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QUADERNI DEL CONSIGLIO REGIONALE DELLE MARCHE
GASTONE PIETRUCCI
C ultura P oPolare M arChigiana
Canti e testi tradizionali raccolti nella Vallesina
II
7 I canti di questua, che ho raccolto in questo capitolo, sono eventi rituali che coincidono con alcune date precise del calendario agri- colo.
Per il ciclo delle feste del solstizio d’inverno: Capodanno-Epifa- nia fine marzo; quelle primaverili: Settimana Santa-Maggio; e quelle estive del mese di agosto.
Sono intonati da gruppi di cantori, accompagnati da vari stru- menti musicali (organetto, cembalo, triangolo, violino, fisarmonica) che percorrono le strade del paese e della campagna, casa per casa.
I testi dei canti di questua contengono sempre l’invito al padrone o alla padrona di casa, ad offrire dei doni, destinati poi al pranzo dei cantori che concludeva la festa.
In questo capitolo, ho raccolto esempi di canti di questua di, Pasquella - Scacciamarzo - Canti per le anime sante del Purgatorio -Passioni e Cantamaggio.
La Pasquella. Canto rituale di questua del solstizio d’inverno.
Viene di solito cantato la vigilia di Capodanno e dell’Epifania da gruppi di questuanti casa per casa, nella classica formazione di tre elementi: organetto, timpani, cembalo e voci maschili.
La consuetudine di questo canto di questua nell’Anconetano è ormai in via di inesorabile estinzione, mentre è ancora viva nel nord della regione, in provincia di Pesaro e in alcune zone romagnole. In genere sopravvive qua e là, nel ricordo e nella tenace volontà di qual- che anziano. Infatti tutte le lezioni della Pasquella, le ho registra te, non nel momento della questua della funzione, bensì in epoche di- verse e in periodi non consoni alla funzionalità del canto, e soltanto dopo mia esplicita richiesta.
La versione n. 368 è stata da me registrata in Apiro (MC). L’in- formatore che me l’ha cantata, mi ha detto che le stanze devono ave- re un ordine preciso di canto: prima quelle di argomento religioso, poi quelle di richieste varie di doni. Anche in Apiro la Pasquella non si esegue più: l’ultima volta l’hanno cantata proprio i miei informa- tori nel 1970.
Se il tema, l’argomento delle Pasquelle, è comune anche in zone fra loro molto distanti, non lo è il motivo musicale, notevolmente diverso da zona a zona.
Nel 1985 grazie anche all’interessamento del Comune di Mon- tecarotto (AN), sono riuscito ad organizzare a gennaio una Prima Rassegna della Pasquella, con l’intervento di alcuni gruppi spontanei
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di autentici portatori della tradizione, provenienti da diverse località marchigiane, che hanno riportato, alla maniera di una volta, casa per casa, questo nostro antico canto rituale.
Scacciamarzo. Il canto veniva effettuato, almeno sino a una cin- quantina di anni fa, nel Maceratese, da gruppi di bambini, casa per casa, l’ultimo giorno di marzo, con accompagnamento assordante di campanacci, barattoli e della sgràciola (rudimentale “raganella”, o girandola di legno, costruita per l’occasione con delle semplici canne).
Canto rituale di questua infantile, di origine pre-cristiana con una inequivocabile funzione esorcizzante: quella di scacciare il
“male” (l’inverno) e salutare il “bene” (la nuova stagione, il sole, la primavera risorgente ed imminente).
La Passione. Grande diffusione nell’Italia centrale ha il canto quaresimale di questua della Passione (“Passio”’, come è semplice- mente chiamato nell’area anconetana).
Questo canto veniva eseguito la domenica antecedente quella delle Palme, mentre il Canto per le anime sante del Purgatorio doveva essere cantato due domeniche precedenti. Infatti dal giorno della domenica delle Palme, non si poteva più cantare, perché si entrava nella Settimana Santa.
Il primo documento sui canti di questua del periodo pasquale è il canto Alle anime sante del purgatorio (n. 373) registrato da un grup- po di cantori di Apiro. Secondo questi informatori, l’ultima volta è stato eseguito in Apiro, nel 1972: nell’Anconetano, la la tradizione e l’esecuzione di questo canto sono scomparsi del tutto.
L’argomento delle stanze è quello di ricordare ai vivi i congiunti defunti, di invitarli a pregare e a meditare sulla fragilità e sul desti- no comune a tutti i mortali. Soprattutto per la gente di campagna, l’esecuzione di questo canto aveva l’effetto, l’importanza e il valo- re di una messa a suffragio dei morti. Quindi l’esecuzione veniva particolarmente gradita, richiesta e “ripagata” con la solita offerta di uova, vino e denaro.
Quattro sono le versioni della Passione che riporto, dal n. 374 al n. 377. Questo canto, di eccezionale valore storico, era portato ad una quarantina di anni fa, da gruppi di cantori casa per casa come augurio di salute, benessere ed abbondanza. La versione popolare di questa lauda è rimasta ovunque molto fedele, nel testo e nella musica.
9 Le versioni n. 374 del gruppo di Monsano (An) e n. 376 del gruppo di Montoro di Filottrano (An), dette volgarmente Le ven- tiquattr’ore fanno parte del filone delle Passioni, generalmente pub- blicate con il titolo di Orologio della Passione, perché il testo ci riporta, ora per ora, la crocefissione, il martirio e la resurrezione del Cristo. Il brano n. 375 del gruppo di Treia (MC), oltre che nel testo e nella sua lunghezza (è infatti conosciuto come Le quarantotto ore) si differenzia notevolmente dagli altri esempi di Passione, anche nella musica: incalzante, ossessiva, d’una “monotonia” funerea ed affascinante, rievocatrice del clima di passione e di morte del Signo- re. Anche in questo caso, tutti i passaggi oscuri, confusi, corrotti, sono stati trascritti così come li hanno cantati gli informatori, che il più delle volte non si rendevano conto del significato di quello che stavano cantando.
Soprattutto per il tono devozionale e moralistico della narrazio- ne, le Passioni sono sicuramente opera della Chiesa o di qualcuno vicino all’ufficialità cattolica. Qui la Chiesa si è inserita benissimo nella tradizione popolare, per quel fenomeno di perfetto sincreti- smo, riuscendo a divulgare e rendere popolare il messaggio cristiano tra i riti pagani e pre-cristiani di fertilità già esistenti.
La Passione è un canto di mestizia, eppure il messaggio cristiano non è un messaggio di morte. Ed inconsapevolmente l’animo popo- lare si è trovato in perfetta sintonia con la liturgia cristiana. Infatti anche in questo canto il popolo non si è lasciato sfuggire l’occasione di inserirvi (fenomeno esclusivamente marchigiano) il saltarello fi- nale di richiesta, in un’esplosione liberatoria di gioia e di speranza.
Proprio per questo, il saltarello che conclude ogni Passione, nelle case colpite da lutto recente, non viene eseguito. In questo caso, dopo la rituale richiesta di poter cantare, il gruppo esegue soltanto le stanze della Passione.
Questo canto, almeno a Monsano, era praticamente scomparso.
Così nel 1974, avendo trovato due cantori, ho dato loro coraggio, convincendoli a ricantare il brano nel paese di Monsano. Così ac- compagnati da un suonatore di fisarmonica e di tamburello improv- visati, i cantori hanno ricantato (con molto scetticismo) per le vie e le piazze del piccolo paese, dopo anni di silenzio, la loro Passione. La gente, dopo un primo attimo di sorpresa, ha accolto con simpatia e riconoscenza i cantori, ripagandoli alla maniera di una volta, con il dono di uova, vino e ricompense in denaro. L’espe rimento viene
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ripetuto sempre in sordina e dal solito gruppo, anche l’anno succes- sivo; poi pian piano altri gruppi cominciano ad intervenire e a far grande la manifestazione.
Così da allora per tutto il giorno della domenica della Palme (si è scelta questa data “proibita” per il canto popolare, per dar modo ai gruppi di poter cantare la Passione nei loro paesi d’origine e nel- le date stabilite dalla tradizione), gruppi di autentici portatori della tradizione popolare, provenienti da tutta la regione, ed ogni anno sempre più numerosi ed entusiasti, confluiscono a Monsano, per la Rassegna regionale della Passione, arrivata nel 1984 alla sua undicesi- ma edizione. Dal 1985, la manifestazione si svolge nel Comune di Polverigi (An).
L’esperimento iniziale era riuscito in pieno, e soprattutto era ser- vito a dar coraggio, dignità e voglia di riprendere questa nostra tra- dizione di cui ormai ci si “vergognava”.
Cantamaggio. Il canto rituale di questua del Cantamaggio cele bra l’avvenimento della primavera, della nuova stagione, ed affonda le sue radici nei riti pagani di fertilità e di benessere per la comunità ed i singoli. Tale pratica di celebrare il primo giorno di maggio con l’esecuzione di questo canto è in definitivo declino, almeno nella zona da me studiata. Per registrare il Cantamaggio di Fabriano (n.
378), sono dovuto andare a Collegiglioni di Fabriano (una locali- tà ad una cinquantina di chilometri da Monsano), dove ho ripreso l’unico canto di tutta la mia raccolta, mentre veniva eseguito spon- taneamente e nella ricorrenza canonica. Questo splendido gruppo di “maggianti”, infatti, era partito a cantar maggio il pome riggio del trenta aprile, cantando ininterrottamente (anche durante la notte) per le campagne di Fabriano, fino a mezzogiorno del primo maggio, giorno nel quale li ho registrati.
Costoro mi hanno riferito che la tradizione del Cantamaggio, era stata ripresa solo da qualche anno, dopo un notevole periodo di si- lenzio. Il gruppo era composto da cinque “canterini”, due suona tori di violino, un suonatore di violoncello e due fisarmonicisti (che si alternavano). Particolare affascinante di questo gruppo è il modo di suonare gli strumenti ad arco (tra l’altro costruiti da loro), comple- tamente differente dal metodo classico che si conosce. Prima di suo- nare, costoro sfregavano le corde dell’archetto sulla pomice (come solitamente fa il suonatore di tamburello con il suo strumento per farlo “urlare”), tanto che l’accompagnamento ne veniva stridu lo, ma
11 dolcissimo nello stesso tempo, evocatore di suoni, di atmosfe re, di climi arcaici.
Un’altra particolarità: in questo gruppo (come del resto in tutta la zona del fabrianese), il cembalo, popolarissimo ed onnipresente in tutte le Marche, non appare come strumento accompagnatore.
Le lezioni nn. 379 e 380 del Cantamaggio di Jesi e di Filottrano, le ho raccolte soltanto dalle voci degli informatori, che me le hanno ricantate da soli, a memoria, senza alcun accompagnamento musica le.
Proprio per evitare o almeno frenare questo rapido declino, sin dal 1983, grazie al mio interessamento, il Comune di Morro D’Al- ba (AN), sta chiamando a raccolta ogni anno, la terza domenica di maggio, gli autentici ed appassionati portatori della tradizione, pro- venienti da tutta la Regione, per ricantare e ritrasmettere in questo comune della Vallesina il Cantamaggio in una festa che, partendo dal significato che ha il maggio per la cultura locale, vuole rendere viva una delle nostre più autentiche tradizioni.
Il capitolo dei canti rituali di questua si chiude con il Canto delle anime sante di Fabriano (n. 381). Nel fabrianese, dove questo can- to è stato raccolto, viene eseguito in agosto, dopo la trebbiatura.
Ai cantori, oltre naturalmente abbondanti libagioni, ogni famiglia con tadina offre in media un quintale di grano. Il ricavato viene poi donato tutto al parroco (che in questo caso è l’organizzatore delle squadre di cantori, che ha formato un comitato di “controllo” per tutto il grano ricavato, e che in fondo ha “istituzionalizzato” l’avve- nimento, ripagando infine i “cantori ed i suonatori” con un pranzo di ringraziamento a fine giornata).
Le frazioni di Fabriano, dove ancora questa tradizione continua, sono quelle di Nebbiano e di Moscano.
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67 A completamento dei canti di questua delle feste calendariali, ag- giungo, sotto il titolo di Poesia Religiosa, questa raccolta di pre ghiere e canzoni religiose.
Preghiere semplici, ingenue, dove traspare la fede del nostro po- polo, mista a superstizioni, pregiudizi e paure ataviche. Non si può fare a meno di constatare il clima di mistero, di paura, che queste preghiere dovevano inculcare nella immaginazione della gente sem- plice, soprattutto dei bambini. Alla lettura di alcune di queste ora- zioni appare tutto un vero condizionamento (direi un “terrori smo”
psicologico), che doveva convincere, con le buone, ma soprat tutto con le cattive, grandi e piccini ad essere buoni cristiani.
Dal preciso e grossolano ricatto contro coloro che non erano de- diti alle preghiere quotidiane:
dettò chi non sa ’1 verbo je se ’mpare chi llo dirà di qua non llo dirà di là co’ le catene al collo ’nginocchioni1
al ricordo della morte e della futura resa dei conti:
quando ssaremo là ’n quel camposanto tremàremo come le foglie al vento2
all’invito esplicito al peccatore di confessarsi e di pentirsi:
peccatò vatté a confessà’
’riva la morte non t’aspetta morirai non senterai fin’aiudo chiamerai3 perché altrimenti:
Gesù mia co’ gran dolore verrà ’1 giudice co’ furore a ggiudicarlo il peccatore4
che lo condannerà alle pene eterne, al terribile inferno:
1 Cfr. n. 387, vv. 12-14.
2 Cfr. n. 387, vv 21-22.
3 Cfr. n. 394, vv 15-18.
4 Cfr. n. 388C, vv. 4-6.
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io vi prego e non son degno che non vada al basso regno5
È tanta la paura, il terrore per questo luogo di perdizione e di condanna, che il popolo cerca di esorcizzarlo chiamandolo con altri nomi. Qui per esempio: basso regno ad indicare l’inferno. Per non parlare del diavolo che non si avrà mai il coraggio di nominare se non con delle perifrasi, come bruti’omo, amico tristo, spirito cattivo6.
Una religione quindi di paura, oscura, severa punitrice del pec- catore, del deviante. Come se non bastasse già l’inferno di misere condizioni, di duro lavoro, di miseria che aveva nell’al di qua, il con- tadino doveva anche preoccuparsi dell’altro inferno che lo avrebbe aspettato nell’aldilà.
Con la passione El Venerdì Santo... (n. 382), siamo di fronte uno dei documenti più primitivi ed autenticamente popolari di tutta la raccolta. Dopo ben tredici versioni fornitemi dalla stessa informatri- ce sul filo della memoria, a distanza di pochi giorni, sono riuscito a recuperare il testo in tutta la sua interezza. Alla donna, questa pre- ghiera, era stata insegnata dal padre, che gliela faceva recita proprio la sera del venerdì santo (per devoziò, come dice la informatrice).
La doveva dire tre volte di seguito, tanto che l’informatrice ancora adesso la recita velocemente, senza nessuna intonazione forse come la recitava allora bambina, prima di coricarsi, in una gara contro il tempo e contro il sonno incombente.
Secondo la testimonianza dell’informatrice, il Canto del Venerdì Santo (n. 385) veniva eseguito a Rosora (An), suo paese di origine, dalle donne sulla via del ritorno a casa, dopo la processione del Ve- nerdì Santo. Un gruppo intonava il canto e l’altro rispondeva. Un canto quindi extraprocessionale che, nella parte centrale del testo, presenta una evidente contaminazione con altri canti. Infatti quel:
Maria lavava Giuseppe spandeva il suo figlio piangeva ch’è mmorto per no’
Sta’ zzitto sta’ zzitto sta’ zzitto mio figlio 5 Cfr. n. 388C, vv. 25-26.
6 Per lo stesso concetto vedi Rondini, 1893, p. 164.
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la zzinna ti dò
lo ritroviamo in altre raccolte, come filastrocca di Natale, come canto fanciullesco, o come ninna-nanna o cantilena. A riprova del diverso uso che il popolo può fare di uno stesso canto. Per il resto il testo è inerente al tema del Venerdì Santo. La stessa informatrice mi ha detto che si serviva di questo canto, anche come ninna-nanna.
Il Diasilla diasilla, (n. 388) non è altro che la traduzione “popola- re” del Dies trae cantata nella messa dei defunti.
Per il popolo era una preghiera, che se recitata tre volte, “valeva”
una Messa in suffragio dei defunti. Addirittura c’erano delle perso- ne, e precisamente dei mendicanti, che recitavano questa pre ghiera nelle case di campagna, in cambio di cibo e di qualche piccola of- ferta. L’informatrice della versione A mi ha riferito che la propria madre, per un piatto di minestra e qualche pezzo di pane, andava nelle case a recitare la Diasilla: tanto che era stata soprannominata la minestrona.
Anche in questo caso la trascrizione è stata lasciata con tutti i passaggi oscuri.
La Novena di Natale (n. 403), si cantava in tutte le famiglie, dal sedici al ventiquattro dicembre, corredata dal padre nostro e dal gloria, per nove volte di seguito. Infatti ogni sera, il capofamiglia invitava tutti i componenti alla novena dicendo; “annamo a ffà Gesù Bambino”.
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97 Tutti i vari generi che ho racchiuso in questo capitolo costitui- scono quel grande corpus che Pasolini definisce Poesia folclorica.
“Questi documenti della zona più bassa della poesia popolare”1 te- stimoniano quel passaggio dalla parola al canto e meriterebbero uno studio ed una attenzione più approfonditi più di quanto si sia fatto fino ad oggi.
I generi presenti in questi capitoli sono in linea di massima: gli Scioglilingua dal n. 404 al n. 408, le Fiabe a formula dal n. 409 al n.
412, le Filastrocche dal n. 413 al n. 434, Canti, Giochi e Conte infan- tili dal n. 435 al n. 455, i Richiami di animali n. 456, Giochi motori dal n. 457 al 458, le Chiapparelle n. 459, ed infine Ninne-nanne dal 460 al n. 464.
Ricordiamo però che i materiali raccolti hanno solitamente varie funzioni: quindi pur sistemandoli in ordini, bisogna sempre tener presente che lo stesso testo può servire come canto infantile, ma anche come filastrocca o gioco, o altro genere.
Gli scioglilingua erano detti per divertimento, soprattutto ai bambini, e dovevano essere recitati molto velocemente, con grande mimica e maestria.
Il n. 408 Dietro a quel palazzo... nasconde dietro l’innocenza delle immagini, uno spiccato significato sessuale. Se proviamo a ripeterlo molte volte e velocemente si cadrà nell scambio di iniziali e si avrà immediatamente ben altro significato!
Con la fiaba a formula, Cioetta Cioetta (n. 409), evidente era la funzione di divertire il bambino, ma nello stesso tempo fargli ap- prendere nozioni e vocaboli, come in questo caso specifico, inse- gnargli la “storia del pane”2.
Pipiccinterra maestro della terra (n. 410), altra fiaba a formula, con un andamento da cantilena iterativa. Qui appaiono molti perso- naggi che reagiscono con comportamenti diversi alla notizia che Pi- piccinterra “è cascado dentro la pigna”.
Anche se lo scopo primario di queste favole, di queste cantile- ne, degli scioglilingua, delle filastrocche, era quello di meravigliare, sbalordire il bambino, oltre che divertirlo, credo però che in modo implicito, anche se inconsciamente, il mondo popolare si divertis- se a mettere in ridicolo soprattutto la figura dei potenti, di coloro che appartengono alla sfera del potere, alla cultura egemone. Infatti, qui, la regina, il cardinale ed il re, (la triade dei potenti, che chiude
1 Pasolini, p. 109
2 Come nella filastrocca iterativa La bella mullinara (al n. 313) si insegnava diret- tamente al bambino giocando la “storia della vita”
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la fiaba), sono trattati o con gioiosa irriverenza dall’anonimo poeta popolare di Pipiccinterm.
Della famosa novellina de I vocaboli (n. 412), l’informatore si è ricordato solamente la filastrocca conclusiva, quando il furbo ser- vitore ripaga l’avido prete-padrone con le sue stesse armi, con le si stesse astuzie3.
Tallii Taillà (n. 413) e Cimi cimi commà (n. 414) sono filastroc- che che secondo gli informatori si recitavano quando “se bbadava monelli” (si guardava i bambini). Vi si ritrovano molte espressioni al limite del non sense, una costante della fantasia popolare, che ha spesso il gusto dell’assurdo e del surreale.
Seda moneda (n. 415) e Staccia minaccia (n. 417): classici gio- chi che l’adulto faceva con il bambino tenendolo sulle ginocchia e poi, alla fine della storia, facendo finta di farlo cadere. Così oltre a divertirlo, questo gioco aveva anche lo scopo di promuovere coor- dinamento dei movimenti, di suscitare il controllo emozionale e la prontezza dei riflessi del bambino.
I Numeri (n. 436), classico gioco di bambini (in questo caso di bambine), dove tra le visioni più strampalate, più gratuite, al limite del non sense, ci sono spie che rivelano rottami di antichi canti discesi dai grandi ai piccini. Caso questo che rientra perfettamente nello schema della poesia popolare “discesa”. Delle varie conte infantili, interessante, la serie di Aiulì aiulé (n. 452), che presenta francesismi indiscutibili. Accanto agli innocui girotondi, da notare il n. 455, il Giro giro tondo, politico che rispecchia il clima e soprattutto lo stato d’animo popolare durante il fascismo.
Con il gioco motorio fronte spaziosa (n. 457), ai bambini veni- vano toccate con la mano, le parti del volto via via enunciate dalla filastrocca, fino al solletico finale, fatto sul volto delle bambine dopo avergli toccato/insegnato il mento.
Come ninne-nanne il mondo popolare ha usato testi di ogni ori- gine e carattere. Non raramente vi ritroviamo l’immagine della mor- te e spesso immagini paurose, minacce, promesse per far dormi re il bambino.
Le due versioni A e B dell’ultima ninna-nanna (n. 464) sono state raccolte in Ancona e preso lo stesso informatore. Il finale della ver- sione A era cantato nel rione di San Pietro (quartiere nativo dell’in- formatore), quello della versione B, più “pepata”, è la varian te che si cantava nel rione del Porto.
3 Cfr. Per la novellina, Maffei-Bellucci p. 64, n. VIII
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165 Invocazioni, scongiuri, formule magiche sono testi, nei quali, an- che se compare il nome della Madonna o dei Santi, non c’è molto di religioso, c’è piuttosto credenza magica nella potenza attribuita alla parola. È un piccolissimo esempio, il materiale raccolto in questo ca- pitolo, di quel sincretismo cattolico che De Martino notò in buona parte della tradizione popolare legata al mondo contadino.
Delle Formule per trovare marito, il Sant’Alberto sant’Alberto del n.
465, si doveva recitare tre volte la sera prima di andare a letto con uno specchio sotto il cuscino: la persona che si sarebbe sognata la notte, sarebbe diventato il futuro marito.
La n. 466 è un’altra variante per propiziarsi il fidanzato. Doveva essere recitata tre volte per tre sere di seguito, guardando la stella più bella della notte.
La n. 467 è la formula della fattura, sempre a scopo matrimonia- le: ma soprattutto per far ritornare (per riconquistare) il fidanzato perduto. Simbolicamente veniva pugnalata una fotografia dell’ex- fidanzato.
La Formula di scongiuro n. 468 A viene recitata dai ragazzi di Filottrano (An), per non far trovare l’ubicazione di un nido ad alcu- no. Invece nello spoletino, la variante B è una formula da ripetere sempre tre volte, quando si sente cantare la civetta di notte, per farla scappare via. Questo perché, secondo la credenza popola re, porta male sentire il suo canto (meno che nel periodo in cui sta maturando l’uva).
Al Canto del cuculo (n. 469) le ragazze abruzzesi recitavano que- sta formula per chiedere quanto tempo rimaneva loro per spo sarsi.
Infatti, contando i vari cucù emessi dal cuculo, avevano il numero esatto degli anni.
La formula contro il malocchio (n. 470) e contro il mal di testa viene insegnata e “rinnovata” (’rnuvate) la notte della vigilia di Na- tale. Insegnata a chi desidera impararla, mentre deve essere recitata, da chi già ne è in possesso, affinchè la formula sia rinnovata ed abbia nuova validità per l’anno successivo.
Si mette dell’acqua su un piatto, poi si recita una prima volta la formula a bassa voce, segnando la fronte del “malato” con segni di croce; dopodiché s’intinge il mignolo nell’olio e lo si fa gocciolare nell’acqua del piatto. Se la goccia dell’olio (’spara), vuol dire che c’è il malocchio e che l’invidia (la mmedie) è molto forte. Se la goccia
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rimane intatta, naturalmente non c’è nessun malocchio. La formula e la prova con l’olio devono essere ripetute per altre due volte. Dopo- diché l’acqua deve essere assaggiata da chi si è sottoposto alla prova poi deve essere gettata nella cenere del camino.
Compare e commare dei fiori (n. 471). Con questa formula prece- duta dalla domanda: “Ci vuleme fa’ cumpare de’ fiure’? i ragazzi abruz- zesi, il giorno di San Giovanni (24 giugno), intreccian do i mignoli (a mo’ di legame) e regalando un fiore alla persona prescelta, si eleg- gono il proprio padrino (cumpare) o la madrina (cummare). Il giorno di San Pietro l’altra persona, contraccambia il gesto, regalando a sua volta un fiore.
Questo semplice rito fa poi sì che le due persone si rispettino considerandosi per tutta la vita come legati da vincoli di parentela.
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173 Il capitolo inizia con una sequenza di preghiere alla sbirbetica (come le ha chiamate l’informatore), cioè preghiere rovesciate, irri- verenti, canzonatorie, che vanno dalla Diasilla (n. 472), al Credo...
(n. 473), dal Pader nostro... (n. 474), al Requiem aeterna... (n. 475), da E la passiò de Cristo... (nn. 476 e 477), cantate sull’aria dell’omo- nimo canto rituale di questua, alle invettive contro i frati (n. 478) e l’ingordigia dei preti (n. 479), e contro la completa “sordità” alle preghiere ed alla disponibilità alle grazie, rispettivamente di sant’E- superanzio, patrono di Cingoli (Me), (n. 480) e di un Cristo venera- to a Castelferretti (n. 481).
La Stampidula pe’ le donne (n. 482), chiamata così dall’infor- matore, è una satira locale, ossia una burla dei giovanotti alle “gio- vanotte” della contrada di San Paolo di Jesi (An). Tutti i nomi che appaiono nel testo della stampidula si riferiscono alle ragazze di quel luogo. Questa satira risale (o almeno veniva cantata) fino ad una cinquantina di anni fa, quando l’informatore abitava in quel perio do proprio in quella frazione di campagna. La stampidula, la canzo ne, veniva cantata a mo’ di serenata dai ragazzi sotto le finestre delle
“malcapitate”, che dovevano far buon viso a cattivo gioco, perché altrimenti lo scherzo sarebbe diventato più pesante e soprattutto avrebbe avuto una durata ed una insistenza più lunghe.
La Passione per quelli di Monsano (n. 483) è un canto improvvi- sato, sull’aria del canto di questua della Passione, da uno dei cantori presenti a Monsano ( An), durante la quinta Rassegna Regionale della Passione. Chiaro il riferimento ad uomini e donne del paese.
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185 Nella tradizione delle nostre genti, gli indovinelli servivano per aguzzare l’ingegno, ed erano un lieto motivo di gara, soprattutto nelle lunghe veglie invernali.
Tutti gli indovinelli da me trovati, sono racchiusi in una breve massima (strofa): la maggior parte si prestano ad una duplice inter- pretazione, una licenziosa ed una innocente.
Ho sistemato tutto il corpus degli indovinelli, dando la prece- denza a quelli ingenui, normali (dal n. 484 al n. 500), poi a quelli licenziosi (dal n. 501 al n. 521).
In calce ad ogni singolo indovinello, metto la soluzione che mi ha dato l’informatore. Quando la soluzione non è chiara, metto in nota la soluzione in lingua.
Negli indovinelli n. 484 e n. 491, rispettivamente, la crinella e l’ago, troviamo delle parole enigmatiche, senza alcun significato spe- cifico, senza senso.
I nn. 499 B e 521, sono veri e propri acchiapparelli, di cui l’ulti- mo molto pesante. All’indovinello n. 499 B, una volta data la solu- zione, che è il pozzo colui che aveva posto l’indovinello rispon deva immediatamente: “La merda fino al gozzo”.
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201 Il proverbio racchiude in una breve massima la saggezza popola- re; generalmente in poesia, in rima, per ricordarselo meglio. Il buon senso e l’esperienza sono alla base dei proverbi. “Breve, profondo, poetico, il proverbio trasmette alle nuove generazioni, nella forma più semplice e adeguata a tutte le menti, l’accumulata esperienza dei padri...”1.
Caratteristica fondamentale del proverbio è la sua sinteticità:
Coa fatta gaggia morta2
Nei proverbi c’è spesso l’uso della metafora:
Quando vedete le nespole piangede quest’è l’ultimo frutto dell’estate3 Spesso la metafora sfocia in allegoria:
Se il gallo fa da gallina la casa va in rovina se il gallo fa da gallo la casa va a cavallo4
Ho sistemato il materiale, prima collocando i proverbi veri e pro- pri (dal n. 522 al n. 588), poi i modi di dire (dal n. 589 al n. 623) ed infine i motti e detti proverbiali (dal n. 624 al n. 633), che comune- mente costituiscono il blasone popolare.
1 Toschi, 1960, p. 147.
2 Cfr. n.558.
3 Cfr. n. 522.
4 Cfr. n. 564.
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