imprese iniziano a decorrere gli effetti dell’operazione societaria.

Come noto, la fusione può avvenire attraverso la costituzione di una nuova società in sostituzione delle società coinvolte (c.d. fusione in senso stretto) ovvero tramite l’assorbimento delle società coinvolte in una società già esistente (c.d. fusione per incorporazione). Vale la pena di sottolineare che la fusione può avvenire tanto tra società del medesimo tipo quanto tra società di tipi diversi, ma in questo ultimo caso, si assiste altresì alla trasformazione di una o più società interessate; restano perciò applicabili, in tale ipotesi, le considerazioni di cui si è detto a proposito della trasformazione.

Un particolare tipo di fusione – di derivazione statunitense – è la c.d. acquisizione con indebitamento (c.d. “leveraged by out”), prevista e disciplinata dall’art. 2501-bis c.c.. Il levereged by out (detto anche

“LBO”) è un’operazione tesa all’acquisto di una partecipazione rilevante (totalitaria o di controllo) di una società c.d. “obiettivo” (o più comunemente “società target”), tramite la costituzione di una società costituita ad hoc (c.d. NewCo). L’operazione di acquisizione viene realizzata attraverso il ricorso al finanziamento (i.e. leverage). Una volta acquisito il controllo della società obiettivo, la NewCo delibera la fusione per incorporazione della società obiettivo e il debito scaturente dal finanziamento viene rimborsato attraverso il patrimonio ovvero con gli utili realizzati dalla società target.

Il levereged by out ha visto la propria affermazione – dopo un iniziale dibattito dottrinale fondato sulla legittimità dell’operazione in forza della disposizione di cui all’art. 2358 c.c. che sancisce un generale divieto di ricorrere alla leva finanziaria per l’acquisto di partecipazioni detenute dalla società – con l’introduzione dell’art. 2501-bis a mente del quale “Nel caso di fusione tra società, una delle quali abbia contratto debiti per acquisire il controllo dell'altra, quando per effetto della fusione il patrimonio di quest'ultima viene a costituire garanzia generica o fonte di rimborso di detti debiti, si applica la disciplina del presente articolo.

Il progetto di fusione di cui all'articolo 2501-ter deve indicare le risorse finanziarie previste per il soddisfacimento delle obbligazioni della società risultante dalla fusione.

La relazione di cui all'articolo 2501-quinquies deve indicare le ragioni che giustificano l'operazione e contenere un piano economico e finanziario con indicazione della fonte delle risorse finanziarie e la descrizione degli obiettivi che si intendono raggiungere”.

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Come osservato da autorevole dottrina, durante i lavori preparatori al D. Lgs. 231/2001, era consolidata una giurisprudenza di legittimità che riteneva la fusione una sorta di “successione universale tra enti, assimilabile alla successione mortis causa. La fusione avrebbe comportato, cioè, l’estinzione delle società partecipanti (nel caso di fusione “propria”, vale a dire mediante costituzione di una nuova società) o della società incorporata (nel caso di fusione per incorporazione in una società preesistente) ed il trasferimento di tutti i rapporti giuridici di cui le società estinte erano titolari ad un diverso soggetto (rispettivamente, la nuova società risultante dalla fusione o l’incorporante)”[11]. Dopo la riforma del 2003, con l’introduzione del nuovo art. 2504-bis, comma 1, c.c., si è definitivamente stabilito che la fusione comporta – al pari della trasformazione – la prosecuzione, da parte della società risultante dalla fusione (o incorporante), di tutti i rapporti, anche processuali, facenti capo alle società partecipanti, così palesando il principio di continuità aziendale riferito all’ente-risultato della fusione. È proprio sul principio di continuità aziendale che, infatti, si ispira l’art. 29 del D. Lgs. 231/2001 il quale stabilisce che “Nel caso di fusione, anche per incorporazione, l’ente che ne risulta risponde dei reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti alla fusione”: la responsabilità per i reati commessi nell’ambito di soggetti giuridici che partecipano alla fusione ricade, dunque, sull’ente che risulta dalla fusione stessa.

La fusione e, in particolare, il levereged by out sono operazioni perfettamente fisiologiche che, purtuttavia, per la loro complessità e per la loro struttura, hanno destato qualche preoccupazione nella dottrina ma anche nel legislatore del 2001 che, proprio con riferimento alle vicende modificative dell’ente, ha ritenuto che il Decreto avrebbe dovuto contemperare due esigenze contrapposte: “da un lato, quella di evitare che tali operazioni si risolvano in agevoli modalità di elusione della responsabilità; dall'altro, quella di escludere effetti eccessivamente penalizzanti, tali da porre remore anche ad interventi di riorganizzazione privi degli accennati intenti elusivi”[12]. Nei lavori preparatori al D. Lgs. 231/2001, quindi, era già insito il timore del legislatore che, nei meandri delle articolate operazioni di riorganizzazione societaria, si potessero annidare intenti elusivi e – addirittura – di occultamento di comportamenti illeciti di natura societaria. Per tale ragione, la risposta sanzionatoria sul versante 231, se da un lato si è incentrata sul concetto di “continuità aziendale” quale presupposto per la codificazione di un deterrente – la responsabilità è traslata sull’ente risultato della fusione – dall’altro si è ispirata all’idea che gli enti partecipanti alla vicenda modificativa tenessero bene a mente i risvolti negativi di eventuali illeciti commessi ante fusione.

Il deterrente nella disciplina de qua è rappresentato dai risvolti patrimoniali che seguono all’accertamento di responsabilità per l’ente che risulta dalla fusione. Non si fa qui riferimento alle sole sanzioni amministrative secondo il calcolo “per quote” tipico del sistema 231, ma anche alla previsione di sanzioni interdittive che colpiscono il “nuovo” ente, limitandone fortemente l’operatività.

Proprio la risposta sanzionatoria prevista dal D. Lgs. 231/2001 può provocare nel corso dell’operazione societaria un impatto patrimoniale notevole soprattutto nella fase di due diligence svolta sotto il profilo 231.

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Sul punto si rimanda alla lucida disamina del Dott. Napoleoni[13], che ha analizzato gli impatti delle conseguenze patrimoniali del procedimento di accertamento della responsabilità dell’ente su un’operazione societaria di fusione, mostrando come tale accertamento “abbia anche riflessi di ordine civilistico sullo svolgimento dell’operazione. Le conseguenze patrimoniali di detta responsabilità – anche quando il relativo accertamento fosse ancora in corso – divengono, infatti, un elemento di cui occorre tener conto (potendo ridurre in modo non trascurabile il valore del patrimonio netto delle società interessate) nella fissazione del rapporto di cambio tra le azioni o quote delle società partecipanti e quelle della società risultante dalla fusione: con correlato obbligo di puntuale informazione, al riguardo, sia dei soci interessati che degli esperti chiamati ad esprimere il parere sulla congruita? del predetto rapporto ai sensi dell’art. 2501-sexies c.c.. Inoltre, ove il rischio della condanna emergesse – ad esempio, a seguito della sopravvenuta contestazione dell’illecito (art. 59, d.lgs. 231/2001) – solo nel corso del procedimento di fusione, potrebbe scaturirne, oltre all’esigenza di rivedere il rapporto di cambio gia? stabilito, anche l’obbligo degli amministratori di interrompere il procedimento, astenendosi dalla stipulazione dell’atto di fusione per sottoporre ai soci un progetto opportunamente modificato o addirittura, nei casi piu?

gravi, per proporre la revoca della decisione di fusione (art. 2502 c.c.)”.

L’opportuna considerazione testé riportata consente un’ulteriore riflessione incentrata, da un lato, sulla necessità di un’accurata due diligence in chiave 231, preventiva rispetto all’operazione societaria e, dall’altro, sulla previsione nel modello organizzativo di flussi informativi “ad evento” all’Organismo di Vigilanza in caso di avvio di un’operazione societaria di fusione.

La due diligence – che rappresenta un valido strumento di valutazione circa l’opportunità di procedere alla fusione, stante le conseguenze patrimoniali che ne potrebbero scaturire – dovrà avere ad oggetto innanzitutto un’indagine volta alla ricerca di reati, non ancora emersi, commessi nell’ambito delle realtà che partecipano alla fusione, oltre che una valutazione sul grado di rischio reato derivante dalle pratiche gestionali e procedurali di tali enti partecipanti.

Un primo passo da compiere è rappresentato certamente dalla richiesta del c.d. “Certificato dell’anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dell’anagrafe dei carichi pendenti degli illeciti amministrativi dipendenti da reato” ex art. 31 e ss. del DPR 313/2014, seguito dall’accertamento circa l’adempimento, da parte delle società partecipanti alla fusione, di quanto richiesto dal D. Lgs. 231/2001: presenza di un modello di organizzazione e gestione (c.d. MOG) e di una sua effettiva applicazione.

c. La scissione

La normativa che il D. Lgs. 231/2001 ha dedicato alla scissione ricalca quella vista per la fusione, con alcuni correttivi dovuti alla diversa – e più complessa – struttura dell’operazione societaria.

Giova premettere, innanzitutto, che la scissione è quella particolare operazione societaria in cui il patrimonio della società viene assegnato – in tutto o in parte – in una o più società, anche di nuova costituzione, e le azioni o le quote delle società beneficiarie sono acquistate dai soci della società scissa . Se il patrimonio della società scissa viene assegnato interamente alla società beneficiaria (o a più società beneficiarie), si avrà la c.d. “scissione totale”, diversamente, invece, se viene trasferita alla società beneficiaria solo una porzione di patrimonio, si avrà la c.d. “scissione parziale”[14].

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La differenza tra scissione totale e parziale riflette una diversa operatività della norma del D. Lgs. 231/2001 dedicato a questa particolare vicenda modificativa. Nel caso di scissione parziale, infatti, l’art. 30 del D.

Lgs. 231/2001 prevede che “resta ferma la responsabilità dell’ente scisso per i reati commessi anteriormente alla data in cui la scissione ha avuto effetto”. L’ente scisso che, nel caso di scissione parziale, continua a vivere di luce propria è responsabile per i reati commessi – nel suo ambito – in epoca anteriormente all’operazione di scissione, fatta salva – con le implicazioni di cui si dirà a breve – della parziale applicazione delle sanzioni interdittive (cfr. art. 30, comma 3 del D. Lgs. 231/2001).

Tuttavia, differentemente da quanto visto per le altre vicende modificative e, comunque, a prescindere dalla tipologia di scissione, sugli enti beneficiari permane l’obbligo del pagamento – in via solidale – delle sanzioni pecuniarie dovute dall’ente scisso per i reati commessi prima della scissione (cfr. art. 30, comma 2 del D. Lgs. 231/2001), entro il limite del patrimonio netto trasferito agli enti beneficiari. Tuttavia, tale obbligo viene meno se all’ente beneficiario “è stato trasferito, anche in parte il ramo di attività nell’ambito del quale è stato commesso il reato” (cfr. art. 30, secondo periodo del comma 2 del D. Lgs. 231/2001).

Il cardine della disciplina della scissione è, quindi, il concetto di “ramo di attività”. Non solo questi assurge, infatti, a parametro per l’individuazione dell’ente “colpevole” – e, quindi, destinatario della disciplina specifica appena richiamata – ma, parimenti, è vero e proprio indice della continuità dell’ente.

Anche sotto il profilo delle sanzioni interdittive, come anticipato, relative ai reati commessi nell’interesse e a vantaggio dell’ente, il trasferimento del “ramo di attività” all’ente beneficiario è l’elemento che attrae su tale soggetto l’applicazione di tali sanzioni.

Sul punto, è necessario rilevare come però sia del tutto assente, nel nostro ordinamento, un chiaro riferimento normativo e descrittivo del “ramo di attività”; circostanza che si traduce inesorabilmente in una difficoltà oggettiva di identificare l’ente su cui ricade, nei termini appena visti, la relativa responsabilità, con buona pace della determinatezza e chiarezza del precetto[15].

È oramai opinione condivisa in dottrina, difatti, che il “ramo di attività” – seppur nella sua indeterminatezza – non vada confuso con il “ramo d’azienda”, ma debba piuttosto intendersi come la componente umana di un particolare settore organizzativo[16] o di una sua funzione aziendale (a titolo esemplificativo, pubbliche relazioni, vendite, acquisti, marketing), nei cui ambiti è stato commesso il reato prodromico all’applicazione del D. Lgs. 231/2001.

Stante l’assoluta indeterminatezza dell’espressione “ramo di attività”, non si può che aderire alla concezione umanistica della locuzione, così andando a rintracciare, all’esito della scissione, la particolare funzione aziendale traslata sull’ente beneficiario, nel cui contesto è stato commesso l’illecito. Muovendo da tale considerazione, quindi, è opportuno – al pari di quanto rappresentato per la fusione – procedere ad una due diligence ancor più stringente, che tenga conto anche della mappatura delle aree di rischio della funzione aziendale (i.e. ramo di attività) che viene trasposta con la scissione, nonché ad un controllo capillare sulle procedure del MOG attuate (o eventualmente implementate o, addirittura, ritenute non efficaci giudizialmente) prima del compimento della vicenda modificativa.

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Non solo, a parere degli scriventi, seppur consci della complessità oggettiva che caratterizza l’operazione di scissione e pur condividendo le scelte operate dagli estensori del D. Lgs. 231/2001, appare del tutto evidente e auspicabile, sul punto, un intervento chiarificatore del legislatore. Ciò in quanto, pur condividendo la scelta di estendere, da un punto di vista sostanziale, il pagamento della sanzione pecuniaria ex D. Lgs. 231/2001 ai soggetti giuridici cui è stato trasferito il comparto aziendale patologico, non si può non rilevare come tale scelta possa prestare il fianco a comportamenti elusivi della normativa di cui al D. Lgs. 231/2001. In questa prospettiva, infatti, si è osservato come, nel caso di smembramento[17] del “ramo di attività” nel cui ambito è stato commesso il reato, prima dell’operazione di scissione, si determinerebbe un cortocircuito del sistema e una conseguente incertezza della pretesa punitiva. Un’ulteriore difficoltà si potrebbe rinvenire nell’eventualità – non rara – che la complessità della scissione – che ben potrebbe essere a sua volta caratterizzata da altre vicende modificative – faccia “saltare gli schemi” di controllo e consenta un occultamento di fatto patologico del “ramo di attività”

patologico.

d. La cessione e il conferimento di azienda

Giova ricordare che rientra nella cessione di azienda ogni negozio traslativo della proprietà dell’azienda o di un ramo di essa[18]: devono intendersi quali negozi traslativi della proprietà la vendita, la donazione, la permuta, la datio in solutum, l’assegnazione ai soci a titolo di distribuzione di riserve o di utili in natura e – in senso estensivo – anche il conferimento di azienda.

Sono, invece, esclusi i negozi giuridici che comportino il trasferimento del solo diritto di godimento dell’azienda, quali l’affitto o l’usufrutto, poiché in tali casi la proprietà dell’azienda resta in capo ai titolari originari[19]: è evidente, peraltro, come in queste ultime ipotesi non si ponga alcun problema in merito alla possibilità di applicare eventuali sanzioni pecuniarie o interdittive comminate ai sensi del D.

Lgs. 231 del 2001 a carico dell’ente, essendo la sua struttura rimasta invariata, sia sotto il profilo oggettivo che sotto il profilo soggettivo.

Devono ritenersi, parimenti, esclusi i cc.dd. trasferimenti indiretti di azienda, che si perfezionano per effetto della cessione delle azioni o delle quote della società titolare dell’azienda: in tal caso, infatti, si verifica un avvicendamento nella proprietà e non una cessione in senso tecnico[20].

Quanto alla nozione di azienda, in questo caso, a differenza che per il riferimento al “ramo di attività”

indicato per la scissione, è possibile fare ricorso ad un preciso canone ermeneutico, rappresentato dall’art.

2555 c.c., secondo cui “L’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”: sul tema, giova ricordare che in dottrina si contrappongono la tesi cd. restrittiva, che esclude dal novero dei “beni organizzati” i rapporti giuridici che possono essere trasferiti (p. es., i rapporti di lavoro, i contratti, i crediti e i debiti), e la tesi omnicomprensiva, che invece rende parte dell’azienda anche i predetti rapporti, che esulano dai beni giuridici in senso stretto[21].

L’art. 33 del D. Lgs. 231 del 2001 disciplina espressamente l’ipotesi di cessione o conferimento di un’azienda nel cui ambito debba essere applicata una sanzione a seguito di condanna per illecito amministrativo e, con riferimento all’ipotesi della sanzione pecuniaria, prevede la preventiva escussione del cedente e l’obbligazione solidale del cessionario[22], nei limiti del valore dell’azienda ceduta.

(11)

Con riferimento alla preventiva escussione del cedente, essa è stata identificata con l’avvenuto esito negativo di un’azione esecutiva nei confronti di tale soggetto: occorre, dunque, un quid pluris rispetto alla dimostrazione dell’insufficienza del suo patrimonio[23].

L’art. 33, comma 2 del D. Lgs. 231 del 2001, inoltre, stabilisce una ulteriore garanzia per il cessionario, il quale risponde soltanto per le sanzioni pecuniarie che risultino dai libri contabili obbligatori o per quelle dovute per illeciti amministrativi di cui egli sia a conoscenza.

La dottrina ha ravvisato che la disposizione di cui all’art. 33 non trovi applicazione nel caso di “ trasferimenti coattivi della proprietà dell’azienda attuati nell’ambito di procedure concorsuali (e, in particolare, di procedura a carattere liquidatorio: fallimento, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria ad indirizzo liquidativo) ovvero di procedure esecutive individuali

”, sulla base dell’evidenza che la norma abbia come presupposto solo alienazioni a carattere volontario e negoziale[24].

Quanto al fondamento giuridico della disposizione, è stato condivisibilmente affermato che la stessa “ risponde fondamentalmente … alla medesima ratio di tutela del credito che alita alla base del generale disposto dell’art. 2560, comma 2, c.c. in tema di responsabilità del cessionario per i debiti inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta anteriori al trasferimento”[25]: norma secondo cui “nel trasferimento di un’azienda commerciale risponde dei debiti suddetti” (i.e., quelli “inerenti l’esercizio dell’azienda ceduta anteriori al trasferimento”) “anche l’acquirente dell’azienda se essi risultano dai libri contabili obbligatori

”[26].

Dal dettato normativo consegue – poiché su tale aspetto il legislatore nulla dispone – che non sono applicabili al cessionario le sanzioni interdittive (neppure in fase cautelare)[27], né possono essere disposti nei confronti del cessionario il sequestro (in via cautelare) o la confisca (in via definitiva) del profitto del reato[28].

Inoltre, la posizione di coobbligato in solido del cessionario rispetto al cedente (nei limiti specificati dal legislatore) rende possibile che il cessionario possa intervenire nel processo incardinato ex D. Lgs. 231 del 2001 come responsabile civile o come civilmente obbligato per la pena pecuniaria[29].

Con riferimento al “valore dell’azienda ceduta”, limite posto dal legislatore per la responsabilità del cessionario, secondo la dottrina, tale locuzione deve intendersi relativa non al prezzo di vendita o di cessione, ma al valore reale dell’azienda, ossia al valore al quale l’azienda sarebbe stata ceduta se fossero stati applicati i criteri di mercato[30].

La previsione normativa nasce – così come specificato nella Relazione Governativa al D. Lgs. 231 del 2001 [31] – per evitare di comprimere troppo la libertà e la certezza delle operazioni commerciali, a fronte del ruolo di mera vicenda patrimoniale attribuita alla cessione di azienda[32], che a differenza di altre operazioni, come la fusione o la scissione, non ha riflessi sull’identità dell’ente cedente, che resta comunque in vita e, quindi, può essere dichiarato responsabile dell’illecito amministrativo ad esso ascritto [33]: tuttavia, è evidente come la maggior tutela del cessionario sia accompagnata da evidenti rischi.

Un primo rischio è rappresentato dal fatto che – a seguito di un negozio traslativo della proprietà – un bene per definizione tangibile come l’azienda venga sostituito con un bene volatile, come il suo equivalente in denaro e sia quindi possibile con maggiore facilità per il cedente rendersi incapiente ai fini sia dell’applicazione della sanzione pecuniaria che della confisca del profitto. Ne discende che potrebbero derivare maggiori difficoltà nell’esecuzione di entrambe le misure sanzionatorie[34].

(12)

Un secondo rischio è costituito dalla possibilità che la cessione o il conferimento dell’azienda siano utilizzati strumentalmente per elidere l’applicazione delle sanzioni interdittive, procedendo al trasferimento dell’azienda nel cui ambito è stato commesso il reato ad una società di nuova costituzione[35]

.

Un correttivo a tale possibilità di utilizzo strumentale della cessione o del conferimento di azienda potrebbe essere rappresentato dall’introduzione di una deroga alla norma di cui all’art. 33 D. Lgs. 231 del 2001, attraverso la previsione della possibilità di applicare la sanzione interdittiva, nel caso in cui si sia verificata una cessione o un conferimento di azienda, ma quest’ultima sia rimasta nella sfera di influenza dell’originario responsabile (p. es., nel caso di cessione infragruppo), sulla scorta del fatto che le sanzioni stesse si riferiscono alla specifica attività o al “ramo di attività” nel cui ambito si è verificato l’illecito ex D. Lgs. 231 del 2001[36].

Venendo, infine, ai riflessi pratici discendenti dalla norma esaminata, certamente assume – anche in questo caso, come per tutte le vicende modificative dell’ente – un’importanza centrale lo svolgimento di un’attenta due diligence: in particolare, in fase preliminare al perfezionamento del negozio di cessione, le verifiche del cessionario dovranno avere ad oggetto sia il bilancio, per accertare la presenza di eventuali appostazioni contabili relative a sanzioni pecuniarie, sia la pendenza di eventuali procedimenti ex D. Lgs.

231 del 2001, ma dovranno riguardare altresì le segnalazioni ricevute dall’Organismo di Vigilanza nel corso degli ultimi anni, le eventuali investigazioni interne condotte, i verbali delle riunioni dell’Organismo di Vigilanza e le relazioni da quest’ultimo redatte, nonché la formazione svolta in materia di responsabilità amministrativa degli enti[37].

La due diligence, in un’ottica particolarmente prudente, potrebbe anche spingersi all’esame del Modello di Organizzazione vigente.

Una forma di tutela ulteriore per il cessionario potrebbe essere, inoltre, l’inserimento nel contratto che disciplina la cessione di specifiche clausole a garanzia del soggetto che subentra nella proprietà dell’azienda ceduta, che nella generalità dei casi risulta la parte debole[38].

2. Le vicende modificative collegate alla cessazione dell’attività da parte dell’ente.

Contrariamente a quanto visto per le vicende modificative dell’ente collegate ad operazioni straordinarie, il legislatore nulla ha previsto con riferimento alla cessazione dell’attività da parte dell’ente: non vi è, quindi, alcuna disposizione normativa che disciplini il caso in cui debbano applicarsi delle sanzioni per un illecito amministrativo ex D. Lgs. 231 del 2001 ad un ente che non sia più operativo, per ragioni fisiologiche (liquidazione) o patologiche (il fallimento).

Sul punto, infatti, l’art. 67 del D. Lgs. 231 del 2001 non contempla – tra i presupposti per l’emissione di una sentenza di non luogo a procedere – l’avvenuta estinzione dell’ente: il tema resta, quindi, affidato alla dottrina e alla giurisprudenza, che hanno affrontato partitamente il caso della liquidazione dell’ente e quello del fallimento.

Le due ipotesi sono accomunate dal fatto che viene meno il soggetto destinatario delle eventuali sanzioni, ma hanno trovato soluzione di carattere diverso.

a. La liquidazione dell’ente

(13)

Con riferimento all’ipotesi di fisiologica liquidazione dell’ente, il tema è stato affrontato dalla giurisprudenza di merito, che – valutando ovvia l’inapplicabilità delle sanzioni interdittive, per effetto dell’avvenuta cessazione dell’attività dell’ente – ha ritenuto di dover prendere come momento cardine per valutare l’applicabilità o meno delle sanzioni pecuniarie ex D. Lgs. 231 del 2001 quello della cancellazione della società dal registro delle imprese.

In particolare, il Tribunale di Torino, con la sentenza pronunciata il 2.1.2007, ha ritenuto di non dover procedere nei confronti di una società in nome collettivo che era stata cancellata dal registro delle imprese prima che venisse esercitata l’azione penale.

La norma su cui il Tribunale ha fondato la propria decisione è l’art. 2495, comma 2 c.c., secondo cui “ ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino a concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione”.

In altri termini, è al bilancio di liquidazione che bisogna fare riferimento: bilancio che, nel caso di specie, essendo stata la società cancellata dal registro delle imprese prima dell’esercizio dell’azione penale, non recava alcuna appostazione.

Pertanto, correttamente il Tribunale ha ritenuto che l’azione nei confronti della società non avrebbe dovuto essere iniziata, mentre, se la cancellazione fosse avvenuta dopo la sentenza definitiva di condanna, si sarebbe posta la questione di un’eventuale traslazione della sanzione pecuniaria a carico dei soci, nel caso in cui gli stessi dovessero aver ricevuto una somma all’esito della procedura di liquidazione[39].

In senso analogo, si è pronunciato più recentemente il Tribunale di Milano, con la sentenza del 20.10.2011: in particolare, il Tribunale meneghino ha affermato che la cancellazione della società dal registro delle imprese ha effetti costitutivi dell’irreversibile estinzione della società e non può, quindi, essere paragonata alla trasformazione o alla fusione o alla scissione dell’ente, né alla cessione di azienda; la trasformazione e la fusione, infatti, presuppongono una prosecuzione del soggetto giuridico sotto una diversa forma, mentre la scissione e la cessione presuppongono una vicenda modificativa dell’ente che estende le responsabilità per le obbligazioni nascenti dalla sentenza di condanna al cessionario dell’azienda, anche nell’ipotesi in cui quest’ultimo sia un soggetto estraneo alle vicende che hanno determinato la contestazione dell’illecito in capo alla società[40].

Il Tribunale ha precisato, inoltre, che le eventuali sanzioni comminate all’esito del giudizio di responsabilità risulterebbero inflitte inutilmente, non assolvendo, nel caso di estinzione della società, ad alcuna funzione retributiva o rieducativa; analoghe considerazioni valgono altresì per le sanzioni interdittive e per la confisca, in quanto le prime non raggiungerebbero alcuno scopo, essendo venuta meno l’operatività dell’ente, mentre la confisca sarebbe inutiliter data, in quanto non sussisterebbe un patrimonio sul quale far valere la relativa pretesa.

Pertanto, l’estinzione della società per liquidazione con avvenuta cancellazione dal registro delle imprese comporta, ai fini penali, l’estinzione dell’illecito amministrativo e la conseguente improcedibilità dell’azione penale, analogamente a quanto avviene nel processo penale nel caso di morte del reo: la conseguenza è quindi l’immediata pronuncia di una sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art.

129 c.p.p.

(14)

Si tratta di una conclusione certamente condivisibile e dettata – oltre che come visto da principi giuridici insiti nella stessa normativa – da indubbia ragionevolezza: non avrebbe alcun senso, infatti, sostenere i costi di un processo nei confronti di un ente che, in caso di condanna, essendo estinto, non avrebbe neppure le risorse per adempiere ad eventuali obbligazioni pecuniarie.

b. Il fallimento dell’ente

Necessariamente diverso rispetto al caso di estinzione fisiologica è quello del fallimento dell’ente: anche in questa ipotesi, il primo paragone che viene in mente è quello con la morte del reo, tuttavia la sovrapponibilità non è così semplice ed immediata.

Il fallimento, infatti, per lo meno in via astratta, non è un evento di per sé irreversibile ed è anche facilmente strumentalizzabile: basti pensare all’ipotesi dei soci che – certi dell’equiparazione del fallimento alla morte del reo – per non corrispondere le somme derivanti dall’applicazione di una sanzione ex D. Lgs. 231 del 2001, formulino un’istanza di fallimento in proprio.

Peraltro, un insormontabile ostacolo all’equiparazione del fallimento alla morte del reo sarebbe rappresentato dall’art. 14 delle Preleggi, che impedisce l’applicazione analogica delle norme sulle cause di estinzione del reato e della pena.

Resta, in ogni caso, aperto il tema su quale sia il soggetto che, in caso di condanna di un ente fallito, debba provvedere al pagamento delle somme previste a titolo di sanzione pecuniaria e alla messa a disposizione delle somme dovute a titolo di confisca.

Sul tema, sono intervenute numerose sentenze di legittimità – a partire da Cass., Sez. V, n. 44824 del 2012 [41] – che hanno tentato di rispondere all’interrogativo: in particolare, la sentenza da ultimo citata è intervenuta in riforma di una sentenza di non luogo a procedere pronunciata dal GUP di Roma, sulla scorta dell’equiparazione del fallimento alla morte del reo[42]. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto l’irrilevanza del fallimento quale causa di estinzione del reato e ha disposto il rinvio degli atti al GUP per un nuovo giudizio.

L’iter argomentativo della Corte di legittimità prende le mosse dal fatto che non vi è una previsione normativa che assimili il fallimento ad una causa di estinzione della responsabilità dell’ente e dal dato normativo secondo cui gli obblighi della società cessano solo con la cancellazione dal registro delle imprese, unico momento che decreta la cessazione dell’ente, il quale fino ad allora può anche ritornare in bonis[43], tanto che – proprio seguendo il paragone svolto dal giudice di prime cure con la morte del reo – il fallimento può essere equiparato ad una malattia, per il fatto che l’ente non si trova in una situazione irreversibile[44].

Ulteriore considerazione di carattere giuridico è quella secondo cui la dichiarazione di fallimento priva la società della disponibilità dei propri beni, ma non della proprietà degli stessi, che restano nella sfera di titolarità dell’ente fino alla conclusione della vendita fallimentare[45].

Seguendo questo percorso motivazionale, la Suprema Corte conclude che la celebrazione di un processo ex D. Lgs. 231 del 2001 a carico di un ente fallito non sarebbe antieconomica, in quanto la pretesa creditoria derivante dall’applicazione delle sanzioni pecuniarie potrebbe essere soddisfatta mediante l’insinuazione al passivo dello Stato come creditore privilegiato e aggiunge che, in ogni caso, la responsabilità dell’ente prescinde dalla eseguibilità della pretesa creditoria (analogamente a quanto avviene nel caso di condanna di un soggetto irreperibile o dimorante in un Paese con il quale non esista un accordo di estradizione)[46].

(15)

Un caso diverso è quello della sentenza di condanna inflitta ad una società fallita, che nel frattempo sia stata cancellata dal registro delle imprese: la vicenda è stata recentemente affrontata da Cass. Pen., Sez.II, n. 41082 del 2019.

In tale ipotesi, la Suprema Corte ha ritenuto che sia avvenuta una fisiologica estinzione dell’ente, correlata con la chiusura della procedura fallimentare e, quindi, che si possa applicare il paragone con la morte dell’imputato: in particolare, il Giudice delle Leggi ha specificato che, non essendo previste norme specifiche in caso di estinzione dell’ente, debbano applicarsi le regole del processo penale, sicché non si può ritenere che l’estinzione dell’ente determini un fenomeno successorio a favore dei soci, essendo tale istituto applicabile solo ai rapporti con i soggetti privati e non ad un contesto pubblico, quale quello del processo penale. Chiaramente, sarà diverso il parametro da applicare nel caso di estinzione fraudolenta e non fisiologica dell’ente, perché in questa ipotesi dovrà essere individuata l’eventuale responsabilità degli autori della cancellazione fraudolenta[47].

Di più agevole risposta dovrebbe essere l’interrogativo relativo alla possibile applicazione delle misure cautelari interdittive ad un ente fallito, tema che si porrebbe nel caso di esercizio provvisorio dell’attività da parte dell’ente[48] o di affitto di azienda dall’ente fallito ad altro ente[49]. Nel caso di liquidazione delle attività dell’ente a seguito della dichiarazione di fallimento, infatti, verrebbe meno il periculum in mora richiesto per l’applicabilità delle misure cautelari[50].

Nell’ipotesi di prosecuzione dell’attività in regime provvisorio, l’applicabilità delle misure cautelari interdittive dovrebbe essere ostacolata dal fatto che, in tale specifica fase, la gestione della società è rimessa integralmente al curatore – organo pubblico al cui operato sono sottese evidenti ragioni di giustizia – che dovrebbe garantire l’assoluta liceità dell’operato della società, con conseguente impossibilità di reiterazione di reati che potrebbero dare corso alla responsabilità ex D. Lgs. 231 del 2001[51]. Sul tema, in dottrina, si è rilevato che la nomina del curatore fallimentare risulterebbe sovrapponibile a quella del commissario giudiziale prevista dall’art. 45, comma 3 del D. Lgs. 231 del 2001 e che, conseguentemente, “se la nomina del commissario giudiziario è prevista proprio quale misura sostitutiva rispetto all’adozione di misure cautelari interdittive, può ritenersi che l’avvenuta dichiarazione di fallimento e la contestuale nomina del curatore rappresentino ugualmente un elemento ostativo all’interdizione dell’attività societaria”[52].

Quanto, invece, all’ipotesi dell’affitto dell’azienda, si è ritenuto che – essendo l’affittuario un soggetto giuridico diverso dalla società fallita – non può subire l’estensione delle misure cautelari interdittive disposte a carico di quest’ultima[53]: tale tesi trova sostegno normativo nella disposizione di cui all’art. 33 D. Lgs. 231 del 2001, che – come già visto – nel caso della cessione di azienda dispone l’intrasmissibilità al cessionario delle sanzioni interdittive disposte nei confronti del cedente. Sul punto, è stato osservato come “rispetto alla cessione, l’affitto d’azienda presenti i medesimi profili strutturali, differenziandosi solo per la temporaneità dell’acquisizione del complesso aziendale appartenente alla società fallita. Peraltro, l’affitto d’azienda, proprio perché necessariamente a termine, non comporta neppure la successione nella responsabilità per le sanzioni pecuniarie per le quali, invece, si determina la responsabilità solidale del cessionario, sia pur nei limiti del valore dell’azienda”[54].

(16)

In giurisprudenza, infine, è stato anche affrontato il tema dell’applicabilità all’ente fallito della confisca prevista dall’art. 19 del D. Lgs. 231 del 2001: la Suprema Corte, in particolare, con la sentenza n. 33425 del 2008 pronunciata dalla Sezione V, ha scisso l’ipotesi della confisca obbligatoria prevista dall’art. 19, comma 1 D. Lgs. 231 del 2001[55] da quella della cd. confisca facoltativa, prevista dall’art. 19, comma 2 del Decreto[56]: con riferimento alla confisca obbligatoria, infatti, è stata ravvisata la possibilità di disporre il sequestro preventivo (e, in via definitiva, quindi la confisca) nel caso in cui sia direttamente individuabile il profitto o il prezzo del reato, perché in questa ipotesi la misura ablativa sarebbe disposta su un bene che risulta “intrinsecamente connaturato alla natura illecita del fatto che ha generato il profitto per la società”[57].

Con riferimento invece, alla confisca di cui all’art. 19, comma 2 del D. Lgs. 231 del 2001, la Cassazione ha richiamato l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite in relazione alla possibilità di disporre la confisca ex art. 240 c.p. nei confronti di una società dichiarata fallita, stabilendo che l’applicabilità del sequestro preventivo (e, in via definitiva, quindi della confisca) per equivalente “ deve formare oggetto di valutazione, caso per caso, da parte dell'autorità giudiziaria, essendo necessario ponderare la pretesa dello Stato con gli interessi dei creditori”, precisando che “la prevalenza della confisca costituisce eccezione sulle ragioni del fallimento, tanto che il giudice deve dar conto in motivazione di tale prevalenza”[58].

Mentre si può certamente convenire con l’orientamento espresso con la citata sentenza n. 41082 del 2019, a parere degli scriventi, desta perplessità l’orientamento – peraltro consolidato – che ravvisa l’opportunità dello svolgimento di un processo ex D. Lgs. 231 del 2001 a carico di un ente fallito: le pur pregevoli argomentazioni giuridiche addotte dal Supremo Consesso, infatti, si scontrano inesorabilmente con alcune difficoltà di carattere pratico.

Un primo elemento di criticità è dato dallo svantaggio che i creditori chirografari – ma anche gli altri creditori privilegiati (per tutti, i lavoratori dipendenti) – sconterebbero per effetto dell’insinuazione passivo dello Stato come creditore privilegiato a seguito dell’applicazione di una sanzione pecuniaria ex D. Lgs.

231 del 2001[59].

Un ulteriore aspetto che dovrebbe far riflettere è quello dei costi del processo ex D. Lgs. 231 del 2001. È evidente, infatti, che, finché c’è un procedimento in corso, chi lo subisce deve potersi difendere e quindi sostenere non solo i costi della difesa, ma anche quelli di eventuali consulenti: non vi è dubbio che anche tali costi andrebbero ad aggravare il fallimento, con il rischio di un esito negativo del processo e, quindi, di un’applicazione della sanzione pecuniaria, con gli svantaggi ut supra analizzati.

Ma quel che più dovrebbe far riflettere è la risposta alla domanda: cui prodest? Posto che quasi certamente la sanzione pecuniaria – viste anche le ridotte capacità economiche dell’ente fallito – sarebbe applicata nel minimo e che l’eventuale sanzione interdittiva sarebbe del tutto inutile (o addirittura impeditiva o fortemente limitativa della ripresa dell’attività dell’ente nei pochi casi in cui la stessa sarebbe ancora possibile), vale davvero la pena per il nostro ordinamento sostenere il costo di un procedimento penale a carico di un ente fallito?

[1] V. Napoleoni, Le “vicende modificative”: trasformazione, fusione, scissione e responsabilità degli enti, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2/2007, p. 139.

[2] V. Napoleoni, op. cit., p. 139.

(17)

[3] Cfr. V. Napoleoni, op. cit., p. 145: “La trasformazione incide, cioè, unicamente sullo “statuto organizzativo” (ed eventualmente, nel caso di trasformazione eterogenea, sullo scopo) dell’ente, in un’ottica di maggiore funzionalità al conseguimento dell’oggetto sociale (ovvero di adeguamento ad una modifica degli obiettivi), senza che ne resti affatto intaccata la sua ‘identità’”.

[4] Cfr. Cons. Not. Milano n. 20/2004.

[5] Cfr. G. F. Campobasso, Diritto commerciale, 2, Diritto delle società (a cura di M. Campobasso), VI edizione, 2006, pp. 619 e ss.

[6] Cfr. G. F. Campobasso, Diritto commerciale, 2, Diritto delle società (a cura di M. Campobasso), cit.

[7] Cfr. Consiglio Nazionale del Notariato, con lo Studio n. 545-2014/I, Trasformazione di società unipersonale in impresa individuale e lo Studio n. 13-2006/I, Trasformazione di società unipersonale in impresa individuale.

[8] Cfr. R. Santagata, Le trasformazioni, in M. Cian (a cura di), Diritto commerciale, II, Torino. 2014, p.

746 ss.

[9] Per una disamina completa delle argomentazioni a favore dell’applicabilità della trasformazione da società a impresa individuale, cfr. S. D’Agostino, La trasformazione eterogenea, in Riv. Notariato, fasc.2, 2008, pag. 349; A. Pisani Massamormile, A proposito di alcune trasformazioni “anomale”, in Rivista delle Società, fasc. 5, 1 dicembre 2017, p. 929.

[10] Sull’applicazione della disciplina del D. Lgs. 231/2001 in materia di vicende modificative dell’ente, in giurisprudenza, cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 22.6.2017, n. 41768, in CED Cass. Pen. 2016, secondo la quale la contestazione dell’imputazione è valida anche qualora sia stata formulata con riferimento alla persona giuridica originariamente responsabile dell’illecito amministrativo da reato, dal momento che non è necessaria anche l’indicazione dell’ente risultante dalla vicenda modificativa.

[11] V. Napoleoni, op. cit., 146.

[12] Cfr. Relazione ministeriale al D. Lgs. n. 231/2001, p. 26.

[13] V. Napoleoni, op. cit., p. 149.

[14] La scissione – introdotta nel codice civile con il D. Lgs. 22/1991 – può essere totale o parziale.

In particolare, nel caso di scissione totale, la totalità del patrimonio della società oggetto di scissione viene diviso e assegnato a più società. La società scissa, pertanto, si estingue, ma non viene liquidata visto che i rapporti giuridici continuano in capo alle società beneficiarie, che assumono i diritti e gli obblighi della prima in proporzione alla quota di patrimonio a loro attribuita.

Con la scissione parziale, invece, solo una parte del patrimonio della società oggetto di scissione viene trasferito ad una o più società; non si ha, dunque, estinzione della società scissa. Nell’ipotesi di attribuzione di quote del patrimonio della scissa a una o più società preesistenti si parla anche di scissione per incorporazione: le società beneficiarie ottengono un ampliamento del patrimonio e un allargamento della compagine sociale.

È ammessa, come per la fusione, la scissione eterogenea, nel caso in cui le società beneficiarie siano di tipo dalla scissa, pur restando ferma l’applicazione della disciplina della trasformazione e i limiti ad essa relativi. Anche la scissione richiede un procedimento complesso, che consta della fase di predisposizione del progetto di fusione da parte degli organi amministrativi delle società partecipati e dell’approvazione dello stesso da parte dell’assemblea. Gli effetti della scissione, infine, si producono dall’ultimo atto d’iscrizione nel registro delle imprese, momento in cui le società beneficiarie assumono diritti e obblighi della società scissa, secondo quanto previsto dall’atto di scissione.

(18)

[15] Così R. Quintana, La responsabilità degli enti nel caso di scissione. Problematiche applicative, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 3/2010, p. 16.

[16] Cfr. M. Masucci, Responsabilità da reato e «vicende modificative», cit., p. 138 ss. e ID., Dalla «storia organizzativa» alla «colpevolezza» dell’ente. Elementi per una ricostruzione delle «vicende modificative» nel d.lgs. n. 231/2001, in A. FIORELLA - A.S. VALENZANO, La responsabilità dell’ente da reato nella prospettiva del diritto penale ‘globalizzato’, Jovene, 2015, p. 51 ss.

[17] R. Quintana, op. cit., p. 11.

[18] Sull’estensione delle previsioni relative alla cessione di azienda anche alle ipotesi in cui ad essere ceduto sia un ramo dell’azienda, si vedano V. Napoleoni, La cessione d’azienda nel sistema di responsabilità degli enti, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2007, n. 3, 166; S.

Bruno, Il ramo d’azienda: definizione e disciplina, in Dir. prat. soc., 2004, n. 5, 32; B. Libonati, Diritto commerciale, Milano, 2005, 96.

[19] Giunge a siffatte conclusioni, V. Napoleoni, op. cit., 165, secondo cui non “è ipotizzabile un’estensione della norma a tali fattispecie in via analogica: rimanendo una simile operazione ermeneutica preclusa sia dalla natura eccezionale della norma stessa (la quale prevede, al pari dell’art.

2560, comma 2, c.c., una forma di responsabilità per debito altrui); sia dalla mancanza - almeno in rapporto all’affitto - dello stesso presupposto dell’eadem ratio, trattandosi di contratto che lascia i beni aziendali in piena proprietà dell’ente responsabile e che dunque non ne intacca la consistenza patrimoniale

”.

[20] Valga il rinvio, sul tema, a V. Napoleoni, op. cit., 166.

[21] Propende per la tesi omnicomprensiva P. Sfameni, Responsabilità patrimoniale e vicende modificative dell’ente, in AA. VV., La responsabilità amministrativa degli enti, Milano, 2002, p. 178.

[22] Secondo il pensiero di V. Napoleoni, op. cit., 166, la norma trova applicazione anche nell’ipotesi in cui il cessionario sia una persona fisica e, qualora le cessioni siano state plurime, coinvolgerebbe tutti i cessionari che si sono succeduti nel tempo, a condizione, ovviamente, che l’illecito per il quale le sanzioni devono applicarsi siano riferibili ad uno degli enti individuati dall’art. 1, comma 2, D. Lgs. 231 del 2001.

[23] Così, V. Napoleoni, op. cit., p. 172.

[24] Aderiscono a tale interpretazione V. Napoleoni, op. cit., 165; S. Di Pinto, La responsabilità amministrativa da reato degli enti, Torino, 2003, 154; P. Sfameni, op. cit., p. 179.

[25] Si veda, sul punto, V. Napoleoni, op. cit., 164.

[26] La dottrina, con riferimento alla suddetta norma, ha avuto modo di specificare che la congiunzione “ anche” legittimi il carattere solidale della responsabilità dell’acquirente rispetto a quella dell’alienante: sul tema, si rinvia a M. Spiotta, Difetto di legittimazione attiva del curatore ad agire ex art. 2560, II comma, c.c., in Giur. Comm., 2005, II, 574.

(19)

[27] L’opinione è condivisa da P. Sfameni, op. cit., 176 e da M. Bussoletti, Procedimento sanzionatorio e

“vicende modificative dell’ente”, in La responsabilità della società per il reato dell’amministratore, a cura di G. Lancellotti, Torino, 2003, 141. Contra, si vedano R. Razzante – F. Toscano, La responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, Torino, 2003, 224 e G. Zanalda, La responsabilità “parapenale”

delle società, in Fisco, 2001, 14843. Secondo V. Napoleoni, op. cit., 173, aderendo a quest’ultima tesi, “ il cessionario d’azienda verrebbe ad essere sottoposto - contro ogni logica - ad un trattamento più sfavorevole di quello riservato allo stesso ente beneficiario della scissione che sia subentrato nel ramo d’azienda “colpevole”: non potendo egli giovarsi - in difetto di una previsione normativa in tal senso - della speciale facoltà di sostituzione delle sanzioni interdittive con sanzioni pecuniarie, accordata invece all’ente beneficiario dall’art. 31, comma 2, d.lgs. 231/2001”.

[28] La tesi è proposta da V. Napoleoni, op. cit., 173; R. Quintana, La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, Commentario diretto da M. Levis – A. Perini, Torino, 2014, sub art. 33, 866 contra, F.

Platania, L’evidenziazione contabile delle sanzioni ex d.lgs. n. 231 del 2001 e vicende modificative dell’ente , in Società, 2002, 546.

[29] Arriva a tale conclusione S. Di Pinto, op. cit., 158.

[30] Così, V. Napoleoni, op. cit., 171, nonché N. Landi, Le vicende modificative dell’ente e la due diligence sui modelli di organizzazione e gestione ex D. Lgs. 231/2001, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2016, n. 4, 98.

[31] Cfr. Relazione Governativa al D. Lgs. 231 del 2001, par. 14.1, ove, con riferimento alla cessione e al conferimento di azienda, si precisa che “Si intende come anche tali operazioni siano suscettive di prestarsi a manovre elusive della responsabilità: e, pur tuttavia, maggiormente pregnanti risultano, rispetto ad esse, le contrapposte esigenze di tutela dell'affidamento e della sicurezza del traffico giuridico, essendosi al cospetto di ipotesi di successione a titolo particolare che lasciano inalterata l'identità (e la responsabilità) del cedente o del conferente”.

[32] Aderiscono al dettato della Relazione Governativa, E. Busson, Responsabilità patrimoniale e vicende modificative dell’ente, in Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato, a cura di G. Garuti, Padova, 2002, 207.

(20)

[33] L’assunto posto alla base della Relazione Governativa non trova unanime riscontro in dottrina, poiché è stato osservato che l’elemento posto a fondamento della differenza tra la cessione di azienda e le altre vicende modificative (trasformazione, fusione e scissione), e cioè il fatto che la cessione si risolva in una successione a titolo particolare che non incide sulla originaria individualità dell’ente responsabile, ricorra in realtà per lo meno nella cd. scissione parziale per incorporazione, nella quale una porzione del patrimonio della società scissa – che quindi resta in piedi all’esito dell’operazione – viene trasferita ad altri beneficiari preesistenti: si vedano, in argomento, V. Napoleoni, op. cit., 162 che rinvia a M. Bussoletti, op.

cit., 142 e a P. Sfameni, op. cit., 177. Aderiscono, invece, alla tesi proposta dalla Relazione Governativa, G. Altieri – I. Blasi, Le vicende modificative della persona giuridica nell'ambito del procedimento per l'accertamento dell'illecito amministrativo ex d.lgs. 231/2001, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2020, n. 3, 153, secondo cui “la logica che ispira tale scelta può essere individuata nel rilievo che la cessione di azienda, cui è equiparato anche il conferimento di azienda, non trasforma l’ente originario – rectius: cedente – il quale conserva la sua identità, subendo esclusivamente modificazioni che incidono sulla sua consistenza patrimoniale. Per contro, le altre vicende modificative dell’ente, per tipologia e caratteristiche, afferiscono alla sua soggettività e richiedono una disciplina regolatrice della responsabilità che sia idonea a perseguire efficacemente l’illecito anche nel suo «nuovo» assetto, potendo questo trarre eventuali benefici e vantaggi dalla riorganizzazione dell’attività, ivi compreso il settore in cui sia avvenuta la condotta criminosa”.

[34] Cfr., sul punto, V. Napoleoni, op. cit., 160.

[35] Cfr., ancora, V. Napoleoni, op. cit., 160, secondo cui “le misure in questione verrebbero, con un simile espediente, sostanzialmente “neutralizzate” rispetto all’ente cedente, mentre i relativi “soggetti di comando” potrebbero proseguire imperturbati l’attività che aveva originato il reato, tramite lo “schermo”

dell’ente cessionario. Il discessus diverrebbe, d’altro canto, ancor più commodus allorché l’illecito fosse stato realizzato nel seno di un gruppo societario: in tal caso basterebbe, difatti, per conseguire il risultato, semplicemente trasferire l’azienda “incriminata” ad altra società del gruppo, magari interamente posseduta”. Sempre V. Napoleoni, op. cit., 160, osserva “come lo Stato - creditore della sanzione - non possa neppure confidare sull’eventuale responsabilità personale dei soci o degli associati per le obbligazioni dell’ente, essendo una tale responsabilità comunque esclusa, in rapporto al debito per le sanzioni pecuniarie, dall’art. 27, comma 1, d.lgs. 231/2001”. Analoghe preoccupazioni in termini di

“manovre infragruppo” volte a trasferimenti fittizi di azienda sono condivise da M. Bussoletti, op. cit., 142.

[36] Si veda, in tal senso, M. Bussoletti, op. cit., 142 ss.

[37] Sul punto, si rinvia a N. Landi, op. cit., 99.

[38] N. Landi, op. cit., 99, cita, a titolo esemplificativo, clausole che diano atto che non si sono verificati eventi che possano dar luogo a responsabilità dell’ente ex D. Lgs. 231 del 2001 e che all’ente non è stata irrogata una sanzione amministrativa o pecuniaria ai sensi della stessa normativa; oppure clausole che diano atto che è stato adottato e costantemente aggiornato il modello organizzativo dell’ente o che l’ente cedente terrà manlevato il cessionario da qualunque costo, spesa, danno, sanzione, passività o altra conseguenza negativa che dovesse subire per effetto della non veridicità della garanzia rilasciata in merito all’assenza di responsabilità ai sensi del D. Lgs. 231 del 2001.

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