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Un riconoscimento che

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Academic year: 2022

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LE ILLUSTRAZIONE SONO DI CONC E PAOLA PARRA

PENSARE. FARE. FAR PENSARE.

Aprile 2021 ANNO 6 - N.53

Redazione: Via Voghera 11, Milano ilbullone@fondazionenear.org www.ilbullone.org

«52 chemio Mi batto

contro il male»

B.LIVER STORY L’INTERVISTA IMPOSSIBILE

Nakamoto:

la leggenda del bitcoin

S. Tempesta a pag. 31 B. Cappiello a pag. 30

2030

MARIA ELENA CAPPELLO Milano con valori condivisi

La manager e imprenditrice.

a pag. 2-3

Il linguaggio da usare quando si parla e si scrive di disabilità

ABILISMO GRAZIE

Il mensile dei B.Liver, ragazzi che vivono la malattia,

e che con forza cercano di andare oltre.

Il Bullone porta un nuovo punto di vista che va oltre

pregiudizi e tabù.

Mai dire e scrivere «diversamente abili».

A. De Chiara e P. Vicedomini a pag. 33

Il dossier dei B.Liver: familiari, amici e fidanzati raccontano come imparare a stare accanto a chi ha una malattia.

Interviste alla filosofa Michela Marzano e alla psichiatra Laura Dalla Ragione.

F. Filardi, N. Micheli, M. Ferrazza, E. Tomassoli, S. Segre Reinach e M. Luciani da pag. 3 a pag. 14

Intervista al rettore del Politecnico, Ferruccio Resta, al caporedattore del Corriere Cultura Antonio Troiano, all'editore Achille Mauri e ai manager culturali, Marina Pugliese e Alessandro Oldani.

L. Beatrici, F. C. Invernizzi, E. Hensemberger, A. Baldovin, C. Baù, A. Pravadelli, M. Sicbaldi, A. Morelli, E. Bianchi, C. Bignardi e I. Nembrini, G. Pistolesi, F. Bazzoni, M. Dimastromatteo, C. Farina, C. Sarcina da pag. 17 a pag. 26

«La vita mi sta mettendo ancora a dura prova, sono a pezzi».

P. Gurumendi a pag. 2

LA MIA STORIA

Leggete Paola

E non sarete più gli stessi

IL MANIFESTO

Riconoscete i diritti

di chi ha disturbi alimentari IO SONO CULTURA

Tutti noi la creiamo

È l' energia delle nostre vite IL FILO ROSSO

Giornalismo sociale:

il primo passo

di Giancarlo Perego, B.Liver

U

n riconoscimento che

produce sicurezza, spe- ranza, entusiasmo.

Dà la conferma sul pro- prio impegno, sullo stare insieme, sul vivere. E soprattutto la confer- ma che bisogna puntare sui valori condivisi.

È bastato questo riconoscimento dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia (è un primo step, poi arriveranno gli altri) per 42 B.Li- ver-cronisti del Bullone che da oggi sono considerati giornalisti pubbli- cisti ad honorem, per scatenare un entusiasmo inaspettato.

Il Consiglio dell’Ordine è andato oltre le leggi e le regole aprendo una finestra al giornalismo sociale ancora non riconosciuto dalla cate- goria di chi scrive sui media.

Oggi questi ragazzi hanno in tasca il tesserino che conferma i 5 anni di lavoro giornalistico al Bullone, il loro giornale, la loro ancora, la loro fraternità.

Anche due super cronisti che sono andati sopra le nuvole, Eleonora e Alessandro, hanno ricevuto que- sto riconoscimento. Sono state le mamme, Vittoria e Mariella, a ri- tirare i tesserini granata con la foto dei loro figli. Non c’è passato, non c’è futuro, è tutto presente.

La malattia, le cure, l’impegno a fare cose diverse, il convivere e con- dividere, il dolore e gli entusiasmi, scrivere, scrivere, scrivere, sono l’oggi.

Domani è un altro oggi. È Bill Niada, il fondatore di B.LIVE e del Bullone, a indicarci la strada del presente. Io sono d’accordo con lui.

Perché è oggi che voglio abbrac- ciarvi. Tutti.

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Le opinioni di architetti, medici, rettori, manager, intellettuali e IL DIBATTITO

MILANO 2030

I PROTAGONISTI DI MILANO 2030

Maria Elena Cappello, manager e imprenditrice, partecipa al dibattito sul futuro della città

tanti altri personaggi testimoni della nostra metropoli.

Giangiacomo Schiavi,

opinionista del Corriere della Sera che ha aperto il dibattitto Milano 2030.

«Vincerà

chi renderà la digitalizzazione più umana»

N

Maria Elena Cappello, manager e imprenditrice, ha una carriera nazionale e internazionale in ruoli esecutivi e di consigliere di amministrazione indipendente in aziende e fondazioni.

È stata Amministratore Delegato di Nokia e oggi siede nel CdA di società quotate italiane fra cui Telecom Italia, Saipem, Prysmian e internazionali quali Luminor Bank.

di Maria Elena Cappello

L’ILLUSTRAZIONE È DI SUSANNA GENTILI

ei meandri della mia memoria ritorno alla mia Milano di bambina, una città che giravo in bicicletta, con la spensiera- tezza che vorrei avere ancora. Una Mila- no «da bere», dicevano, senza che io ne comprendessi a pieno il significato. Una

«città aperta». Per me voleva dire aperta alle amicizie dalle diverse provenienze, alla cultura e al dibattito con i più grandi scrittori nazionali e internazionali, alla musica con i più straordinari talenti del mondo, all’arte con le mostre dei nostri magnifici musei che portavano nella mia città un pezzo di mondo lontano.

Oggi Milano è una città moderna, un esempio di architettura sostenibile, un centro di innovazione tecnologica e scientifica, una scuola umanistica, sem- pre fedele al suo ruolo di Mediolanum, come centro e collegamento di vie e di idee, ed è soprattutto bella.

Ma si trova ad affrontare una sfida nuo- va, a sviluppare una nuova strategia e trovare la sua nuova essenza di Città. In un mondo fortemente globalizzato ma con una esigenza di localizzazione sem- pre più evidente, la Città deve avere un nuovo approccio alla creazione di valore:

creare valore condiviso.

È tempo che Milano affronti i grandi problemi della società e si renda piatta- forma di ripensamento del capitalismo, legittimando il business e la nuova onda di innovazione e produttività.

La vera innovazione infatti, non si con-

centra sui risultati, ma celebra il processo e pensa in modo provocatorio.

E poiché la pandemia ha accelerato l’e- voluzione digitale di almeno dieci anni, i cambiamenti e le possibilità offerte dal- le tecnologie del futuro e il loro impatto sull’umanità e sul pianeta sono in rapida evoluzione.

Milano, con le sue Università e le sue ec- cellenze di ricerca e innovazione, con il suo humus di start-up e di grandi imprese, di imprenditori e grandi manager, deve essere Città agile e aperta al cambiamen- to.Queste le chiavi per apprendere e pro- sperare nella civiltà digitale, dove tec- nologia e intuizione si incontrano per

costruire fiducia e una mentalità positi- va (vera evoluzione dell’economia colla- borativa) e recuperare l’Agorà, necessaria affinché le persone possano sviluppare il loro pieno potenziale.

Io sono fortemente convinta che le inte- razioni dell’Intelligenza Artificiale, otti- mizzate sulle emozioni e sulla cognizione umana, ridefiniranno le prestazioni uma- ne più di ogni tecnologia nella storia.

Chi renderà la digitalizzazione più uma- na vincerà.

Ed è qui che Milano deve tornare prota- gonista e «città aperta». Milano che con- divide la conoscenza umanistica, scien- tifica, tecnologica, deve invitare culture diverse, attrarre talenti internazionali e imprese mondiali per essere protagonista della sfida più grande: dare all’uomo la terra fertile per ingegnerizzare l’empatia.

Nel futuro della mia Città vedo la Mila- no dei ricordi di bambina, rispondente, pronta sempre a rinforzare il suo ruolo sociale, che abbraccia il potere del Do It Yourself guidando il potenziale delle per- sone verso la creazione e l’innovazione, incoraggiando una cultura imprendi- toriale per sostenere l'innovazione con- tinua, ma soprattutto internazionale e

L'ILLUSTRAZIONE È DI CONC

Gino e Michele,

scrittori satirici e autori comici. Sono impegnati nel mondo dell’editoria, tv, cinema e teatro.

Arnoldo Mosca Mondadori poeta, autore e scrittore.

Simone Mosca,

giornalista, autore e scrittore.

Lionello Cerri, imprenditore dello spettacolo.

Stefano Boeri,

architetto e presidente della Triennale, si è soffermato sul futuro della città: dall’Area Expo alla Bovisa.

Alberto Mantovani,

medico, immunologo e ricercatore.

Direttore scientifico di Humanitas.

Giuseppe Guzzetti,

ex presidente della Fondazione Cariplo,

«Non lasciare indietro i più bisognosi».

Gianluca Vago,

ex rettore della Statale.

Costruire il futuro passando per la scienza e la ricerca.

Ferruccio Resta,

rettore del Politecnico di Milano, punta a un’università internazionale e di qualità .

Paolo Rotelli,

Presidente del Gruppo ospedaliero San Donato.

Elio Franzini, rettore dell'Università Statale.

Giovanni Fosti,

è professore all'Università Boccaoni.

Da maggio 2019 è il presidente di Fondazione Cariplo.

Paolo Colonna,

oggi promuove Club Deals come investitore e gestore. Da quasi 20 anni opera nel non profit

Massimo Scaccabarozzi, Presidente e AD di Janssen Italia e Presidente di Farmindustria.

Don Paolo Alliata,

parroco di Santa Maria Immacolata.

Andrée Ruth Shammah,

Imprenditrice, regista e artista a tutto tondo.

Ha fondato con Franco Parenti e altri artisti il Teatro Franco Parenti.

Alessandro Spada, Presidente Assolombarda.

Carlo Sangalli,

Presidente di Confcommercio e della Camera di commercio Milano Monza Brianza Lodi.

accogliente verso nuovi intelletti ed etnie.

Inoltre, in un momento di discontinuità sociale, il ruolo della Città è di concen- trarsi sui benefici che sarà in grado di dare alla Società, basato sull’evoluzione sostenibile del concetto di Polis.

Cosa chiedere quindi, a questa Città che non si ferma? Di investire sempre più sul sapere e sulla conoscenza che fanno par- te della storia di Milano e del suo futuro e sulla cultura che accomuna e sulle cui basi poggia il valore che dura, la qualità che rimane e si tramanda. Sviluppiamo un Politecnico ancora più tecnico e so- prattutto globale; creiamo un’Accademia della musica per «i professori», una piat- taforma per gli stilisti emergenti, dove tecnologia, ricerca sui materiali e creati- vità inventino le nuove tendenze.

E poi, Milano come centro del pensiero moderno, alla base del quale c’è la nostra cultura e la nostra arte.

L’emergenza sanitaria sta portando a un ripensamento del modello di fruizione del bene artistico, verso l’integrazione fra l’esperienza fisica e quella virtuale. Oggi più che mai, la valorizzazione delle opere milanesi può cogliere vantaggio dal feno- meno accelerato dell’adozione digitale e della conseguente potenziale espansione della comunità fruente a livello nazionale e internazionale, aumentando la condivi- sione dei nostri poli museali, dei teatri e della Città.

L’inestimabile eredità data dalla storia della Città può diventare globale con un

«click».

La mia Milano del futuro è quindi una città inclusiva di idee e di diversità, fulcro per la creazione di un pianeta più pacifi- co grazie alla tecnologia. Un crocevia di pensieri e di esperienze.

Pietro Modiano,

è presidente del Gruppo SEA, che gestisce gli aeroporti di Milano Linate e Milano Malpensa.

Gianmario Verona,

rettore dal 2016 dell’Università Bocconi di Milano.

Gianantonio Borgonovo, Arciprete del Duomo di Milano.

Mauro Ferraresi, Professore associato.

Coordinatore del Corso di Laurea triennale in «Moda e Industrie Creative».

Achille Mauri, editore e intelletuale.

Consigliere delle Messaggerie Italiane

Creare un valore condiviso. Una città inclusiva di idee e di diversità Un crocevia

di pensieri

e di esperienze

Cristina Messa,

ex rettore

dell’Università Bicocca.

È professore di Diagnostica per immagini e radioterapia.

Leonardo Caffo, filosofo e saggista.

Ha fondato Waiting Posthuman Studio;

conduttore e autore di Rai Radio 3.

Giovanni Gorno Tempini,

presidente di Fondazione Fiera Milano.

Giovanna Iannantuoni,

rettrice dell'Universita di Milano-Bicocca dal 2019, è Presidentessa di Economia Polititca.

Alessandra Ghisleri,

sondaggista italiana, direttrice di Euromedia Research.

«Milano è il futuro».

Patrizia Grieco,

presidente dell’Enel.

Lunga esperienza manageriale, prima in Italtel, poi in Olivetti.

Elena Bottinelli, ad del San Raffaele e dell’Istituto Ortopedico Galeazzi di cui è stata direttore generale.

Margherita Galliani, è mamma, sociologa di formazione e responsabile de la Casa di Emma.

Gabriella Scarlatti,

ricercatrice all'Ospedale San Raffaele di Milano.

Davide Montalenti, giovane musicista.

Lorenzo Bini Smaghi,

è presidente di Societé Générale e di Italgas, e autore di vari articoli e libri

Roberta Cucca,

professore associato alla NMBU di Oslo.

Diana Bracco,

presidente e AD del Gruppo Bracco, una multinazionale della salute leader mondiale.

(3)

L'ILLUSTRAZIONE È DI CONC

6

Va ricordato che è compito di ogni singola Regione, attraverso una cabina di regia, predisporre le linee guida necessarie agli interventi terapeutici in linea con quelle nazionali, migliorare l'approfondi- mento conoscitivo e impegnarsi sul tema delle liste d'attesa. Non sono accettabili lunghi tempi di attesa dovuti al mancato coor- dinamento nella risposta al numero di richieste superiori ai posti disponibili nei centri, con un possibile conseguente peggioramento dei disturbi nei pazienti.

10

È urgente la programmazione e attuazione di politiche a sostegno delle famiglie e dei caregiver dei pazienti, valo- rizzando anche le iniziative già presenti sul territorio. Per alleggerire i costi economici di chi affronta queste malattie, è decisivo che nel codice di esenzione 005 (per anoressia nervosa e bulimia) vengano comprese tutta una serie di in- dagini mediche che devono essere svolte obbligatoriamen- te per chi ha un disturbo del comportamento alimentare, sia nella fase diagnostica che nella fase di controllo.

1

La cura dei disturbi del comportamento alimentare è una battaglia per il futuro. Si deve procedere subito perché si tratta della seconda causa di morte della popolazione femminile italiana in adolescen- za, dopo gli incidenti stradali. È urgente intervenire adesso perché la pandemia di Covid 19, il lockdown e la solitudine prodotta dalla Dad hanno fatto crescere i casi di anoressia, bulimia e alimentazione incontrollata tra i ragazzi e le ragazze, abbassando ulteriormente l'età di chi si ammala.

2

Il tema dei disturbi della nutrizione e dell'alimentazione è un’emer- genza nazionale per i giovani, ma anche per le loro famiglie che vanno aiutate economicamente e psicologicamente ad affrontare i costi per le cure, ad essere una base sicura per i propri figli, a cercare soluzioni con empatia, ad ascoltare in modo consapevole, ad affron- tare le difficoltà dei loro ragazzi, incoraggiandone l’autonomia.

3

Quello dei disturbi alimentari è un problema sociale sempre più centrale e urgente, non ancora percepito dall’opinione pubblica, di cui non possiamo non occuparci e quindi dobbiamo alzare il livello di attenzione non solo nella ricorrenza ufficiale. Dobbiamo chiedere a enti pubblici e privati di promuovere un'informazione adeguata nel resto dell’anno sui comportamenti a rischio, attraverso cam- pagne di comunicazione e sensibilizzazione dell'opinione pubblica sulle campagne con il «fiocchetto lilla».

4

È necessario attuare il precetto costituzionale di tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo, in nome della sostanziale uguaglianza fra i cittadini anche per chi è malato di disturbi dell’a- limentazione, tenendo conto che solo 9 Regioni su 20 offrono loro tutti e quattro i livelli di assistenza. Va quindi superata l’inadegua- tezza di alcuni centri specializzati regionali sia nella fase diagno- stica che in quella di controllo, che genera il doloroso e costoso fenomeno delle migrazioni sanitarie di famiglie e malati.

5

Occorre quindi consolidare, nello spirito di cooperazione tra Stato e Regioni, l’aggiornamento, l’integrazione e la messa a regime di una Rete nazionale, integrata con le reti regionali, per la prevenzione e la cura dei disturbi della nutrizione e dell'alimentazione. Tenendo conto che il Ministero della Salute ha introdotto il «codice lilla»

per aiutare gli operatori sanitari ad accogliere i pazienti in pronto soccorso e ad avviarli a un giusto iter terapeutico.

7

Non si può rinviare ancora la necessaria azione legislativa per inse- rire nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) le prestazioni e i servizi che il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) è tenuto a fornire a tutti i cittadini, anche per i Disturbi del Comportamento Alimentare, intesa come patologia autonoma e riconosciuta.

8

È inderogabile la definizione, programmazione ed attuazione di iniziative su tutto il territorio italiano, per corsi specifici di forma- zione sui disturbi dell’alimentazione, riservati a operatori e medici di medicina generale.

9

Vanno previsti permessi speciali e/o congedi anche per i genitori con figli in cura per disturbi del comportamento alimentare, sia per la cura del figlio (minorenne o maggiorenne), sia per la terapia per- sonale, includendo nei contratti di lavoro nazionali gli stessi benefici previsti per i genitori di tossicodipendenti o malati oncologici.

Per chiedere una vera svolta nella cura dei disturbi

del comportamento alimentare

A

gosto 2020, controllo

pediatrico: è tutto a posto, possiamo pro- cedere con il passa- porto di guarigione.

Dopo 16 anni i medi- ci dell’Istituto dei tumori di Milano mi confermano ciò che desideravo: «HAI VINTO!», scoppio in lacrime tra le braccia dei miei genitori, «CI SIAMO RIUSCITI!».

Purtroppo la gioia non dura, tra il co- vid e tutti i caos negli ospedali, non ero riuscita a fare un’ecografia, senti- vo che qualcosa non andava, corsi in Istituto per chiedere aiuto, grazie a Dio quel giorno mi è stato program- mato tutto con urgenza, però prima del 7 ottobre non c’erano possibilità.

Pregavo che fosse solo uno spavento, qualche giorno dopo il mio trentesimo compleanno arriva quella telefonata che non avrei mai voluto ricevere, so- prattutto perché nel frattempo mi ero contagiata di Sars-Cov 2 ed ero com- pletamente sola. «Paola c’è qualcosa che non va, dobbiamo approfondire».

Il mio mondo si ribalta: caos assoluto, non posso abbracciare i miei genitori, una montagna di fango mi travolge, buio totale. Passano due settimane e divento negativa, iniziano gli appro- fondimenti: esami tra esami, lunghe giornate d’attesa; non volevo, non po- tevo perdere le speranze.

Così dopo due mesi arriva la prima vi- sita e la conferma peggiore: «tumore maligno al 2° stadio», le lacrime scen- dono senza fermarsi, sentivo la voce del medico da lontano che ripeteva

«mi dispiace»; volevo morire, non era-

di Paola Gurumendi, B.Liver

no bastati 16 anni di cure per il primo tumore, ora dovevo affrontare un’altra battaglia, la mia guerra non era finita e io non avevo più forze. Non c’era un perché, né un percome, l’unica cosa di cui ero consapevole era il danno che la pandemia aveva creato nel mondo oncologico e sicuramente non ero l’u- nica a trovarsi svantaggiata. A questo punto erano due le strade: o combat- tere, o farlo vincere. Passai lunghe notti a farmi mille domande, a docu- mentarmi sulle cure, l’alimentazione, i motivi, le conseguenze, leggevo e rileggevo i referti di ogni visita, fino a che un giorno dissi «Basta!», e iniziai a concentrarmi su ciò che avevo e non su ciò che avrei perso.

Ricordo che una mattina mi venne proposta una valutazione genetica:

non ci pensai due volte e decisi di af- frontare anche questa realtà, ormai non avevo niente da perdere, tutto ciò che mi ero costruita mi aveva lascia- ta con un pugno di mosche in mano.

Una dottoressa molto carina e gentile mi spiegò tutta la procedura e, cosa più importante, i rischi che il risulta- to avrebbe provocato alla mia vita.

Non potrò mai spiegare il dolore e la paura che l’attesa di questo esame mi provocò, proprio in quell’attesa scelsi di lasciar andare una persona molto importante per me: ho preferito non trascinarmi dietro nessuno, anche se ciò significava perdere; il mio dolore non doveva essere dolore di altri. In tutti questi mesi ho deciso, insieme alla mia famiglia, di non far sapere a nessuno della malattia, non avevo nes- suna intenzione di affrontare gli altri, non avevo le forze per aiutare tutti a superare la notizia. Le cure sono ini- ziate a dicembre: il percorso è lungo, i capelli sono già caduti, i miei occhi hanno perso la luce, però non la vo- glia di guardare il viso delle persone che amo. La chemioterapia fa male, detesto dover mangiare e sentire il sa-

pore del farmaco, o passare le giorna- te a letto perché sono troppo stanca, quando posso mi rifugio in qualche bel libro, un film, nei miei sogni. Pochi giorni fa mi viene riferito che la che- mioterapia non sta funzionando come dovrebbe: si blocca tutto, altri esami, altro caos e io? Alzo le mani al cielo, scuoto la testa e non ci penso: alla fine saranno i medici a capire come muoversi. La vita mi sta veramente mettendo alla prova, sono a pezzi, non tornerò mai come prima, in me è morto qualcosa. Userò ciò che rimane cercando di far tesoro di tutto questo dolore per essere almeno «una bella persona», in fondo ho imparato a vi- vere in questa guerra, in questo mio mondo al contrario. So che un giorno arriverà il momento in cui mi sen- tirò felice di aver sofferto così, perché quella sofferenza mi farà diventare un essere migliore, tornerò a sorridere e sorriderò davvero, in fondo non si guarisce dimenticando, ma accettan- do ogni situazione.

«Sono quella che la forza se l’è fatta venire perché non c’era altra scelta»

Un bellissimo ritratto di Paola Gurumendi

Nel mio mondo al contrario,

vivo questa guerra

LEGGETE QUESTA TOCCANTE TESTIMONIANZA DI PAOLA STURBO DELL'ALIMENTAZIONE SENZA SPECIFICAZIONE

IL MANIFESTO

La vita

mi sta mettendo di nuovo

alla prova,

esperienze dure sono a pezzi

LE ILLUSTRAZIONI SONO DI CLAUDIA BIGNARDI E MAX RAMEZZANA

(4)

Servono leggi adeguate per le malattie dei disturbi alimentari

LE NOSTRE RICHIESTE Il 16 febbraio Regione Lombardia ha varato un decreto per prevenire e curare il DCA

Devi prenderti cura di te stessa nessuno può farlo al posto tuo

di Francesca Filardi, B.Liver

Q

uando ho deciso di condivi- dere la mia storia di malattia, grazie e tramite Il Bullone, era il 29 maggio 2020, ed erano già trascorsi 3 anni dall’inizio delle mie cure nel reparto DCA dell’Ospedale Ni- guarda.

Vorrei aprire tre questioni, di cui forse non tutti sono a conoscenza e che potrei per- mettermi di generalizzare per chiunque entri nel vortice dei Disturbi del Compor- tamento Alimentare e, in particolare, è il mio caso, nell’Anoressia.

La prima questione è che il momento in cui iniziano le cure quasi mai coincide con l’inizio della malattia e la manifestazione dei primi sintomi.

Spesso si arriva, nella migliore delle ipo- tesi, alla scelta di chiedere aiuto quando si giunge a uno stadio più avanzato della patologia, tanto maturo da essere parte integrante «della vita» del paziente, e da aver compromesso le condizioni fisiche, se non in maniera irreversibile o cronica, si- curamente in modo molto critico.

La scelta stessa di sottoporsi alle cure è parte del percorso di malattia e (si spera) dall’inizio della guarigione.

Qui la seconda questione: affrontare il mondo interiore/se stessi. Tutto ciò implica la presa di coscienza di «essere malata». L’accetta- zione da parte di chi soffre di tali disturbi è molto dura a livello psicologico.

Accettare di volere e potere chiedere aiuto (legittimarsi) implica uno sforzo enorme e non scontato e non necessariamente coin- cide con il sentire di avere una vera e pro- pria malattia. Spesso ci si rassegna, come nel mio caso, a cedere alle richieste degli altri, una sorta di «favore» da dover fare a chi ci sta vicino.

Il non sentirsi da meno, inferiori, deboli, problematici, incapaci, falliti solo perché si ha bisogno o si chiede aiuto, porta a confrontarsi con tutta la parte di sé che emergerà costantemente, come con la peggior strega che si sia mai incontrata nella peggior fiaba.

Significa aprire gli occhi e re-agire: se non ancora per se stessi - per condurre una vita degna di tale nome - almeno per gli altri, per fare stare sereni i nostri cari.

Significa saper riconoscere di essere im- potenti e di avere una difficoltà, perché è umanamente impossibile essere in grado di uscirne da soli.

Questo non si traduce nell’essere un peso o un problema, al contrario, è proprio questo senso di onnipotenza e la convin- zione di poter far tutto da soli, ad essere il reale problema.

Ultimo, ma non per importanza, lottare anche nel momento in cui stai chieden- do una resa. Scontrarsi con la parte di sé che con ogni forza ha fatto resistenza per impedirti di prendere coscienza e che con determinazione continuerà il suo gio- co nella guarigione. Se la resa è imposta dall’esterno tutto diventa più complicato e la lotta è duplice. Questo accade proprio nel momento in cui si è riusciti perlome- no a sdoppiarsi e a capire che tu non sei la tua malattia, puoi essere altro e non sei da sola. Il momento in cui capisci che la

di Noemi Micheli, B.Liver

IL PRIMO PASSO

Il diritto di essere riconosciuto

Assistenza,

qualcosa si muove

T

empo fa ho conosciuto un po- sto fatto di lunghi corridoi, carrozzine cigolanti e silenzi assordanti. Ho incontrato visi scavati, occhi persi e anime sospese, ho visto ciocche di capelli cadere e pianti strazianti davanti a verdure bollite.

L'ossessione dell'autocontrollo e l'autodi- struzione totale.

Fragili corpi imprigionati che man mano volavano via come leggeri granelli di sab- bia, menti sfinite dalle mille paure e im- magini irreali riflesse in quegli specchi.

Un tunnel dove spesso ti senti a tuo agio e pensi che senza quel corpo sei nul- la; un giorno però arrivi ad un bivio e devi decidere: continuare a sopravvivere soltanto, o tornare a vivere davvero? Io, dopo anni di inibizione e terrore, ho scel-

to quale strada prendere. Riparto da qui.

Ricomincio da Me.

Ma è proprio dalla mia esperienza, dal mio dolore, dalle mie scelte, che è sempre più impellente la mia necessità di grida- re al mondo: io ce l’ho fatta, ma non è abbastanza; non è abbastanza perché la mia malattia non ha un vero riconosci- mento a livello nazionale, perché i pa- zienti ricoverati per DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare) non pos- sono essere sempre accuditi dai genitori, perché i pazienti devono macinare centi- naia di chilometri per poter trovare una struttura che possa curare l’anima dai mostri della malattia.

Ma non mi sono arresa, anzi, non ci sia- mo arresi: martedì 16 febbraio è stata approvata una legge regionale per l’im- plementazione di strumenti e misure per la prevenzione e la cura dei disturbi

alimentari; una Rete regionale, interven- ti ambulatoriali, strutture appropriate, sono soltanto piccoli passi che potranno portare a un riconoscimento nazionale e soprattutto sociale.

Vedere una patologia, una malattia o un disturbo che prima veniva sussurrato ai pazienti, e vissuto per tanto tempo come una vergogna, portato davanti alla Leg- ge, davanti allo Stato, mi fa pensare a

tutte le battaglie combattute dai miei ge- nitori, mi fanno ripensare a quegli sguar- di persi che rincorrevo tra quei maledetti corridoi, e che poi ritrovavo di fronte allo specchio.

L’intercettazione precoce, la diagnosi, un’allocazione appropriata dei pazienti e la presenza di Asst specifiche con uni- tà funzionali rappresentano la grande scommessa che la Lombardia ha lan- ciato, predisponendo 4 milioni di euro all’anno per costruire una rete sanitaria che possa sostenere tutti i pazienti, e an- che le loro famiglie.

Ma questo potrà risolvere del tutto la ca- renza di strutture italiane, l’insufficienza dei ricoveri, o le lunghe liste d’attesa?

Forse no, forse sì, ma le voci dei pazienti, e il loro disagio quotidiano non può ri- manere inascoltato.

Il processo di guarigione è lungo e costel-

lato di alti e bassi; a volte penso che in un piccola parte scura della mia mente lei ci sarà ma non è più il mostro di prima che manipola ogni cosa e controlla ogni pensiero.

È silenziosa e dormiente, ma qualche volta, quando magari è una giornata no, qualcosa si risveglia e cerca di farsi spa- zio stuzzicando quella fragilità.

Oggi ho capito che la malattia è come un seme, è lì fermo in quell'angolino e solo con le nostre azioni possiamo nutrirlo o meno.

Se decido di lasciargli spazio il seme cre- sce e mi soffoca, se scelgo di non tenerlo vivo diventerà debole e scarno.

Conosco questo seme e la sua potenza, sta a me decidere e l'arma più potente è il mio coraggio.

guerra la stai facendo a te stessa e che il nemico non è fuori, ma dentro di te. La priorità diventa affrontarlo e pre-occu- parsene, anche se lo vedevi come l’«unico amico», capace di darti forza, sicurezza e protezione.

La terza questione è affrontare il mondo esterno:

la gente che ti circonda.

Il senso di vergogna ti fa sentire così pic- cola perché hai una «cosa» che neanche ha il diritto di essere chiamata malattia, o se la riesci a nominare, non riesci a comu- nicarla: come ammettere che il tuo scopo nella vita è un numero? Un obiettivo che è diventato dogma.

È impensabile far capire e convincere che:

la tua giornata può essere sostenuta con una mela, conti i maccheroni che hai nel piatto, centellini, con precisione da chimi- co, le gocce d’olio nella tua insalata.

Non riesci più: a guardare un film, a par- lare con i tuoi genitori, ad uscire con gli amici; a dormire la notte, perché la tua te- sta è su quel numero, sul movimento che hai fatto o che dovrai fare il giorno dopo per mantenere quel peso, sul costante bi-

lancio che devi giustificare a fine giornata, sul controllo e previsione di qualsiasi cosa ti accada.

Quando qualcuno cerca di entrare in que- sto mondo così schematico che neanche il miglior ingegnere riuscirebbe a costruire, inizi a inventarti tante bugie che neanche Pinocchio potrebbe gestire; mille scuse per nasconderti o fuggire su quell’«isola felice».

Ma perché fa così paura parlarne e aprire le porte della prigione che hai creato con le tue stesse ossa? E a chi permettere di aprirle per far entrare aria in questa stan- za soffocante? A chi permettere di starti accanto quando non riesci tu stessa a far- lo?Non tutti ci riescono, infatti, perché non tutti capiscono o, perché più di noi si sen- tono impotenti, incapaci o non autorizza- ti. C'è chi non se ne accorge, o chi finisce per viverlo come un capriccio.

Quanti tabù, quanta ignoranza e scarsa informazione c’è intorno! Quanta rabbia e compassione per le persone che diventa- no opprimenti, per quelle che neanche ti

vedono, o fanno semplicemente finta, per chi scredita la malattia, o ne fa motivo di scherzo. Io stessa ne ho fatto una barzel- letta, una «grassa risata» sui «mesi persi»

in ospedale; su come mia mamma spiega- va al vicino di casa o al parente: «Mia fi- glia va tutti i giorni a mangiare in ospeda- le», quasi fossi un’infermiera alla mensa;

sulla facilità di uscirne: «ma sì tanto basta che mangi…», «finalmente si vedono un po' di pancia, culo e tette».

Ma il mondo esterno non è fatto solo dai propri cari e dai veri partner di questo percorso: dottori, medici, psichiatri, ma si estende ovunque, a scuola, al mondo del lavoro. Che giustificazioni trovare con il proprio datore di lavoro, con il seleziona- tore durante i colloqui per dare un senso ai buchi sul cv, ai permessi di cui necessi- tiamo, alle limitazioni di sforzi, orari, ca- richi e così via; ai colleghi, agli insegnanti o ai compagni di scuola, per la propria as- senza, per le mancanze o per ciò che po- trebbe essere letto come un «privilegio».

Qui l’ironia della sorte è anche più sottile:

ti trovi a dover sponsorizzare la tua ma- lattia per farti assumere e farti assegnare quell’etichetta invalidante, che se da un lato, lentamente, ti consentirà di uscire dalle mura dell’ospedale, ti farà anche uscire allo scoperto e ti metterà a nudo davanti a tutti.

Lì mi vedo finalmente anch’io.

Mi vedo ancora in quel corpicino così fragile, in quegli occhi così spenti da non riuscire a vedere neanche più la luce, in quei muscoli così stanchi di caricarsi di tutta quella pesantezza, in quel sorriso che emana tristezza.

Ti guardo e ti vorrei dire: la vita è solo tua; meriti di vivere e non di sopravvivere, perché la vita è tanto bella; impara a vede- re quello che vedono gli altri, a cambiare prospettiva e a non soffermarti solo su ciò che non va, a capire che se non ti ami e non ti prendi cura di te, nessun’altro potrà farlo al posto tuo; che quella che ti sem- brava l’unica soluzione al tuo disagio, è in realtà la tua condanna a morte.

La mia percentuale di invalidità Una lotta contro la burocrazia

Quattro milioni di euro all'anno Costruire

una rete sanitaria per i pazienti

di Margherita Ferrazza, B.Liver

Q

uesto non è un pezzo facile da scrivere per me, perché la battaglia per l'accettazione di me stessa, anima e corpo, è ancora in corso. Ma, forse, la mia espe- rienza può dare coraggio ad altre persone, e questo mi spinge a scrivere ugualmente.

Il mio percorso per l'ottenimento delle ca- tegorie protette è iniziato più di un anno fa, su consiglio dei miei dottori. Io non ci credevo, come spesso capita, e inizial- mente ho preso la faccenda con estremo pessimismo, quasi avessi intrapreso questo percorso per fare un piacere alla mia dot- toressa di Niguarda, più che a me stessa. È stato grazie al fatto che i miei dottori non hanno mai smesso di credere che io potes- si avere un futuro, anche quando io non lo credevo, che è potuto succedere tutto.

E questo tutto è stata la scoperta che sì, forse una possibilità ce l'avevo anche io.

Come ho detto, ho intrapreso l'iter molto stancamente. Inizialmente si trattava di chiedere al mio medico di base un certi- ficato introduttivo da mandare all'Inps.

Non chiedetemi di essere più precisa, perché tuttora ho difficoltà a capire esat- tamente cosa ho fatto. La burocrazia non è il mio forte. Una volta inviata questa do- cumentazione, l'Inps (che nella mia testa è diventata una sorta di entità superiore abbastanza inquietante) mi ha ricontatta- ta per una visita di fronte a una commis- sione. È questo gruppo di persone a dover poi valutare la cosiddetta «invalidità».

Ecco, questa è la faccenda raccontata da un punto di vista pratico. Inutile dire che io l'ho vissuta, come spesso mi capita, con grande affanno e passione. Il mio medico di base ha sbagliato due volte a inviare la prima certificazione all'Inps (scrivendo i suoi dati al posto dei miei, cosa che ha del comico, ma che, ahimè, è la verità). Io, già di natura non proprio una persona molto positiva, inizialmente volevo lasciar ca- dere la questione in quel tritacarne dove finiscono tutte le cose della mia vita che

ho iniziato e abbandonato a metà. Ma poi qualcosa è scattato. La testardaggine che mi è tipica è entrata in gioco, e allora mi sono detta che avrei fatto di tutto per ot- tenere ciò che volevo. Una volta ricevuta la convocazione per la visita, ho dovuto raccogliere tutto il materiale provante la mia invalidità. Personalmente, non ho mai avuto il problema di accettare l'idea che io potessi essere considerata «invali- da», perché mi sono sempre sentita un po' disadattata. La cosa veramente problema- tica, per me, è stata accettare che fossero delle altre persone, sconosciute per di più, a doverlo valutare. E che tutto il dolore provato da me in questi anni, i tre ricove- ri, gli anni in day hospital, le notti insonni per la fame, i gesti autolesionistici, tutto insomma, venisse ridotto a una percen- tuale. Perché è di questo che si tratta alla fine. La commissione valuta «quanto» si sta male, e in base a questo è deciso se si rientrerà o meno nelle categorie protette.

Se, inizialmente, vedevo in questo solo una riprova di quanto ingiusto fosse il mondo, poi, però ho provato a vederla in

modo diverso. Quella piccola percentuale era come un riconoscimento, e come se qualcuno mi dicesse: «Margherita, sei sta- ta tanto male, e noi questo lo capiamo e perciò potrai essere aiutata». Soprattutto, raccogliere il materiale da mostrare alla commissione, per quanto faticoso, ha avu- to una grande importanza per me e mi ha dato coraggio. Tutti i dottori che mi se- guono mi hanno mostrato il loro supporto e sono diventati come un unico corpo, cal- do di amore, che mi sosteneva. Ognuno ha scritto qualcosa su di me e il mio per- corso, ognuno ha donato un po' del suo tempo per aiutarmi. E io mi sono sentita

non più piccola e ridotta a una percentua- le, ma enorme, potente, forte di tutto l'im- pegno che io e i miei curanti stavamo met- tendo per la mia salute. Munita di tutta questa forza, mi sono presentata di fronte alla commissione, e ho accettato che aves- se il diritto di guardare la documentazione e ascoltare ciò che avevo da dire. Il tut- to è durato molto poco, ma ha avuto un grande significato per me. Ovviamente, però, non era finita così. Perché (ebbene sì) il mio medico di base aveva commesso un ulteriore errore nel compilare l'iniziale certificazione. Sconvolta, vengo a sapere che forse avrei dovuto fare tutto da capo.

È stato allora, però, che è entrata in gioco la Margherita determinata, quella che, nel bene e nel male non si arrende se vuole qualcosa. Ho iniziato a chiamare persone a caso, sia al CAF, dove avevo presentato la richiesta, che all'Inps, finché non sono riuscita a trovare un cavillo per raggirare l'orribile burocrazia che sta dietro a tutto l'iter (e questa la considero una piccola vit- toria personale). Insomma, dopo mesi di attesa da quando avevo iniziato tutto, ho ricevuto la lettera che attestava la mia per- centuale di invalidità e, successivamente, quella che mi dichiarava parte delle cate- gorie protette. Grazie a questo, ho potuto ottenere quello che attualmente è il mio lavoro: insegnare ai bambini della scuola elementare l'arte del lavoro manuale e dell'artigianato. Un mondo fatato e pro- tetto, un nido nel quale finalmente posso stare senza l'ansia di sentirmi inadatta e fuori posto, un luogo dove sentirmi utile e arricchita umanamente ogni giorno.

Tutto questo non sarebbe stato possibile senza l'aiuto dei miei dottori, ma devo dire, nemmeno senza che IO lottassi. Mi viene da parlare a chi legge quest'articolo, perché ha disturbi alimentari: so che sie- te incredibilmente testardi e determinati, ma provate a incanalare tutto questo in qualcosa di positivo! Non è facile, nem- meno per me ora, ma davvero c'è tanto di bello da godere là fuori, nel mondo. Non privatevene.

LE ILLUSTRAZIONI SONO DI CLAUDIA BIGNARDI E MAX RAMEZZANA

I medici

che ti aiutano

E le istituzioni

che faticano

ad ascoltare

(5)

Imparare a Il Bullone ha chiesto a parenti e amici dei B.Liver come si aiutano le

TESTIMONIANZE persone che amiamo durante i momenti difficili della malattia

stare accanto

Mai arrendersi

di Margherita, mamma di Gaia

T

rovare un modo di stare accanto a una persona che soffre di DCA, non è semplice, soprattutto in principio, quando la malattia si manifesta palesemente e non si è consapevoli a cosa si sta andando incontro.

Parlo per esperienza personale, in quanto mamma di una ragazza affetta da questa patologia da tre anni.

In principio è come uno tsunami, arriva e ti toglie il fiato, travolge e sconvolge tutto, non c'è il tempo per capire, ci sei dentro e basta.

Ci sentivamo frastornati, disorientati, inebetiti di fronte a quel dolore inatteso e tutto quello che cercavamo di dire e di fare, risultava sempre e comunque sbagliato.

Ci siamo sentiti soli, impotenti, abbandonati, non sape- vamo cosa fare e come comportarci.

Poi, piano piano, e soprattutto grazie al supporto del- lo staff medico specializzato dell'Ospedale di Niguarda, abbiamo iniziato a capire con che «COSA» ci stavamo relazionando e come essere aiutati e guidati.

E cosi siamo ripartiti da zero, siamo ripartiti da noi come famiglia.

Via i pregiudizi che non aiutano e via le sentenze gratu- ite da parte di chi non vuole conoscere e capire, ma solo ferire, cercando continuamente di sminuire e sottovalu- tare questa terribile malattia.

Noi genitori abbiamo imparato con il nostro amore incondizionato, a stare semplicemente ad ascoltare e a volte a non parlare, a contenere la loro rabbia e lasciare sfogare il dolore, la sofferenza.

Il percorso è lungo e faticoso, ma adesso ci prendiamo per mano e camminiamo insieme, più forti e più consa- pevoli di come affrontare e combattere questa insidiosa e subdola malattia.

Perciò consiglio a chi vuole stare vicino ai ragazzi che soffrono di DCA, di non giudicare, ma di ascoltare senza pregiudizi e senza commiserazione.

Essere presenti e far sentire il proprio affetto, dimostran- do la sensibilità di chi non insiste nel pretendere risposte a domande troppo invasive e dirette, ma lasciando a loro la libertà di parlarne, se si sentono in grado di poterlo e volerlo fare.

Spesso questi ragazzi, quando raggiungono con fatica la consapevolezza di ciò che stanno vivendo, si sentono soli, si rendono conto che i loro amici hanno timore ad avvi- cinarsi e a comportarsi normalmente; la malattia spa- venta, il dolore fa male, è più facile allontanarsi... tutto

ciò è comprensibile, è umano.

Ma se si vuole davvero bene, una soluzione si trova e si cerca, per esempio, chiedendo ai genitori del ragazzo/a come comportarsi e cosa evitare di fare e di dire.

Ed è quello che hanno fatto alcuni amici di nostra figlia, che ancora adesso ci sono, e anche se a volte si sbaglia, non importa, si può sempre rimediare, ciò che conta è la voglia di stare insieme e di mettersi in gioco.

La parola d'ordine è: non arrendersi mai!

di Matteo, ragazzo di Alessia

I

o e Alessia stiamo insieme ormai da 8 mesi. Faccio fatica a crederci. Sono davvero felicissimo che sia la mia ragazza e non potrei chiedere di meglio.

Perché sì, nonostante tutte le difficoltà che sono sor- te durante questo periodo, la mia vita, con lei, è decisa- mente più bella.

Inizialmente non avrei mai pensato che i disturbi ali- mentari avrebbero potuto portare così tante conseguen- ze nella vita di Alessia. Solo con il passare del tempo ho cominciato davvero a capire quanti risvolti psicologici siano implicati.

Fin da subito io e Alessia abbiamo cercato di goderci il momento e di fare tantissime cose insieme, come fare tanti giri, mangiare fuori e divertirci. Lei per esempio, è davvero innamorata di Milano e mi ha portato a spasso per la città (e per negozi ovviamente) con un grandissimo entusiasmo. Abbiamo fatto giornate intere

fuori casa, in montagna e sul lago, e tutte le volte ra- gionavo e affrontavo la giornata normalmente, come ho sempre fatto. Pian piano mi sono reso conto che queste giornate erano condizionate da certe regole ed eventi:

colazione, pranzo, cena e merenda da consumare in de- terminate fasce orarie, non camminare troppo, riposarsi, dolori allo stomaco o alla testa, rientrare a una certa ora e avvisare subito sua madre in caso di cambio di pro- gramma e così via. Probabilmente all’inizio pensavo che fosse un po’ tutto esagerato, ma è bastato poco per capire che invece era tutto necessario, per il suo bene.

Sinceramente ci sono stati dei momenti in cui pensavo che sarebbe stato davvero impegnativo seguire questa

Ci vuole

tanto amore

routine e non sapevo se sarei riuscito a entrare in questa logica. Sono stato catapultato in un mondo nuovo. Non posso negare che ci sono stati deversi momenti di scon- forto e tristezza, di pianti e di rabbia. Perché la voglia di fare è tantissima. La voglia di non avere più i dolori che compaiono all’improvviso per potersi sentire più liberi di organizzare la propria vita. La paura di non farcela. La voglia di non stare lontani a causa del Covid. Eh già… il Covid è stata una bella mazzata sul morale di tutti, ma sul morale di Alessia è stata ancora più grossa. Lei ha voglia di recuperare tutti i giorni della sua vita passati in casa debilitata e ha una voglia indescrivibile di viaggiare, cose che questa pandemia sta rendendo incredibilmente difficili.

Nonostante tutto Alessia riesce sempre a farti sorridere e a farti emozionare, perché la malattia non potrà mai portarle via il suo grande cuore. Probabilmente lei non se ne rende conto, ma ha la capacità di regalarti una quantità immensa di amore e di affetto, e io quando li ricevo sono la persona più felice del mondo. Il suo amore è qualcosa di unico, di così genuino e puro. E io a mia volta sono felicissimo di donarle

il mio, perché lei così si sente protetta e al sicuro e la fa stare bene. Sapere che riesco a farle questo effetto, è bellissimo.

Nonostante tutto sono certo che vale la pena lottare in- sieme, perché là fuori il mondo è da scoprire e noi non abbiamo tempo di rincorrere la malattia. Sarà lei che dovrà vedersela con noi, perché l’amore è più forte.

Combattere insieme

di Francesca, mamma di Noemi

S

tare vicino a una persona che soffre di Disturbi del Comportamento Alimentare è estremamente difficile e allo stesso tempo molto delicato.

Mi chiamo Francesca e mia figlia Noemi si am- mala di anoressia nervosa all’incirca cinque anni fa, in realtà già qualche anno prima un piccolo buco nero inizia a farsi spazio nella sua mente. In un freddo gen- naio, dopo vari tentativi con la dottoressa di base e la psicoterapeuta, riusciamo ad avere l’appuntamento con il centro ospedaliero di Niguarda e lì ha inizio il vero e concreto affronto della malattia.

Sapevo già che non poteva essere cosa semplice, ma non potevo immaginare la difficoltà, l’accettazione e la sof- ferenza che questa patologia porta con sé, mettendo in discussione il coraggio e la fragilità di ognuno.

È estremamente difficile combattere una malattia così subdola quando non si ha alcun farmaco e quando ti senti dire anche dai medici che esiste guarigione, ma che richiede tempo, pazienza e forza; allora ti trovi a com- battere quel mostro impersonificato da tua figlia, che ti affronta costantemente in ogni singolo gesto,

cercando di prevalere.

Spesso sbagli e commetti errori pensando che il tuo at- teggiamento potrà togliere da quello stato di inibizione, ma è così quando fissi la morte negli occhi e non hai l’arma adatta per combatterla. Con terrore ti affidi agli esperti e da loro impari ad avere pazienza e sangue fred- do; ti insegnano a lottare contro la malattia, camminan- do al fianco di tua figlia e riconoscendo le sue fragilità e le tue.

Per alcuni sembrerà paradossale, ma in questo percorso spesso è come se io fossi entrata in simbiosi con il males- sere di Noemi e per certi aspetti ho sentito quel dolore.

Questo è stato anche il mio punto di forza per stringere i denti e zittirla.

Ad oggi sono serena e fiera di essere di supporto alla gra- duale Rinascita di mia figlia.

Comunità di Villa Miralago. Corsi di gruppo con psico- logi e il confronto con altri genitori, ci hanno aiutato e ci hanno dato forza, perché non eravamo soli. Le famiglie hanno bisogno di un supporto competente. Per non mol- lare si ha bisogno di una grande squadra. La speranza alcune volte la si perde, ma poi si prova «un'altra strada e un'altra ancora». Si spera sempre che la «prossima» sia quella giusta. Si può VINCERE, si DEVE VINCERE.

Ce la faremo.

di Lina, mamma di Sara

P

arlare di anoressia è molto, molto complicato e non facile. Sono la mamma di Sara, lei si è am- malata di anoressia a 12 anni. Sara, il 25 marzo compie 21 anni e stiamo ancora oggi combat- tendo con questo Mostro. In questi anni io e mio marito abbiamo lottato con lei e la malattia ha preso anche noi!

Paure, sfiducia, malessere, preoccupazioni, ansie, corse in ospedale e il dramma di non farcela. Io e mio ma- rito, abbiamo imparato a conoscere meglio la malattia, grazie al supporto medico dell'ospedale Niguarda e della

Si può

vincere di Davide, fratello gemello di Giulia

N

on mi sarei mai aspettato una cosa del genere, ma soprattutto che accadesse a mia sorella.

Perciò partiamo dal principio…

Erano un po’ di giorni che vedevo i miei pre- occupati, non capivo per cosa, ma si vedeva che centrava mia sorella.

Un giorno tornato a casa dal lavoro, i miei mi dissero che Giulia l’indomani avrebbe dovuto andare in ospeda- le per fare una visita, quale visita io non lo so, pensavo a di tutto e di più, che si fosse ammalata di qualcosa di serio... perché si vedeva che sul suo viso c’era qualcosa che non andava e che nascondeva.

Il giorno seguente ricevetti da mio padre una chiama- ta che mi diceva: «Guarda che Giulia ha deciso di farsi ricoverare in ospedale», ho detto, «okay», perché cosa puoi rispondere? Ti si gela il sangue, soprattutto se non sai cosa sta succedendo...

Dopo un mese di ricovero andai a trovarla in ospedale, era la prima volta che ci andavo. Una volta dentro, mi son detto: «qua mi perdo», perché era gigantesco; ero sconcertato per quello che avrei potuto vedere, e incre- dulo di quello che poi ho visto...

L’ultimo ricordo che avevo di Giulia, era quello di una ragazza normale, in carne ma non troppo, sportiva, bella come adesso... e vederla lì sul letto, intubata con il sondino e magra fino all’osso, è stato scioccante, ave-

Ritornare liberi

va superato ogni limite. È stata dura andare avanti con quell’immagine di lei davanti agli occhi, perché non sai se può migliorare, lo speravo con tutto il cuore, ma hai paura che potrebbe peggiorare.

Allora Giulia non poteva fare alcun tipo di sforzo e per andare in giro aveva la carrozzina: questo credo sia il mio ricordo peggiore di quel periodo, perché a vederla lì sopra mi sono reso conto di quanto fosse grave la si- tuazione.

I miei presero una casa proprio dietro all’ospedale, in modo che Giulia fosse più vicina e che comunque po- tesse anche vivere in modo un più normale, con la sua cameretta, arredata come piace a lei, o magari divertirsi anche con i giochi da tavolo. È stato un lungo periodo quello, dove c’era questa piccola abitazione in cui lei vi- veva con mamma e papà, e la casa dove siamo cresciuti così vuota, con un tale silenzio. Era davvero brutto. Non la vedevo spesso, i miei forse 2/3 volte a settimana se andava bene, e comunque si vedeva che erano a pezzi anche loro.

Ricordo quando le hanno tolto il sondino, quello fu un passo in avanti, ma anche un potenziale pericolo: se lei non si fosse saputa adattare velocemente, la situazione avrebbe potuto peggiorare. Lì ho avuto molta paura per lei. Quando poi le hanno dato la possibilità di tornare a casa, non sapevo come comportarmi: che dirle, cosa faccio adesso?

Giulia stava tutto il giorno in cameretta, non usciva se non per andare in bagno o per una breve passeggiata. Il problema si presentava all’ora di mangiare: lei andava in crisi, vedeva nel cibo un nemico, come se fosse veleno.

Ricordo che ogni tanto mettevo su le cuffie per non sentirla parlare con mia madre, ovviamente sempre del cibo, o del corpo. Erano più le volte che uscivo per non stare in casa, perché anch’io volevo i mei spazi, un po’

di pace, perché era stressante e c’era bisogno di qualcosa per alleviare la tensione.

All’inizio per Giulia è stato difficile anche unirsi a tavola con mia mamma e con mio padre e io non ne capivo il perché, ancora oggi faccio fatica, però le era davvero difficile mangiare in compagnia, ma con il tempo la cosa è migliorata ed è merito suo, perché ha combattuto ed è riuscita a uscirne poco alla volta, giorno dopo giorno.

Con il sostegno degli amici e dei familiari ha ritrovato se stessa, almeno sotto alcuni aspetti, perché ho notato un netto cambiamento in lei. Due ricordi mi rimarranno sempre: uno più del passato, di ciò che lei era e uno più presente di quello che é ora. D’altro canto cambiamo tutti con il tempo: lei è migliorata parecchio e di questo ne sono orgoglioso, anche se tendo a non dimostrarglielo mai, ma le voglio un gran bene e gliene vorrò sempre.

Quando è riuscita ad uscirne, ha aiutato molto le sue amiche conosciute in ospedale, ricoverate con lei , sta- va loro molto vicina, dava consigli per migliorare piano piano, perché è il modo migliore e lo ha fatto con una certa grinta.

Vi svelo una cosa, che ogni tanto lei mi ha chiesto e che riguarda il tatuaggio che ho sul braccio destro. Quando Giulia me ne ha chiesto il significato, le ho sempre rispo- sto aggirando la cosa, ma quel tatuaggio è per lei. Perché ho pensato a quando era in ospedale, chiusa lì dentro, triste e io ero fuori e potevo fare tutto, e gliel’ho dedica- to, perché quando lo guarda le possa venire in mente di viaggiare, di fare, di esplorare, perché finché si è liberi bisogna esplorare e tenersi stretti i ricordi felici! Io sono del tipo che me ne frego molto, se mi si conosce bene, ma lei, mia sorella, ci rimarrà sempre nel mio cuore e nei miei pensieri, sempre! Se io sono la sua parte peggiore

LE ILLUSTRAZIONI SONO DI CLAUDIA BIGNARDI, DAVIDE LAZZARINI E MAX RAMEZZANA

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