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Rosy BINDI

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Academic year: 2022

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Rosy BINDI

Quel 12 febbraio del 1980

“Sei ancora solo Vittorio? Ancora senza scorta? Davvero vuoi farci preoccupare?” Era la domanda che ad ogni incontro gli rivolgevano i colleghi della Facoltà. Avevano iniziato dopo il rapimento di Aldo Moro e forse non avevano mai smesso di sollecitarlo durante quei due anni che separarono l’assassinio del Presidente della Democrazia Cristiana dall’attentato a Vittorio Bachelet.

A quella domanda il professore accennava un sorriso e riusciva sempre a cambiare argomento senza sembrare evasivo e soprattutto scortese.

La Facoltà di Scienze politiche fu molto provata in quegli anni.

Aldo Moro e Vittorio Bachelet, entrambi docenti all’Istituto di Diritto Pubblico e Internazionale, esercitavano con massima assiduità la loro funzione di professori conciliandola con i loro impegni politici e istituzionali. Non certo perché allora non era obbligatoria l’aspettativa, ma perché amavano la loro professione, la ricerca, l’insegnamento, gli studenti. Tenevano lezione nella stessa aula, noi assistenti ci conoscevamo, e la presenza del maresciallo Leonardi era diventata familiare.

La tensione, il dolore, la rabbia, la paura di quegli anni ci passavano dentro, non erano soltanto fatti di cronaca, non erano soltanto oggetto di riflessione politica, erano la vita delle persone, toccavano le relazioni, gli affetti.

Una mattina dopo la lezione, mentre in Istituto stavamo valutando alcuni elaborati di tesi di laurea, mi feci coraggio e gli rivolsi anch’io la domanda: “Professore perché non ha la scorta?” Dalla risposta capii che la sua vita era davvero in pericolo e che ne era pienamente consapevole. Non voleva essere scortato per non esporre la vita di altre persone. La strage del 16 marzo del 1978 era stata una dimostrazione evidente dei rischi che correvano gli uomini delle scorte. Aveva come autista un agente di polizia penitenziaria, e spesso lo faceva attendere fuori dai cancelli della Sapienza per raggiungere a piedi la facoltà.

Anche quella mattina del 12 febbraio il Vice Presidente del CSM era solo. Solo con me, che ero la sua unica assistente e con un gruppetto di studenti che, dopo aver seguito la lezione, ci seguivano a distanza sulle scale che dall’aula Aldo Moro conducevano all’Istituto dove il professore aveva il suo studio.

Quel martedì nell’aula magna della confinante Facoltà di Giurisprudenza era in corso una conferenza sul terrorismo con la partecipazione, tra gli altri, di Lama e Violante.

I locali della nostra facoltà erano deserti. Sapemmo nei giorni seguenti che mentre il prof. Bachelet teneva la sua lezione, si era sparsa la voce della presenza di una bomba e tutti erano stati invitati ad allontanarsi. Nessuno però era venuto nell’Aula Aldo Moro ad avvertire noi.

Salivamo in silenzio e dopo aver superato il pianerottolo della porta a vetri che portava all’esterno dell’edificio il professore mi chiese se potevo fermarmi per ricevere gli studenti: “Io - mi disse- quasi quasi andrei...”In quel momento un volto di donna, che pensai fosse una studentessa, apparve alle spalle del professore che cambiò immediatamente espressione. Il suo volto mi apparve improvvisamente spaventato, terrorizzato, forse perché la donna, che lo allontanò bruscamente da me, aveva già puntato la pistola alle sue spalle.

In quella frazione di attimo capii cosa stava accadendo, sperai che potesse trattarsi di una gambizzazione, anche se da tempo i brigatisti avevano abbandonato gli atti intimidatori. Sprofondai nella disperazione e nella paura quando vidi puntare le pistole al cuore e sparare, quando vidi il professore barcollare, sbattere la testa contro la parete, cadere a terra e ricevere l’ultimo colpo alla nuca. Urlai e cercai aiuto. Mi sembra ancora un tempo interminabile quello che trascorse prima che qualcuno ci raggiungesse. Poi arrivarono tutti.

I colleghi della facoltà si presero cura di me mentre continuavo a chiedere di avvertire la famiglia e soprattutto il figlio Giovanni che era negli Stati Uniti a studiare.

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Di lì a poco la facoltà si riempì di studenti, di partecipanti alla conferenza del terrorismo, di forze di polizia. Di autorità. Insieme alla famiglia arrivò anche il Presidente Pertini.

Mi è stato chiesto di ricordare quella tragica mattina per onorare la figura di Vittorio Bachelet a 40 anni dal suo martirio. Questo è ciò che ricordo. Forse non corrisponde pienamente alla verità dei fatti. Il dolore, la paura, la rabbia vissuti in quel momento possono aver condizionato e in parte alterato la mia percezione della realtà.

Fui tra l’altro una testimone inutile ai fini dell’indagine. Non fu certo il mio contributo all’identikit della donna che permise agli investigatori di risalire ad Anna Laura Braghetti, che pure avevo visto in volto. Men che meno fui utile all’individuazione di Bruno Seghetti che nei miei racconti alla polizia era solamente l’uomo che aveva sparato il colpo alla nuca.

Di quella mattina di sole, che sembrava anticipare la primavera romana e che improvvisamente ci fece ripiombare nel freddo grigiore dell’inverno, mi sento comunque, nel mio piccolo, testimone. E come tale sento la responsabilità di chi, avendo vissuto la stagione che va dal tragico biennio 1978 - 1980 fino alla liberazione a Padova del generale Dozier, ha il dovere di trasmettere alle giovani generazioni la consapevolezza che quegli anni vanno conosciuti e studiati, vanno compresi nel loro significato storico e nella loro portata anche politica. Sono un capitolo cruciale per capire quanto sia fragile e preziosa la nostra democrazia, quali pericoli ha attraversato, quali ferite ha subito e rischia ancora di subire e per coltivare la riconoscenza verso coloro che hanno dato la vita per la libertà, la giustizia, la pace.

Le vittime delle Brigate rosse non sono mai state scelte a caso.

Dopo molti anni, dopo aver compiuto un percorso di ripensamento, anche grazie all’incontro con il padre Adolfo Bachelet, il fratello gesuita del Professore, Anna Laura Braghetti scriverà nella sua biografia che uccidere il Vice Presidente del CSM fu un gioco da ragazzi, perché l’obiettivo era indifeso e il suo comportamento abitudinario. È vero. Indifeso certo, e abitudinario. A messa ogni mattina con la moglie Maria Teresa, a lezione in Università ogni lunedì, martedì e giovedì mattina.

Ma davvero fu ucciso perché eliminarlo era un gioco da ragazzi?

No, io penso invece che come Aldo Moro, come Roberto Ruffilli, come i tanti magistrati, giornalisti, carabinieri, poliziotti, sindacalisti che caddero per mano del terrorismo, Bachelet fu ucciso perché le Brigate Rosse volevano eliminare tutti gli autentici servitori di quello Stato che nella loro follia volevano abbattere e che potevano contribuire a stabilire un legame forte, trasparente e credibile tra cittadini e istituzioni.

I 40 anni che sono trascorsi da allora hanno reso evidente che le Brigate Rosse sono state anche o soprattutto lo strumento, consapevole o inconsapevole, di un disegno politico, non meno pericoloso delle loro farneticanti teorie sovversive, che puntava a ostacolare il pieno compimento del progetto di democrazia delineato nella nostra Costituzione.

Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro hanno drammaticamente interrotto il processo teso a realizzare una compiuta e matura democrazia, che il Presidente della DC aveva individuato nella democrazia dell’alternanza. Non fu certo scelto a caso quel 16 marzo, giorno in cui si presentava alle Camere il primo governo di solidarietà nazionale sostenuto da quelle forze politiche che legittimandosi reciprocamente sarebbero poi state avversarie e in competizione tra loro.

I lunghi anni che ci separano da quel mattino forse non sono stati ancora sufficienti per recuperare il ritardo che l’interruzione di quel processo ci ha fatto accumulare. E la nostra democrazia resiste, ma soffre, è forte, ma esposta a vecchie e nuove insidie. Un bene prezioso ma fragile che non dobbiamo stancarci di custodire e rafforzare.

Il 1980 era iniziato con l’assassinio, il 6 febbraio, di Piersanti Mattarella, per mano della mafia e del terrorismo nero. Il presidente della Regione Sicilia stava offrendo all’intero paese un esempio di buona amministrazione in una regione del mezzogiorno. Per sconfiggere la mafia, voleva semplicemente una Sicilia con le carte in regola. E questo contrastava con gli interessi di Cosa

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nostra e metteva in allarme chi aveva sempre prosperato grazie all’intreccio tra mafia e politica. La determinazione e il rigore di Piersanti Mattarella facevano paura a tanti.

Vittorio Bachelet era il vice presidente del Consiglio Superiore della magistratura in anni nei quali i magistrati erano tra i principali obiettivi del terrorismo, ma soprattutto il rapporto tra l’Ordine giudiziario e gli altri poteri dello Stato e la politica era percorso da forti tensioni e rischiava una rottura profonda. Con la sua particolare predisposizione al dialogo, la sua sapienza giuridica, la sua raffinata capacità politica era riuscito a tenere unito il CSM e proprio pochi giorni prima la sua morte aveva ottenuto il voto unanime su un importante documento che affrontava il rapporto tra Parlamento e Magistratura in piena aderenza al dettato della nostra Carta fondamentale.

Anche questo difficile risultato faceva paura e costituiva un ostacolo a quei poteri che nell’ombra puntavano alla destabilizzazione degli equilibri della Repubblica per sospendere e alterare il sapiente disegno della nostra democrazia costituzionale.

Mi sono chiesta più volte perché fosse stato ucciso proprio all’università e nella sua facoltà. Perché non fu scelto un altro luogo e un altro momento, come ad esempio il mattino presto, quando ogni giorno si recava nella sua parrocchia a Messa?

La risposta più vera è venuta dal Cardinale Carlo Maria Martini. Un anno dopo la morte l’arcivescovo di Milano parlerà di Vittorio Bachelet come di un martire laico, perché non fu assassinato mentre proclamava la sua fede, ma mentre serviva, fedele alla Costituzione, la libertà, la giustizia, la pace.

Fu ucciso nel luogo della sua professione di fede laica, che tanto amava, alla quale non aveva mai rinunciato e alla quale sperava di poter tornare presto a tempo pieno. Era onorato del servizio che stava svolgendo nelle Istituzioni italiane, ma ne avvertiva anche tutta la fatica e aspettava il mese di dicembre, quando terminando il mandato al Csm sarebbe tornato ai suoi studi e ai suoi giovani.

Gli fu impedito. Ma il suo estremo sacrificio, il suo martirio laico, ci consegnano la luminosa testimonianza di un impegno che dobbiamo fare nostro per la libertà del nostro Paese.

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