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Testimonianza del coniuge in comunione o separazione dei beni

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Testimonianza del coniuge in comunione o separazione dei beni

Autore: Redazione | 03/06/2019

Il marito o la moglie può testimoniare in un processo che vede coinvolto il coniuge o deve astenersi?

Immagina di aver subito un incidente stradale. L’unica persona che può testimoniare in tuo favore è tua moglie, seduta accanto a te al momento dello scontro. È chiaro però che, se l’assicurazione dovesse riconoscerti il risarcimento, anche lei ne riceverebbe un indiretto vantaggio economico, vivendo insieme a te ed avendo optato per il regime di comunione dei beni. Dall’altro lato, però, è

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ingiusto privarti di un testimone, e quindi del diritto di difesa, solo perché siete sposati. Ti chiedi allora se la testimonianza del coniuge sia valida o meno. Le cose sarebbero andate diversamente se aveste adottato il regime di separazione dei beni? E se il partner fosse un semplice convivente, unito da una relazione di fatto, ma non ancora convogliato a nozze? Tutte queste domande hanno già ricevuto una risposta da parte della giurisprudenza e, di recente, da un’ordinanza della Cassazione [1]. Vediamo cosa stabiliscono leggi e giudici in merito alla testimonianza del coniuge in comunione o separazione dei beni.

Chi può testimoniare?

Nel processo civile, la testimonianza è ammessa solo da parte di chi è “terzo”

rispetto al processo. In altri termini, non possono testimoniare le parti in causa tra loro. Ricordiamo per completezza che, invece, nel processo penale, la sola vittima può essere testimone: le sue dichiarazioni vengono valutate dal giudice e possono costare una sentenza di condanna nei confronti dell’imputato.

L’avvocato non può chiaramente testimoniare in favore del proprio cliente.

Se una persona muore nel corso di un processo, i suoi eredi non possono testimoniare in quanto diventano parti del processo; tuttavia, una loro testimonianza fornita prima del decesso del parente resta ugualmente valida.

Non può testimoniare chi è parte di una causa connessa solo se questa viene riunita all’altra (la testimonianza resta valida però prima della riunione) [2].

Il codice di procedura civile [3] esclude poi dalla possibilità di testimoniare tutte le persone che possono avere un “interesse” nella causa. Questo interesse però non può essere un semplice “interesse economico”, diretto o indiretto; deve piuttosto trattarsi di un interesse tale da legittimare il titolare a intervenire nella causa ed essere parte di essa [4]. Come noto, infatti, la legge consente di agire in giudizio solo se si ha un «interesse giuridicamente qualificato»: in soldoni, ci deve essere stata la lesione di un proprio diritto personale.

Chiaramente, chi – solo per ragioni economiche – ha interesse che sia ripristinato un diritto altrui, per via del vantaggio indiretto che ne riceverebbe (come nel caso in cui ad arricchirsi sia un convivente), non per questo può agire in giudizio e fare causa al posto o in supporto dell’interessato.

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Il coniuge può testimoniare?

Dunque, almeno in generale, la moglie o il marito, per il solo per il fatto di essere in comunione dei beni con il coniuge, non può fare causa al posto suo e, quindi, può testimoniare in suo favore. Ma ciò non toglie che vi possano anche essere situazioni in cui il coniuge vanti un interesse economico diretto e personale alla controversia. Sicché, in questo secondo caso, la testimonianza sarebbe preclusa.

Quali sono queste situazioni? Ecco i criteri dettati dalla giurisprudenza.

Testimonianza del coniuge in comunione dei beni

Per il solo fatto di essere in comunione dei beni, non si perde il diritto a testimoniare in favore del coniuge. Ma è necessario fare una valutazione caso per caso. Ad esempio, la Cassazione ha detto che la testimonianza del marito o della moglie in comunione dei beni non è ammessa se la causa riguarda beni in comunione (ad esempio la casa o l’auto) [5].

Il criterio per stabilire dunque se un coniuge può testimoniare in favore dell’altro va valutato caso per caso, sulla base degli interessi in gioco (ossia del diritto oggetto di controversia [6]).

Nella più recente sentenza citata ad inizio articolo, la Cassazione ha chiarito che, in tema di incapacità del coniuge in regime di comunione legale a testimoniare nelle controversie in cui sia parte l’altro coniuge, non è configurabile, nell’ordinamento vigente, un generale divieto di testimonianza; bisogna invece verificare, di volta in volta, la natura del diritto oggetto della controversia.

In caso di regime di comunione di beni fra i coniugi, qualora sia promossa una causa da parte del marito o della moglie su un bene destinato a incrementare il patrimonio comune, l’altro coniuge si trova in una condizione di incapacità a testimoniare (stante la sua facoltà di intervenire nel processo).

Testimonianza del coniuge in separazione

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dei beni

Gli stessi concetti appena enunciati valgono, a maggior ragione, per i coniugi in separazione dei beni. Qui sono ancora inferiori gli eventuali punti di contatto che consentirebbero al coniuge – in caso di contitolarità del diritto in contestazione – di partecipare al processo ed esserne parte. Con la conseguenza che il marito o la moglie in separazione dei beni, se non è anche cointestatario del bene oggetto della causa, può sempre testimoniare.

Note

[1] Cass. ord. n. 9399/2019 del 4.04.2019. [2] Cass. sent. n. 5629/1979. [3] Art.

246 cod. proc. civ. [4] Cass. sent. n. 21106/2013. [5] C.Cost. 24 febbraio 1995 n.

62, nello stesso senso: Cass. 8 maggio 2015 n. 9304, Cass. 21 gennaio 2010 n.

988, Cass. 22 aprile 2008 n. 10398. [6] Cass. 16 aprile 2009 n. 9015, Cass. 9 febbraio 2005 n. 2621, Trib. Milano 7 aprile 2008 n. 4499.

Sentenza

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORRENTI Vincenzo - Presidente Dott. BELLINI Ubaldo - Consigliere Dott.

BERTUZZI Mario - Consigliere Dott. CRISCUOLO Mauro - rel. Consigliere Dott.

VARRONE Luca - Consigliere ha pronunciato la seguente: ORDINANZA sul ricorso 5749-2015 proposto da: (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), rappresentati e difesi dall'avvocato (OMISSIS) giusta procura in calce al ricorso; - ricorrenti - contro (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), in proprio e

quali eredi di (OMISSIS), domiciliati in ROMA presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, e rappresentati e difesi dall'avvocato (OMISSIS) giusta procura in calce

al controricorso; - ricorrenti incidentali - avverso la sentenza n. 4357/2014 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI, depositata il 30/10/2014; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/01/2019 dal Consigliere Dott. MAURO

CRISCUOLO; Lette le memorie depositate dai ricorrenti. RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO 1. Con atto di citazione del 3 ottobre 2005, (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), quali eredi della madre (OMISSIS),

convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) al fine di accertare la proprieta' degli attori sul

locale posto al primo piano del fabbricato in (OMISSIS), riportato in NCEU alla partita (OMISSIS), ancora intestato ai convenuti ed a (OMISSIS) deceduta il

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(OMISSIS). Deducevano che (OMISSIS) aveva acquistato per effetto di un accordo non trasfuso in forma scritta il vano oggetto di causa dal fratello (OMISSIS), dante

causa dei convenuti, al quale era pervenuto a seguito della divisione per notar (OMISSIS) del 5 settembre 1954; inoltre il locale era stato sin dal dicembre del 1955 accorpato alla proprieta' di (OMISSIS), e sino alla morte di quest'ultima avvenuta nel (OMISSIS), avendo gli attori continuato a possedere il bene anche in

seguito, avendo quindi maturato l'usucapione della proprieta'. Si costituivano i convenuti i quali deducevano che il vano era stato in realta' locato alla dante causa

degli attori e chiedevano il rigetto della domanda, proponendo in via riconvenzionale domanda di risoluzione del contratto per morosita' risalente al 1992. Il Tribunale con la sentenza n. 3444/2011 rigettava la domanda attorea e dichiarava inammissibile, in quanto tardiva la domanda riconvenzionale, attesa la

tardiva costituzione dei convenuti. Avverso tale sentenza gli attori proponevano appello principale cui resistevano i convenuti, proponendo a loro volta appello incidentale. La Corte d'Appello di Napoli con la sentenza n. 4357 del 30 ottobre

2014 ha rigettato entrambi i gravami, compensando per la meta' le spese del grado, ponendo la residua parte a carico degli appellanti principali. Quanto alla

deduzione secondo cui la tardiva proposizione della domanda riconvenzionale determinava anche l'inammissibilita' dell'eccezione sollevata dai convenuti e delle

relative richieste istruttorie, la Corte di merito osservava che la contestazione mossa dai convenuti circa la ricorrenza dei presupposti per l'usucapione non

poteva esser qualificata in termini di eccezione in senso stretto, con la conseguenza che la verifica circa la ricorrenza di un contratto di locazione ben

poteva essere esaminata dal giudice adito, ancorche' al fine di rigettare la domanda attorea. Del pari infondato era ritenuto il secondo motivo di appello con il

quale si contestava la corretta valutazione della prova testimoniale. La Corte d'Appello osservava che la valutazione delle prove rientra nell'attivita' decisoria

espressamente riservata al giudice di merito, essendo condivisibile sul punto quanto opinato dal Tribunale che aveva escluso che fosse emersa in maniera univoca la prova che il godimento del locale da parte degli attori fosse connotato dalla presenza di una situazione di possesso. D'altronde anche i lavori eseguiti da

parte degli attori non erano di per se' incompatibili con la presenza di una detenzione riconducibile ad un contratto di locazione, cui avevano fatto cenno i

testi addotti da parte convenuta. Doveva pertanto reputarsi escluso il

raggiungimento della prova dell'avvenuta usucapione, prova che deve presentare i caratteri della certezza, senza che possano residuare spazi e perplessita' sulla veridicita' ed attendibilita' delle circostanze asserite. Del pari motivata in maniera

corretta era la decisione del Tribunale di escludere la sostituzione di un teste indicato da parte attrice e deceduto, posto che il decesso risaliva ad una data anteriore alla stessa indicazione del suo nominativo nelle memorie istruttorie di cui

all'articolo 184 c.p.c. Disatteso anche il motivo di appello principale, concernente

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la liquidazione delle spese di lite, era rigettato anche l'appello incidentale con il quale si contestava la conclusione circa l'inammissibilita' della domanda riconvenzionale, per la tardiva costituzione dei convenuti. Infatti, la deduzione secondo cui (OMISSIS) si era gia' costituito alla data del 9 marzo 2006, e quindi tempestivamente rispetto alla data indicata in citazione per la prima udienza, si fondava sul fatto che una copia di tale comparsa recava il timbro della cancelleria

con tale data. Tuttavia era emerso che il convenuto non si era regolarmente costituito con il deposito di fascicolo di parte, essendo altresi' emerso che la comparsa di costituzione non recava la sottoscrizione autentica della parte. Solo a

seguito del rilievo del Tribunale, il (OMISSIS) aveva regolarizzato la sua costituzione, con la produzione del fascicolo di parte contenente la comparsa in

originale con regolare procura, sicche' a tale data poteva farsi risalire la costituzione, data che pero' era successiva alla maturazione della preclusione alla

proposizione della domanda riconvenzionale. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS)

articolato in quattro motivi. Gli intimati hanno resistito con controricorso, proponendo a loro volta ricorso incidentale condizionato sulla base di un motivo. 2.

Il primo motivo di ricorso principale denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell'articolo 167 c.p.c., comma 2 e articolo 184 c.p.c., nella formulazione anteriore

alla riforma di cui alla L. n. 80 del 2005, con la conseguente inammissibilita' della prova testimoniale richiesta dai convenuti, in quanto correlata alla domanda riconvenzionale inammissibile. Si deduce che le deduzioni difensive svolte dai convenuti, e volte a supportare la domanda riconvenzionale, mirata a conseguire

la risoluzione del contratto di locazione asseritamente esistente tra le parti, in relazione al bene oggetto di causa, non potevano essere esaminate dal giudice di

merito, in quanto travolte dalla declaratoria di inammissibilita' della domanda riconvenzionale. Ne derivava che anche la prova testimoniale funzionale alla dimostrazione della conclusione di un contratto di locazione non poteva essere ammessa, sicche' la decisione della causa sarebbe dovuta avvenire prescindendo

dal contenuto delle deposizioni rese dai testi addotti dalla controparte, le quali avevano invece fondato la valutazione di incertezza circa gli esiti della avversa prova richiesta da parte ricorrente. Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa

applicazione degli articoli 112 e 166 c.p.c. e articolo 167 c.p.c., comma 2 nonche' l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti con il travisamento della tipicita' della domanda riconvenzionale. Si ritiene erronea la valutazione dei giudici di merito che hanno ritenuto che i convenuti si

fossero limitati a proporre delle mere allegazioni difensive volte a negare l'esistenza dei presupposti dell'azione di usucapione, trascurando che tali deduzioni erano pero' destinate a supportare una domanda riconvenzionale della

quale e' stata rilevata l'inammissibilita'. I due motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati. Ed, invero,

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parte ricorrente non contesta che la deduzione circa la intervenuta conclusione di un contratto di locazione, quale titolo idoneo a giustificare la mera detenzione del bene da parte degli attori, ove riguardata di per se sola, costituirebbe un'eccezione

o, ancor meglio, una mera contestazione dei fatti costitutivi della domanda di usucapione (come dovrebbe ricavarsi dalla previsione di cui all'articolo 1141 c.c., comma 2), ma sostiene che avendo i convenuti legato tale affermazione anche alla

proposizione di una domanda riconvenzionale, che pero' e' stata ritenuta oggetto di tardiva formulazione, sarebbe stata preclusa ogni possibilita' di tenere conto di

tale allegazione, anche ai fini dell'ammissione delle richieste istruttorie delle controparti, che erano appunto finalizzate a dimostrare come sin ab initio il godimento del bene della dante causa dei ricorrenti avesse titolo in una detenzione

derivante da un contratto di locazione. Va quindi evidenziato che non appare in alcun modo contestata la conclusione secondo cui l'allegazione dell'esistenza del

contratto di locazione, in quanto finalizzata esclusivamente ad ottenere il rigetto della avversa domanda di usucapione, sia un'eccezione che esula dalla previsione di cui all'articolo 167 c.p.c., comma 2 (e cio' ancorche' nel caso di specie, anche a

voler accedere alla diversa tesi che si tratti di eccezione in senso stretto, la soluzione non muterebbe, posto che, risalendo la citazione alla data del 3/10/2005,

come confermato dagli stessi ricorrenti, operano le previsioni di rito nella formulazione anteriore alla novella di cui alla L. n. 80 del 2005, entrata in vigore solo il 1 marzo del 2006, cosi' che la preclusione alla proposizione delle eccezioni in senso stretto era differita alla successiva scadenza del termine concesso ai sensi

del previgente articolo 180 c.p.c., comma 2; ne deriva che essendosi i convenuti costituiti, tardivamente per la proposizione della domanda riconvenzionale, ma comunque alla prima udienza indicata in citazione del 15/12/2005, le deduzioni

contenute nella loro comparsa di risposta circa l'esistenza del contratto di locazione, come si ricava dalla lettura anche del controricorso, sarebbero in ogni

caso tempestive anche ove qualificate come eccezioni in senso stretto), ma si pretende piuttosto di far discendere dall'inammissibilita' della domanda riconvenzionale, la stessa inammissibilita' dell'eccezione. La doglianza non puo' pero' avere seguito. Va in primo luogo richiamato lo stesso contenuto dell'articolo

36 c.p.c. il quale nel fornire la definizione delle domande riconvenzionali, fa riferimento a quelle domande che dipendono dal titolo dedotto in giudizio dall'attore o da quello che gia' appartiene alla causa come mezzo di eccezione, confermando quindi l'autonomia che esiste concettualmente tra l'eccezione e la

domanda riconvenzionale, sebbene entrambe possano avere ad oggetto i medesimi fatti, rappresentando la seconda l'opportunita' per la parte, a fronte della formulazione di un'eccezione, di un ampliamento del novero delle domande

proposte nel corso del giudizio, a fine di conseguire, perlomeno per l'eccipiente, un'utilita' ulteriore rispetto a quella rappresentata dal mero rigetto della domanda

avversa. Ne consegue che l'eventuale inammissibilita' della domanda

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riconvenzionale, ancorche' per ragioni di rito legate alla sua tardiva proposizione, come avvenuto nella fattispecie, non pone nel nulla anche l'eccezione alla quale la

domanda stessa si agganciava, imponendo quindi al giudice di dover in ogni caso valutare i fatti posti a fondamento dell'eccezione, sebbene al piu' limitato fine di

pervenire al rigetto della domanda. La correttezza della soluzione alla quale e' pervenuta la Corte distrettuale, trova conforto anche nella giurisprudenza di questa Corte, la quale ha appunto affermato che (cfr. Cass. n. 4233/2012), mentre

con la domanda riconvenzionale il convenuto, traendo occasione dalla domanda contro di lui proposta, oppone una controdomanda e chiede un provvedimento positivo, sfavorevole all'attore, che va oltre il mero rigetto della domanda attrice,

mediante l'eccezione riconvenzionale egli, pur deducendo fatti modificativi, estintivi o impeditivi, che potrebbero costituire oggetto di un'autonoma domanda

in un giudizio separato, si limita a chiedere la reiezione della pretesa avversaria, totalmente o anche solo parzialmente, al fine di beneficiare di una condanna piu' ridotta. Ne consegue che la mancata impugnazione della decisione di rigetto della

domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni per i vizi dell'opera appaltata, resa dal giudice di primo grado in considerazione della mancata prova dei fatti posti a fondamento di essa, comporta la sola preclusione di riproporre nel giudizio

di appello l'esame di detta domanda, ma non determina l'abbandono

dell'eccezione riconvenzionale, riproposta in sede di gravame, parimenti fondata su tali vizi e volta a confutare la pretesa attorea sotto il profilo del "quantum"

(conf. Cass. n. 16314/2007). Ne discende quindi che (cfr. Cass. n. 21472/2016) anche quando il convenuto chieda, in via riconvenzionale, accertarsi l'esistenza di un rapporto contrattuale diverso da quello prospettato dall'attore, sull'assunto che

da cio' ne deriverebbe la nullita' o l'inefficacia, totale o parziale, o comunque un effetto estintivo, impeditivo o modificativo dei diritti fatti valere dall'attore medesimo, domandando anche l'eventuale condanna di quest'ultimo al pagamento

di quanto dovuto in base a tale differente prospettazione, qualora una siffatta domanda riconvenzionale risulti inammissibile per motivi processuali, la stessa puo' e deve comunque essere presa in considerazione come eccezione, con il solo

e piu' limitato possibile esito del rigetto delle richieste di parte attrice (conf. Cass.

n. 11679/2014, in relazione all'inammissibilita' della domanda riconvenzionale formulata con la memoria ex articolo 416 c.p.c. senza richiesta, ex articolo 418 c.p.c., di spostamento dell'udienza, essendosi ritenuta non preclusa la valutazione,

da parte del giudice, del fatto integratore della stessa che assuma valore di eccezione, quale fatto impeditivo, estintivo o modificativo del fatto costitutivo della

pretesa dell'attore, ai fini della decisione sulla domanda principale; Cass. n.

10206/2015; Cass. n. 22552/2009). Correttamente quindi la sentenza gravata, pur confermando la valutazione di inammissibilita' per ragioni processuali della domanda riconvenzionale, con l'impossibilita' di potersi pronunciare sulla richiesta

risoluzione del contrato di locazione intercorrente tra le parti, ha pero' valutato la

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ricorrenza del dedotto rapporto locatizio, sebbene al limitato fine di respingere la domanda avversa di usucapione. 3. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione

e falsa applicazione dell'articolo 115 c.p.c., comma 1, articoli 116, 244 e 246 c.p.c.

con la conseguente inammissibilita' della prova richiesta dalla controparte, stante la nullita' delle deposizioni dei testi incapaci e l'irrilevanza delle deposizioni comunque inattendibili. Si denuncia altresi' la violazione dell'articolo 104 disp. att.

c.p.c. e l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio quanto al diniego della richiesta di provvedere alla sostituzione di un teste indicato da parte attrice ma

defunto. Si osserva, quanto alla prima parte della censura, che due dei testi escussi erano coniugi, in regime di comunione legale, con due delle convenute, e

che era stata tempestivamente sollevata eccezione di incapacita' a testimoniare ex articolo 246 c.p.c., essendo stata tale eccezione poi reiterata nei motivi di

appello. Ne deriva che, essendo evidente l'interesse dei testi rispetto alla controversia, tali deposizioni non potevano contribuire alla valutazione dei fatti di

causa, essendo quindi inficiato ab imis il giudizio reso sul punto dalla corte di merito. Si osserva poi che e' stata trascurata la ben maggiore specificita' delle

deposizioni dei testi indicati da parte ricorrente e si lamenta che era del tutto ingiustificato il diniego opposto alla richiesta di sostituzione del teste (OMISSIS),

deceduta in data successiva alla notifica dell'atto di citazione, motivata solo in ragione del fatto che tale sostituzione non era stata gia' effettuata in occasione della redazione delle memorie istruttorie ex articolo 184 c.p.c. Anche tale motivo deve essere disatteso. Ed, invero va rilevata l'inammissibilita' della censura nella parte in cui in maniera del tutto generica, ed in violazione anche della previsione di

cui all'articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6, lamenta una valutazione inattendibile delle prove testimoniali operata dal giudice di merito, mirando con tale doglianza a

contestare l'insindacabile esercizio del potere di apprezzamento delle risultanze istruttorie, riservato dalla legge al giudice di merito, senza nemmeno peritarsi di riportare in maniera compiuta il tenore delle varie deposizioni testimoniali rese sul

punto dai testi escussi. Quanto, invece alla diversa deduzione circa l'eccezione di incapacita' di alcuni dei testi addotti dai controricorrenti, si rileva che in ricorso la parte ha riferito che l'eccezione de qua era stata tempestivamente formulata nel corso ed all'esito dell'assunzione della prova testimoniale stessa, costituendo poi specifico oggetto di gravame. Al riguardo va richiamato il costante orientamento di

questa Corte secondo cui (cfr. Cass. n. 23896/2016) qualora, in sede di ricorso per cassazione, venga dedotta l'omessa motivazione del giudice d'appello

sull'eccezione di nullita' della prova testimoniale (nella specie, per incapacita' ex articolo 246 c.p.c.), il ricorrente ha l'onere, anche in virtu' dell'articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di indicare che detta eccezione e' stata sollevata tempestivamente

ai sensi dell'articolo 157 c.p.c., comma 2, subito dopo l'assunzione della prova e, se disattesa, riproposta in sede di precisazione delle conclusioni ed in appello ex articolo 346 c.p.c., dovendo, in mancanza, ritenersi irrituale la relativa eccezione e

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pertanto sanata la nullita', avendo la stessa carattere relativo (conf. Cass. n.

6555/2005; Cass. S.U. n. 21670/2013). La mancata specificazione circa la reiterazione dell'eccezione de qua, non solo sub specie di motivo di appello, ma

anche in occasione della precisazione delle conclusioni in primo grado, rende evidente quindi l'inammissibilita' della doglianza ai sensi della norma ora menzionata. L'eccezione di incapacita' sarebbe comunque infondata nel merito.

Ed, infatti, questa Corte ha precisato che (Cass. n. 2621/2005) in tema di incapacita' del coniuge in regime di comunione legale a testimoniare nelle controversie in cui sia parte l'altro coniuge, non e' configurabile, nell'ordinamento vigente, un generale divieto di testimonianza, dovendosi invece verificare di volta in volta la natura del diritto oggetto della controversia, avuto anche riguardo al carattere di norme di stretta interpretazione delle disposizioni sulla incapacita' a testimoniare, che introducono una deroga al generale dovere di testimonianza. In

tal senso si e' affermato che (cfr. Cass. n. 988/2010) in caso di regime di comunione di beni fra i coniugi, qualora sia promossa una controversia da parte di

uno di essi per l'attribuzione di un bene destinato ad incrementare il patrimonio comune, l'altro coniuge, pur non avendo la qualita' di litisconsorte necessario, si trova in una condizione di incapacita' a testimoniare, ai sensi dell'articolo 246 c.p.c., stante la sua facolta' di intervenire nel processo. Nella specie, pero', attesa

anche l'inammissibilita' della domanda riconvenzionale proposta, l'oggetto del processo era limitato solamente, avuto riguardo alla posizione dei convenuti, ad

ottenere il rigetto dell'altrui domanda di usucapione (o di accertamento della proprieta') ma in relazione a beni che erano di originaria proprieta' degli stessi

convenuti per provenienza ereditaria, e quindi sottoposti al regime dei beni personali. Ne deriva quindi che anche nel caso, come poi verificatosi, di esito fausto del giudizio per i convenuti, i rispettivi coniugi, sebbene fruenti del regime

della comunione legale, non avrebbero tratto alcun giovamento di carattere giuridico, venendo unicamente confermata l'appartenenza del bene, ma quale bene personale dell'altro coniuge, senza quindi alcun incremento del patrimonio comune. In merito invece alla doglianza che investe la mancata sostituzione del

teste deceduto, va in primo luogo ribadito che la prova testimoniale, a pena d'inammissibilita', va dedotta entro il termine perentorio di cui all'articolo 184

c.p.c., con specifica indicazione non solo dei fatti sui quali deve vertere l'escussione ma anche dei nominativi delle persone da interrogare (cfr. Cass. n.

27007/2005), sicche' stante l'inderogabilita' del regime delle preclusioni anche istruttorie, che prescinde per il rilievo della sua violazione dell'eventuale eccezione

della parte, non puo' trovare fondamento l'argomento di parte ricorrente secondo cui l'erronea indicazione di un teste deceduto con le memorie di cui all'articolo 184

c.p.c., non era stata eccepita dalla controparte, rilevando piuttosto la

considerazione secondo cui l'errore commesso si riverberava unicamente in danno dei ricorrenti che avevano indicato come teste un soggetto del quale non poteva

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poi avvenire l'escussione nel corso dell'istruttoria. Quanto alle vicende che possano colpire il testimone, e con specifico riferimento all'ipotesi di decesso, non ignora il

Collegio come questa Corte abbia in passato affermato che (cfr. Cass. n.

13187/2013) qualora, una volta ammessa la prova testimoniale con l'indicazione delle persone da assumere e fissata l'udienza per la loro escussione, sopravvenga il decesso di uno dei testi ammessi e la parte deducente non abbia provveduto alla sua intimazione per l'udienza di assunzione, tale parte non incorre nella decadenza

prevista dall'articolo 104 disp. att. c.p.c., comma 1 dovendo piuttosto trovare applicazione analogica - rispetto a questa ipotesi non disciplinata dal codice di rito - la norma contemplata nel comma 2 di detta disposizione che consente di ritenere

giustificata l'omissione e legittima il giudice a fissare, con successiva ordinanza, una nuova udienza per l'assunzione degli ulteriori testi ammessi, siccome, anche in

tal caso, si impone l'esigenza di evitare la decadenza determinata da un impedimento incolpevole (conf. Cass. 16764/2006), ma trattasi di precedenti che non appaiono attagliarsi al caso in esame. Ed, invero il richiamo alla presenza di un

impedimento incolpevole, induce a ritenere che la possibilita' di sostituzione del teste defunto possa essere invocata nel caso in cui il teste sia deceduto nelle more

tra il provvedimento di ammissione della prova (o al piu' tra la data di deposito delle memorie istruttorie) e quella fissata per l'escussione del teste, poiche' in tal caso il decesso del teste si pone come evento imprevisto che non puo' riverberarsi

in danno della parte che lo aveva indicato. A diversa conclusione deve invece addivenirsi nella diversa ipotesi in cui il decesso del teste sia anteriore alla data di redazione delle memorie istruttorie di cui all'articolo 184 c.p.c. essendo onere della

parte interessata verificare che i testi, eventualmente gia' indicati in occasione della redazione dell'atto introduttivo del giudizio, siano ancora in vita. L'omissione

di tale verifica rende non piu' incolpevole l'impedimento generato dalla dipartita del teste, e quindi impedisce di accedere alla eventuale richiesta di sostituzione, fatta salva l'ipotesi, che necessita di adeguata prova, che la mancata conoscenza del precedente decesso sia imputabile a cause oggettivamente non riconducibili a

negligenza della parte (fattispecie questa nemmeno dedotta dai ricorrenti). 4. Il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli articoli 1376, 1158, 1164 e 1141 c.c. nonche' l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che

e' stato oggetto di discussione tra le parti. Assumono i ricorrenti che sin dall'introduzione del giudizio avevano allegato che in realta' tra la propria dante causa ed il dante causa dei convenuti era intercorsa una compravendita del bene,

sebbene affetta da nullita' per vizio di forma. Il riconoscimento di tale vicenda negoziale avrebbe quindi dovuto condurre all'accoglimento della domanda di usucapione, essendo la soluzione dei giudici di merito gravemente inficiata dalla

erronea valutazione delle risultanze probatorie. Il motivo e' evidentemente inammissibile. In disparte la violazione dell'articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6 nella parte in cui si contesta l'apprezzamento delle prove testimoniali operato in sede di

(12)

merito senza nemmeno riprodurre il tenore delle varie deposizioni rese dai testi escussi (limitandosi solo a richiamare, e peraltro in maniera parziale, le deposizioni

rese da alcuni dei testi indicati dai ricorrenti), la censura si risolve nella

sollecitazione alla Corte di pervenire ad un diverso apprezzamento delle risultanze istruttorie, pretendendosi che si acceda alla tesi dell'esistenza di un contratto di

compravendita concluso in forma orale, quale titolo idoneo a giustificare il permanere nel godimento del bene da parte dei ricorrenti e della loro dante causa,

a fronte invece di una ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito che ha ritenuto che tale assunto difensivo non emergesse con carattere di univocita' dal

complessivo materiale istruttorio, non essendo stata quindi fornita quella prova dotata di specificita' e precisione che e' invece necessaria per l'accoglimento della domanda di usucapione (cfr. da ultimo Cass. n. 20539/2017, secondo cui in tema di

usucapione, l'esigenza di un attento bilanciamento dei valori in conflitto, tutelati dall'articolo 1 del Protocollo Addizionale n. 1 alla CEDU, come interpretato dalla

Corte Europea dei diritti dell'uomo, impone al giudice nazionale l'impiego di un particolare rigore nell'apprezzamento - anche sul piano probatorio - della sussistenza dei presupposti per l'acquisto a titolo originario della proprieta',

prevalente sul precedente titolo dominicale). 5. Stante il rigetto del ricorso principale, deve ritenersi assorbito il ricorso incidentale, in quanto espressamente

condizionato, con il quale i controricorrenti, in relazione alla declaratoria di inammissibilita' della domanda riconvenzionale, hanno dedotto la violazione e falsa

applicazione degli articoli 171, 291, 112 e 113 c.p.c. e del Regio Decreto n. 2071 del 1925. 6. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano

come da dispositivo con attribuzione all'avv. (OMISSIS), dichiaratasene anticipataria. 5. Poiche' il ricorso principale e' stato proposto successivamente al

30 gennaio 2013 ed e' rigettato, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilita' 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13 - della sussistenza

dell'obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione. Non ricorrono

invece le condizioni per l'applicazione di tale norma per i ricorrenti incidentali, atteso l'assorbimento del gravame incidentale. P .Q.M. La Corte rigetta il ricorso e

condanna i ricorrenti al rimborso delle spese del presente giudizio in favore dei controricorrenti, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori di legge, con

attribuzione all'avv. (OMISSIS) dichiaratasi antistataria; Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater,

inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti principali, del

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contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.

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