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(1)

2 T

IPI

DI

FRASE

2.1 L

E FRASI IUSSIVE

2.1.1 P

REMESSA

Le frasi iussive esprimono un atto illocutorio di richiesta d'azione: «può trattarsi di un ordine, di un'esortazione, di un'istruzione, di un consiglio, di una preghiera o un permesso» (Borgato-Salvi 2001: 154). Il valore iussivo può avere vari gradi di intensità: «da un grado massimo presente negli ordini si giunge a un grado minimo che caratterizza le preghiere o l'accordo del permesso» (De Roberto 2007: 47).

Se la richiesta d'azione è direttamente rivolta all'esecutore,1 si parla di frasi iussive dirette. Dal punto di vista sintattico esse si realizzano con il modo imperativo, se ci si

rivolge a una II persona singolare o plurale o a una I persona plurale; con il congiuntivo presente se l'esecutore è una III persona singolare o plurale; con l'indicativo nei casi in cui il predicato sia di tipo illocutivo esercitivo (come pregare, comandare, ordinare) o siano i modali volere e dovere2; con l'infinito nel caso la richiesta sia rivolta a un

interlocutore imprecisato.

Quando invece la richiesta espressa dalla frase iussiva è formulata senza la menzione dell'esecutore, si parla di iussive indirette. Esse si realizzano sempre con il congiuntivo presente, preceduto o meno da che. Un tipo particolare di iussiva indiretta sono le frasi augurative che, pur esprimendo un atto di tipo comportativo, invocano l'intervento di una forza esterna affinché si realizzi qualcosa, e possono quindi essere considerate anche delle richieste indirette,3 come in If XIII 118 ("Or accorri, accorri, morte!").

Nei dialoghi della Commedia le iussive sono, dopo le dichiarative, il tipo di frase principale più frequente:

1 Nella codifica di Sara Gigli sono state considerate iussive dirette anche quelle in cui l'esecutore designato non coincida con il soggetto grammaticale del predicato, come ad esempio in: «Poscia non sia di qua vostra reddita» (Pg I 106), in cui il soggetto grammaticale di sia è reddita, ma la persona a cui spetta l'agire è indicata dal possessivo vostra.

2 In questi casi si parla di formule illocutive le quali «esplicitano il carattere iussivo della frase con il contenuto lessicale dei verbi» (Renzi 2010a: 1200).

(2)

Come si può osservare dalla tabella 1, sono iussive il 20% delle frasi principali nei dialoghi del poema, ma nelle tre cantiche la distribuzione di questo tipo è assai diseguale: infatti nei discorsi diretti del Paradiso le iussive hanno una frequenza nettamente minore rispetto a quelli delle prime due cantiche. Nel paragrafo seguente si tenterà di dare ragione di questa disuguaglianza, osservando quali tipi di azione i parlanti richiedono all'interlocutore tramite la iussiva. Successivamente si analizzeranno le diverse forme sintattiche di realizzazione della frase iussiva.

2.1.2 T

IPI DIAZIONE RICHIESTA

In tutte e tre le cantiche la grande maggioranza delle iussive ha principalmente tre scopi da un punto di vista pragmatico: a) sollecitare l'interlocutore a parlare; b) richiamare la sua attenzione (visiva o intellettiva) su una certa realtà; c) esprimere inviti o ordini operativi, che si configurano come un invito al fare.

Quando la iussiva ha lo scopo perlocutivo di sollecitare l'interlocutore a parlare, essa si caratterizza generalmente come una richiesta di informazione, analoga a quella che si produce con un atto di domanda. Questa tipologia di iussiva si realizza nella maggior parte dei casi con un verbum dicendi all'imperativo seguito da una interrogativa diretta o indiretta che esprime il contenuto dell'informazione richiesta. Si noti che il verbo dire, con 90 occorrenze, è il predicato di frase iussiva più frequente nei dialoghi del poema4.

(1)

4 31 occorrenze nei dialoghi della prima cantica, 35 in quelli della seconda, 24 in quelli della terza.

Tabella 1: Frasi principali nei dialoghi delle tre cantiche

INF % PURG % PAR % TOT %

dichiarativa 884 64% 904 67% 1014 81% 2802 70% esclamativa 32 2% 16 1% 20 2% 68 2% interrogativa 128 9% 109 8% 30 2% 267 7% iussiva 332 24% 303 23% 178 14% 813 20% ottativa 7 1% 10 1% 8 1% 25 1% TOT 1383 1342 1250 3975

(3)

Ma dimmichi tu se' che 'n sì dolente loco se' messo e hai sì fatta pena,

che, s'altra è maggio, nulla è sì spiacente". (If VI 46-48)

(2)

poi cominciai: "Belacqua, a me non dole di te omai; ma dimmi: perché assiso quiritto se'? attendi tu iscorta, o pur lo modo usato t'ha' ripriso?" (Pg IV 123-126)

(3)

Comincia dunque; e dì ove s'appunta l'anima tua, e fa ragion che sia la vista in te smarrita e non defunta: (Pd XXVI 7-9)

Nella prima cantica la iussiva che corrisponde a una richiesta di informazione è presente soprattutto nei discorsi diretti di Dante, alternandosi o accompagnandosi alle interrogative dirette nel momento in cui il pellegrino chiede ai dannati notizie sulla loro identità e sulle loro vicende terrene, oppure pone alla sua guida domande sul viaggio e sull'ordinamento oltremondano. Nella seconda e nella terza cantica invece questo tipo di iussiva è distribuito abbastanza equamente nei discorsi di Dante e in quelli dei beati e dei penitenti. Nel Purgatorio, infatti, sono numerose le scene in cui le anime si accalcano attorno al vivente che attraversa il regno della penitenza da vivo, desiderose di conoscere la sua identità e le ragioni del suo viaggio:

(4)

Dinne com'è che fai di te parete al sol, pur come tu non fossi ancora di morte intrato dentro da la rete". (Pg XXVI 22-24)

Nel Paradiso invece l'invito a parlare corrisponde a una richiesta di informazione quando è formulato da Dante, mentre quando viene espresso dai beati, che nella loro onniscenza non hanno bisogno di porre domande, è una sollecitazione rivolta a Dante perché egli esprima il proprio pensiero, come in (3)5, i propri dubbi e le proprie

domande, come in (5):

5 Una buona parte degli inviti al dire nei dialoghi del Paradiso è contenuta nelle battute mimetiche di san Giovanni, san Giacomo e san Pietro, che nei canti XXIV-XXVI sottopongono Dante all'esame in materia di fede, speranza e carità.

(4)

(5)

ma perché 'l sacro amore in che io veglio con perpetua vista e che m'asseta di dolce disiar, s'adempia meglio, la voce tua sicura, balda e lieta suoni la volontà, suoni 'l disio, a che la mia risposta è già decreta!" (Pd XV 64-69)

Un secondo tipo di azione richiesta tramite la frase iussiva, che si potrebbe definire speculare al primo, è l'invito all'interlocutore ad apprendere qualcosa, con gli occhi o con la mente; in questi casi la iussiva ha come predicato un verbum sentiendi come

vedere (37 occorrenze), guardare (24 occorrenze), sapere (18 occorrenze) e affini:

(6)

In somma sappi che tutti fur cherci e litterati grandi e di gran fama, d'un peccato medesmo al mondo lerci. (If XV 106-108)

(7)

Com' ei parlava, e Sordello a sé il trasse dicendo: «Vedi là 'l nostro avversaro»; e drizzò il dito perché 'n là guardasse. (Pg VIII 94-96)

(8)

E 'l santo sene: «Acciò che tu assommi perfettamente», disse, «il tuo cammino, a che priego e amor santo mandommi, vola con li occhi per questo giardino;6

ché veder lui t'acconcerà lo sguardo più al montar per lo raggio divino. (Pd XXXI 94-99)

Questo tipo di invito è generalmente rivolto a Dante dalle sue guide o dagli altri personaggi e ha un'incidenza maggiore nei discorsi diretti pronunciati dai beati, nei quali circa la metà delle iussive ha questo scopo perlocutivo. Come si avrà modo di commentare ampiamente in § 3.2.3.1 a proposito delle causali che motivano l'atto linguistico, la iussiva è uno tra i molti strumenti di cui i parlanti, specialmente nella terza cantica, si avvalgono per richiamare l'attenzione dell'interlocutore sui momenti salienti del discorso argomentativo, come l'enunciazione di una tesi, l'esposizione di una 6 L'espressione vola con li occhi esemplifica bene la grande varietà formale con cui l'azione del

(5)

conclusione logica, il passaggio da un argomento all'altro, come in (9): (9)

Or quel che t'era dietro t'è davanti: ma perché sappi che di te mi giova, un corollario voglio che t'ammanti. (Pd VIII 136-138)

Infine, un terzo tipo pragmatico è quello con cui i parlanti danno suggerimenti o ordini che hanno come scopo perlocutivo un'azione non verbale né intellettiva dell'interlocutore. La maggior parte di queste richieste d'azione sono relative all'andare di Dante7, e comprendono inviti a sostare o a procedere nel cammino e indicazioni su

come proseguire, e i predicati più diffusi sono verbi di movimento, come andare (26 occorrenze) e venire (23 occorrenze). Si vedano alcuni esempi:

(10)

Venian ver' noi, e ciascuna gridava: «Sòstati tu ch'a l'abito ne sembri essere alcun di nostra terra prava». (If XVI 7-9)

(11)

Guardò allora, e con libero piglio

rispuose: "Andiamo in là, ch'ei vegnon piano; (Pg III 64-65)8

(12)

com' io vidi un che dicea: «S'a voi piace montare in sù, qui si convien dar volta; quinci si va chi vuole andar per pace». (Pg XXIV 139-141)

Come si può immaginare, l'esortazione che ha questo scopo è la più diffusa nella prima e nella seconda cantica, nelle quali un'azione non verbale è il fine perlocutivo di circa la metà delle iussive. Nei dialoghi infernali questo tipo di iussiva è caratteristico delle battute mimetiche di Virgilio, che frequentemente esorta Dante a proseguire il cammino, lo mette in guardia dai pericoli, lo istruisce su come muoversi sulle disagevoli 7 Ma non mancano altri tipi di azione richiesta: «Lo buon maestro "Acciò che non si paia / che tu ci sia", mi disse, "giù t'acquatta / dopo uno scheggio, ch'alcun schermo t'aia; (If XXI 58-60). Ma distendi oggimai in qua la mano; / aprimi li occhi». E io non gliel' apersi; / e cortesia fu lui esser villano. (If XXXIII 148-150). Ed elli a noi: "O anime che giunte/ siete a veder lo strazio disonesto / c'ha le mie fronde sì da me disgiunte, / raccoglietele al piè del tristo cesto"» (If XIII 139-142). 8 Spesso, come in questo caso, l'esortazione alla prosecuzione del cammino è di tipo inclusivo, cioè

(6)

vie infernali, mentre nel Purgatorio la guida condivide questo ruolo con i penitenti e gli angeli custodi delle diverse cornici. Nei dialoghi del Paradiso invece l'esortazione all'azione è pressoché assente, sia perché l'interazione tra i personaggi è di tipo puramente verbale, sia perché la terza cantica è caratterizzata da scene statiche e l'ascesa di Dante da un cielo all'altro non viene mai rappresentata come un movimento, ma come un istantaneo mutamento di stato. Pertanto le esortazioni all'azione proferite dai beati sono molto spesso rivolte all'umanità intera e si configurano come ammonimenti morali:

(13)

Se mala cupidigia altro vi grida, uomini siate, e non pecore matte, sì che 'l Giudeo di voi tra voi non rida! Non fate com'agnel che lascia il latte de la sua madre, e semplice e lascivo seco medesmo a suo piacer combatte!". (Pd V 79-84)

Come si può notare dagli esempi fin qui proposti (1-12), la grande maggioranza delle iussive esprime un ordine o una richiesta che ci si aspetta vengano soddisfatti nell'immediato. Meno frequenti sono gli ordini e le richieste che Dante è chiamato ad assolvere una volta che sarà tornato nel mondo terreno. In questo caso i comportamenti dei personaggi dei tre regni si differenziano significativamente in relazione alle diverse condizioni e alle diverse aspettative che dannati, penitenti e beati hanno. Nell'Inferno alcuni dannati chiedono a Dante di portare tra i vivi notizia dell'incontro avuto, spesso con spirito delatorio o come avvertimento profetico:

«Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta; ma non tacer, se tu di qua entro eschi, di quel ch'ebbe or così la lingua pronta. (If XXXII 112-114)

«Or dì a fra Dolcin dunque che s'armi, tu che forse vedra' il sole in breve, s'ello non vuol qui tosto seguitarmi, (If XXVIII 55-57)

Nel Purgatorio sono molto numerosi i personaggi che chiedono a Dante di portare notizia di loro ai vivi o di ricordare ai congiunti di pregare per loro:

Poi sorridendo disse: "Io son Manfredi, nepote di Costanza imperadrice;

(7)

ond'io ti priego che, quando tu riedi, vadi a mia bella figlia, genitrice de l'onor di Cicilia e d'Aragona, e dichi 'l vero a lei, s'altro si dice. (Pg III 112-117)

Ciò ovviamente non accade nel regno della perfetta beatitudine, in cui le azioni che Dante è chiamato a compiere una volta tornato nel mondo terreno riguardano tutte il destino del poeta stesso, come nel caso della missione universale di cui Dante è investito da Cacciaguida:

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, tutta tua visïon fa manifesta;

e lascia pur grattar dov' è la rogna. (Pd XVII 127-129)9

Gli ordini, le esortazioni e le preghiere visti fin qui si collocano lungo i due sensi della direttrice dialogica personaggi/guida ↔ Dante. Per completare il quadro si prendano ora in considerazione gli ordini, le esortazioni, le preghiere che non sono pronunciate dal protagonista, né sono a lui rivolti. Anche in questo caso i discorsi dei personaggi delle tre cantiche si differenziano significativamente. Nell'Inferno sono abbastanza frequenti scene, dal sapore comico-realistico, in cui i dannati si danno ordini l'un l'altro; una particolare concentrazione di iussive si ritrova ad esempio nei canti XXI e XXII, nel fitto scambio di battute mimetiche tra i diavoli che custodiscono la bolgia dei barattieri:

Ei chinavan li raffi e «Vuo' che 'l tocchi», diceva l'un con l'altro, «in sul groppone?». E rispondien: «Sì, fa che gliel' accocchi». (If XXI 100-102)

I dannati pronunciano inoltre invocazioni e imprecazioni di vario tipo: Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».

(If XIII 118)

Al fine de le sue parole il ladro le mani alzò con amendue le fiche,

gridando: «Togli, Dio, ch'a te le squadro!». (If XXV 1-3)

(8)

Nel Purgatorio le iussive non rivolte a Dante ricorrono soprattutto nelle preghiere, e dunque sono rivolte a Dio o alla Vergine:

«O Padre nostro, che ne' cieli stai, non circunscritto, ma per più amore ch'ai primi effetti di là sù tu hai, laudato sia 'l tuo nome e 'l tuo valore da ogne creatura, com' è degno

di render grazie al tuo dolce vapore. (Pg XI 1-6)

ma sono anche molto frequenti negli exempla pronunciati da voci incorporee, scolpiti nel marmo delle pareti o pronunciati dagli stessi penitenti:

ultimamente ci si grida: "Crasso, dilci, che 'l sai: di che sapore è l'oro?". (Pg XX 116-117)

Nel Paradiso questo tipo di iussive si trovano nelle preghiere: Vinca tua guardia i movimenti umani:

vedi Beatrice con quanti beati

per li miei prieghi ti chiudon le mani!». (Pd XXXIII 37-39)10

oppure, come si è già visto in (13), veicolano insegnamenti morali rivolti ai viventi. In conclusione di questa rassegna potrà essere meglio spiegata la netta disparità tra le prime due cantiche e la terza quanto alla frequenza del tipo iussivo: infatti nei dialoghi della terza cantica lo scambio di informazione tra i parlanti è per lo più a senso unico (beati → Dante), e il movimento e l'interazione fisica tra i personaggi sono ridotti al minimo.

2.1.3 F

ORME SINTATTICHE DIREALIZZAZIONE

In questa sezione si prenderanno in considerazione le diverse modalità di realizzazione della iussiva nei dialoghi, con particolare attenzione ai modi verbali e alle diverse strategie di intensificazione, attenuazione, cortesia. Si vedano innanzitutto i dati relativi all'uso dei modi verbali:

10 Ageno (1978a: 235) considera la frase come ottativa, in virtù del suo carattere di invocazione, anche se la stessa studiosa reputa spesso poco netta la distinzione tra la preghiera e l'esortazione. Qui si è deciso, concordemente con Sara Gigli, di considerarla una iussiva, poiché esprime una richiesta d'azione.

(9)

2.1.3.1 I

USSIVEALCONGIUNTIVO

Il congiuntivo esortativo in it. ant., come in italiano contemporaneo, «ha funzione suppletiva nei riguardi dell'imperativo per le persone in cui è assente», cioè la III singolare e plurale, mentre per la II persona singolare e plurale viene di norma utilizzato l'imperativo. Come dimostra Lorenzo Renzi (2010: 1204), il congiuntivo è utilizzato per la seconda persona singolare e plurale dei verbi essere, avere, sapere, che in it. ant. non hanno forma vera e propria di imperativo e usano il congiuntivo presente come forma suppletiva11.

Nei dialoghi della Commedia il congiuntivo, oltre che nelle iussive indirette (40 occorrenze totali) e nei casi in cui l'ordine sia effettivamente riferito a una terza persona, è utilizzato anche in perifrasi con le quali ci si rivolge a una seconda persona: come osserva Ageno (1978b: 233), infatti, «può dipendere dalla scelta lessicale che una III persona del congiuntivo esortativo si sostituisca a una II persona dell'imperativo, cioè assuma una forma indiretta quello che è essenzialmente (e concettualmente) un ordine dato o un invito rivolto a un ascoltatore».

L'uso di perifrasi al congiuntivo per esprimere una richiesta rivolta ad una seconda persona risulta più frequente nelle sezioni mimetiche dell'Inferno e un luogo in cui l'opposizione stilistica tra congiuntivo e imperativo si manifesta con particolare evidenza è negli incipit dei discorsi diretti dei dannati. Si osservino, ad esempio, i seguenti passi:

Iussive al congiuntivo Iussive all'imperativo

(1) «O Tosco che per la città del foco (5) «O tu che se' per questo 'nferno tratto»,

11 In italiano contemporaneo, invece, forme come sappi, sii, abbi, sono dei veri e propri imperativi, formati sulla base del congiuntivo.

Tabella 2: Uso dei modi verbali nelle iussive

Inferno % Purgatorio % Paradiso % TOT %

congiuntivo 53 16% 25 8% 29 16% 107 13%

indicativo 39 12% 25 8% 33 19% 97 12%

imperativo 237 71% 249 82% 116 65% 602 74%

(10)

vivo ten vai così parlando onesto, piacciati di restare in questo loco. (If X 22-24)

mi disse, «riconoscimi, se sai: (If VI 40-42)

(2) E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia

se Brunetto Latino un poco teco

ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia». (If XV 31-33)

(6) Venian ver' noi, e ciascuna gridava: «Sòstati tu ch'a l'abito ne sembri essere alcun di nostra terra prava» (If XVI 7-9)

(3) udimmo dire: «O tu a cu' io drizzo la voce e che parlavi mo lombardo, dicendo "Istra ten va, più non t'adizzo", perch' io sia giunto forse alquanto tardo, non t'incresca restare a parlar meco; (If XXVII 19-24)

(7) e l'un gridò da lungi: «A qual martiro venite voi che scendete la costa?

Ditel costinci; se non, l'arco tiro». (If XII 61-63)

(4) E 'l tronco: «Sì col dolce dir m'adeschi, ch'i' non posso tacere; e voi non gravi perch' ïo un poco a ragionar m'inveschi. (If XIII 55-57)

(8) Mentre che tutto in lui veder m'attacco, guardommi e con le man s'aperse il petto, dicendo: «Or vedi com' io mi dilacco! vedi come storpiato è Mäometto! (If XXVIII 28-31)

Nei passi riportati nella colonna di sinistra, al posto di una II persona dell’imperativo, Dante preferisce usare una perifrasi costituita dal congiuntivo di un verbo indicante piacere o dispiacere usato impersonalmente e seguito da una soggettiva. Il verbo impersonale compare sempre accompagnato da un pronome di II persona al dativo o all’accusativo e, nei primi tre passi, anche da un vocativo pleonastico che connota ulteriormente l’interlocutore a cui è rivolta la richiesta.12 Inoltre in tre casi su quattro il

verbo al congiuntivo induce una litote, ulteriore strumento di attenuazione.

A fronte di un contenuto della richiesta pressoché identico nelle iussive della prima e della seconda colonna, mi sembra che l’uso delle perifrasi al congiuntivo sia determinato dalla necessità espressiva di conferire una connotazione di cortesia e di compostezza all'invito che la frase esprime. Non casualmente, dunque, tali formule occorrono sempre in posizione incipitaria nei discorsi di personaggi dalla grande statura intellettuale, come Farinata, Brunetto Latini, Pier della Vigna, Guido da Montefeltro.

L'uso dell'imperativo in incipit di discorso appare vòlto invece, se paragonato ai congiuntivi attenuativi precedenti, a conferire aggressività e rozzezza all'apostrofe. 12 Tra l’altro il vocativo è una spia interessante della caratteristica distintiva che il dannato riconosce nel suo interlocutore e che lo spinge ad apostrofarlo: per Guido da Montefeltro, Virgilio, dato che non lo ha mai conosciuto in vita, è un generico “tu”, caratterizzato solo dalla parlata lombarda; per Brunetto Latini Dante è “figliuol mio”, poiché in lui vede il proprio giovane discepolo; per Farinata, invece, Dante è essenzialmente un “tosco”, perché con lui condivide la patria e la passione politica.

(11)

Accanto all'imperativo, che esprime un ordine più perentorio13 ma, come si vedrà oltre,

non necessariamente scortese, vi sono altri elementi lessicali e sintattici che contribuiscono a dare impressione di scortesia e aggressività: il soggetto espresso, che indica «insistenza sulla persona a cui spetta l'agire» in (5) e (6);14 la protasi se sai, che

crea un tono di sfida nelle parole di Ciacco in (6); la ripetizione dell'imperativo vedi nelle parole di Maometto in (8); il verbo gridare come introduttore del discorso diretto e una minaccia finalizzata a rendere più persuasivo l'ordine in (7).

Accanto alle perifrasi con verbi indicanti piacere o dispiacere, che sono le più frequenti, sono molto vari i moduli iussivi al congiuntivo che Dante utilizza per rendere più solenni o più cortesi le richieste. Se ne prendano in esame alcuni tra i più significativi:

(1)

"La mente tua conservi quel ch'udito hai contra te",mi comandò quel saggio; "e ora attendi qui", e drizzò 'l dito: "quando sarai dinanzi al dolce raggio di quella il cui bell'occhio tutto vede, da lei saprai di tua vita il viaggio". (If X 127-132)

(2)

Allor disse 'l maestro: "Non si franga lo tuo pensier da qui innanzi sovr'ello. Attendi ad altro, ed ei là si rimanga; (If XXIX 22-24)

(3)

E' poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti; finor t'assolvo, e tu m'insegna fare sì come Penestrino in terra getti. (If XXVII 100-102)

(4)

Gente vien con la quale esser non deggio. Sieti raccomandato il mio Tesoro,

nel qual io vivo ancora, e più non cheggio". (If XV 118-120)

(5)

"O frati", dissi, "che per cento milia perigli siete giunti a l'occidente, a questa tanto picciola vigilia d'i nostri sensi ch'è del rimanente non vogliate negar l'esperienza, di retro al sol, del mondo sanza gente. (If XXVI 112-117)

(6)

"Deh, bella donna, che a' raggi d'amore ti scaldi, s'i' vo' credere a' sembianti che soglion esser testimon del core, vegnati in voglia di trarreti avanti", diss'io a lei, "verso questa rivera, tanto ch'io possa intender... (Pg XXVIII 43-48) (7)

"Ricordivi", dicea, "d'i maladetti nei nuvoli formati, che, satolli, Teseo combatter co' doppi petti; e de li Ebrei ch'al ber si mostrar molli, per che no i volle Gedeon compagni, quando inver' Madian discese i colli". (Pg XXIV 121-125)

13 Cfr. Renzi 2010a: 1202.

14 Sostiene Ageno (1978b: 266): «nella lingua antica come nella moderna è normale che il soggetto dell'imperativo sia taciuto. Tuttavia esso può venire espresso per ragioni particolari». Anche Renzi (2010: 1206) rileva che, sia per le iussive al congiuntivo, che per quelle all'imperativo «il pronome soggetto appare solo se la persona è messa in rilievo pragmaticamente».

(12)

(8)

Poscia "Più non si va, se pria non morde, anime sante, il foco: intrate in esso, e al cantar di là non siate sorde", (Pg XXVII 10-12)

(9)

E questo ti sia sempre piombo a' piedi, per farti mover lento com'uom lasso e al sì e al no che tu non vedi: (Pd XIII 112-114)

I primi tre passi esemplificano una modalità di realizzazione della perifrasi iussiva al congiuntivo abbastanza frequente, e che si potrebbe definire metonimica, poiché consiste nel rivolgere la richiesta non all'interlocutore, ma direttamente alle sue facoltà intellettive e alle sue emozioni. La rilevanza stilistica del costrutto è resa evidente dai contesti in cui esso è utilizzato: in (1) Dante è in preda allo smarrimento, ai violenti sentimenti procurati in lui dall'oscura profezia dell'esilio appena udita da Farinata. L'ammonimento di Virgilio contenuto in queste terzine è un invito solenne (la cui rilevanza è sottolineata anche dal gesto di alzare il dito) a fare sì tesoro delle parole dell'eretico, ma a non farsi sopraffare da esse, avendo a cuore, per il momento, solo il fine ultimo del suo viaggio. In (2) la situazione è analoga: nelle terzine precedenti, Dante è inebriato (v. 2) dalla visione dei corpi mutilati della nona bolgia. Virgilio, come in numerosi altri luoghi del poema, lo invita a non soffermarsi troppo e, ricordandogli l'inesorabile scorrere del tempo, lo esorta a procedere nel cammino, che ancora gli riserva molto altro (vv. 4-12). Dante, come al solito, obbedisce al maestro, ma – fatto inedito – replica a Virgilio che in quel caso la sua esitazione era stata determinata dalla ricerca, tra i seminatori di discordia, del suo parente Geri del Bello, ucciso dalla famiglia dei Sacchetti e mai vendicato dagli Alighieri, come avrebbe imposto il codice di comportamento civile dell'epoca. Anche in questo caso, dunque, Dante è in preda ad un particolare turbamento, che il maestro lo esorta a dissipare con fermezza e solennità. Anche in (3) la perifrasi metonimica ha la funzione di innalzare il tono del discorso persuasivo che Bonifacio VIII rivolge a Guido da Montefeltro. La sintassi elegante che caratterizza questa richiesta e tutta la breve battuta mimetica di Bonifacio stride con l'empietà morale del suo contenuto.

Una perifrasi del tutto particolare, poi, è quella usata da Brunetto Latini in conclusione del suo dialogo con Dante (4). Essa infatti non sostituisce un imperativo, ma il semplice indicativo del predicato illocutivo ti raccomando. Anche in questo caso,

(13)

l’utilizzo del congiuntivo può essere attribuito a un’esigenza stilistica, ossia alla necessità di enfatizzare una richiesta che assume una sorta di valore sacrale in quanto riguarda la preservazione di un’opera letteraria, capace, secondo Brunetto e secondo Dante, di perpetuare la vita di chi l’ha scritta anche dopo la morte.

Un'altra formula perifrastica iussiva si ha con il congiuntivo o l'indicativo del modale

volere seguito da completiva. Può capitare che tale scelta formale abbia una rilevanza

dal punto di vista stilistico, come nella celebre esortazione di Ulisse ai suoi compagni (5). La perifrasi modale sostitutiva dell’imperativo utilizzata da Ulisse pone in evidenza il fatto che egli non vuole imporre alla sua compagna picciola il viaggio alla scoperta del mondo che si nasconde aldilà delle colonne d’Ercole, ma tenta invece, con la sua

orazion picciola, di risvegliare nei suoi compagni la volontà di conoscenza che

dovrebbe essere caratteristica primaria degli uomini virtuosi. In questo caso, dunque, il modale volere assume un ruolo che va ben oltre quello servile, per divenire il protagonista della richiesta espressa da Ulisse: una scelta di conoscenza. Nell'ampia apostrofe dal sapore stilnovistico di Dante a Matelda (6) il modale volere è a sua volta reso con una perifrasi e la richiesta si realizza con una formula iussiva che occupa un verso intero, scandito dal ritmo lento e solenne di un endecasillabo dattilico e dall'allitterazione della t e della v.

Infine in (8) e (9) sono esemplificate due delle numerose perifrasi con il verbo

essere, spesso utilizzate dai parlanti come raffinata variatio rispetto ai verbi più

frequenti (non essere sordo in luogo di ascoltare)15 o per amplificare la forza

dell'esortazione con vivide espressioni metaforiche.

Per concludere la rassegna delle iussive al congiuntivo, sono da segnalare due moduli stereotipati, dei quali il secondo ricorre con una certa frequenza nei discorsi diretti della

Commedia. Il primo è il modulo conclusivo basti:

Basti d'i miei maggiori udirne questo. Chi ei si fosser e onde venner quivi, più è tacer che ragionare onesto (Pd XVI 43-45)

Il secondo è quello costituito dal congiuntivo esortativo sappi, spesso preceduto da 15 Si noti che anche in questo caso, come pure in (5), la litote è uno degli strumenti attenuativi più

(14)

un connettivo (i più frequenti sono or, ma, e), e seguito da una completiva oggettiva: Mira quel cerchio che più li è congiunto;

e sappi che 'l suo muovere è sì tosto per l'affocato amore ond'elli è punto". (Pd XXVIII 43-45)

Tu vuo' saper chi è in questa lumera che qui appresso me così scintilla come raggio di sole in acqua mera. Or sappi che là entro si tranquilla Raab; e a nostr'ordine congiunta, (Pd IX 112-116)

Il congiuntivo sappi può essere definito pleonastico16 poiché non aggiunge nulla al

senso della completiva seguente, la quale potrebbe benissimo realizzarsi come una principale giustapposta o coordinata alla frase precedente, senza che il senso cambi. Cambia pragmaticamente il rilievo che il parlante dà al contenuto di quella completiva, che assume un peso maggiore se introdotta da una formula che chiama in causa esplicitamente l'interlocutore, invitandolo a concentrare l'attenzione su quella determinata sezione del suo discorso. Il congiuntivo esortativo sappi può dunque essere inteso come una formula volta a mantenere viva l'attenzione dell'interlocutore e conferisce certamente un maggiore realismo alle parti mimetiche17; in unione con un

connettivo, esso inoltre può essere un'utile zeppa a disposizione del poeta.

2.1.3.2 I

USSIVEALL

'

INDICATIVO

La iussiva all'indicativo si realizza con verbi illocutivi alla prima persona dell'indicativo presente, oppure con verbi alla seconda persona dell'indicativo futuro (si parla in questi casi di futuro ingiuntivo18), oppure ancora con forme impersonali.

I predicati più frequenti con cui la iussiva si realizza all'indicativo nei dialoghi della

Commedia sono volere (24 occorrenze), convenire (20 occorrenze)19 e pregare (14

16 La definizione è la stessa che Ageno (1978b: 267) formula a proposito dell'imperativo dimmi, anch'esso utilizzato spesso, come si vedrà tra poco, come formula introduttiva. Un'analoga funzione assume spesso l'imperativo vedi seguito da completiva: «E io a lui: “S'i' vegno, non rimango; // ma tu chi se', che sì se' fatto brutto?”». // «Rispuose: “Vedi che son un che piango”». (If VIII 34-36). 17 Il medesimo stilema si ritrova anche nel latino di Adriano V: «Ed elli a me: "Perché i nostri diretri /

rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima / scias quod ego fui successor Petri» (Pg XIX 97-99). 18 Bertinetto (2001: 116)

(15)

occorrenze)20.

La formula iussiva composta da voglio (più spesso nella forma apocopata vo') seguito da una subordinata completiva, quasi sempre al congiuntivo volitivo, sembra avere lo scopo di intensificare la forza illocutiva dell'ordine espresso, ponendo in primo piano, nel primo membro del costrutto perifrastico, la volontà del parlante che l'interlocutore esegua la sua richiesta. Infatti: «un verbo biargomentale come voglio (vò) esprime solo, con il soggetto, chi dà l'ordine e, con la frase subordinata, in che cosa consiste l'ordine stesso, ed è solo all'interno della subordinata che appare, assieme all'azione, anche chi deve farla» (Renzi 2010a: 1200). Si veda qualche passo esemplificativo:

Or vo' che sappi che l'altra fiata ch'i' discesi qua giù nel basso inferno, questa roccia non era ancor cascata. (If XII 34-36)

Ed elli a me: "Non vo' che tu paventi; lasciali digrignar pur a lor senno, ch'e' fanno ciò per li lessi dolenti". (If XXI 133-135)

Ed ella a me: "Da tema e da vergogna voglio che tu omai ti disviluppe, sì che non parli più com'om che sogna. (Pg XXXIII 31-33)

Non vo' però ch'a' tuoi vicini invidie, poscia che s'infutura la tua vita vie più là che 'l punir di lor perfidie". (Pd XVII 97-99)

per che le viste lor furo essaltate con grazia illuminante e con lor merto, sì c'hanno ferma e piena volontate; e non voglio che dubbi, ma sia certo, che ricever la grazia è meritorio secondo che l'affetto l'è aperto. (Pd XXIX 61-66)

In tutti questi passi la perifrasi potrebbe essere sciolta senza particolari problemi con l'imperativo del predicato della completiva (sappi, non paventar, disviluppa, non

invidiar, non dubbiar). La formula modale sarà dunque utilizzata sia come strumento di

intensificazione, poiché affianca due strumenti sintattici di volizione, il verbo volere e il congiuntivo volitivo, sia per esigenze di variatio.

Un effetto simile si ha con l'illocutivo pregare (e con predicati affini), che pone in prima posizione la volontà del parlante e la persona a cui spetta l'agire, collocando in seconda posizione il contenuto della richiesta, generalmente espresso con una completiva esplicita al congiuntivo. Ovviamente, come reso esplicito dal predicato, la iussiva in questi casi non esprime un ordine, ma una preghiera:

20 A cui vanno aggiunte le occorrenze di predicati illocutivi affini, come supplicare (2), richiedere (1),

(16)

"S'ei posson dentro da quelle faville parlar", diss'io, "maestro, assai ten priego e ripriego, che 'l priego vaglia mille, che non mi facci de l'attender niego (If XXVI 64-67)

Così rispuose, e soggiunse: "I' ti prego che per me prieghi quando sù sarai". (Pg XVI 50-51)

Ben supplico io a te, vivo topazio che questa gioia preziosa ingemmi, perché mi facci del tuo nome sazio". (Pd XV 85-87)

Mentre con il modale voglio e con l'illocutivo (ti) prego, viene messa in rilievo la volontà del parlante, accade il contrario con le iussive all'indicativo che hanno come predicato il verbo convenire o il verbo bisognare impersonali: anche in questi casi il contenuto dell'ordine è espresso all'interno della completiva, ma il predicato della sovraordinata esprime invece il carattere di necessità e di giustezza della prescrizione. Il verbo convenire non ha qui il significato, che si potrebbe definire debole, di 'essere appropriato', ma quello forte del corrispondente latino opus est, che indica contemporaneamente necessità ontologica e necessità morale. Si veda qualche esempio:

(1)

"Qui si convien lasciare ogne sospetto; ogne viltà convien che qui sia morta. (If III 14-15)

(2)

Più lunga scala convien che si saglia; non basta da costoro esser partito. Se tu mi 'ntendi, or fa sì che ti vaglia". (If XXIV 55-57)

(3)

"O tu che se' di là dal fiume sacro", volgendo suo parlare a me per punta, che pur per taglio m'era paruto acro, ricominciò, seguendo sanza cunta, "dì, dì se questo è vero; a tanta accusa tua confession conviene esser congiunta". (Pg XXXI 1-6)

(4)

Non dimandai"Che hai?" per quel che face chi guarda pur con l'occhio che non vede, quando disanimato il corpo giace; ma dimandai per darti forza al piede: così frugar conviensi i pigri, lenti ad usar lor vigilia quando riede". (Pg XV 133-138)

(5)

infino a qui come aprir si dovea, sì ch'io approvo ciò che fuori emerse; ma or conviene espremer quel che credi, e onde a la credenza tua s'offerse". (Pd XXIV 120-123)

(6)

e disse: "Certo a più angusto vaglio ti conviene schiarar: dicer convienti chi drizzò l'arco tuo a tal berzaglio". (Pd XXVI 22-24)

(17)

L'eclissi del soggetto ordinante – e, in (1), (2), (3) e (4) anche e dell'esecutore designato21 – annulla totalmente in questi ordini il fattore della volontà, connotando

queste frasi come l'espressione di qualcosa che è necessario che accada, e che deve accadere, quasi indipendentemente dai soggetti coinvolti nella comunicazione. Queste formule deontiche hanno dunque un forte carattere di perentorietà e, più che di un invito o di un ordine, assumono le fattezze di un ammaestramento. Non a caso la maggior parte di queste formule iussive sono utilizzate dalle guide di Dante, Virgilio (1-2-4) e Beatrice (3), e dai beati che sottopongono Dante all'esame su fede, speranza e carità.

Sono pragmaticamente affini a queste ultime formule iussive le espressioni deontiche con il modale dovere (1-2)22 e la perifrasi essere da (3), mentre il modale potere esprime

l'accordo del permesso (4)23:

(1)

Temer si dee di sole quelle cose c'hanno potenza di fare altrui male; de l'altre no, ché non son paurose. (If II 88-90)

(2)

Non ti dee oramai parer più forte, quando si dice che giusta vendetta poscia vengiata fu da giusta corte. (Pd VII 49-50)

(3)

Ma la notte risurge, e oramai è da partir, ché tutto avem veduto". (If XXXIV 68-69)

(4)

Mentre che vegnan lieti li occhi belli che, lagrimando, a te venir mi fenno, seder ti puoi e puoi andar tra elli. (Pg XXVII 136-138)

Anche con il futuro ingiuntivo o deontico, la volontà del soggetto ordinante è annichilita e si pone in rilievo soprattutto la necessità, l'ineluttabilità della realizzazione dell'evento. La iussiva esprime pertanto un'istruzione:

"Colà", disse quell'ombra, "n'anderemo dove la costa face di sé grembo;

e là il novo giorno attenderemo".

21 In questi passi infatti l'ordine si realizza senza la menzione dell'esecutore e la iussiva è perciò indiretta; negli ultimi due esempi invece il destinatario dell'ordine è espresso, come soggetto della completiva esplicita (5) o come oggetto indiretto della sovraordinata (6).

22 «Il modale dovere assume un valore deontico sia in riferimento a condizioni esterne che si presentano come necessarie perché una data situazione si realizzi, sia rispetto ad un obbligo imposto ad un partecipante alla situazione» (Squartini 2010: 585).

23 Rara invece la iussiva con la quale si richiede un permesso, che si realizza con l'imperativo del causativo lasciare con l'infinito, come in «Lascian'andar, ché nel cielo è voluto / ch'i' mostri altrui questo cammin silvestro"» (If XXI 83-84).

(18)

(Pg VII 67-69)

A lui t'aspetta e a' suoi benefici; per lui fia trasmutata molta gente, cambiando condizion ricchi e mendici; e portera'ne scritto ne la mente di lui, e nol dirai"; e disse cose incredibili a quei che fier presente. (Pd XVII 88-93)

2.1.3.3 I

USSIVEALL

'

IMPERATIVO

Come si è visto, generalmente il congiuntivo ha una funzione attenuativa e di cortesia, ma non è detto che con l'imperativo si esprima necessariamente una richiesta brusca o scortese. I parlanti infatti, specialmente quando la richiesta è espressa all'imperativo, combinano diverse strategie linguistiche che possono rendere più cortese e solenne la richiesta, ma anche renderla più convincente e persuasiva.

Quando la iussiva si colloca in incipit di battuta mimetica, essa è molto spesso accompagnata da un vocativo, che introduce una iussiva o un nucleo di iussive in 107 casi24. Il vocativo, che esplicita il destinatario della richiesta o dell'ordine, per il lettore

ha la funzione fondamentale di consentire l'identificazione dell'interlocutore quando questo non sia già stato designato nella narrazione diegetica. Da un punto di vista interno al contesto dialogico, il vocativo può avere una funzione propriamente fàtica di instaurare la conversazione, oppure – ma una funzione non esclude l'altra – può essere una formula che ha lo scopo di esprimere l'atteggiamento del parlante nei confronti del proprio interlocutore, configurandosi generalmente come una captatio benevolentiae. Si vedano alcuni esempi:

(1)

Or va, ch'un sol volere è d'ambedue: tu duca, tu segnore e tu maestro". (If II 139-140)

(2)

"O caro duca mio, che più di sette volte m'hai sicurtà renduta e tratto

d'alto periglio che 'ncontra mi stette, non mi lasciar", diss'io, "così disfatto; (If VIII 97-100)

(3)

"O voi che siete due dentro ad un foco, s'io meritai di voi mentre ch'io vissi, s'io meritai di voi assai o poco

24 Questo dato diventa ancor più significativo se si considera che 282 delle iussive presenti nel corpus sono coordinate, molto spesso con altre iussive, con le quali condividono il vocativo. Pertanto si può dire che il vocativo è utilizzato per circa 1/5 delle iussive (101 vocativi su 531 iussive principali).

(19)

quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma l'un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi". (If XXVI 79-84)

(4)

"O tu che ne la fortunata valle che fece Scipion di gloria reda, quand'Anibàl co' suoi diede le spalle, recasti già mille leon per preda, e che, se fossi stato a l'alta guerra de' tuoi fratelli, ancor par che si creda ch'avrebber vinto i figli de la terra: mettine giù, e non ten vegna schifo, dove Cocito la freddura serra. (If XXXI 115-123)

(5)

«O tu che vai, non per esser più tardo, ma forse reverente, a li altri dopo,

rispondi a me che 'n sete e 'n foco ardo. (Pg XXVI 16-18)

(6)

Ond'io appresso: "O perpetui fiori de l'etterna letizia, che pur uno parer mi fate tutti vostri odori, solvetemi, spirando, il gran digiuno che lungamente m'ha tenuto in fame, non trovandoli in terra cibo alcuno. (Pd XIX 22-27)

(7)

Ed ella: "O luce etterna del gran viro a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi, ch'ei portò giù, di questo gaudio miro, tenta costui di punti lievi e gravi, come ti piace, intorno de la fede, per la qual tu su per lo mare andavi. (Pd XXIV 34-39)

In (1) si trova uno dei pochi punti del poema in cui il vocativo è collocato in conclusione di una battuta mimetica. In questo caso la funzione fàtica del vocativo è totalmente assente e il vocativo ha la funzione di sottolineare il riconoscimento da parte di Dante del ruolo di Virgilio, che d'ora in avanti sarà il suo duca nell'andare, il segnore a cui obbedirà, il maestro che lo aiuterà a comprendere il senso del suo viaggio oltremondano. In effetti gli appellativi qui concentrati sono quelli che Dante premetterà molto spesso alle domande e alle richieste poste a Virgilio, come in (2): anche in questo caso il vocativo non ha una funzione fàtica, ma quella di rendere più persuasiva la richiesta, ricordando a Virgilio il suo ruolo nei confronti di Dante.

In (3) il vocativo, che si realizza in una delle forme più consuete nel poema, cioè SN + relativa, ha innanzitutto la funzione di identificare univocamente, nel paesaggio oscuro dell'ottava bolgia punteggiato di fiammelle, il referente del voi a cui è rivolta la richiesta. Inoltre, come nota Chiavacci Leonardi (1991: ad locum), l'apostrofe si innalza qui a una solennità di tono inconsueta: «il fatto che essi [Ulisse e Diomede] siano in due in una stessa fiamma, segno della loro colpa comune, sembra diventare un titolo di onore, distinguendoli fra tutti». Accanto al vocativo, che esprime il riconoscimento della magnanimità del destinatario della richiesta, Virgilio sente il bisogno – fatto inedito nella prima cantica – di ricordare, con una elegante anafora (s'io meritai di voi), i propri

(20)

meriti poetici, come argomento per rendere più autorevole la richiesta.

Nell'ampia captatio benevolentiae (4) che Virgilio rivolge a Fialte e che si estende per ben due terzine, il poeta concentra tutti i tratti di eccezionalità della sua figura come tramandati da Lucano, spingendosi fino al punto di menzionare la credenza, in verità quasi blasfema, che la sua presenza nella battaglia tra i giganti e gli dei avrebbe forse portato alla vittoria dei primi.

Accanto alle apostrofi solenni viste fin qui, il vocativo che precede la iussiva può realizzarsi anche con toni più dimessi e colloquiali, come accade in (5): la richiesta rivolta a Dante è accompagnata da una captatio benevolentiae che sottolinea, tramite una struttura sintattica parallela (tu che vai... me che ardo), la disparità di condizione tra chi chiede, costretto all'immobilità e alla penitenza, e chi ascolta, dotato del privilegio del viaggio e accompagnato da due grandi maestri.

In (6) e (7) sono infine esemplificate due delle ampie apostrofi paradisiache, che Beatrice e, soprattutto, Dante utilizzano per rivolgersi ai beati.

È da notare che, se il vocativo ha generalmente la funzione pragmatica di cercare il favore dell'interlocutore a cui si rivolge una richiesta, talvolta può avere invece la funzione opposta di esprimere disprezzo nei confronti del destinatario dell'ordine:

Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia, e disse: "Taci, maladetto lupo! consuma dentro te con la tua rabbia. (If VII 7-9)

Altri strumenti con cui la richiesta viene rafforzata e resa più persuasiva sono le interiezioni, l'uso di formule stereotipate di cortesia, le ripetizioni o l'accumulo di iussive:

(1)

Poi disse un altro: "Deh, se quel disio si compia che ti tragge a l'alto monte, con buona pïetate aiuta il mio! (Pg V 85-87)

(2)

e disse l'uno: "O anima che fitta nel corpo ancora inver' lo ciel ten vai, per carità ne consola e ne ditta onde vieni e chi se'; ché tu ne fai

tanto maravigliar de la tua grazia, quanto vuol cosa che non fu più mai". (Pg XIV 10-14)

(3)

Ma dimmi, e come amico mi perdona se troppa sicurtà m'allarga il freno, e come amico omai meco ragiona: come poté trovar dentro al tuo seno loco avarizia, tra cotanto senno di quanto per tua cura fosti pieno?".

(21)

(Pg XXII 19-24) (4)

"Deh, non contendere a l'asciutta scabbia che mi scolora", pregava, "la pelle,

né a difetto di carne ch'io abbia;

ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle due anime che là ti fanno scorta; non rimaner che tu non mi favelle!". (Pg XXIII 49-54)

(5)

gridò: "Fa, fa che le ginocchia cali. Ecco l'angel di Dio: piega le mani; omai vedrai di sì fatti officiali. (Pg II 28-30)

(6)

"Drizza le gambe, lèvati sù, frate!", rispuose; "non errar: conservo sono teco e con li altri ad una podestate, (Pg XIX 133-135)

(7)

Ricorditi, ricorditi! E se io sovresso Gerion ti guidai salvo, che farò ora presso più a Dio? Credi per certo che se dentro a l'alvo di questa fiamma stessi ben mille anni, non ti potrebbe far d'un capel calvo. E se tu forse credi ch'io t'inganni, fatti ver' lei, e fatti far credenza con le tue mani al lembo d'i tuoi panni. Pon giù omai, pon giù ogni temenza; volgiti in qua e vieni: entra sicuro!". (Pg XXVII 22-32)

Uno degli strumenti di intensificazione più comuni sono le figure di ripetizione, tra cui l'anafora che, come si è visto, innalza e rende più solenne lo stile delle apostrofi, e l'epanalessi, che invece amplifica la carica emotiva dell'esortazione: se ne hanno due esempi in (5), in cui l'accorato ordine di Virgilio è motivato dalla prima apparizione di un angelo nel Purgatorio, e in (7), dove Virgilio mette in campo tutti gli strumenti persuasivi a sua disposizione per assolvere all'ultimo compito prima di cedere il proprio ruolo di guida a Beatrice, cioè convincere Dante ad attraversare la coltre di fuoco che lo separa dalla cima del Purgatorio.

In (7), ma anche in (4) e (6), è esemplificata un'altra modalità di intensificazione molto frequente, cioè l'accumulo, nello spazio di poche terzine, di un cospicuo numero di predicati iussivi, spesso appaiati in dittologie sinonimiche, come in (6): drizza le

gambe, lèvati su.

Anche le interiezioni, che come l'epanalessi sono strumenti di mimesi del parlato, si accompagnano talvolta alla frase iussiva con un effetto stilistico di enfasi. In (1) e (4) si trovano due occorrenze dell'interiezione più frequente, deh, che pragmaticamente può essere interpretata sia come esercitiva, con la quale cioè il parlante «mira a sollecitare una reazione, verbale o comportamentale, da parte dell'interlocutore», che come

espositiva, che esprime «emozioni, sentimenti, pensieri ed atteggiamenti mentali» del

(22)

Per quanto riguarda le formule di cortesia che si associano alla iussiva all'imperativo, saranno da segnalare le frequenti espressioni ottative stereotipate che, come il vocativo, sono delle captationes benevolentiae che il parlante antepone alla richiesta: se ne ha un esempio in (1) in cui Buonconte da Montefeltro augura a Dante di condurre a buon fine il proprio viaggio. Nella medesima battuta mimetica è da notare inoltre la formula stereotipata con buona pietate, che, al pari di per carità in (2), rende esplicita la forza illocutoria richiestiva,25 connotando quanto espresso dalla iussiva come una cortese

preghiera. Il medesimo effetto si ha con alcuni verbi introduttivi di discorso diretto, come pregare in (4).

Come si può notare dagli esempi proposti fin qui, la maggior parte delle strutture iussive retoricamente più elaborate si trova nell'Inferno e, soprattutto nel Purgatorio, mentre nei dialoghi del Paradiso gli ordini e le richieste, quando pronunciati dai beati e rivolti a Dante, sono tendenzialmente più essenziali e meno ornati. Questo dato mi sembra da attribuire all'autorevolezza che i beati hanno nei confronti di Dante, in virtù della quale non hanno bisogno di mettere in atto strategie retoriche per rendere più persuasive le loro richieste. Cifra tipica, anche se non esclusiva, delle esortazioni dei beati è invece quella di essere molto spesso accompagnate dalla menzione della causa che le genera o del fine a cui sono volte:

Se sì di tutti li altri esser vuo' certo, di retro al mio parlar ten vien col viso girando su per lo beato serto.

(Pd X 100-102)

"Leva la testa e fa che t'assicuri:

ché ciò che vien qua sù del mortal mondo, convien ch'ai nostri raggi si maturi". Questo conforto del foco secondo mi venne; ond' io leväi li occhi a' monti che li 'ncurvaron pria col troppo pondo. (Pd XXV 34-39)

Della frequente associazione tra frasi iussive e subordinate del gruppo causale si avrà

(23)

modo di parlare più approfonditamente nei paragrafi dedicati alle causali (§ 3.2.3.1), alle finali (§ 3.3) e ai costrutti condizionali (§ 3.4).

Per concludere l'esame delle iussive all'imperativo, sarà opportuno soffermarsi sulle perifrasi e sui moduli stereotipati più consueti.

Una perifrasi molto frequente si realizza con l'imperativo del verbo fare seguito da una completiva al congiuntivo che reca il contenuto della richiesta, di cui si registrano 21 occorrenze nel corpus dei discorsi diretti della Commedia26. In it. ant. «questa forma

di imperativo perifrastico serve in particolare a introdurre una frase con soggetto diverso dalla persona a cui viene rivolto l'ordine» (Renzi 2010a: 1203)27, caratterizzando

l'interlocutore come un intermediario tra il parlante e il soggetto del congiuntivo esortativo28. Dante tuttavia sembra utilizzare indifferentemente questa perifrasi anche

quando il soggetto della completiva coincide con quello dell'imperativo. Anzi, sono più gli usi di questo secondo tipo rispetto a quello più consueto. Se ne osservi qualche esempio:

"O Rubicante, fa che tu li metti

li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!", gridavan tutti insieme i maladetti. (If XXII 40-42)

Però, se campi d'esti luoghi bui e torni a riveder le belle stelle, quando ti gioverà dicere "I' fui", fa che di noi a la gente favelle". (If XVI 82-85)

Va dunque, e fa che tu costui ricinghe d'un giunco schietto e che li lavi 'l viso, sì ch'ogne sucidume quindi stinghe; (Pg I 94-96)

Però, in pro del mondo che mal vive, al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, ritornato di là, fa che tu scrive". (Pg XXXII 103-105)

In tutti questi passi il soggetto del congiuntivo volitivo della completiva dipendente 26 Ageno (1978a: 267) riconosce che questa perifrasi, pur non essendo esclusiva di Dante, è

particolarmente frequente nella sua opera.

27 Riporto un esempio dalla GIA: «se tu vuogli esser lieve, fa che la tua cena sia breve» (Bono Giamboni, Libro de' Vizî e delle Virtudi, cap. 21, par. 4).

(24)

da fa coincide con quello dell'imperativo, sicché le perifrasi potrebbero essere tutte sciolte senza problemi con il predicato della completiva all'imperativo29. L'uso di questo

modulo perifrastico, che accosta un imperativo e un congiuntivo volitivo, mi sembra volto a incrementare la forza illocutiva dell'enunciato, rispetto al semplice imperativo.

Passando infine ai moduli stereotipati, quelli più rilevanti nei nostri dialoghi, a fianco del congiuntivo sappi, sono gli imperativi dimmi come introduttore di interrogativa diretta o indiretta e vedi seguito da completiva:

(1)

poi cominciai: "Belacqua, a me non dole di te omai; ma dimmi: perché assiso qui ritto sè? attendi tu iscorta, o pur lo modo usato t'ha' ripriso?". (Pg IV 123-126)

(2)

Ond'io: "Maestro, dì, qual cosa greve levata s'è da me, che nulla quasi per me fatica, andando, si riceve?". (Pg XII 118-120)

(3)

Così 'l maestro; e io "Alcun compenso", dissi lui, "trovache 'l tempo non passi perduto". Ed elli: "Vedi ch'a ciò penso". (If XI 13-15)

(4)

Vedi che sdegna li argomenti umani, sì che remo non vuol, né altro velo che l'ali sue, tra liti sì lontani. (Pg II 31-33)

(5)

Vinca tua guardia i movimenti umani: vedi Beatrice con quanti beati

per li miei prieghi ti chiudon le mani!". (Pd XXXIII 37-39)

Il passo (1) esemplifica la formula stereotipata in assoluto più ricorrente nei dialoghi della Commedia, cioè l'imperativo dimmi, molto spesso preceduto dal connettivo ma come introduttore di atto di domanda. Marcando il passaggio dall'asserzione alla 29 Tuttavia si noti che, nei primi tre esempi, l'interlocutore si caratterizza spesso come un intermediario, cioè il parlante chiede all'interlocutore di eseguire un'azione che ha come oggetto o termine una terza persona. Forse anche questo potrebbe essere uno dei motivi che influenza l'uso della formula perifrastica.

(25)

domanda, questa formula ha lo scopo pragmatico di introdurre la questione centrale attorno a cui ruoterà lo scambio dialogico30 e di rafforzare l'atto di domanda, ponendo

l'accento sul desiderio che il parlante ha di ricevere una risposta. Molto frequente anche la forma dì, spesso senza connettivo come in (2), che, inserendosi come un elemento parentetico nel periodo, assume la funzione di una vera e propria interiezione rafforzativa.

Anche l'imperativo vedi, perdendo del tutto o in parte il proprio significato letterale può funzionare da formula introduttiva. Ciò è ben evidente in (3) in cui vedi che non è altro che un segnale discorsivo di richiesta di attenzione31 in uso anche in alcune varietà

contemporanee. Anche in (4) e (5) vedi, pur mantenendo in parte il suo contenuto semantico letterale, ha la funzione – nel primo caso – di richiamare l'attenzione dell'interlocutore sull'affermazione successiva in maniera del tutto affine al congiuntivo

sappi, – nel secondo – di introdurre un'esclamazione, assumendo quasi la funzione di

un'interiezione che esprime meraviglia. Del resto in Dante è già attestata anche la forma con troncamento, ve', interiezione ancora oggi in uso in determinate varietà diatopiche («Ve' che non par che luca / lo raggio da sinistra a quel di sotto», Pg V 4-5).

30 Il connettivo avversativo ma, nota Chiavacci Leonardi (1991: I, ii, n. 84), sembra segnalare il passaggio «da una cosa meno importante a ciò che più preme».

(26)

2.2 L

E FRASI INTERROGATIVE

2.2.1 P

REMESSA

La frase interrogativa, nella sua formulazione canonica, corrisponde a un atto di domanda; è dunque un atto esercitivo, con cui «si richiede un'azione verbale, una risposta informativa» (Fava 2001a: 70). Si possono distinguere tre tipi di domanda, che corrispondono a altrettanti tipi di frase interrogativa: 1) l'interrogativa di tipo x che è introdotta da pronomi, aggettivi o avverbi della serie interrogativa e con la quale si vuole sapere «per cosa sta x, dove x è una funzione che contiene infinite variabili». Ad esempio se una domanda è introdotta dal pronome interrogativo chi?, che corrisponde a

x, nella risposta x può avere infiniti valori. 2) L'interrogativa alternativa, che prevede

come risposta soltanto due valori, sì o no, e 3) l'interrogativa disgiuntiva, che prevede come risposta soltanto due valori che sono indicati esplicitamente nella domanda stessa.

Un'altra distinzione che può essere effettuata all'interno delle frasi interrogative, di tipo pragmatico, è tra tipi canonici e tipi non canonici: questi ultimi hanno una forza illocutoria diversa rispetto ai primi, poiché, pur realizzandosi sintatticamente in maniera identica ai tipi canonici, non corrispondono a una richiesta di informazione. La principale formula interrogativa non canonica è la domanda retorica.

Si veda dunque una panoramica generale della distribuzione del tipo interrogativo all'interno del corpus. La tabella seguente riassume i dati complessivi relativi alle interrogative principali e coordinate a una principale di qualsiasi tipo (alternative, disgiuntive, di tipo x; canoniche e non) che risultano dall'interrogazione di

DanteSearch. In questo caso ho deciso di riportare separatamente i conteggi delle

occorrenze e i valori percentuali relativi ai discorsi diretti di Dante, Virgilio e Beatrice, poiché da essi emergono dei dati significativi che verranno successivamente commentati.

(27)

Un primo dato macroscopico che emerge dalla Tabella 3 (nella terza colonna) è che, mentre nell'Inferno e nel Purgatorio le frasi interrogative incidono rispettivamente per il 9% e l'8% sul totale delle frasi principali e coordinate a una principale, nei dialoghi del

Paradiso c'è un drastico calo nell'uso di questo tipo sintattico. Questo dato è facilmente

spiegabile se si ricorda che, affinché ci sia una domanda, è necessario che vi sia una differenza di informazione tra gli interlocutori, condizione che non si dà nel Paradiso, dove i beati non hanno bisogno di porre domande sull'identità del pellegrino e sui motivi del suo straordinario viaggio e dove nemmeno Dante ha quasi mai la necessità di esporre i suoi dubbi e le sue curiosità, poiché il suo pensiero è del tutto trasparente per le anime. La scarsa presenza di interrogative nei discorsi dei beati, come quella delle iussive, è una delle tante spie del ridotto tasso di dialogicità32 della terza cantica,

caratterizzata da battute mimetiche lunghe e tendenzialmente monologiche. 32 Cfr. Tramontana (1999: 31).

Tabella 3: Distribuzione delle interrogative dirette nei dialoghi delle tre cantiche Inferno Dante 48 20% 38% Virgilio 28 5% 22% altri 52 9% 41% totale 128 9% Purgatorio Dante 28 18% 26% Virgilio 17 5% 16% altri 64 8% 59% totale 109 8% Paradiso Dante 8 6% 27% Beatrice 5 1% 17% altri 17 2% 57% totale 30 2% interrogative

dirette coord a una principale)% (su tot principali e % (su tot interrogative)

(28)

Un altro dato interessante (sempre nella terza colonna) è che le interrogative incidono in modo nettamente maggiore sul parlato di Dante che su quello degli altri personaggi: nell'Inferno il 20% delle frasi principali e coordinate a una principale nei discorsi di Dante personaggio sono interrogative, a fronte di una media del 9%; nel

Purgatorio il 18% a fronte di una media dell'8%. In entrambe le cantiche, le

interrogative dirette nei discorsi di Virgilio hanno invece un'incidenza sul totale delle principali inferiore all'incidenza media (5%).

Nell'ultima colonna sono riportate le percentuali delle interrogative pronunciate dai diversi parlanti sul totale delle interrogative presenti in ogni cantica: nell'Inferno il 38% delle interrogative dirette dell'intera cantica compare nei discorsi di Dante; nel

Purgatorio tale percentuale si riduce (26%) a fronte di un aumento delle interrogative

pronunciate dagli altri personaggi (41% sul totale nell'Inferno, 59% nel Purgatorio). Questo quadro generale può ulteriormente precisarsi se si osserva la distribuzione nel poema dei diversi sottotipi di interrogativa diretta:

(29)

La Tabella 5 espone invece i dati riassuntivi riguardo ai tipi canonici e non canonici: Tabella 4: Distribuzione dei sottotipi interrogativi nei dialoghi delle tre cantiche

tutti % Dante % Virgilio % Beatrice % altri % Inferno

int x 62 48% 32 67% 6 21% 24 46%

int x ret 35 27% 4 8% 13 46% 18 35%

int altern 10 8% 3 6% 2 7% 5 10%

int altern ret 18 14% 6 13% 7 25% 5 10%

int disg 3 2% 3 6% 0% 0% totale 128 48 28 52 Purgatorio int x 48 44% 20 71% 7 41% 2 33% 19 33% int x ret 45 41% 2 7% 5 29% 3 50% 35 60% int altern 1 1% 1 4% 0% 0% 0%

int altern ret 9 8% 1 4% 3 18% 1 17% 4 7%

int disg 6 6% 4 14% 2 12% 0% 0% totale 109 28 17 6 58 Paradiso int x 11 37% 5 63% 1 20% 5 29% int x ret 12 40% 2 25% 2 40% 8 47% int altern 4 13% 1 13% 0% 3 18%

int altern ret 3 10% 0% 2 40% 1 6%

int disg 0% 0% 0% 0%

(30)

Da questi dati emergono con evidenza due elementi utili a completare il quadro generale prima accennato.

1. Dante e Virgilio, sia nell'Inferno che nel Purgatorio, dimostrano due atteggiamenti interroganti eccezionali, estremamente differenziati tra loro e rispetto agli altri personaggi parlanti. Dante pronuncia un numero di interrogative canoniche di molto superiore alla media: la grande maggioranza delle interrogative presenti nei suoi discorsi, infatti, corrisponde a un atto di domanda (il 79% nell'Inferno e l'89% nel

Purgatorio, contro una media rispettivamente del 59% e del 53%); per converso,

pronuncia un numero di interrogative non canoniche di gran lunga inferiore alla media. Per Virgilio nell'Inferno lo scostamento dalla media è della stessa entità, ma di segno opposto: solo il 29% delle interrogative da lui pronunciate è di tipo canonico. Nel

Purgatorio, invece, tale sproporzione si riduce e il rapporto tra interrogative canoniche e

non canoniche nei suoi discorsi è quello di una sostanziale parità.

2. Allargando lo sguardo ai dati complessivi delle prime due cantiche si può osservare come ci sia un progressivo aumento dell'incidenza dei sottotipi non canonici: nell'Inferno le interrogative retoriche sono 53 (41% sul totale delle interrogative) e quelle canoniche 75 (59% sul totale); nel Purgatorio le interrogative retoriche sono 54 Tabella 5: Distribuzione dei tipi canonici e non canonici nei dialoghi delle tre cantiche

tutti % Dante % Virgilio % Beatrice % altri % Inferno int canoniche 75 59% 38 79% 8 29% 29 56% int retoriche 53 41% 10 21% 20 71% 23 44% totale 128 48 28 52 Purgatorio int canoniche 55 50% 25 89% 9 53% 21 33% int retoriche 54 50% 3 11% 8 47% 43 67% totale 109 28 17 64 Inferno int canoniche 15 50% 6 75% 1 20% 8 47% int retoriche 15 50% 2 25% 4 80% 9 53%

(31)

(49% sul totale) e quelle canoniche 55 (51% sul totale). Nel passaggio dalla prima alla seconda cantica c'è dunque una diminuzione delle occorrenze delle interrogative canoniche e una sostanziale costanza di quelle retoriche, le quali tuttavia sono distribuite assai diversamente: diminuisce l'incidenza delle interrogative retoriche sul totale delle interrogative pronunciate sia da Dante che da Virgilio (in questo secondo caso la diminuzione è drastica), e aumenta invece l'incidenza delle interrogative retoriche nei discorsi degli altri personaggi: 44% (23 occorrenze) nell'Inferno contro 67% (44 occorrenze) nel Purgatorio.

Nei prossimi paragrafi si analizzeranno approfonditamente le due tipologie interrogative, canonica e non canonica, per rendere conto della distribuzione fin qui descritta.

2.2.2 L

E INTERROGATIVE CANONICHE

Per quanto riguarda le interrogative canoniche, i dati fin qui esposti sono specchio di una fenomenologia dialogica abbastanza nota a qualsiasi lettore della Commedia: Dante, pellegrino in viaggio nell'aldilà, è particolarmente portato a porre domande, da un lato, alle anime che incontra (in particolare sulla loro identità e il loro vissuto terreno), dall'altro alla sua guida (in particolare sulla struttura dei regni oltremondani); parallelamente, i dannati e i penitenti chiedono a Dante e Virgilio notizie sulla loro identità e sui motivi del loro viaggio. Nel Paradiso, come si è già detto, l'attitudine alla domanda di Dante-personaggio è inibita sia dal timore nei confronti dei grandi personaggi che incontra, sia dai beati stessi, che sono in grado di rispondere alle sue domande prima ancora che queste vengano pronunciate e che addirittura talvolta le formulano al posto suo:

Tu argomenti: "Se 'l buon voler dura, la violenza altrui per qual ragione di meritar mi scema la misura?". (Pd IV 19-21)

Or s'i' non procedesse avanti piùe, "Dunque, come costui fu sanza pare?" comincerebber le parole tue.

(32)

Per avere una prima idea dell'oggetto su cui vertono le domande che i personaggi si rivolgono l'un l'altro, si osservi come sono distribuiti gli introduttori di interrogativa x:

L'introduttore nettamente più frequente, come si può osservare, è il pronome chi: con la maggior parte delle interrogative che esprimono un atto di domanda, infatti, il parlante ha lo scopo di conoscere l'identità dell'interlocutore o, più raramente, di una terza persona. Un'esplicita richiesta di identità33, quando rivolta da Virgilio e Dante alle

anime che incontrano lungo il cammino, o quando, viceversa, rivolta dalle anime ai due poeti, è il motore che dà avvio a una buona parte degli scambi dialogici lungo il poema. Se ne osservino alcuni esempi:

(1)

e tre spiriti venner sotto noi,

de' quali né io né 'l duca mio s'accorse, se non quando gridar: "Chi siete voi?"; per che nostra novella si ristette, (If XXV 35-38)

(2)

Poscia che l'accoglienze oneste e liete furo iterate tre e quattro volte,

Sordel si trasse, e disse: "Voi, chi siete?". (Pg VII 1-3)

(3)

33 Si ricordi che tale richiesta non si realizza esclusivamente con l'interrogativa diretta, ma, molto spesso, con la formula iussiva + interrogativa indiretta illustrata in 2.2.1.

Tabella 6: Introduttori di interrogativa di tipo x canonica

Inferno Purgatorio Paradiso

che (agg) 3 4 1 che (pron) 11 10 2 chi 23 10 2 come 2 8 1 dove (ove) 6 2 1 perché 12 6 1 quale (agg) 3 6 1 quale (pron) 2 1 quando 1 quanto 1 onde 1 TOT 62 48 11

Figura

Tabella 1: Frasi principali nei dialoghi delle tre cantiche
Tabella 2: Uso dei modi verbali nelle iussive
Tabella 3: Distribuzione delle interrogative dirette nei dialoghi delle  tre canticheInfernoDante48 20% 38%Virgilio285%22%altri529%41%totale1289%PurgatorioDante2818%26%Virgilio175%16%altri648%59%totale1098%ParadisoDante86%27%Beatrice51%17%altri172%57%total
Tabella 4: Distribuzione dei sottotipi interrogativi nei dialoghi delle tre cantiche
+2

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