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CAPITOLO PRIMO

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CAPITOLO PRIMO

IL PRESUPPOSTO DELLA “NON PICCOLEZZA” DELL’IMPRESA

1 - Il piccolo imprenditore commerciale: motivi storici dell’esenzione dalla disciplina del fallimento.

Nel nostro sistema giuridico la disciplina delle attività economiche ruota intorno alla figura dell’imprenditore, la cui nozione è contenuta nell’art. 2082 del codice civile. A tale definizione fa seguito, subito dopo, quella del piccolo imprenditore (nell’art. 2083 c.c.). Il piccolo imprenditore è esonerato, anche se esercita attività commerciale, dall’assoggettamento al fallimento ed alle altre procedure concorsuali (art. 2221 c.c. e art. 1 L.F.), dalla tenuta delle scritture contabili (art. 2214 c.c.) e dall’iscrizione nel registro delle imprese, che non ha per lui

funzione legale.1

La nozione di piccolo imprenditore ha perciò rilievo essenzialmente negativo, perché serve per restringere ulteriormente l’ambito d’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale; il quale si applica, in linea di principio, solo all’imprenditore commerciale non piccolo.

L’individuazione della nozione di piccolo imprenditore (commerciale) non è mai stata agevole per la coesistenza di due diverse definizioni: l’art. 1 L.F. e l’art. 2083 c.c.

L’ art. 1 della legge fallimentare definisce le caratteristiche che deve presentare un soggetto per essere sottoponibile alla procedura del fallimento (c.d. presupposto soggettivo), prevedendo che sono soggetti alle disposizioni sul

1 I piccoli imprenditori sono iscritti in una sezione speciale del registro delle imprese e perciò gli effetti

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fallimento, sul concordato preventivo e sull’amministrazione straordinaria gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori.

La disciplina fallimentare non è però identica per tutti gli imprenditori, perché, a monte, il sistema codicistico distingue diversi tipi d’imprese e imprenditori, in base a tre criteri:

• l’oggetto dell’impresa (distinzione tra imprenditore agricolo e commerciale);

• la dimensione dell’impresa (distinzione tra imprenditore piccolo e medio-grande);

• la natura del soggetto che esercita l’impresa (distinzione fra impresa individuale, società e impresa pubblica).

A prescindere da quest’ultimo parametro (che non interessa approfondire in questa sede), occorre rilevare, in relazione al primo criterio, che la riforma della disciplina concorsuale ha ribadito la soggezione alla procedura del solo imprenditore commerciale, abbandonando l’idea – da molti auspicata – di estendere la disciplina a tutti gli imprenditori. L’esclusione dal fallimento dell’imprenditore agricolo è apparsa a taluni ingiustificata, soprattutto in rapporto alla nozione molto estesa d’impresa agricola contenuta nel riformato art. 2135 c.c.: si tratta di una disparità di trattamento tra imprese che non sembra trovare più valide ragioni e che potrebbe legittimare l’intervento della Corte Costituzionale.2

2 La procedura del fallimento nasce nel basso medioevo con gli statuti comunali e le corporazioni

mercantili per soddisfare le esigenze di autodisciplina interna della classe mercantile, in cui emerse il concetto di commerciante (molto cauto è il PAJARDI per il quale nel medio evo il processo esecutivo concorsuale perfezionerebbe soltanto la sua natura , Manuale di diritto fallimentare, 6° ed. Milano, 2002, § 18, pag. 55). Dobbiamo però confutare il luogo comune che il fallimento costituisca tradizionalmente un procedimento proprio ed esclusivo del ceto commerciale, ciò non è altro che un riflesso dell’influenza

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Il secondo criterio d’articolazione dell’impresa – come si è detto – s’incentra sulla figura del piccolo imprenditore.3

fallimentare non fosse ristretto ai soli commercianti e che, anche in seguito, pur riferendosi la maggior parte degli statuti ai soli mercatores , talune legislazioni comunali applicassero il fallimento a qualunque soggetto. (Nel sec. XIII: Repubblica veneta, Costituto di Siena, Statuto del capitano del popolo fiorentino. Nei sec. XV e XVI: Statuti di Genova, di Padova, della Mercanzia di Bologna che applicavano le norme sul fallimento ad ogni persona fuggitiva o che cessava i pagamenti. Per approfondimenti vedi PROVINCIALI, Trattato di diritto fallimentare , Milano, 1974 , pag. 15 e seg.) La restrizione del fallimento ai soli commercianti avvenne in epoca più tarda (vedi PECORELLA-GUALAZZINI , Fallimento ( storia) in Enciclopedia del diritto, XVI, Milano, 1967, nn. 1-2, pag. 22° e seg.). Il comune era un organo politico dell’intera città - Stato e per l’importanza che avevano il commercio e i commercianti, inevitabilmente i capi di esso divennero, in tutto o in parte, gli stessi esponenti del ceto commerciale. Per questo l’azione legislativa del comune tendeva all’incremento e alla tutela del commercio. I capi erano portati a sentire in modo particolare l’esigenza di tutela del loro ceto e della relativa attività.

Il fallimento, originariamente previsto come esecuzione collettiva a carico di chiunque, col volgere dei tempi è andato restringendosi al ceto commerciale, nelle due sue finalità, protettiva e repressiva (vedi anche PAJARDI , ultima op. cit. § 18, pag. 55).

Ciò può essere dipeso, oltre che dalle considerazioni di carattere politico appena dette, anche dal diverso contesto economico dei casi di dissesto: mentre il fallimento restava il rimedio per eccellenza nel dissesto commerciale caratterizzato da un più vasto impiego del credito e per il genere dei beni da liquidare (merci, crediti, titoli e simili); nel dissesto del debitore c.d. civile, dove i creditori erano pochi e i beni prevalentemente immobili, il fallimento non conservava più uguale efficacia. La diversa costituzione del patrimonio del debitore, in funzione della diversa (più o meno veloce) possibilità di liquidazione, è il fondamentale motivo per cui per il debitore civile si è preferita l’esecuzione forzata. Furono le necessità pratiche e funzionali che limitarono l’applicazione dell’istituto all’ambito in cui era più utile e risolutivo.

Con la fine della duplicazione delle fonti di diritto privato, che si ha con la riforma legislativa del 1942, un unico codice civile, quello attualmente vigente, concentra sia la materia civile che quella commerciale e la tentazione di estendere il fallimento ai non commercianti , sul modello delle legislazioni straniere che non si erano ispirate alla codificazione napoleonica (tedesca) , era affiorata, ma a questa estensione si erano trovati ostacoli decisivi sia per il contenitore (codice di commercio) sia per la tradizione storica (vedi MICHELI, in Atti del convegno nazionale dell’Associazione fra gli studiosi del processo civile,

Pisa, 3-5 giugno 1960, Milano, 1961 pag. 196. Esso critica la allora vigente legge fallimentare in quanto

ha mantenuto la limitazione dell’applicabilità del fallimento alla categoria degli imprenditori commerciali).

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La piccola impresa - o determinate figure di piccola impresa - è destinataria di una ricca legislazione speciale ispirata alla finalità di favorirne la sopravvivenza

e lo sviluppo attraverso molteplici agevolazioni.4

La limitazione delle procedure concorsuali all’imprenditore commerciale non piccolo è frutto di una scelta del legislatore, come lo è l’esenzione di questo ultimo dagli obblighi di pubblicità e di tenuta delle scritture contabili connesse allo statuto dell’imprenditore. Ne deriva una sorta di “privilegio” per il debitore piccolo imprenditore. Trattasi di una scelta storica che ha il vantaggio di riservare la complessa procedura fallimentare alle ipotesi più allarmanti d’insolvenza. Per quanto riguarda i motivi che hanno condotto ad esentare il piccolo imprenditore dalle procedure concorsuali, sussistono due distinte scuole di pensiero.

Una prima tendenza s’ispira al principio generale dell’ordinamento che si esprime in una speciale tutela del lavoro. Orbene, per l’art. 2083 c.c. la piccola impresa è un’impresa c.d. labour intensive: sono piccoli imprenditori coloro che esercitano l’impresa “prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”. In questa particolare ottica l’esenzione dal fallimento si giustifica con l’opportunità di consentire a tali soggetti, in caso di crisi, una fuoriuscita dal mercato senza i traumi conseguenti alla procedura concorsuale, anche in

relazione ai suoi aspetti penalistici 5. In tale prospettiva la categoria assume una

rilevanza dimensionale indiretta:

per cui l’art. 2082 definirebbe l’imprenditore in senso tecnico mentre il 2083 definirebbe una categoria sostanzialmente diversa perché, in essa l’organismo dell’impresa potrebbe del tutto mancare.

4 Vedi D.M. Industria del 27/06/1991 che individua i beneficiari di contributi in conto capitale ai sensi

del Regolamento CEE 24706/88 n. 2052 e vedi l. 5/10/91 n. 317.

5 Il carattere penale della legge e gli effetti d’ordine personale sono dovuti a motivi storici. Infatti, nelle

legislazioni statutarie dell’età intermedia il fallimento era pensato per assolvere una determinata funzione: stemperare la turbativa all’ordinato sviluppo dei traffici. La prevenzione venne così fondamentalmente affidata alla disciplina penale alla quale si riconosceva, per la sua severità, una funzione deterrente. La severità delle disposizioni di diritto concorsuale era in funzione diretta della crisi

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se nell’azienda deve prevalere il lavoro dei familiari, ciò costituisce anche un’indiretta limitazione quantitativa del numero degli addetti, soprattutto in

un’epoca in cui la tradizione delle famiglie numerose sembra tramontata.6

Una seconda tendenza, di cui sembra essere invece espressione l’art. 1, comma 2, L.F., si ispira ad un’imposizione più economica: l’esenzione della piccola impresa si qualificherebbe in quanto non sarebbe conveniente affrontare i costi di una procedura complessa, quando il patrimonio aziendale verosimilmente non giungerebbe neppure a coprire questi ultimi. Proprio il diverso impatto che esercita sul sistema sociale lo stato di crisi dell’imprenditore piccolo rispetto a quello medio grande legittima la diversità del trattamento di fronte all’ipotesi di fallimento: ritenendosi che, se in caso d’insolvenza del piccolo imprenditore l’allarme sociale può escludersi a priori, altrettanto automaticamente non può affermarsi per l’imprenditore medio grande. La non fallibilità del piccolo = ingannare) sa di frode (basti pensare che il giudice come primo provvedimento ordinava la rottura del

banco tenuto dall’insolvente sul mercato, da qui il termine di bancarotta). Contro il dissesto era anzitutto disposto l’arresto e contro il fuggitivo era pronunciato il bando con cui esso era posto fuori legge (nessuno poteva dargli assistenza e chiunque poteva offenderlo impunemente). Lo statuto dei mercanti di Bologna sanciva addirittura la pena di morte se la latitanza perdurava; a Lucca era prevista la tortura per indurre il debitore a pagare; in tutta la Toscana il fallimento doloso era parificato al furto qualificato e alla truffa. Altre sanzioni erano la perdita della cittadinanza, l’incapacità all’esercizio del commercio, la pubblicazione dell’effige sui muri (ridotta poi all’iscrizione su pubblici albi), la prescrizione di contrassegni di pubblica infamia (berretto di colore bianco o verde) ect. Una bolla del Papa Pio V del 1570, colpisce con pene gravissime coloro che falliscono per negligenza e dissipazione (li considera come ladri e frodatori) e sino al secolo XVIII il fallimento ha determinato automaticamente la cattura del fallito, vedi PERTILE , Storia del diritto italiano, VI, p. II, Padova, 1885, § 243, pag. 384 e seg.

Da queste sanzioni di natura personale deriva, nelle vigenti legislazioni (almeno in quelle anteriori alla riforma), il carattere anche personale del procedimento fallimentare che presuppone sempre due obbiettivi: il patrimonio sul quale incide l’esecuzione universale e la persona sulla quale discendono le sanzioni personali.

6 Vedi GLIOZZI, L’imprenditore commerciale. Saggi sui limiti del formalismo giuridico, Bologna, 1998,

pag. 161 ss. Egli riprende quell’impostazione secondo cui la figura del piccolo imprenditore coincide con quella del lavoratore autonomo, poiché egli svolge personalmente un’attività esecutiva in cui “ il ruolo di esecutore prevale su quello d’investitore”. L’identità tra piccolo imprenditore e lavoratore autonomo è stata sostenuta dal BIGIAVI, op. cit. pag. 94.

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imprenditore viene perciò ricondotta alla presunzione assoluta d’utilità della dichiarazione di fallimento.

Il dibattito sui motivi dell’esenzione è stato comunque molto articolato. Alcuni hanno sostenuto che le ragioni dell’esenzione risiedevano nel fatto che i piccoli

imprenditori, non svolgendo un’attività commerciale organizzata,7 non

sarebbero identificabili come imprenditori in senso tecnico. Tale tesi è stata molto criticata per la sua arbitrarietà logica e irrealtà pratica8. Altri hanno giustificato l’esclusione sulla base dell’entità del volume del credito concesso

alla piccola impresa9: ma anche questa motivazione è stata fortemente criticata

perché ciò giustificherebbe l’applicazione di un procedimento sommario più

semplice e spedito, ma non l’esclusione assoluta.10

Al di là dei motivi dell’esenzione, la stessa definizione della figura di piccolo imprenditore non è mai stato agevole a causa della coesistenza di una pluralità di nozioni diverse: quella dettata dal codice civile (art. 2083) e quella dettata dalla legge fallimentare (art. 1, 2° comma). Infatti, sin dalla promulgazione della legge

7 Vedi PROVINCIALI, op. cit., pag. 252; MONTEROSSI, Il concetto d’impresa negli atti di commercio,

in Riv. dir.comm., 1912, I, 413. Tale interpretazione ha come base le numerose deroghe stabilite per la piccola impresa. Gli autori affermano che la nozione di piccola impresa ha un rilievo soltanto negativo. Vedi anche SANTORO, L’impresa nel sistema del diritto civile, in Riv.dir.comm., 1942, I, 384 per cui l’impresa è la stabile impresa produttiva di grande e media dimensione.

8 Vedi BIGIAVI, op. cit. pag. 5, nota 8 secondo cui anche la piccola impresa è un’impresa in senso

tecnico e il rapporto tra art. 2082 e 2083 è un rapporto da genere a specie, la differenza tra impresa normale e piccola impresa è una differenza non qualitativa ma quantitativa. Inoltre, a sostegno di ciò vedi la relazione del Guardasigilli al codice per cui: “ il concetto d’impresa accolto nel codice non è legato a particolari dimensioni quantitative ma comprende la grande e media impresa come la piccola , … , il concetto generale dell’impresa non è in funzione delle dimensioni quantitative”.

9 Vedi LORDI, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Napoli, 1946, pag. 106, n. 7.

10 Aderisce a questo punto di vista : PROVINCIALI, op. cit., pag. 253; SATTA, Istituzioni di diritto

fallimentare, 5° ed. Roma, 1957 , n. 11, pag. 19 e seg.; DE SEMO, Diritto fallimentare, 5° ed. Padova,

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fallimentare, costituì motivo d’infinite discussioni se vi fosse contrasto o addirittura incompatibilità fra le due norme.

Può essere utile richiamare – per comodità d’esposizione – le principali posizioni dottrinali e giurisprudenziali formatesi nella disciplina precedente. Occorre tuttavia distinguere rispettivamente fra la situazione normativa anteriore al 1972, quella successiva a tale data e infine quella successiva al 1989.

2 - Due diverse nozioni del piccolo imprenditore già all’origine della disciplina.

Il corpus del diritto concorsuale è stato, fino a tempi recenti, la sola legge fallimentare (r.d. del 16 marzo 1942), la quale ha abrogato molte disposizioni che regolavano prima la stessa materia, lasciando in vigore le sole leggi speciali

sulla liquidazione coatta amministrativa. 1112

La legge fallimentare del 1942 accentua l’indirizzo pubblicistico del diritto concorsuale italiano13 (c.d. pubblicizzazione ): rafforzando, rispetto alle norme

11 Elenco dettagliato della abrogazioni: codice di commercio del 1882 libro III artt. da 683 a 867 e libro

IV artt. da 905 a 914; legge del 24 maggio 1903 n. 197; r.d.l. 28 dicembre1921 n. 1861; r.d.l. 3 gennaio 1922 n. 1; r.d.l. 2 febbraio 1922 n. 27; r.d.l. 13 marzo 1922 n. 289; r.d.l. 15 marzo 1923 n. 555, legge del 10 luglio 1930 n 995.

12 Dato il sistema di riforme dei codici sarebbe stato logico che, della legge fallimentare, se ne facesse

un libro (o parte di un libro) nel codice di procedura civile (Per approfondimenti sul dibattito sulla collocazione della legge fallimentare vedi: SATTA ,op. cit., n. 1 pag. 3-4; PROVINCIALI, op. cit., pag. 51; ANDRIOLI, Fallimento, in Enciclopedia del diritto, vol. XVI, Milano, 1967, nota 3 pag. 265 e n. 1; AZZOLINA , Il fallimento e le altre procedure concorsuali, 2° ed. , I, Torino 1961 n. 12 pag. 17; DE SEMO , op. cit. , n. 4 pag. 4 e seg.), ma questo era già compiuto e pubblicato (r.d. 28 ottobre 1940 n. 1443) perciò, non sapendo più dove collocarlo se ne fece una legge speciale ( il carattere di ripiego della soluzione non è celato neppure dai giuristi che concorsero alla formazione della legge : SATTA, Le

liquidazioni amministrative nella riforma del fallimento in Riv.dir.comm.,1941, I, 486 ).

13 Concorde è DE SEMO , op. cit. nota 7 a pag. 6, e DE MARTINI , Riforma della legge sul fallimento,

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anteriori, i poteri del giudice delegato a scapito degli organi rappresentativi dei creditori; aumentando il controllo degli organi giurisdizionali sull’operato del curatore e tutelando più energicamente gli interessi generali con eventuale sacrificio di interessi individuali.14

La disciplina del regio decreto s’ ispira ad una finalità liquidatoria e ad una tutela accentuata dei diritti dei creditori, determinando il c.d. spossessamento del patrimonio del debitore.

La legge è stata oggetto nel corso degli anni di ripetuti interventi da parte della Corte Costituzionale – a volte abrogativi e a volte interpretativi – al fine di adeguare la predetta normativa, via via sempre più datata, al mutato contesto

economico sociale. Numerosi e rilevanti sono stati gli interventi della Corte

Costituzionale e le innovazioni interpretative da parte del giudice ordinario; anche lo stesso requisito soggettivo della non piccolezza ha subito un lungo e travagliato iter interpretativo.

La legge del ’42, nella stesura originaria, considerava - l’espressione testuale era “sono considerati” - piccoli imprenditori gli esercenti un’impresa che fossero stati riconosciuti, in sede d’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. In mancanza di un accertamento vigeva un criterio sussidiario riferito al capitale investito, da utilizzarsi solo dove il primo fosse inapplicabile, fissato – nella fase di ultima applicazione della norma – in novecentomila lire (nella prima stesura l’investimento in azienda doveva essere inferiore a trentamila lire).

Già allora si poneva il problema di individuare il rapporto di tali parametri della legge fallimentare con i criteri stabiliti dall’art. 2083 c.c..

14 Quasi scomparsa è l’influenza dei creditori nell’andamento dei procedimenti concorsuali, essi non

hanno più alcuna ingerenza nella nomina del curatore mentre prima erano consultati sulla sua definitiva conferma (art 691 cod. comm.) e con le maggioranze potevano persino imporne al tribunale la surroga (art. 719 cod. comm.). Inoltre la riunione del comitato dei creditori è ridotta a soli due casi (accertamento del passivo e concordato) e i suoi pareri non sono vincolanti, salvo il caso di continuazione dell’impresa. Tutti i poteri sono ora riuniti nel tribunale e nel giudice delegato, il curatore è solo un organo esecutivo non influenzabile dai creditori .

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Sulla portata dell’art. 2083 c.c. si registrano diverse antitetiche correnti di pensiero:

A) Secondo una prima opinione, la nozione di piccolo imprenditore enunciata nel codice si esaurirebbe in quella dell’imprenditore che esercita un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia. L’enumerazione di vari tipi di piccolo imprenditore avrebbe solo un carattere esemplificativo con la conseguenza che le tre specie enumerate

resterebbero quindi accumulate dall’elemento della prevalenza.15 Vi è perciò un

solo criterio fornito dall’art. 1 L.F. per determinare la figura del piccolo

imprenditore.16

B) Secondo un’altra opinione, l’espressione “coloro che esercitano un’attività organizzata con la prevalenza ”, individuerebbe una specie autonoma di piccoli imprenditori, distinta da quelle dei coltivatori diretti del fondo, dei piccoli commercianti, e degli artigiani: si tratterebbe di una quarta e ultima categoria che si affiancherebbe alle altre.171819

15 Vedi : BIGIAVI, op. cit., cap. 2 n. 2 pag. 43; AZZOLINA, op. cit., pag. 91 nota 1; ASCARELLI,

Lezioni di diritto commerciale, Milano, 1955, 2° ed, pag. 159; JEAGER, Il piccolo imprenditore e la legge sui provvedimenti concorsuali, in Riv. dir. comm., 1942, II, pag. 291.

16 Vedi Cass. 18/07/58 in Riv.dir. comm., 1959, II, 350; Cass. 7/10/67 in Riv. dir. comm., 1968, II, 100. In

dottrina vedi: BIGIAVI, op. cit., pag. 43-44; JAEGER, in Riv.dir.comm.,op. cit., 1942, II, pag. 290 per cui nella formulazione della legge si deve vedere non tanto la descrizione di un’ultima categoria, conclusiva, quanto la notazione del carattere distintivo dell’intero genere; inoltre VALERI, in Manuale di diritto

commerciale I, Firenze, 1948, pag. 37 che afferma: “l’enumerazione dei tipi di piccolo imprenditore

contenuta nella legge ha valore esemplificativo e del resto giova a confermare il significato ampio e generale della nozione che chiude l’art. 2083”.

17 Vedi. FERRARA, Gli imprenditori e le società, Milano, 1945, pag. 41 nota 39 (ultima edizione del

2006) ; FERRI, Commentario del codice civile, dello SCIALOJA-BRANCA, Bologna, 1991 , pag. 724. (ultima edizione del commentario è del 2000, a cura di GALAGNO e FRES). Tale interpretazione si fonda su un argomento fragile: la nozione finale non dovrebbe applicarsi alle tre prime categorie perché letteralmente siamo in presenza della congiunzione “e” , diversa soluzione avremmo dovuto adottare ove si fossimo trovati davanti alla congiunzione “o”.

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C) Vi sono infine delle posizioni intermedie: chi sostiene che il criterio finale della prevalenza si applichi al solo coltivatore diretto e non all’artigiano e al

piccolo commerciante20; chi invece sostiene che detto parametro riguardi il solo

artigiano e non al coltivatore né al piccolo commerciante.21

Sembra preferibile la prima interpretazione secondo cui la prevalenza del lavoro familiare assume la valenza di criterio generale per definire l’esenzione .22 La prevalenza è intesa non sempre in senso quantitativo, ma spesso nel senso di preminenza: nel senso cioè che il lavoro proprio del piccolo imprenditore e dei familiari costituisce l’elemento determinante nell’ambito dell’organizzazione produttiva, rispetto al quale gli altri fattori della produzione degradano ad elementi accessori perchè rappresentano per il piccolo imprenditore solo il mezzo

18 Per una critica a tutte e due le interpretazioni vedi: CASANOVA, Le imprese commerciali: impresa e

azienda, Torino, 1974, pag. 128 e seg.

19 Vedi: Cass. 7/10/67 in Riv. di dir. comm., 1968, II, 100 con nota FERRI, Piccolo imprenditore e legge

fallimentare

20 Vedi AULETTA- SALANITRO, Diritto commerciale, l’’imprenditore e l’azienda, Milano, 2000

(ultima edizione del 2006) , per cui: “ il criterio del lavoro serve a distinguere il piccolo imprenditore agricolo e il professionista intellettuale mentre ....” Tale interpretazione è stata fortemente criticata dal BIGIAVI, op. cit., pag. 45 , nota 9, soprattutto per il riferimento ai professionisti intellettuali che non sono certo imprenditori.

21 Vedi FERRARA, Riv.dir.comm., 1944, I, 65 secondo cui la categoria del piccolo imprenditore non

sarebbe unitari ma composta di figure eterogenee: il nucleo centrale e naturale sarebbe l’artigiano.

22 L’ultima parte dell’art. 2083 si applica indistintamente a tutti gli imprenditori, vedi Trib. Forlì,

20/07/48, in Dir. fall. 1948, II, 242 (funzione di criterio generale). Inoltre a sostegno di tale interpretazione vedi la relazione del Guardasigilli dove si legge: “ Non poteva essere materia del codice la fissazione di particolari criteri di discriminazione fra agricoltore e coltivatore, tra industriale e artigiano, tra commerciante e piccolo commerciante, …. Il codice si limita pertanto a porre il criterio generale , secondo cui deve considerarsi piccolo imprenditore, qualunque sia la natura della sua attività economica, colui che esercita un’attività professionale organizzata prevalentemente…”. Contro chi sostiene che comunque tale relazione non ha carattere obbligatorio.

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per una completa esplicazione della sua attività. Il parametro della prevalenza introduce una differenza tra piccola e media impresa non già di qualità ma di

quantità, non di sostanza ma di grado.23

Nessun criterio di prevalenza è dato invece di ravvisare nella disposizione dell’art. 1 L.F., che faceva riferimento solo a criteri oggettivi e non relativi. Il problema pertanto si sposta sul significato da attribuire al concetto di prevalenza codificato dall’art. 2083 c.c.. In una prima fase, è stato sostenuto che la prevalenza fosse integrata ogni qual volta l’imprenditore non facesse ricorso

all’organizzazione del lavoro esterno24; ma tale interpretazione è stata fortemente

criticata sia da chi riteneva l’organizzazione del lavoro altrui come elemento essenziale per avere la qualifica dell’impresa25, sia da chi invece riteneva essenziale l’organizzazione di tutti i fattori della produzione.26

Quindi per rientrare nella definizione di piccola impresa è necessario che l’imprenditore presti il proprio lavoro all’impresa e che il suo lavoro e quello

degli eventuali familiari prevalga rispetto al lavoro altrui e al capitale.27

23 Vedi BIGIAVI, op. cit. pag. 42.

24 Vedi FERRARA, op. cit., GRECO, Profilo dell’impresa economica nel nuovo codice civile, negli Atti

della Reale accademia della Scienza di Torino, 1941 pag. 25 e JEAGER in Riv.dir.comm.,op. cit.,1942,

II, 291.

25 Dottrina secondo cui l’impresa avrebbe dovuto qualificarsi come un’organizzazione intermediatrice

del lavoro altrui. Vedi: ROCCO, Diritto commerciale, Parte generale, Milano, 1936, n. 47 pag. 193; BOLAFFIO, Il diritto commerciale, Torino, 1918 pag. 270; CASTAGNOLA, Formulario degli atti

commerciali e di procedura commerciale più importanti in relazione al codice di commercio italiano,

Torino, 1890, pag. 59.

26 Vedi BIGIAVI, op. cit., pag. 49-50. Esso sosteneva che la prevalenza andasse commisurata sia con

riferimento al lavoro altrui ma anche rispetto al capitale impiegato cosicché anche se non ci fosse stata organizzazione del lavoro altrui (solo lavoro proprio e dei familiari) ciò non sarebbe sufficiente ad affermare la prevalenza e la non fallibilità perché ci potrebbe essere stato un ingente capitale investito ed è questo da considerare come parametro per valutare la sussistenza o meno della prevalenza Tale interpretazione fu in seguito consolidata e adottata da molti altri.

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Al di là di del criterio del codice civile, già allora non poteva non apparire incoerente che un soggetto potesse essere considerato piccolo imprenditore per la norma civilistica e non per la normativa fallimentare. I criteri riscontrabili nelle due nozioni sono estremamente diversi, anche se costante appare il riferimento ad un elemento dimensionale. Le tesi formulate in dottrina al fine di comporre un tale contrasto non sono state univoche, essendo emersi diversi orientamenti. Secondo un primo orientamento le due nozioni dovevano ritenersi diverse. Da tale presupposto comune, si articolano posizioni differenti, in rapporto all’idoneità o meno dell’art. 1 L.F. a derogare l’art. 2083 c.c..

In primo luogo, all’interno di tale orientamento, una parte della dottrina propende per il carattere derogativo dell’art. 1 L.F.

a) Vi è chi contrapponeva nettamente le due norme, sostenendo la fallibilità di chi era considerato piccolo imprenditore ai sensi del codice civile. La non fallibilità era dovuta solo al ricorrere o meno dei presupposti dell’art. 1 L.F.28, e il fallimento sarebbe stato esteso anche ad imprenditori qualificabili come piccoli dal codice civile. Questo perché la legge speciale avrebbe derogato alla legge generale, ma solo in materia fallimentare, portando così alla coesistenza di due diversi concetti di piccolo imprenditore: il primo valevole per la legge fallimentare, il secondo per il codice civile. Viceversa il commerciante non piccolo secondo il codice civile avrebbe potuto essere escluso comunque dal fallimento se presentava i requisiti dell’art. 1 L.F. Tale interpretazione è stata

molto criticata e dunque respinta. 29

27 Vedi CAMPOBASSO, Manuale di diritto commerciale, Torino, 2004, 3°ed., pag. 26. Esempio tipico

d’esclusione dalla categoria di piccolo imprenditore per la prevalenza del capitale sul lavoro proprio è la figura del gioielliere.

28 Per approfondimenti vedi: JAEGER, Riv. dir. comm., op. cit., 1942, II, 292 per cui le due norme sono

autonome e mirano a determinare, ciascuna a certi fini, il concetto di piccolo imprenditore. Vedi anche SATTA, Diritto fallimentare, 1990, Padova, pag. 32.

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b) Secondo altri, invece, la legge fallimentare avrebbe derogato al codice civile in modo totale e i criteri da essa formulati si sarebbero dovuti applicare sempre,

anche fuori dal fallimento30. In particolare si riteneva che la legge fallimentare, in

quanto legge speciale, sostituisse quella del codice civile. Motivazione a ciò era che non sarebbe stato possibile affermare l’esistenza di un soggetto che la legge speciale considera non piccolo e il codice invece si, in quanto tale figura sarebbe esonerata da tutti gli obblighi tipici dell’imprenditore commerciale (es: tenuta scritture contabili) ma fallirebbe e sarebbe reo di bancarotta. Tale interpretazione permette soluzioni unitarie nei due ambiti normativi, ma non è ammissibile perché l’art. 1 L.F. è una norma integrativa e non derogatrice, com’emerge chiaramente dalla relazione alla legge speciale.

Anche le posizioni di coloro che negano l’idoneità dell’art. 1 L.F. a derogare l’art. 2083 c.c., si articolavano in altre due correnti di pensiero.

a) Vi è chi, sempre affermando la diversità delle norme, ha sostenuto la non derogabilità anche limitatamente alla legge fallimentare in quanto le due norme sarebbero non configgenti. In questo modo non vi sarebbe stato conflitto fra le due norme perché l’art. 2083, contrariamente alla legge fallimentare, non avrebbe fornito all’interprete uno strumento per l’individuazione dei piccoli commercianti.31 Tale soluzione è stata respinta perché si fonda sul presupposto che la nozione finale dell’art. 2083 non si applichi alle categorie

nominativamente indicate in precedenza, premessa nettamente sbagliata.32

b) Taluni, invece, sostenevano la possibilità di conciliare le due norme: l’imprenditore “piccolo” secondo la norma fallimentare non potrebbe mai assoggettato al fallimento: se esso non rientrava nei limiti stabiliti dalla legge fallimentare, avrebbe comunque potuto sottrarsi al fallimento se era piccolo ai

30 Vedi : GRECO, op. cit.; FERRARA, op. cit. pag. 25. Quest’ultimo però ha cambiato impostazione

quando si è affermata la tesi della rilevanza del capitale investito per valutare la prevalenza.

31 Tra i sostenitori di ciò: MOSSA, in Foro it. , 1942, I, 1132 ; FERRARA (abbandonando la sua prima

posizione già illustrata) in Riv.dir. comm., 1944, I, 68.

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sensi della definizione del codice civile.33 Secondo tale interpretazione la legge fallimentare aveva il compito specifico di individuare un più ristretto ambito di soggetti, senza apportare modifiche al criterio della prevalenza. L’art. 1 sarebbe, infatti, una norma integrativa diretta a determinare una categoria d’imprenditori più ristretta di quelli definibili mediante il criterio della prevalenza (rinvenuti mediante il ricorso al reddito esente): per cui la norma realizzerebbe una presunzione legale di piccolezza. Il superamento dei limiti esigerebbe, anche in sede fallimentare, l’utilizzazione del criterio della prevalenza.

Questa tesi interpretativa sembra la più ragionevole34 e l’unica che a certe

condizioni poterebbe ancora risultare attuale. Essa si fonda sul fatto che l’espressione legislativa “sono considerati piccoli imprenditori” si riteneva introducesse una presunzione assoluta di qualificazione del soggetto come piccolo imprenditore. Al di sopra dei parametri disposti dalla legge fallimentare era ammessa, viceversa, un’apertura all’applicazione in concreto dei criteri qualitativi dell’art. 2083 c.c.; ciò fra l’altro rendeva meno stridente la progressiva incongruità di parametri monetari alla luce del processo inflazionistico dell’epoca.

L’opposta soluzione assume la perfetta coincidenza delle due nozioni di piccolo imprenditore. 35 Il criterio del capitale investito (art. 1 criterio sussidiario) non sarebbe in contrasto con quello del codice ma, anzi postulerebbe una prevalenza

33 Vedi; ASQUINI, Riv. dir. comm,, 1943, I, 8; FERRI, Piccolo imprenditore e legge fallimentare , in

Riv. dir. comm., 1968, II, 100; SANTINI - GALGANO - BRICOLA, Commentario SCIALOJA-BRANCA: legge fallimentare,Bologna, 1974, pag. 102. Quest’ultimo aveva sostenuto l’integrazione delle due

norme: l’art. 1 L.F. avrebbe fissato delle presunzioni iuris et de iure di esclusione dalla qualifica di medio - grande imprenditore agli effetti del fallimento, ferma restando però , sempre per tali effetti, la nozione di piccolo imprenditore stabilita dal codice civile. Vedi Trib. Foggia 11/11/1988, in Dir. fall. 1989, II, 504; Trib. Bari 2/2/1981, in Il fall., 1981, 527.

34 Conto vedi BIGIAVI, op. cit. pag. 130

35 Vedi BIGIAVI,op. cit., pag. 134 ; AZZOLINA, op. cit. , I pag. 111; MINERVINI, L’imprenditore:

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del lavoro anche sul capitale.36 Il criterio del reddito (art. 1 criterio principale), che sembrerebbe ovviamente in contrasto con il criterio fissato dall’art. 2083 (per la ragione che anche una piccola impresa può realizzare utili ingenti), è suscettibile di un coordinamento purché al criterio stesso si dia un rilievo indiretto e non diretto.37

In quest’ultimo senso si era orientata anche la giurisprudenza penale, mentre la giurisprudenza civile non aveva raggiunto una posizione ben definita.

Nella prassi giudiziaria gli inconvenienti che nascevano dal sistema normativo basato su una doppia definizione erano notevoli, soprattutto perché, come detto, era prevalsa la tendenza a considerare predominante l’art. 1 L.F.; e perché il legislatore, successivamente al 1952 e nonostante i molteplici progetti di riforma presentati, non era intervenuto per ragguagliare l’importo del capitale investito alla forte svalutazione della lira, verificatasi nel frattempo. La conseguenza più grave di questo stato di cose era che veniva così impedito un più serio ed efficace controllo dei tribunali fallimentari nei casi meritevoli d’attenzione; appunto perché i tribunali erano immersi da una miriade di procedure che si concludevano senza alcun beneficio per i creditori. Per questo motivo molti giudici di merito iniziarono a dare una lettura salvifica all’art. 1 L.F. integrandone la portata, di per se ormai inapplicabile, con l’art. 2083 e rientrando così nella tesi interpretativa sopra esposta (prima interpretazione, non derogabile, lett. b), che sembra la più ragionevole.

Molte dispute ci furono poi, anche nell’interpretazione dello stesso criterio previsto dalla legge fallimentare e in particolare sul tema dell’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile e sulla categoria di reddito da considerare.

36 Vedi BIGIAVI, op. cit. pag. 135 nota 29, per cui l’art. 1 significherebbe solo che ogni volta che il

capitale investito è superiore alla cifra indicata, esso deve considerarsi prevalente sul lavoro dell’imprenditore e DE MARTINI, Dir. fall., 1943, I, 42 per cui, con riguardo al capitale investito, si parla di un valore integrativo e non sostitutivo del criterio stesso.

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Secondo alcuni l’accertamento doveva essere definitivo, cioè non impugnato; se lo era stato occorreva una pronuncia della commissione o del tribunale, passata in giudicato. Non bastava la mancata contestazione da parte dell’ufficio del

reddito denunciato dal contribuente.38 Alcuni sostenevano poi che se

l’accertamento non era effettuato si poteva ricorrere al periodo d’imposta

anteriore alla sentenza di fallimento.39 Tale affermazione è stata però molto

criticata: non si può ricorrere all’ultimo accertamento proprio per la presenza del

criterio suppletivo del capitale investito.40

Per la categoria di reddito da considerare alcuni consideravano i redditi di categoria B (esercizio industria e commercio, sono redditi misti di capitale e lavoro),41 e se l’imprenditore era tassato in categoria C-1 (esercizio d’imprese organizzate prevalentemente con il lavoro proprio o della famiglia) il tribunale

era vincolato a considerarlo piccolo imprenditore.42 Altri erano invece per

38 Vedi ANDRIOLI, op. cit., pag. 292; App. di Bari, 2/02/60, in Dir. fall.,1960, II, 133; Trib. di Modena,

4 aprile 1958, in Dir.fall. 1958, II, 359; Cassazione, 12 luglio 1957 n. 2845, in Dir. fall. 1957, II, 742. L’accertamento del reddito suppone un atto d’ufficio: è irrilevante il reddito denunciato dal contribuente, anche se non contestato.

39 Vedi ANDRIOLI, op. cit. pag. 293.

40 Vedi PROVINCIALI, op. cit. pag. 249

41 Conformi: MINERVINI, L’accertamento tributario come unità di misura delle imprese commerciali, in

Riv.dir.comm., 1964, II, 33; ANDRIOLI ,op. cit. ,pag. 290; PAJARDI, Un aspetto di un problema sempre aperto: mancato accertamento fiscale e posizione del piccolo imprenditore di fronte al fallimento, in Giur. It., 1962, I, 2, 77; GRECO, Fallimento, piccoli imprenditori, “mancato accertamento” del reddito ai fini dell’imposta di ricchezza mobile e conseguenze relative, in Guir.it., 1962, I, 2, 71. Contro:

BIGIAVI,op. cit. pag. 149; FERRARA, Il fallimento, Milano, 1966, n. 69, pag. 110.

42 Vedi ANDRIOLI, op. cit. pag. 291; SANTINI, GALAGANO, BRICOLA, op. cit. pag. 15 e 16;

PAJARDI , op. cit. § 26 n. 2 pag. 84. Qui si è fatto leva sui criteri posti dalla legge fiscale al fine di distinguere il piccolo imprenditore ( e cioè nella comprensione del reddito nella categoria B o C1). Con questo tentativo il problema ritorna alle sue basi originarie perché il criterio dell’art. 2083 e il criterio fissato dal T.U. delle imposte dirette fanno entrambi riferimento alle imprese organizzate

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l’assoggettamento al fallimento anche dell’imprenditore iscritto nella categoria C-1.43

Molte dispute ci furono poi sul criterio suppletivo, in caso di mancanza dell’accertamento: il capitale investito nell’azienda.

Pacifico era che, per capitale investito, non s’intendesse né il capitale sociale né il patrimonio delle società per azioni e a responsabilità limitata e neanche il capitale netto (patrimonio netto). Si riteneva, invece, che la nozione dovesse essere riferita al capitale di funzionamento. Per il suo computo si doveva

considerare sia il capitale fisso sia quello circolante44 e questi dovevano essere

comprensivi di tutti i beni collegati all’impresa da un vincolo di destinazione

economica (sia immessi dall’imprenditore che da terzi)45: non bisognava perciò

considerare i beni patrimoniali del debitore né altre attività non commerciali.46 Era quindi da computare nel calcolo anche l’immobile adibito a sede secondo il suo valore d’uso, cioè secondo l’utilità che l’imprenditore poteva ricavare con

una diversa destinazione dell’immobile47, gli impianti, le merci esistenti nel

magazzino, gli immobili 48. In ogni caso si deve trattare di un investimento vero

criticato perché la lettera della legge non consente una tale conclusione e inoltre il criterio suppletivo del capitale investito non consente così agevolmente di tornare alle basi originarie. Secondo l’art. 1 L.F. non contano i criteri con i quali si procede alla tassazione, ma conta l’ammontare del reddito.

43 Vedi: App. Bologna 25/ 08/69 in Dir. fall. 1969, II, 946 con nota di BONDONI, Osservazioni; App.

Trieste 5/08/64 in Foro pad., 1965, I, 15 con nota di FORTE.

44 Così si legge nella relazione alla legge fallimentare.

45 Vedi PROVINCIALI, op. cit. pag. 254; ANDRIOLI, op. cit. pag. 293 e 294; Cass. 4733/83;

FERRARA, op. cit. pag. 111.

46 Vedi SATTA, Diritto fallimentare, op. cit. pag. 32.

47 Vedi Cass. 5683/78.

48 Nascono dei problemi se l’immobile è preso in locazione. Possono computarsi i canoni? Quanti? E se

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e proprio e non dovranno computarsi quelle semplici spese che non si

concretizzano in un investimento49.

Molto si è detto anche sull’opportunità di riferirsi o meno, sempre nel computo del capitale investito, al giro d’affari dell’impresa. I sostenitori di tale ultima soluzione affermavano che nell’investimento rientra anche il credito di cui gode

l’imprenditore50; i contrari sostenevano invece che il volume d’affari si collega

soprattutto alla circolazione, più o meno rapida, del capitale51. Tuttavia, l’esame

dei flussi finanziari facenti capo all’impresa poteva valere da supporto per la determinazione del capitale investito in quanto la misura del giro d’affari è normalmente commisurata all’espansione raggiunta dall’impresa.

Vi era poi il caso d’investimenti di capitale in due o più imprese diverse, anche non commerciali. Era controverso se tali capitali andassero considerati

separatamente.52 La considerazione separata andava, secondo alcuni, contro

l’inscindibilità del patrimonio del debitore, che è alla base dell’esecuzione collettiva.53

49 Per esempio tasse, salari e stipendi, spese d’acqua e d’energia elettrica. Vedi DE GREGORIO, Corso

di diritto commerciale, I, Milano, 1967 e BIGIAVI, op. cit. pag. 163 nota 85. Contro tale interpretazione:

SATTA, op. cit. pag. 30 e DE MARTINI, op. cit. .

50 Ciò era sostenuto da PROVINCIALI, op. cit. pag. 254, ma veniva prevalentemente negato :

AZZOLINA, op. cit. pag. 117; BIGIAVI, op. cit. pag. 163; Cass. 142/59.

51 Vedi FERRARA, ultima op. cit. pag. 111; FERRI, op. cit. per cui “ l’investimento di capitale non è

sinonimo del volume d’affari: questo dipende essenzialmente dalla rapidità del ciclo produttivo e non è in necessaria relazione con il capitale investito; Cass. 22/01/1959 in Dir.fall., 1959, II, 12.

52 In senso affermativo: BIGIAVI, op. cit. pag. 158 - 159; SATTA, Diritto fallimentare,op. cit. pag. 34;

DE SEMO,op. cit. , n. 101 pag. 117. Per la tesi negativa vedi: PROVINCIALI, op. cit. pag. 254 .

53 Vedi BIGIAVI, op. cit. pag. 158 che motiva la situazione con l’esempio della non fallibilità

dell’imprenditore che sia al contempo piccolo imprenditore commerciale e grande imprenditore agricolo. Non tutte le iniziative economiche sono tali da legittimare il fallimento, ma solo quelle commerciali,

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Infine, molto controversa era l’identificazione del momento in cui doveva essere valutato il capitale. Alcuni sostenevano che ci si dovesse riferire al momento di

manifestazione dello stato d’insolvenza54 ovvero all’anno solare anteriore al

manifestasi dell’insolvenza (quindi il momento della valutazione andrebbe rapportato all’epoca in cui si riferiva l’insolvenza, a prescindere da variazioni intervenute prima o dopo tale momento). Altri, nell’identificare il momento per valutare il capitale investito, ritenevano che ci si dovesse riferire al momento dell’investimento, con carattere però di definitività, cioè un investimento stabile

e non meramente transitorio55 (qualunque momento durante la vita purché

l’investimento risulti definitivo). Dubbio era se, nel caso d’investimenti successivi, dovesse farsi il cumulo anche di quelli andati perduti. La lettera della legge parlava di capitale che “risulta essere stato investito nell’azienda” e lo è anche il capitale investito e perduto; però la ratio della legge, che vuole determinare le dimensioni dell’impresa, sembrava fondata sull’opinione contraria e cioè che si tenesse conto solo del capitale effettivamente investito nell’azienda e non anche di quello perduto, che appunto per questo non è più investito.56

iniziative economiche senza polverizzare l’unità del patrimonio del debitore nelle singole aziende. Se si adottasse tale tesi fallirebbe sempre il piccolo imprenditore “ricco”.

54 Vedi SATTA, Istituzioni, op. cit. pag. 19 e Diritto fallimentare,op. cit. pag. 10 secondo cui: “un limite

naturale di tempo deve sussistere nella determinazione del capitale e questo è dato dalla manifestazione della stato d’insolvenza. Se in tale momento il capitale superava il minimo legale, anche se successivamente è stato ridotto in qualsiasi maniera, non si è di fronte a un piccolo imprenditore, mentre si è di fronte ad un piccolo imprenditore se il capitale risulta pari o inferiore al minimo legale, anche se in precedenza era superiore.”; App. Venezia 23 maggio e 25 giugno 1957, in Dir.fall. 1957, II, 612; ANDRIOLI,. op. cit. n. 10, pag. 294.

55 Vedi PROVINCIALI, op. cit. pag. 255; BIGIAVI, op. cit. pag. 165 ; AZZOLINA, op. cit. , n. 63, pag.

104; DE MARTINI, op. cit. pag. 44; Cass. 4733/83; PAJARDI, op. cit. § 26 n. 3, pag. 85.

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L’onere della prova degli estremi per poter usufruire dell’esenzione, in quanto considerati piccoli imprenditori, spettava naturalmente al debitore.

3- La riforma tributaria del 1972 e l’intervento della Corte Costituzionale.

La legge fallimentare del 1942 ha contribuito ad eliminare gli abusi che si erano riscontrati nel sistema anteriore, ma non è riuscita a rimanere al passo con i tempi.

La percezione dell’inadeguatezza delle nostre procedure, che è alla base di tutte

le proposte di revisione già negli anni ’70 57, inizia a farsi sempre più forte col

passare degli anni. Qualsiasi tentativo di riformare la materia non soltanto deve risultare compatibile con la legislazione europea, ma deve anche ispirarsi alle nuove prospettive rappresentate, in tale contesto, dall’esigenza di un recupero dell’impresa in crisi nelle quali non è più individuabile un esclusivo interesse dell’imprenditore ma confluiscono posizioni economiche e sociali di portata

generale. Tutti i progetti di riforma al tempo elaborati58 non sono però mai andati

a buon fine.

57 Vedi D’ESPINOSA, Bilancio della legge fallimentare, in Dir. fall., 1960, I, 94 ss.

58 Per ripercorrere il quadro delle proposte che si sono succedute negli anni sarà bene ripercorrere le fasi

in ordine cronologico.

All’inizio degli anni ’70 fu elaborato un primo progetto di riforma da Provinciali, Ferrara e d’Espinosa . Questo evidenziava che il baricentro del fallimento andava spostato dall’imprenditore all’impresa secondo un modello di ispirazione tipicamente francese (Schema di riforma della legge fallimentare, in

Riv.dott. comm, 1972, pag. 762 e seg.)

Nel 1978 fu fatta la Proposta Chiaravaglio (e Gerini-Severgnini) che pose l’accento sull’esigenza di prevenzione dei dissesti e di limitazione delle loro conseguenze mediante un’attivazione tempestiva (vedi D’ALESSANDRO, Politica della crisi d’impresa. Risanamento o liquidazione dell’impresa? in Il fall., 1979, 29 ss. ). Condizione sufficiente per le procedure conservative era il mero squilibrio economico tra costi e ricavi , il ricorso era obbligatorio e l’insolvenza veniva configurata come la fase finale (vedi CHIARAVAGLIO-GERINI-SEVERGNINI, Le procedure concorsuali previste dalla legislazione vigente

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Nel 1972 veniva approvata la riforma tributaria, che entra però in vigore il 1° gennaio del 1974 ed abroga l’imposta di ricchezza mobile, il cui minimo imponibile era, come detto, uno dei parametri disposti dalla legge fallimentare per la qualificazione di un imprenditore come piccolo. Inoltre con l’emanazione del d.p.r. 29/09//73, n. 597, è stata introdotta una nuova disposizione , l’art. 88 bis, nel testo unico del 1973 secondo cui : “ il riferimento contenuto nelle norme vigenti a redditi o a determinati ammontari di reddito, assoggettate ad imposte abolita dal 1° gennaio 1974, va inteso come fatto agli stessi redditi nell’ammontare netto determinato ai fini delle singole categorie di reddito previste dall’imposta sul reddito delle persone fisiche”. In sostanza con l’art. 88 bis, il legislatore voleva colmare il vuoto creatosi con l’eliminazione dell’imposta di ricchezza mobile. Tuttavia tali considerazioni non sono state condivise: veniva considerato inammissibile l’identificazione delle nozioni di reddito d’impresa e di iscrizione al ruolo (introdotti dalla riforma tributaria) con quelle d’imposta di ricchezza mobile e di accertamento .

Sorgono, a questo punto, una molteplicità di problemi interpretativi sui criteri da utilizzare per la definizione del piccolo imprenditore.

All’inizio degli anni ’80 venne formulato un progetto più organico e articolato: Progetto Pajardi , che fu tradotto con qualche modifica in un disegno di legge delega rimasto però senza seguito. Esso non prevedeva comunque un radicale mutamento ma solo una riforma incisiva della legge fallimentare che manteneva accanto al fallimento le procedure minori (non recepiva la concezione francese dell’unico procedimento). La struttura del progetto era assai simile alla proposta Chiaravaglio : prevenire i dissesti consentendo l’attivazione di una procedura di tipo conservativo ogni volta si determinasse uno squilibrio tra ricavi e costi. Nel suo complesso il progetto restava largamente impostato sulla tutela dei creditori, la procedura iniziava con la dichiarazione dello stato d’insolvenza, si snodava in tempi relativamente rapidi sino al bivio tra concordato e fallimento. Novità assoluta era che il progetto non recepiva le distinzioni dimensionali e qualitative (artigiani e agricoltori) , e ciò era linea con le tendenze europee (vedi Il

progetto di riforma della legge fallimentare, Milano, 1985 e PAJARDI, Riflessioni e appunti sul progetto di legge fallimentare dell’ordine dei dottori commercialisti, in Mon.trib.,1973, 84 ss.).

Nella metà degli anni ’80 l’idea guida della proposta di Chiaravaglio trovò spazio nel progetto di Statuto

dell’impresa che ne riprese tutti i punti più importanti (Lo statuto dell’impresa, in Guir. comm.,1984, I,

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Secondo alcuni si sarebbe comunque dovuto applicare il limite sussidiario delle

novecentomila lire59, nonostante il fatto che la somma non avrebbe potuto essere

aumentata mediante il richiamo all’applicazione dei dati Istat relativi all’incidenza dell’inflazione monetaria dal 1952; e, data la modestia del suo

ammontare, ciò si sarebbe tradotto in un’abrogazione sostanziale della norma60

(tutti gli imprenditori, anche i più piccoli, sarebbero risultati in pratica fallibili). Secondo un altro orientamento, anche tale limite, dato il suo carattere di sussidiarietà, si sarebbe dovuto considerare caduto insieme con l’abrogazione del criterio principale, connesso con la soppressa imposta di ricchezza mobile.61 In questa prospettiva la nozione di piccolo imprenditore avrebbe dovuto essere desunta dal solo art. 2083 c.c.

Infine altri sostenevano che al criterio del capitale investito avrebbe potuto essere attribuita una certa rilevanza intendendolo come presunzione legale assoluta di esenzione dal fallimento. Oltre tale limite sarebbe poi divenuta operante la

generale normativa civilistica.62

La seconda tesi, indubbiamente preferibile, ha faticato ad imporsi, fino a quando non è stata formalmente sanzionata dalla Corte Costituzionale con la sentenza del

22 dicembre 1989 n. 570 63 con cui si dichiara illegittimo, in relazione all’art. 3

59 Vedi: PACINI Piccoli imprenditori e fallimento, urgenza di una riform , Dir. fall., 1974, I, 104; Cass.

5701/81; Cass. 1067/80 ; Cass. 3630/79 ; FERRARA, op. cit. pag. 115; LO CASCIO, Ancora sull’art. 1

legge fallimentare , in Giur. Comm., 1977, I, 585.

60 Vedi App. Catania 18/12/1984 in Dir.fall.,1986, II, 59; Cass. 28/06/79 n. 3630 in Il fall. , 1980, 286 ;

Cass. 14/02/80 n. 1067 in Giur. Comm., 1980, II, 661

61 COTTINO, Diritto commerciale, I, Padova 1976, pag. 113; GALGANO, Diritto commerciale:

l’imprenditore, Bologna , 2° ed, 1980, pag. 78.

62 Vedi SANTINI,GALGANO, BRICOLA, op. cit. pag. 114 e in giurisprudenza: Trib. Torino 13/10/1987

in Giur. comm.,1988, II, 978 con nota TABELLINI, Osservazioni; Trib. Torino 14/11/1987 in Il fall., 1988, 504; Trib. Genova 16/6/1988 in Il fall., 1988, 1023.

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Cost., il secondo comma dell’art. 1, nella parte in cui la norma stabiliva, ai fini dell’accertamento della qualità di piccoli imprenditore, il criterio delle novecentomila lire di capitale investite nell’impresa. Tale sentenza lasciò in vigore, dell’art. 1, comma 2, soltanto l’ultima frase che negava la qualifica di piccolo imprenditore alle società commerciali.

Alla base della pronuncia della Corte vi è il riscontro dell’irrazionalità del sistema e trattasi di una sorta d’illegittimità costituzionale sopravvenuta. Difatti la Corte ha osservato che “per effetto della svalutazione monetaria verificatasi, i valori monetari si sono gravemente alterati; il limite delle novecentomila lire non è stato adeguato, mentre la nozione d’artigiano si è man mano modificata” sicché la norma “non realizza più le finalità che l’hanno determinata e la sua applicazione sul piano pratico produce disparità di trattamento ed appare affetta da illogicità e irrazionalità”. Oltre le dette considerazioni, di stretto diritto, se ne accompagnavano altre dettate da ragioni d’opportunità : “imprese molto modeste incorrono nelle procedure fallimentari e vengono meno le finalità del fallimento. L’esiguo patrimonio attivo del fallito può rimanere interamente assorbito dalle spese della complessa procedura e a volte risulta perfino insufficiente a coprire le spese anticipate dall’Erario. Il fallimento finisce per essere un rimedio processuale impeditivi della tutela dei creditori e un mezzo di difesa insufficiente”.

La Corte poi, tracciando le linee direttive per un intervento legislativo volto a colmare la lacuna creata con la declaratoria d’incostituzionalità, afferma che a fondare la distinzione “occorre un criterio assolutamente idoneo e sicuro”. I limiti devono essere stabiliti in relazione all’attività svolta, all’organizzazione dei mezzi impiegati, all’entità dell’imprese ed alle ripercussioni che il dissesto produce nell’economia generale. Del resto la Corte Cost. intervenne quando i tempi erano ormai maturi (dopo 15 anni dall’abrogazione del criterio principale): il criterio delle novecentomila lire era divenuto incongruo; la Cassazione, nel sollevare la questione di legittimità costituzionale, aveva dato atto di un diritto

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vivente , nelle decisioni di molti giudici di merito, che aveva cercato in vari modi di superare il limite stabilito dalla norma.

Non essendo il legislatore intervenuto per fissare un “criterio idoneo e sicuro”, l’identificazione del piccolo imprenditore è stata fatta per molti anni tenendo conto del solo art. 2083 c.c..

4 - Il criterio della prevalenza: l’incertezza sulla figura del piccolo imprenditore persiste.

L’abrogazione dell’art. 1, comma 2, prima parte, legge fallimentare, aveva l’indiscutibile merito di lasciare solo all’art. 2083 c.c. la definizione generale, a tutti gli effetti, della figura del piccolo imprenditore, riconducendolo finalmente al un concetto unitario e superando gli inconvenienti logico – interpretativi sopra indicati: è piccolo imprenditore colui che svolge un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia.64 Il criterio posto dall’articolo per il riconoscimento della qualità di piccolo imprenditore è dunque quello della prevalenza del lavoro proprio e dei componenti della famiglia sul capitale investito e sul lavoro dei dipendenti e dei

terzi estranei alla famiglia (fattori della produzione utilizzati dall’imprenditore).65

64 Tra le numerose pronunce in tale senso vedi: Trib. Firenze 31/07/1990 in Dir. fall., 1990 II 1477;

Trib. Milano 21/1/1991 in Il fall., 1991, 74 ; Trib. Roma 18/03/1992 in Dir.fall., 1993, II, 207; Trib. Velletri 25/02/1993 in Il fall.,1993, 553 ; Trib Milano 29/04/93 in Il fall., 1993, 1268 con nota RIELLO,

Criteri di individuazione della qualifica di piccoli imprenditore.

Secondo tali provvedimenti la valutazione deve essere compiuta tenendo presente tutti gli elementi caratterizzanti dell’impresa. Si deve svolgere una disamina globale dell’azienda attraverso i diversi profili strutturali e funzionali che la connotano, per poter poi effettuare il giudizio finale della prevalenza.

65 Sulla prevalenza rispetto ai beni ed al lavoro altrui organizzato vedi: Trib. Benevento 18/06/1992 in

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Com’è noto, tuttavia, eliminati gli inconvenienti denunciati, ne sorgevano purtroppo altri. L’assenza di un criterio quantitativo e la necessità di rifarsi ai soli criteri qualitativi dell’art. 2083 c.c., si rilevò subito scomoda e foriera di valutazioni di fatto complesse e laboriose. Il giudice era chiamato a formulare caso per caso il giudizio di prevalenza, e doveva ricercare e valutare, in maniera comparata e bilanciata, gli indici e i dati omogenei rilevatori delle reali dimensioni dell’impresa e del valore economico assunto da ciascuno dei fattori della produzione impiegati. In assenza di una determinazione legislativa i tribunali hanno mostrato allora una tendenza spontanea a ricreare, di fatto, parametri quantitativi di riferimento, naturalmente aggiornati.

Una pronuncia, rimasta tra l’altro isolata perché fortemente criticata, per determinare il valore del lavoro prestato dai familiari (per poi poterlo confrontare con il capitale investito e vedere se c’era la prevalenza del primo o meno), ha ritenuto di poter fare riferimento agli stipendi medi della categoria del commercio (retribuzione figurativa dell’imprenditore e le retribuzione dei familiari su base annua) per gli impiegati con una certa anzianità e responsabilità.66 L’intento del tribunale veronese di uscire dalla genericità e arbitrarietà dei giudizi, ancorandoli ad un parametro numerico che prendesse luogo da quello travolto dalla sent. 570/89, ha avuto un esito molto opinabile per due motivi principali: l’attività dell’imprenditore non può mai essere equiparata a quella del lavoratore dipendente e l’indicazione di un parametro generale può essere il risultato di una scelta politica ma non certo di un accertamento giurisdizionale che deve invece risultare aderente al caso concreto.

66 Vedi Trib. Verona 16/02/1990 in Il fall., 1990, 1041 con nota PETTARIN, Ancora sui criteri di

individuazione del piccolo imprenditore commerciale. Qui si osserva che il coefficiente di lavoro spiegato

dall’imprenditore doveva essere tale da consentire a lui e alla famiglia un decoroso tenore di vita che, pertanto, non poteva essere inferiore allo stipendio medio di un impiegato medio della categoria commercio con adeguata anzianità, stipendio valutato nel 1990 di 30 milioni annui. Il capitale investito pertanto , dovendo essere inferiore all’elemento lavoro, non poteva essere superiore a tale somma.

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Altre pronunce hanno poi preso come riferimento una determinata soglia di capitale impiegato nell’impresa, sia di capitale fisso - beni mobili - che circolante - beni mobili strumentali - cioè gli investimenti relativi ad acquisti di beni da rivendere.67 Ma tale parametro viene individuato, nelle diverse sentenze, nel modo più disparato: è considerato piccolo imprenditore (è cioè esentato dal fallimento) chi ha investito nella propria azienda un capitale di una quindicina di

milioni di lire, secondo il trib. di Milano68 o chi ne ha impiegato meno di trenta

per il Trib. di Verona ( sent. 16/02/1990), o ancora meno di settanta per quello di Velletri ( sent. 25/02/1993) e non è considerato in ogni caso piccolo imprenditore chi dispone di un attivo inventariato di una cinquantina di milioni

di lire a Torino69 o chi dispone di un capitale superiore al limite di 150 milioni

a Firenze70.

In ogni caso la produzione delle dichiarazioni fiscali dei redditi71 rimane non idonea a dimostrare, in sede di procedimento prefallimentare, l’entità dell’impresa né a qualificare un imprenditore come piccolo, e non è vincolante il dato formale dell’iscrizione alla sezione speciale “piccoli imprenditori” del registro delle imprese.72

Altre pronunce hanno poi fatto riferimento, oltre al capitale investito, anche

all’importo dei debiti accumulati73 (esposizione debitoria verso le banche

67 Vedi Trib. Milano 7/11/1996 in Il fall., 1997, 431

68 Vedi Trib. Milano 20/09/1990 in Il fall. 1991, 310.

69 Vedi Trib. Torino 15/06/1991 in Il fall., 1991, 1199.

70 Trib. Firenze 18/10/1990 in Giur.comm., 1991, II, 178 , che ha fatto riferimento ai limiti considerati dal

legislatore per il finanziamento delle medie e piccole imprese in crisi.

71 Vedi Trib. Torino 3/08/1990 in Il fall, 1991, 203.

72 Vedi App. Genova 13/12/2000 in Foro pad. ,2000, I, 363.

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inferiore a 500 milioni 74), al genere d’attività svolta, all’organizzazione dei

mezzi impiegati, all’entità dell’impresa 75, alla struttura aziendale nel suo

complesso76, al conseguimento di profitti e non solo di guadagni, normalmente

modesti,77 e al contenuto volume d’affari. Infine, negli ultimi anni, secondo alcune pronunce, che hanno riecheggiato quanto affermato dalla Corte Cost., sarebbe da tener conto, per l’esenzione dal fallimento o meno, del grado di

allarme sociale che l’insolvenza potrebbe determinare nel mondo economico78 e

delle ripercussioni che il dissesto produce nell’economia generale.79 In realtà

73 Vedi Trib. Belluno 1/10/1991 in Il fall., 1992, 824 secondo cui i debiti non devono essere

sproporzionati rispetto alla modesta entità dell’impresa; Trib di Milano 21/01/91 in Il fall., 1993 , 1272; Trib. Cassino 27/01/1992 in Foro it. 1992, I, 3409; Trib. Velletri 25/02/1993 in Il fall.1993, 1268 con nota RIELLO, op.,cit.; App. di Bologna 6/11/1992 in Il fall., 1993, 553. (Le somme prese a mutuo vanno conteggiate se sono state investite nell’azienda.)

74 Trib. Cassino 27/01/1992 in Foro it. 1992, I, 3409. Contro vedi: TRENTINI, Le imprese soggette al

fallimento, in Enciclopedia diretta da CENDOM, 1998, Padova, pag. 133. Secondo esso tale criterio è

senz’altro insoddisfacente perché è evidente che l’ammontare dei debiti contratti e lo stesso giro di denaro non assumono rilievo decisivo per poter affermare la prevalenza dei capitali investiti rispetto all’apporto lavorativo dell’imprenditore: l’assunzione di obbligazioni può avere, e spesso nella pratica ha, fondamento del tutto estraneo alla gestione dell’impresa e ai debiti contratti per l’esercizio della stessa.

75 Vedi Cass. 28/03/2000 n. 3690 in Il fall., 2001, 622.

76 Vedi Trib. Roma 18/03/1992 in Dir.fall. 1993, II, 207; Trib. Trieste 22/03/1993 in Il fall. 1993, 775;

Trib. Velletri 25/02/1993 in Il fall.1993, 1268 con nota RIELLO, op.cit.; Trib. Genova 17/02/1994 in Il

fall. 1994, 773; Trib. Padova 24/03/1997 in Il fall. 1998, 208.

77 Vedi Cass., 28/03/2000 n. 3690 in Il fall, 2001, 622.

78 Vedi Trib. Milano 15/06/1995 in Il fall., 1995, 1247 ; App. Firenze 14/11/2000 in Dir. fall. , 2001, II,

980 con nota TANGANELLI, Piccolo imprenditore ed elementi per il suo accertamento. In ques’ulima sentenza al grado d’allarme è stata data un’accezione particolare: si identifica con il “volume degli affari sviluppati” che è somma del capitale e dell’organizzazione.

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Viti, Polenton, Sicco, in Dizionario Biografico degli Italiani, LXXXIV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2015, consultato online (05.05.20) all’URL: