• Non ci sono risultati.

Un nuovo contributo per la soluzione dei problemi del lavoro

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Un nuovo contributo per la soluzione dei problemi del lavoro"

Copied!
28
0
0

Testo completo

(1)

Bollettino periodico n. 1, 28 marzo 2019

Le nuove mansioni: tra novità e positivizzazione di orientamenti giurisprudenziali Gabriele Bubola, p. 2

IN EVIDENZA

Un nuovo contributo per la

soluzione dei problemi del lavoro

COMMENTI BREVI

Michele Tiraboschi

Luogo di lavoro e condizioni lavorative “stressogene”: quando si configura la fattispecie di straining

Giada Benincasa, p. 8

SCHEDE TECNICHE

DOCUMENTI

p. 27

Appalto e trasferimento d’azienda: distinzioni e convergenze dai contorni ancora incerti

Lorenzo Maria Pelusi, p. 5

Le collaborazioni nei call center in outsourcing: disciplina e profili critici Federica Capponi, p. 10 Il potenziale ruolo delle commissioni di certificazione a fronte dell’eterna incertezza in materia di controlli a distanza)

Andrea Tundo, p. 12

Sopravvivenza della procedura con-certativo-autorizzatoria ex art. 4 Stat. Lav. a seguito di un cambio di titola-rità dell’impresa: l’Ispettorato Nazio-nale del Lavoro adotta un approccio

sostanzialista (come il GDPR!) Andrea Tundo, p. 17 Somministrazione fraudolenta: i chiarimenti dell’Ispettorato Gabriele Bubola, p. 16 Le linee guida dell’Ispettorato in tema di sfruttamento del lavoro e caporalato

Gabriele Bubola, p. 16 Vecchio e nuovo art. 2103 cod. civ. a confronto

Gabriele Bubola p. 19

I fenomeni “stressogeni” sul luogo di lavoro: mobbing, straining, stress occupazionale

Giada Benincasa p. 21

I contenuti dei principali accordi collettivi che regolano le collaborazioni nei call center outbound

Federica Capponi p. 22

Le diverse letture giurisprudenziali della categoria dei “controlli difensivi”

Andrea Tundo p. 25

Un nuovo piccolo contributo per la soluzione dei sempre più complessi problemi del lavoro.

Con questo spirito costruttivo e propositivo, continuiamo l’opera di condivisione con operatori, respon-sabili del personale ed esperti di alcune delle casistiche più interes-santi che sono oggetto della attività

della Commissione di certifica-zione dei contratti di lavoro isti-tuita presso il Centro studi inter-nazionali e comparati DEAL (Diritto Economia Ambiente Lavoro) della Università degli Studi di Modena e Reggio Emi-lia. In questo numero del bollettino

affrontiamo in particolare l’analisi e i

ragionamenti posti alla base di casi-stiche utili a delineare complesse questioni giuridiche che abitualmen-te emergono nei luoghi di lavoro: dalla nuova disciplina sulle mansioni (art. 2103 c.c.), alla configurazione di appalto o affitto di ramo d’azienda nei processi di esternaliz-zazione, l’analisi dei requisiti idonei per configurare il c.d. straining risar-cibile ai sensi dell’art. 2087 c.c., le criticità derivanti dai contratti di collaborazione nei call center in outsourcing e, per concludere, una disamina dell’art. 4 dello Stat. lav. in materia di controlli a distanza.

(2)

IN EVIDENZA

Le nuove mansioni: tra novità e

positivizzazione di orientamenti giurisprudenziali

Gabriele Bubola

Come noto, l’art. 3 del decreto legislativo n. 81/2015 ha radical-mente cambiato la disciplina in tema di mansioni prevista all’interno dell’art. 2103 cod. civ., cristallizzando in norma di legge indirizzi giurisprudenziali prece-denti o innovandone la disciplina, connotata, nel suo complesso, da una nuova concezione di flessibilità delle mansioni durante il rapporto di lavoro. A circa quattro anni dalla riforma, si può tentare di valutare la portata dell’intervento legislativo, anche considerando la interpreta-zione giurisprudenziale pre e post riforma.

Un primo punto da dover essere considerare nel silenzio del dettato normativo, è anzitutto dato dalla disciplina applicabile ai casi di de-mansionamento occorsi, senza soluzione di continuità, a cavallo della riforma. A fronte di una in-terpretazione, che si può conside-rare minoritaria, a mente della qua-le ha esclusiva riqua-levanza la colloca-zione dell’atto di variacolloca-zione delle mansioni, inteso quale singolo atto di esercizio del jus variandi, che costituisce il «fatto generatore del diritto allegato nel giudizio (il demansionamen-to)» e rappresenta «il fatto che segna il discrimine tra una normativa e l’altra», a nulla rilevando che «esso continui nel vigore della legge successiva» (Trib. Ra-venna, 30.09.2015), il filone giuri-sprudenziale prevalente riconduce il demansionamento nella categoria

dell’illecito permanente che si attua e si rinnova ogni giorno in cui il dipendente viene mantenuto a svolgere mansioni inferiori a quelle che egli, secondo il contratto e la legge, avrebbe il diritto di svolgere (Trib. Bergamo 12.01.2017; Trib. Roma 30.09.2015 nonché Trib. Roma 02.03.2017 nella quale si è precisato che «Il demansionamento del lavoratore costituisce un illecito “perma-nente” (..) qualora vi sia un demansio-namento protrattosi a cavallo dell’entrata in vigore della novella dell’art. 2103 c.c. ad opera dell’art. 3 del d.lgs. 81/2015, questo dev’essere scrutinato, sino al 24 giugno 2015, con la vecchia disciplina e, dal giorno successivo, con l’applicazione dello jus superveniens»). Nel senso di riconoscere al demansionamento carattere permanente anche l’interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione 16.04.2018, n. 9318 (precisazione formulata al fine di sancire che la prescrizione del dirit-to ad ottenere il risarcimendirit-to del danno professionale decorre dalla data di cessazione della condotta illecita).

L’elemento centrale della riforma, sebbene diverse e pur non irrile-vanti modifiche siano state appor-tate alla disciplina relativa all’inquadramento superiore (più difficilmente raggiungibile), è cer-tamente costituito dai notevoli spazi concessi al datore di lavoro per una diversa riallocazione del lavoratore in mansioni di parità o

inferiore livello, ricorrendone le condizioni (strutturali, ossia ricolle-gati a modifiche degli assetti orga-nizzativi aziendali incidenti sulla posizione del lavoratore, o previste dalla contrattazione collettiva) e dalla novella legislativa che ha de-terminato il perimetro normativo entro il quale possono essere sotto-scritti patti tra le parti con inciden-za non solo sul livello di inquadra-mento ma anche sulla categoria e sulla retribuzione.

(3)

investite da sindacati di legittimità di modifica delle mansioni delle quali si deduce il mancato rispetto del principio di equivalenza ai sensi della previgente disciplina (per tut-te, basti citare la recentissima Cass. n. 28249/2018, la quale ha precisa-to che «il demansionamenprecisa-to va ricono-sciuto anche all’interno del medesimo livello contrattuale, persino in presenza di una clausola di “fungibilità orizzontale” prevista dalla contrattazione collettiva aziendale. Ciò che conta, infatti, è la valorizzazione della professionalità ac-quisita dal dipendente nel corso degli anni (...) conseguentemente, il lavoratore addet-to a determinate mansioni (...) non può essere assegnato a mansioni nuove e diver-se che compromettano la professionalità raggiunta, ancorché rientranti nella mede-sima qualifica contrattuale dovendo, per contro, procedere ad una ponderata valu-tazione della professionalità del lavoratore al fine di salvaguardare, in concreto, il livello professionale acquisito e di fornire un’effettiva garanzia dell’accrescimento delle capacità professionali del dipendente (...) in tutti i precedenti richiamati è sempre postulata la necessità di accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza tecnico professionale del dipendente e siano tali da salvaguar-darne il livello professionale acquisito, in una prospettiva dinamica di valorizza-zione della capacità di arricchimento del bagaglio di conoscenze ed esperienze»). Ora, come sappiamo, tale tutela del lavoratore viene meno e con essa, è il caso di dirlo, anche tutta la liti-giosità inerente proprio alla equiva-lenza o meno tra le mansioni ed all’utilizzo del background profes-sionale del lavoratore. Ciò appare confermato dalla prima giurispru-denza di merito intervenuta sul punto. A titolo esemplificativo, Trib. Roma 31.10.2018, n. 8357 ha precisato che «(...) A seguito della modifica della norma in questione, per-tanto, il controllo del giudice sulla legitti-mità dell’esercizio dello ius variandi è limitato ad accertare, oltre

all’uguaglianza retributiva, che le nuove mansioni appartengano al medesimo livello e categoria in cui è inquadrato il lavoratore». In questi termini anche il Tribunale di Bergamo 12.01.2017 che ha affermato che, ai sensi della attuale disciplina, «il giudizio di equi-valenza, pertanto, deve essere condotto assumendo quale parametro solamente le astratte previsioni contenute nella declara-toria professionale del CCNL applicato al rapporto. È pertanto legittimo attri-buire al lavoratore funzioni che apparten-gano allo stesso livello di inquadramento delle precedenti, senza che sia più necessa-rio valutarne in concreto il contenuto professionale e/o l’aderenza alle specifiche competenze già acquisite (...) non si rileva alcuna dequalificazione ai danni del Z., con la precisazione che l’attività svolta continua ad essere inquadrata in quella di quadro».

Tale innegabile semplificazione normativa, facendo riferimento semplicemente al livello di inqua-dramento ricavabile dalla contrat-tazione collettiva, onera quest’ultima di trovare soluzioni adeguate e di aggiornare il proprio sistema di classificazione, in alcuni casi fermo agli anni ‘70 del secolo scorso e con la previsione di livelli di inquadramento contemplanti mansioni assolutamente eteroge-nee, al netto della previsione del nuovo obbligo formativo a carico del datore di lavoro, il cui inadem-pimento, comunque, non determi-na la nullità dell’atto di modifica delle mansioni (nel qual caso il lavoratore sembra possa agire per il rispetto dell’obbligo e per l’eventuale risarcimento del danno patito e conseguente al suo manca-to adempimenmanca-to da parte del damanca-to- dato-re di lavoro).

Disposizione priva di supporto giurisprudenziale appare poi, prima facie, anche la disciplina che conce-de al datore di lavoro di poter sot-toinquadrare il lavoratore unilate-ralmente di un livello al ricorrere di

modifiche degli assetti organizzativi aziendali con impatto diretto sulla posizione del lavoratore, con con-servazione da parte del lavoratore del livello di inquadramento e del trattamento retributivo precedente, fatta eccezione per quegli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della pre-cedente prestazione lavorativa (aspetto, questo, in linea di conti-nuità con l’interpretazione giuri-sprudenziale – ribadito da Cass. n. 29247/2017 in tema di assegnazio-ne a mansioni equivalenti per cui – per cui nel «livello retributivo acquisito dal lavoratore subordinato, per il quale opera la garanzia della irriducibilità della retribuzione (...) non sono compresi i compensi erogati in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa o collegati a specifici disagi o difficoltà, i quali non spettano allorché vengano meno le situazioni cui erano collegati»). Da un punto di vista sostanziale, la novel-la in questione potrebbe essere messa in correlazione ed affondare le proprie radici nel filone giuri-sprudenziale pre riforma per il qua-le «l’art. 2103 cod. civ. si interpreta alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto. Ne deriva che, ove il demansionamento costituisca l’unica alternativa al recesso datoriale, non occor-re un patto di demansionamento o una richiesta del lavoratore in tal senso ante-riore o contemporanea al licenziamento (...)» (Cass. n. 22798/2016). Chia-ramente, il dettato normativo non è

sovrapponibile con

(4)

collegamento tra finalità di evitare il licenziamento, salvaguardando il posto di lavoro, e demansionamen-to è contenuta invece al sesdemansionamen-to comma sul quale si tornerà più avanti). D’altra parte, il mancato accordo con il lavoratore consente un demansionamento di un unico livello di inquadramento (da evita-re, quindi, sottoinquadramenti di più livelli in quanto illegittimi – cfr. Tribunale di Milano, sentenza del 15 luglio 2016, riportata da M. Lambrou, 24 agosto 2018, Il Sole 24 Ore). La disciplina del deman-sionamento unilaterale ha tutta l’aria di costituire la fucina di con-tenzioso negli anni avvenire posto che tutto si giocherà sulla effettiva sussistenza della modifica degli assetti organizzativi aziendali, con diretta incidenza sulla posizione del lavoratore.

L’aver richiamato il filone giuri-sprudenziale in tema di non neces-sarietà del patto di demansiona-mento ci consente, poi, di introdur-re il tema introdur-relativo proprio alla no-vella legislativa che ha “sdoganato” la legittimità dei patti di demansio-namento. Tali patti erano sostan-zialmente ammessi dalla giurispru-denza prevalente, sebbene il per-corso da questa seguito fosse tutt’altro che lineare, tanto da giu-stificare un intervento normativo chiaro sul punto. A titolo esempli-ficativo, si ricorda che Cassazione n. 2375/2005 riconosceva la legit-timità del c.d. «patto di demansio-namento» come extrema ratio, ossia al fine di conservare il posto di lavoro mentre, successivamente (sentenza n. 23926/2010), la Corte di Cassazione arrivava a riconosce-re la legittimità di patti conclusi per fatti concludenti. Sulla necessaria sussistenza del patto insisteva Cas-sazione con la sentenza n. 5780/2012 nella quale si legge un passaggio che evidenzia, comun-que, la ritrosia nel riconoscere la

legittimità del patto stesso posto che ivi si precisa come «neppure il consenso delle parti abbia rilevanza ai fini della deroga al principio, atteso che l’art. 2103 c.c., che tutela la professiona-lità del prestatore di lavoro, nonché il diritto a prestare l’attività lavorativa per la quale si è stati assunti, o si è successi-vamente svolta, vietandone l’adibizione a mansioni inferiori, è norma imperativa e quindi non derogabile nemmeno tra le parti, come sancisce l’ultimo comma della stessa, prevedendo che “Ogni patto con-trario è nullo”».

Del pari, anche l’interesse del lavo-ratore al demansionamento, ora codificato in una delle possibili ipotesi di demansionamento ad ampio respiro è stato ammesso in sede giurisprudenziale, sebbene il principio risultasse tutt’altro asso-dato. A fronte, infatti, di quella giurisprudenza che legittimava tale modalità di demansionamento (si veda, in particolare, Cass. n. 521/2004, che ha precisato come le limitazioni dello ius variandi del datore di lavoro, di cui all’art. 2103 cod. civ., mirano ad impedire il demansionamento del lavoratore contro la sua volontà ed in suo danno e non può quindi essere fatto valere laddove sia provato che la modifica in peius sia stata deter-minata dalla esclusiva scelta del lavoratore, non sollecitata, neppure indirettamente, dal datore di lavo-ro), altra giurisprudenza rispondeva ribadendo la non derogabilità dell’art. 2103 cod. civ., anche nel caso di demansionamento avvenu-to per interesse del lavoraavvenu-tore (cfr. Cass n. 8527/2011, che confer-mando la decisione assunta dalla Corte d’Appello di Milano, riteneva questa avesse correttamente opera-to giudicando irrilevante il fatopera-to che il lavoratore avesse fatto valere la dequalificazione qualche mese do-po la sua assegnazione a nuove mansioni a seguito di sua espressa richiesta di essere assegnato alla

(5)

eviden-zia, il caso, al momento più unico che raro, trattato Cass. n. 13809 del 2017: in tale ipotesi, il datore di lavoro riteneva di aver assolto all’obbligo di repêchage mediante l’offerta di assunzione presso altre aziende dello stesso gruppo ma ciò è stato ritenuto insufficiente in quanto il collegamento economico-funzionale non determina automa-ticamente un unico centro di impu-tazione (che deve essere oggetto di specifico accertamento). In altri termini, il principio relativo alla possibilità di chiamare in causa soggetti terzi, a seguito dell’accertamento dell’unico centro di imputazione di interesse, non subisce deroga nel caso il collega-mento sia stato attivato da parte del datore di lavoro. A seguito della modifica normativa, non sembra

esservi dubbio sul fatto che l’onere di provare la impossibilità di riuti-lizzo in azienda del lavoratore ap-paia maggiormente ricoroso. La nuova disciplina, infatti, se da un lato rende più flessibile la organiz-zazione del lavoro a beneficio dell’impresa, d’altro lato comporta un aggravamento dell’onere della prova per il datore di lavoro che si accinga a licenziare un dipendente in presenza di una riorganizzazione aziendale frutto di una conclamata crisi finanziaria (Trib. Milano n. 3370/2016). Tale conclusione sembra assolutamente condivisibile ed in linea con la positivizzazione al comma 6 del nuovo art. 2103 cod. civ., del principio relativo al patto di demansionamento ad am-pio raggio (ossia coinvolgente l’inquadramento, la categoria, la

retribuzione) funzionale espressa-mente alla conservazione della oc-cupazione.

In definitiva, la nuova norma com-porta certamente alcune semplifi-cazioni ma non è certo esente da rischi applicativi e conseguente contenzioso. Sul punto, potrebbe quindi essere opportuno per le parti utilizzare l’esperienza delle Commissioni di certificazioni (al-cune ultradecennali) per farsi assi-stere nella valutazione e redazione delle modifiche attinenti le man-sioni del lavoratore così come nella consulenza, assistenza e certifica-zione degli accordi in tema di de-mansionamento.

@GBubola

Appalto e trasferimento d’azienda:

distinzioni e convergenze dai contorni ancora incerti

Lorenzo Maria Pelusi

Gli istituti dell’appalto e del trasferimento d’azienda sono ben distinti nella disciplina che il nostro ordinamento riserva loro, eppure i punti contatto fra le due fattispecie hanno da sempre presentato criticità che non sembrano sopite nemmeno

a quasi tre anni dalla riforma della normativa sul cambio di appalto, l’art. 29, comma 3, d.lgs. 276/2003 di cui si dirà a breve.

L’appalto è, ai sensi dell’art. 1655 c.c., «il contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione

a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro». Emerge quindi come i due requisiti

es-senziali del contratto di appalto – richiesti anche ai fini della distinzione della fattispecie dall’interposizione fittizia di manodopera – consistano nella titolarità in capo al soggetto affidatario dell’opera o del ser-vizio sia dell’organizzazione dei mezzi necessari sia del rischio di impresa. Quindi l’appaltatore

deve assumere su di sé il rischio della gestione dell’intera attività lavorativa complessivamente

(6)

della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della pre-stazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo (Cass. 17 febbraio 2010, n. 3681). A norma dell’art. 2112, comma 5, c.c., invece, «si intende per

tra-sferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economi-ca organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla

tipo-logia negoziale o dal provvedimen-to sulla base del quale il trasferi-mento è attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda». In quest’ultima definizione, peral-tro, rientra anche il caso di trasfe-rimento di una parte dell’azienda, purché questa rappresenti una «articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento».

Il punto di attrito fra le due fat-tispecie è stato da sempre rap-presentato dal cambio di appal-to, ovvero dal caso in cui si veri-ficasse un avvicendamento nel-la posizione di appaltatore con “trasferimento” del personale precedentemente impiegato dall’appaltatore uscente. In

pas-sato la giurisprudenza interpretava il trasferimento d’azienda in ma-niera restrittiva, richiedendo per la sua applicabilità che sussistesse un rapporto contrattuale diretto fra cedente e cessionario, escludendo quindi che l’istituto potesse trovare applicazione a fronte di un cambio di appalto (così Cass. 19 gennaio 2002, n. 572; Cass. 18 marzo 1996,

n. 2254). In quest’ultima ipotesi, infatti, si aveva una mera succes-sione temporale di due diversi appaltatori nell’esecuzione della prestazione in favore del commit-tente, senza che fra questi intercor-resse alcun rapporto contrattuale.

Tale orientamento, tuttavia, era destinato a cambiare sotto la spinta della giurisprudenza del-la Corte di Giustizia dell’Unione Europea che, in

applicazione della direttiva n. 77/187/CEE, non riteneva neces-saria l’esistenza di alcun legame contrattuale tra cedente e cessiona-rio. I giudici nazionali, pertanto,

affermarono che l’applicabilità della disciplina dettata dall’art.

2112 c.c. «prescinde

dall’esistenza di un rapporto contrattuale tra l’imprenditore uscente e quello che subentra nella gestione dell’azienda,

as-sumendo rilievo, invece, la circo-stanza che vi sia continuità nell’esercizio dell’attività imprendi-toriale, restando immutati il com-plesso organizzato dei beni dell’impresa e l’oggetto di quest’ultima» (Cass. 27 febbraio 1998, n. 2200).

Allo stesso modo vennero am-pliate le maglie interpretative della fattispecie del trasferimen-to d’azienda. Si iniziò infatti a

riconoscere che, almeno nei settori con elevata incidenza della mano-dopera sul processo produttivo, costituisse un’entità autonoma organizzata, idonea ad essere og-getto di trasferimento d’azienda, un insieme di lavoratori che, sta-bilmente coordinati e organizzati tra loro, nonché dotati di un parti-colare complesso di nozioni ed esperienze, fossero dotati di una propria capacità operativa tale da potere esercitare la medesima atti-vità d’impresa anche presso il

ces-sionario (Cass. 30 dicembre 2003, n. 19842). Analogamente, la giuri-sprudenza di legittimità ebbe mo-do di chiarire che il requisito della preesistenza e dell’autonomia fun-zionale del ramo ceduto si integra-no reciprocamente, dovendo quest’ultimo avere la capacità di svolgere autonomamente dal ce-dente e senza integrazioni di rilie-vo da parte del cessionario il servi-zio o la funservi-zione cui esso risultava finalizzato già nell’ambito dell’impresa cedente anteriormente alla cessione (Cass. 14 aprile 2009, n. 15690). In quest’ottica, l’art. 2112 c.c. ricomprende anche la cessione di un ramo “dematerializ-zato” o “leggero” dell’impresa, ovvero nel quale il fattore persona-le sia preponderante rispetto ai beni, quando però il gruppo di lavoratori trasferiti sia dotato di un particolare know how, e cioè di un comune bagaglio di conoscenze, esperienze e capacità tecniche, tale che proprio in virtù di esso sia possibile fornire lo stesso servizio. Ma gli slanci estensivi della giuri-sprudenza sul cambio di appalto trovarono una battuta d’arresto con l’intervento del legislatore a regolare questa fattispecie, con l’art. 29, comma 3, d.lgs. 276/2003. Questa disposizione, nella sua versione originaria, stabi-liva che: «l’acquisizione del perso-nale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d’appalto, non costituisce trasferi-mento d’azienda o di parte d’azienda». Tale previsione

(7)

del subentro di un nuovo appal-tatore con acquisizione (obbli-gata per legge o per contratto) del personale dipendente già impiegato nell’appalto. Sul

pun-to, cfr. da ultimo Tribunale di Vel-letri, sez. lav., 18 settembre 2018, n. 1166, – intervenuto ancora sull’applicazione della precedente versione del comma 3 – secondo cui «ne consegue che il passaggio di un dipendente da un’azienda ad un’altra, può avvenire in maniera diversa da quanto previsto dall’art. 2112 del c.c., senza cioè, ricono-scere l’anzianità del lavoratore o la sua retribuzione o il livello d’inquadramento».

Che l’acquisizione del solo perso-nale da parte del nuovo appaltato-re non fosse ritenuta sufficiente ai fini della configurazione del trasfe-rimento d’azienda è confermato anche da alcune pronunce di legit-timità: «il comma 3 del citato art. 29, [...] chiarisce che, anche

quando il cedente stipuli con il cessionario un contratto d’appalto per la fornitura del servizio ceduto, si può configu-rare una cessione di ramo d’azienda (solo) quando al tra-sferimento del personale si ac-compagni quella del complesso degli altri elementi che lo ren-deva autonomamente idoneo allo svolgimento del servizio»

(Cass. 11 maggio 2016, n. 9682).

Tale interpretazione sostan-zialmente derogatoria del di-sposto dell’art. 2112 c.c., tutta-via, si poneva in aperto contra-sto con la normativa comunita-ria e con l’interpretazione che ne dava la Corte di Giustizia. Si

cercò quindi un’interpretazione adeguatrice che potesse salvare il nostro Paese dalla procedura di infrazione. Secondo un orienta-mento di merito l’art. 29, comma

3, d.lgs. 276/2003 «non può inter-pretarsi nel senso che in ogni ipo-tesi di subentro di un appaltatore a un altro deve escludersi ex se il

trasferimento d’azienda, poiché [...] tale lettura sarebbe in contrasto con la normativa comunitaria, ma piuttosto nel senso che nei c.d. cambi di gestione non vi è trasfe-rimento d’azienda per il solo fatto che vi sia “acquisizione” di perso-nale» (Trib. Roma, sez. lav., 9 giu-gno 2005). Per tal via, si suggeriva di ritener configurata la fattispecie ex art. 2112 c.c. ogniqualvolta i lavoratori acquisiti dall’appaltatore entrante, per la loro connessione organizzativa e per il possesso di particolari competenze, rappresen-tassero da soli un’entità economica organizzata e autonoma.

Simile tentativo, però, non bastò a salvare l’Italia dalla procedura di pre-infrazione avviata dalla Com-missione Europea nel Caso “Eu Pilot 7622/15/EMPL”, per viola-zione della direttiva n. 2001/23/CE, sostitutiva della pre-cedente 77/187/CEE. A

rimedia-re al contrasto con

l’ordinamento comunitario in-tervenne il legislatore con la l. n. 122/2016, la quale riformò l’art. 29, comma 3, dandogli la formulazione che ha ancora oggi. La norma prevede che

«l’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura orga-nizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo na-zionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto, ove siano

presenti elementi di disconti-nuità che determinano una spe-cifica identità di impresa, non

costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda».

Emerge chiaramente come con la

novella si sia inteso ribaltare la prospettiva precedente, introdu-cendo in negativo un elemento tipico del trasferimento d’azienda, ovvero la conservazione dell’identità della entità economica organizzata oggetto della cessione. Solo in presenza di circostanze tali da determinare una discontinuità fra la precedente organizzazione produttiva e quella nuova si potrà escludere l’applicabilità dell’art. 2112 c.c. Quali siano però tali

elementi di discontinuità non è agevole stabilirlo a priori e que-sto resta un nodo la cui solu-zione è affidata alla discrezio-nalità del giudice, chiamato caso per caso a decidere se un dato cambio di appalto configu-ri o meno un trasfeconfigu-rimento d’azienda.

Alcuni primi indirizzi interpre-tativi permettono di affermare che la nozione di “discontinui-tà” sembra destinata a ricevere ristretti margini di operatività.

Si è ad esempio affermato che la

mera riduzione quantitativa dell’attività oggetto del contrat-to tra committente e nuovo ap-paltatore non possa essere ri-condotta a quegli “elementi di discontinuità” che escludono l’applicabilità dell’art. 2112 c.c.

(così, Tribunale di Bologna, sez. lav., 7 luglio 2017).

(8)

nei medesimi locali, avvalendo-si in gran parte delle attrezzatu-re in pattrezzatu-recedenza utilizzate e con acquisizione di una quota essenziale del personale sia per competenze che per quantità

(più del 50% di quello operante alle dipendenze del precedente appaltatore). Tale fattore organiz-zativo consistente nel personale è stato ritenuto dal Tribunale «un

fattore determinante in conside-razione della natura dell’attività, che si fonda essenzialmente sull’organizzazione delle risorse umane utilizzate per il suo svolgimento: un gruppo di lavo-ratori già formato, stabilmente coordinato e in grado di espri-mere capacità operative rappre-senta, in tale contesto, un “valo-re aggiunto”, ossia un bene economicamente rilevante per l’esercizio dell’impresa, mentre,

per contro, i beni materiali rive-stono un rilievo del tutto

margina-le, che non connota in modo signi-ficativo l’organizzazione di impre-sa». Altro elemento risultato es-senziale per l’applicazione dell’art. 2112 c.c. è stata la continuità nella gestione del servizio, resa possibile proprio grazie al fatto che il nuovo appaltatore si è avvalso della squa-dra di lavoro già formata ed ope-rante alle dipendenze del prece-dente gestore. A nulla sono valse invece le modifiche organizzative addotte dall’azienda, consistenti in alcune variazioni della organizza-zione di turni e pause, nonché nell’introduzione di differenti mo-dalità di passaggio delle consegne e di pianificazione del lavoro, l’effettuazione di ore di formazio-ne e l’acquisto di nuovi macchina-ri.

In conclusione, deve affermarsi che si può avere un trasferimento d’azienda anche quando l’entità economica trasferita sia

rappresen-tata dal solo personale, purché si tratti di «un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organiz-zati tra loro, la cui autonoma capa-cità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un partico-lare know how» (Cass. 6 dicembre 2016, n. 24972). Inoltre sembra possibile sostenere che non si

potrà ritenere ricorrente alcun elemento di discontinuità quand’anche il nuovo appalta-tore abbia apportato delle mo-difiche organizzative che siano però tali da non incidere sull’autonomia funzionale del gruppo di lavoratori acquisito.

Come detto, tuttavia, i limiti entro i quali sia possibile ritenere intatta la continuità nell’entità economica ceduta restano di difficile determi-nazione, essendo necessariamente rimessi a una valutazione casistica delle concrete circostanze di fatto.

@lorempel

Luogo di lavoro e condizioni lavorative “stressogene”:

quando si configura la fattispecie di straining

Giada Benincasa

Gli ambienti di lavoro rappre-sentano, per la natura degli in-teressi coinvolti, un contesto conflittuale che può dare luogo a disagi lavorativi, stress e logo-ramento psicologico. Tali

condi-zioni “stressogene”, non di rado, assumono rilevanza, ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile, per la salute dei lavoratori e la loro integrità psico-fisica.

Una recente sentenza della

Cassazione (la numero 31845 del 5 dicembre 2018) ci consen-te di ricostruire i tratti distintivi del c.d. straining, inteso come

fenomeno dalla valenza psicologi-ca e giuridipsicologi-ca derivante da un con-flitto organizzativo lavorativo, distinguendolo da semplici ed epi-sodiche situazione di conflitto che sono naturali in ambito lavorativo. Nel caso di specie, un lavoratore veniva licenziato per giustificato

motivo oggettivo dalla società D. con atto intimatogli prima del tra-sferimento di ramo d’azienda alla società I. Tralasciando in questa sede gli aspetti inerenti alle que-stioni procedurali e a quelle più strettamente connesse alla giustifi-cazione del licenziamento, la

vi-cenda prende avvio da una si-tuazione conflittuale duratura che si era creata fra il lavoratore e l’azienda datrice. Come emerge

(9)

ricor-reva davanti al Giudice al fine di accertare non solo l’illegittimità del licenziamento ma, altresì, doman-dava il risarcimento del danno per la violazione dell’art. 2087 c.c. an-che alla luce degli artt. 32 e 41 Cost., lamentando di aver subito condotte vessatorie dalla società D. e, precisamente, “una serie di condotte mirate ad eludere l’esecuzione della precedente sen-tenza con la quale era stato annul-lato un primo licenziamento e disposta la reintegrazione nel po-sto di lavoro ed il conseguente risarcimento del danno” ostaco-lando il “ripristino del rapporto” nonché il “pagamento delle som-me dovute per effetto della reinte-grazione”. Il lavoratore

sostene-va l’esistenza di una condotta violenta e prevaricante del dato-re di lavoro in grado di incidedato-re sulla dignità personale e sulla integrità fisica e morale del la-voratore, la quale avrebbe con-figurato un comportamento mobbizzante a danno della sua persona. La Cassazione,

rigettan-do la parte del ricorso presentato dal lavoratore in cui si domandava il ristoro ex art. 2087 c.c., sottoli-nea che tale valutazione di merito, alla quale la Corte territoriale non si era sottratta, deve essere effet-tuata con riferimento ad alcuni elementi, tra cui “gravità”, “fru-strazione personale o professiona-le” ovvero altre circostanze del caso concreto, quali “idoneità of-fensiva”, “sistematicità” e “durata” della condotta potenzialmente lesiva. Nel caso di specie, però,

secondo la Suprema Corte tali condizioni non configurano la violazione degli obblighi di cor-rettezza e buona fede nell’organizzazione della pre-stazione ex art. 2087 c.c.,

esclu-dendo pertanto l’intento persecu-torio a danno del lavoratore e fa-cendo desumere, a parere di chi

scrive, che le ragioni poste a fon-damento del mancato riconosci-mento di una vera e propria con-dizione “stressogena” (c.d. strai-ning) siano dovute alla impossibilità di ravvisare un intento persecuto-rio nelle condotte poste in essere dal datore di lavoro. Piuttosto, i

giudici di legittimità riconosco-no l’esistenza di una situazione di tensione e forte conflitto ac-centuata altresì dal comporta-mento del lavoratore a causa del quale erano state irrogate ben otto sanzioni disciplinari, poi accertate dal giudice di merito. Al fine di individuare i confini della fattispecie di straining, è necessario riflettere su almeno altri due fenomeni, ben più noti,

presenti nel nostro ordinamento giuridico e caratterizzati da un minimo comune denominatore, lo stress. Una situazione stressante è rinvenibile non solo nel fenomeno di straining, ma anche nel mobbing e nel c.d. stress occupazionale (o stress lavoro correlato).

Lo stress occupazionale è una situazione di pressione dovuta alla natura o alla cattiva orga-nizzazione del lavoro, senza

dunque rilevare, a questi fini, la condotta vessatoria di una parte verso l’altra. A tal proposito, l’art. 3 dell’Accordo Quadro Europeo sullo stress nei luoghi di lavoro dell’8 ottobre 2004, identifica tale fenomeno come una “condizione che può essere accompagnata da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale ed è conseguenza del fatto che taluni individui non si sentono in grado di corrispondere alle richieste o aspettative riposte in loro”.

Il mobbing, termine coniato agli

inizi degli anni ‘70 dall’etologo Konrad Lorenz e poi introdotto in

Italia dallo psicologo del lavoro Herald Ege (A.R. Caruso, Mobbing: origini del fenomeno e tutele giuridiche, Working Paper ADAPT, 9 giugno 2009, n. 88), è identificabile

co-me una situazione di conflitto dovuta a condotte “persecuto-rie”, esercitate da una parte verso

l’altra mediante comportamenti ostili, frequenti nel tempo e ripeti-tivi. Quest’ultimo può essere di tre diverse tipologie: “verticale” (quando l’abuso è posto in essere da un superiore verso un dipen-dente), “orizzontale” (quando le ostilità avvengono tra colleghi), “dal basso” (quando colui che esercita mobbing, il c.d. mobber, è in una posizione inferiore rispetto alla vittima).

Quanto allo straining, anche quest’ultimo si inserisce in un contesto caratterizzato da ostili-tà e condotte vessatorie, poste in essere sul luogo di lavoro da una persona verso un’altra, in grado di provocare turbamento e stress in quest’ultima. A tal

proposito, al fine di configurare tale fattispecie è richiesto che la vittima sia in una condizione di persistente inferiorità rispetto al c.d. strainer, colui che pone in esse-re il comportamento de quo.

In questa prospettiva è dunque ravvisabile una prima differenza tra i fenomeni in parola, nello specifico tra straining e mob-bing. Indagando le origini del

(10)

sul posto di lavoro, in cui la vitti-ma subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente di lavoro, azione che oltre ad essere stressan-te è caratstressan-terizzata anche da una durata costante”. Nello straining, dunque, non rilevano la frequenza e la ripetitività delle azioni vessato-rie poste in essere, come nel caso di comportamenti mobbizzanti. Piuttosto, uno dei tratti distintivi di questa fattispecie è la durata degli effetti negativi causati dalle suddet-te azioni. Infatti, una condizione lavorativa “stressogena”, ben po-trebbe derivare anche da un’unica azione priva di quell’intento perse-cutorio richiesto per rappresentare il fenomeno del mobbing. Ed è a

conferma di tale orientamento che con la nota sentenza n. 3291 del 19 febbraio del 2018 che la Suprema Corte ha definito lo straining una “forma attenuata di mobbing”. Tut-tavia, come desunto implicitamen-te dalla decisione della senimplicitamen-tenza di Cassazione in commento, sia lo straining che il mobbing non rappre-sentano categorie autonome sul piano strettamente giuridico, pre-supponendo un accertamento della violazione degli obblighi ai sensi dell’art. 2087 c.c., norma che ob-bliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure idonee a garantire e tutelare l’integrità fisica e morale del prestatore di lavoro, nonché un ambiente di lavoro sano ed esente da rischi.

A conclusione della presente anali-si, sembra necessario sottolineare un’ulteriore distinzione emersa dal caso di specie, ponendo da un lato i fenomeni di cui sopra e, dall’altro, una mera situazione osti-le venutasi a creare fra osti-le parti co-me talvolta accade nei luoghi di lavoro. In quest’ultimo caso,

infatti, potrebbe escludersi la configurabilità di una condotta stressogena posta in essere sul luogo di lavoro in ragione di un conflitto venutosi a creare tra datore di lavoro e lavoratore e del quale, quest’ultimo, sembra averne accentuato la portata.

@BenincasaGiada

Le collaborazioni nei call center in outsourcing:

disciplina e profili critici

Federica Capponi

Le imprese che operano in regime di outsourcing, fornendo servizi (quali il recupero dei crediti, le ricerche di mercato, il customer care ecc.) tramite call center, nell’individuare la tipologia con-trattuale da impiegare per “gestire” gli operatori telefonici di cui si avvalgono, devono porre attenzio-ne a degli aspetti non di poco con-to sul piano della tenuta della qua-lificazione del rapporto operata dalle parti.

La tipologia contrattuale più diffu-sa in questo ambito è la collabora-zione, poiché maggiormente ri-spondente alle esigenze dettate dal mercato. Tuttavia è opportuno ricordare che sussiste un confine sottile tra coordinamento,

etero-organizzazione ed eterodirezione della prestazione posta in essere dal collaboratore, confine che, se ignorato, può determinare conse-guenze sanzionatorie tutt’altro che trascurabili.

Basti pensare, con specifico riferi-mento alla realtà dei call center, che la magistratura ha riqualificato il rapporto nei termini della subor-dinazione nei casi in cui gli opera-tori telefonici erano tenuti a segui-re un orario di lavoro, dovevano giustificare le assenze e si avvale-vano delle attrezzature messe a disposizione dal committente (Cass. 14 aprile 2008, n. 9812), nonché quando il controllo sulle attività del collaboratore emergeva dall’utilizzo di un sistema

(11)

la Circolare del Ministero del La-voro 14 giugno 2006, n. 17, con la quale si individuavano le condizio-ni per la genuicondizio-nità delle collabora-zioni a progetto aventi ad oggetto lo svolgimento delle attività di call center outbound (cioè relative all’effettuazione delle chiamate), escludendone l’ammissibilità, in ragione delle concrete modalità esecutive, per le attività di call cen-ter inbound (ricezione delle chia-mate).

Posto che, come l’orientamento costante della giurisprudenza con-ferma, ogni attività umana suscet-tibile di valutazione economica può essere oggetto di un rapporto di lavoro subordinato o autonomo, nulla viete che possano essere sti-pulati contratti di collaborazione coordinata e continuativa anche in questo ambito, tuttavia occorre prestare particolare attenzione alle concrete modalità di esecuzione della prestazione. Infatti, come noto, la collaborazione

coordi-nata e continuativa ex art. 409 c.p.c., così come integrato dall’art.

15 della Legge n. 81/2017, si carat-terizza per una particolare auto-nomia nell’esecuzione della presta-zione, dal momento che la «collabo-razione si definisce coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordina-mento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autono-mamente l’attività lavorativa».

Come è noto, poi, il Legislatore del Jobs Act, nel decretare la fine delle collaborazioni a progetto, ha di-sposto, con fini antielusivi, l’applicazione, dal 1° gennaio

2016, della disciplina del lavoro subordinato «ai rapporti di col-laborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusi-vamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal commit-tente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro» (art.

2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015). Ai nostri fini, è sufficiente rilevare che una collaborazione si dice or-ganizzata quando le caratteristiche descritte dalla disposizione (natura esclusivamente personale della prestazione, predeterminazione dei tempi e del luogo di esecuzione della prestazione da parte del committente) ricorrono congiun-tamente (v. Circolare del Ministero del lavoro, n. 3 del 1 febbraio 2016). Accanto a tale previsione, il Legislatore ha poi previsto una serie di deroghe, escludendo, in casi specifici, l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, così come disposto dal primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015.

L’art. 2, comma 2, lett. a) del

d.lgs. n. 81/2015, in particolare,

enuncia la deroga che più ci inte-ressa ai fini del presente contribu-to. In particolare, si dispone che le previsioni di cui al primo comma dello stesso articolo 2 non si appli-chino «alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi na-zionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano na-zionale prevedono discipline specifiche riguardanti il tratta-mento economico e normativo, in ragione delle particolari esi-genze produttive ed organizza-tive del relativo settore». Il

Mini-stero del lavoro, con interpello 15 dicembre 2015, n. 27, su istanza di Assocontact, associazione che rappresenta i contact center in outsour-cing, ha chiarito i criteri per indivi-duare gli accordi collettivi in grado di derogare alle disposizioni di cui al primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015, confermando che, nel caso in cui la collabora-zione dovesse essere regolata, sul piano normativo ed economico, da accordi collettivi sottoscritti da organizzazioni sindacali prive del

requisito della maggiore rappresen-tatività in termini comparativi, tale collaborazione si vedrà applicata la disciplina di cui al comma 1 dell’art. 2, non rientrando nel campo applicativo del secondo comma.

La disposizione di cui all’art. 2, comma 2, lett. a del d.lgs. n. 81/2015 riconosce all’autonomia collettiva un ruolo importante, dal momento che permette alle parti sociali di apprestare particolari tutele a forme di lavoro che altri-menti, laddove anche dovessero sopravvivere, rimarrebbero svuo-tate di valore e professionalità. In questa direzione sembrano muo-versi gli accordi collettivi fino ad ora stipulati (v. Scheda).

(12)

giudice potrà comunque riqualifi-care il rapporto in termini di su-bordinazione ai sensi dell’art. 2094 c.c. e al di là del nomen juris attribui-to dalle parti (v. Circolare del Mi-nistero del lavoro n. 3/2016 e, in dottrina, M. Tiraboschi, Il lavoro etero-organizzato in Diritto delle Relazioni Industriali, n. 4/2015). È bene dunque impostare adeguata-mente sin dall’inizio il rapporto di collaborazione e il documento contrattuale che lo regola. In que-sti casi, le Commissioni di

certifi-cazioni, istituite ai sensi dell’art. 76 del Decreto Legislativo 10 settem-bre 2003, n. 276, tramite la propria attività di consulenza alle parti o di certificazione del contratto, pos-sono fornire un valido supporto. Infatti, non solo le parti possono chiedere alle suddette Commissio-ni la certificazione del contratto di collaborazione coordinata e conti-nuativa, secondo l’iter di cui all’art. 78 del d.lgs. n. 276/2003, chieden-do che si attesti la genuinità della collaborazione, anche

eventual-mente con specifico riferimento all’assenza dei requisiti della etero-organizzazione (possibilità prevista dal terzo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015), ma potrebbero anche chiedere di validare il corret-to recepimencorret-to delle disposizioni disposte a livello collettivo nell’ambito di contratti di collabo-razione stipulati ai sensi dell’art. 2, comma 2, lett. a) del d.lgs. n. 81/2015.

@FedericaCapponi

Il potenziale ruolo delle commissioni di certificazione a

fronte dell’eterna incertezza in materia di controlli a

distanza (art. 4 Stat. Lav.): un barlume di certezza?

Andrea Tundo

La materia dei controlli a distanza e, con essa, la corrispondente di-sciplina normativa contenuta nell’art. 4 dello Statuto dei Lavora-tori (l. n. 300/1970, d’ora in avanti Stat. Lav.), continua ad affascinare il mondo degli studiosi, e ciò tanto per la sua fisiologica esposizione ai dirompenti effetti della Quarta Rivoluzione Industriale, quanto per il fatto che l’art. 4 rappresenta la culla di un tentato bilanciamento tra, da un lato, le legittime esigenze di controllo del datore di lavoro, il cui corrispondente potere, ancor-ché non espressamente tipizzato dal Codice Civile, è pacificamente ritenuto un corollario, «dato per scontato»1, dei poteri direttivo e

1 R. DEL PUNTA, La nuova disciplina dei controlli a distanza sul lavoro (art. 23, D. Lgs. n. 151/2015), in RIDL, fasc.1, 2016, pag. 77, alle cui seguenti pagine si rinvia per una più esaustiva disamina

giurispruden-disciplinare tipizzati dagli artt. 2094, 2104 e 2106 c.c., e, dall’altro lato, «la tutela della libertà e dignità dei lavoratori»2.

ziale dell’art. 4 Stat. Lav. rispetto alla materia dei controlli a distanza. Per una completa ricostruzione della storia dell’articolo 4, dalla precedente all’attuale formulazione, si v., tra gli altri, R. DEL

PUNTA,op. cit.; G.PROIA, Trattamento dei

dati personali, rapporto di lavoro e l’«impatto» della nuova disciplina dei controlli a distanza, in RIDL, fasc.4, 2016, pag. 547, ove la rin-novata formulazione dell’articolo per opera della novella del 2015 viene con-frontata con la disciplina in materia di privacy, seppur non aggiornata alle ultime novità introdotte dal GDPR (General Data Protection Regulation), ovvero il Regolamen-to UE n. 2016/679; un’attenta descrizio-ne del modello originario della disposi-zione si v. invece R. LATTANZI, Dallo Statuto dei lavoratori alla disciplina di protezio-ne dei dati personali, in RIDL, fasc.1, 2011, pag. 151.

2 R.PETTINELLI, Controlli difensivi: storia di un anacronismo, in Argomenti Dir. Lav.,

Il costante progresso tecnologico-digitale che sta investendo, tra le altre cose, anche il mondo del la-voro ha indotto il legislatore del Jobs Act a riscrivere, per il tramite dell’art. 23, d.lgs. 151/2015, l’art. 4 Stat. lav., nell’auspicio di recepire le indicazioni, sovente contrastanti tra loro, che la giurisprudenza ave-va di volta in volta sviluppato per rimediare alle lacune insite nella disciplina. Ciò vale, in particolare, per la nota quanto controversa categoria, di origine

(13)

ziale, dei controlli c.d. difensivi, su cui ha ruotato e continua a ruotare gran parte del contenzioso deri-vante dalla violazione o meno dell’art. 4 stesso.

Tale parametro, oggetto di mai sopite e sempre nuove letture er-meneutiche, ha funto da escamo-tage pretorile per l’estromissione di alcune fattispecie di controllo da-toriali dall’applicazione della di-sposizione in commento, nel nobi-le tentativo di addivenire, nel caso concreto di volta in volta oggetto di contenzioso, ad un ragionevole equilibrio tra le aspettative di parte datoriale e quelle di parte lavoratri-ce.

Con l’inclusione dell’esigenza di «tutela del patrimonio aziendale» tra le finalità suscettibili di ammettere l’installazione di strumenti di po-tenziale controllo, i problemi er-meneutici relativi alla lettura della rinnovata disposizione non posso-no ugualmente dirsi superati, ac-clarato che la giurisprudenza suc-cessiva alla riforma continua ad alludere a tale categoria, e continua a farlo con andamenti oscillanti, che alternano pronunce in cui si dichiara la “morte” della categoria in oggetto, o meglio la sua inclu-sione nell’ambito della procedi-mentalizzazione operata dall’art.43,

dal cui raggio applicativo non resi-duerebbe perciò alcuna forma di potenziale sorveglianza, ad altre in cui si ribadisce con insistenza, an-che se in termini non esattamente coincidenti, la sopravvivenza dei controlli difensivi, i quali, o me-glio, alcuni dei quali, dunque, non risulterebbero inclusi nell’alveo della tutela del patrimonio azienda-le di cui al nuovo comma 1. Questo secondo filone interpreta-tivo si divide tra quanti ritengono

3 In tal senso sembra porsi, tra le altre, Tribunale Roma Ord., 13 giugno 2018, con nota di PETTINELLI, citata nella nota

che per controlli difensivi debbano intendersi tutti quelli rivolti alla repressione degli illeciti comunque perpetrati dai dipendenti, a pre-scindere che il fatto abbia rilevanza contrattuale o extracontrattuale4;

quanti fanno invece salvi esclusi-vamente i controlli volti alla re-pressione di illeciti che esulano da una valutazione sull’adempimento contrattuale e, dunque, siano esclusivamente volti alla tutela di «beni estranei al rapporto di lavoro»5; e quanti, infine, lasciano fuori dal raggio applicativo dell’art. 4 non tutti i controlli caratterizzati da una generica finalità di repressione degli illeciti, ma quelli che, oltre a rispondere a tale scopo, siano sti-molati dall’acquisizione di indizi relativi al compimento di atti illeci-ti da parte dei dipendenilleci-ti, in danno del datore di lavoro o per le quali possa essere chiamata a rispondere il datore di lavoro, e che tali indizi «devono ricavarsi aliunde e devono essere specifici», nel senso che «essi non

4 Questo era l’indirizzo della pronuncia capofila in materia di controlli difensivi, ovvero Cass. 3 aprile 2002, n. 4746. 5 L’espressione fa parte del ragionamento con cui Cass. 17 luglio 2007, n. 15892, nel tentativo di correggere e circoscrivere la categoria come definita dalla sentenza “madre” citata nella nota precedente, ha classificato come controlli difensivi quelli finalizzati alla tutela di «beni estranei al rapporto di lavoro», espressione la cui inde-terminatezza viene denunciata, tra gli altri, da R. DEL PUNTA, op. cit., pag. 83, so-prattutto per la mancata specificazione se si dovesse trattare di illeciti di esclusiva rilevanza penale o meno ai fini dell’esclusione dal campo di applicazione dell’art. 4. La sentenza, inoltre, si segnala per il riconoscimento dell’utilizzabilità dei dati raccolti secondo i canoni statutari, punto sul quale l’art. 4 ha taciuto fino alla riforma del Jobs Act. In questa direzione paiono porsi, nella giurisprudenza di merito, Trib. Roma Ord. 24 marzo 2017, mentre, nell’ambito dei giudizi di legitti-mità, Cass., 9 luglio 2008, n. 18821, Cass., 4 marzo 2014, n. 4984, Cass. 23 febbraio 2010, n. 4375, e, più di recente, Cass. civ.

possono desumersi dagli stessi controlli a distanza, perché in tal modo si conferme-rebbe quella circolarità della giustifica-zione, (…) in forza della quale l’emergere a posteriori della condotta vietata giustifica il controllo a priori, che quindi risulta sempre lecito»6.

L’incertezza che ha continuato a regnare sovrana nelle aule giudizia-rie si è riverberata poi nelle diverse posizioni della dottrina, dando vita ad un processo per così dire di osmosi bilaterale delle varie tesi tra dottrina e giurisprudenza, che re-ciprocamente hanno indagato, criticato e rimediato le varianti ermeneutiche venute in rilievo7.

L’assenza di solidi riferimenti normativi, naturalmente, si riflette anche nell’ambito dei singoli e concreti contesti produttivi che, interessati all’installazione di appa-recchi di potenziale controllo, so-no tenuti ad esperire previamente la rinomata procedura concertati-vo-autorizzatoria: l’incertezza e la confusione infatti, già padrone di tribunali e accademie, divampano in occasione di tale incombenza, e ciò vale soprattutto per quanto riguarda il perfezionamento

(14)

dell’accordo negoziale, considerate le probabili difficoltà cui rischiano di incorrere le rappresentanze sin-dacali, per altro spesso di secondo livello, dunque non sempre prov-viste di risorse e know-how suffi-cienti per sbrogliare questioni tan-to spinose da non avere ancora ricevuto una cristallizzazione defi-nitiva in alcuna via, legislativa, giurisprudenziale o dottrinale che sia.

Ma le criticità insite nell’art. 4 non si limitano all’esegesi di questa inafferrabile categoria: al di là delle incertezze ermeneutiche relative alla categoria e, con essa, all’intero comma 1 nella sua rinnovata for-mulazione, infatti, problemi deri-vano anche dalla riforma del comma 2, che esclude dal regime di procedimentalizzazione dettato dal comma 1 gli «strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazio-ne degli accessi e delle presenze». A destare maggiori dubbi sono i primi apparecchi citati dalla nor-ma, ovvero quelli «utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa» e, in particolare, la fre-quente commistione, indotta dalla rivoluzione digitale attualmente in atto, tra strumenti effettivi di lavo-ro e strumenti accessori e magari di controllo, da cui deriva una so-stanziale impossibilità di esatta distinzione tra gli uni e gli altri, palese indice delle difficoltà del diritto positivo a stare al passo con il progresso tecnologico-digitale. Anche il comma 2, pertanto, si rivela terreno fertile per diverse letture interpretative e, consequen-zialmente, per ulteriori incertezze da sciogliere nelle eventuali sedi negoziali.

Meno problematico, invece, il comma 3, con cui il legislatore del Jobs Act rimedia all’originario silen-zio della disposisilen-zione rispetto all’utilizzabilità dei dati raccolti ai

sensi dei primi due commi, am-mettendone il pieno e libero trat-tamento a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, dunque anche disciplinari, purché sia fornita ai lavoratori «adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effet-tuazione dei controlli» e purché rac-colta e trattamento dei dati avven-gano nel rispetto di quanto previ-sto in materia di privacy dal d.lgs. n. 196/20038.

La ricostruzione, scevra da qualsia-si pretesa di esaustività, poqualsia-sitivisti- positivisti-ca e giurisprudenziale della norma in commento funge da monito, rivolto principalmente agli attori delle relazioni industriali, circa le insidie contenute in questa delicata materia, sede spontaneamente privilegiata, nell’ambito delle rela-zioni sindacali di prossimità, per il perseguimento di un complicato equilibrio tra istanze dei dipenden-ti e legitdipenden-time aspettadipenden-tive di parte datoriale.

Descritte finora le principali critici-tà da sbrogliare in sede negoziale, si tratta ora di individuare concreti ed efficaci mezzi di ausilio e sup-porto alla contrattazione collettiva, onde evitare che la procedura con-certativa imposta in merito dal comma 1 dell’art. 4 si risolva in un inutile e ingombrante formalismo, certamente non esente dal rischio di tradursi in vivido contenzioso. Oltre ai soliti organismi, di natura sovente bilaterale, di cui si forgia-no i più avanzati sistemi di relazio-ni industriali, un ruolo certamente attivo, in questo impervio percor-so, potrebbe essere svolto dalle commissioni di certificazione di cui all’art. 76 del d.lgs. n.276/2003, che a detti organismi affida non

8 Noto nel gergo giuridico con l’impropria e a-tecnica formula di “Codice della Pri-vacy”, e dal 25 maggio 2018 subordinato alla regolamentazione europea in materia di trattamento dei dati personali, contenu-ta nel contenu-tanto discusso GDPR.

soltanto funzioni certificatorie, ma anche e soprattutto di consulenza e assistenza alle parti contrattuali. L’obiettivo di ridurre il contenzio-so in materia di lavoro costituisce il movente dell’introduzione del meccanismo della certificazione nel nostro ordinamento giuridico, istituto che l’art. 75, che inaugura l’esigua disciplina in materia certi-ficatoria contenuta nel Titolo VIII (artt. 75-84) del citato decreto, aggancia immediatamente ai «con-tratti in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavo-ro». Alla luce della disposizione ora citata, dunque, è da escludersi la possibilità di certificare accordi come quelli immaginati dall’art. 4 dello Statuto, posto che in essi e, più in generale, nei contratti collet-tivi di lavoro di qualunque livello, raramente se non mai viene dedot-ta una presdedot-tazione lavorativa, i cui aspetti vengono piuttosto regolati in sede di contrattazione collettiva. A ciò si aggiunge anche il fatto che il Capo II del Tit. VIII, rubricato «Altre ipotesi di certificazione» e che individua singoli e puntuali con-tratti/atti suscettibili di certifica-zione, risulterebbe pleonastico e privo di senso se si riconoscesse la possibilità illimitata di certificare qualunque negozio9.

Da una letteratura sistematica del Tit. VIII, oltre che da una fedele e stringente interpretazione dell’art.

(15)

75 del medesimo Titolo, si deve pertanto desumere che soltanto la certificazione dei contratti espres-samente citati dal Tit. VIII sia su-scettibile di produrre gli effetti di riduzione del contenzioso di cui al Titolo stesso, che all’art. 80 limita l’impugnabilità del provvedimento certificatorio a determinati profili di criticità, i quali determinano, poi, la sede, civile o amministrati-va, per presentare il gravame10.

Pur escludendosi, quindi, la certifi-cabilità dei contratti collettivi ai sensi e con gli effetti di cui al Tito-lo VIII del summenzionato decre-to, risulterebbe comunque utile in sede probatoria un “sigillo di quali-tà” espresso da un soggetto terzo dotato di apposita qualificazione, come appunto le commissioni di certificazione, il cui provvedimen-to, seppur incapace, lo si ripete, di dispiegare gli effetti di cui al Tit. VIII, resterebbe comunque suscet-tibile di valutazione da parte del giudice in sede giudiziale, stante il principio dell’atipicità probatoria nel procedimento civile11. Le

risul-tanze dell’analisi certificatoria, la cui producibilità in giudizio di-scende dal più generale principio del libero convincimento del giu-dice e dal diritto alla difesa giudi-ziale, fungerebbero da presunzioni semplici ai sensi dell’art. 2729 c.c., oppure da argomenti di prova con

10 Il comma 1 dell’art. 80 ammette l’impugnabilità del provvedimento di certificazione in sede civile esclusivamen-te «per erronea qualificazione del contratto oppure difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione», men-tre il comma 4 elenca i motivi di gravame ricorribili davanti al tribunale amministra-tivo, ovvero violazione del procedimento e eccesso di potere.

11 Si v., tra le tante pronunce che com-pongono una giurisprudenza, se non del tutto pacifica, quanto meno consolidata sul punto dell’atipicità probatoria nel rito civile, Cass. n. 12577/2014 e Cass. n.

gli effetti di cui all’art. 116 c.p.c.12,

con capacità persuasiva nei con-fronti del libero convincimento del giudice che varia a seconda del grado di autorevolezza che l’autorità giudiziaria stessa ripone nella commissione interessata, probabilmente frutto della reputa-zione professionale di cui la com-missione de qua gode nell’ambito accademico.

Il supporto delle commissioni de quibus rispetto alla materia de qua non si esaurisce nel solo sostegno di natura certificatoria, ma si estende fino a ricomprendere an-che «le funzioni di consulenza e assi-stenza effettiva alle parti contrattuali» che l’art. 81 del decreto succitato riconosce, senza animo di esclu-derle rispetto ad altri ambiti o momenti del rapporto di lavoro, «sia in relazione alla stipulazione del contratto di lavoro e del relativo pro-gramma negoziale sia in relazione alle modifiche del programma negoziale mede-simo».

Acclarata la bontà della scelta del legislatore dello Statuto di affidare alla contrattazione di prossimità la definizione delle tecniche di con-trollo di una determinata azienda, in modo tale da avvicinare il più possibile la definizione formale degli interessi in gioco alla sede di sviluppo effettivo dei medesimi, non è da escludere che, dal concer-to tra le parti, risulti un’inesatta definizione delle modalità di sor-veglianza tale da innescare un mas-siccio contenzioso rispetto ai sin-goli rapporti individuali. Anticipare l’intervento di un soggetto di ga-ranzia terzo rispetto al contratto, collocandolo maggiormente a monte e dunque al momento della definizione collettiva di un deter-minato aspetto organizzativo e/o

12 Sul riconoscimento in capo alle prove atipiche dell’efficacia probatoria di cui agli artt. 2729 c.c. e 116 c.p.c. cfr., per tutte,

economico, avrebbe quindi l’indubbio effetto di conferire maggiore e più ampia solidità all’intero e complessivo assetto organizzativo della singola impre-sa, offrendo certezza tanto al dato-re di lavoro quanto ai dipendenti, con positive ricadute in termini di riduzione delle corrispondenti vertenze giudiziali.

Per quanto non esente da criticità, la maggior parte delle quali legate all’eterno dilemma della interpreta-zione del concetto di rappresenta-tività sindacale, l’estensione della attività delle commissioni certifica-torie alla dimensione collettiva dei rapporti di lavoro e, dunque, in un’ottica di relazioni industriali, consentirebbe il raggiungimento di una definizione più stabile di tutti quegli aspetti, spesso di natura organizzativa, capaci sì di impatta-re sul rapporto individuale di lavo-ro ma che, però e al contempo, trascendono la dimensione indivi-duale collocandosi in un’ottica collettiva dell’organizzazione del lavoro e del bilanciamento degli interessi.

Riferimenti

Documenti correlati

- l’emergenza epidemiologica da Covid-19 ha senza dubbio accelerato l’espansione della micromobilità elettrica considerato che la mobilità ha, inevitabilmente,

Inoltre, una particolare attenzione è stata dedicata all’analisi delle più recenti problematiche giurisprudenziali emerse in tema di trasferimento di azienda, e specificamente a

Ma la cosa che lascia più perplessi è che all’indicata molteplicità di forme non corrisponde alcuna differenziazione di regime: il verbale di accordo, a tutto concedere, è e

- Altri interventi (PIP): RIDUZIONE DEL 20%. g) Interventi di edilizia residenziale convenzionata ai sensi degli artt. con esclusione degli edifici unifamiliari: RIDUZIONE DEL

L’inaugurazione del nuovo ingresso di giovedì 13 giugno avrà però un significato più ampio rispetto ai lavori effettuati all’ingresso: sarà infatti un’occasione

In Veneto sono circa 5.600 le unità nautiche da diporto iscritte nei registri della Capitaneria di porto e delle Motorizzazioni Civili.. Sommando questo dato con quelle del Registro

oggetto, come in precedenza detto, si chiede di conoscere se: “si possa procedere all’assunzione di personale nell’ambito dei limiti previsti dall’art. 9 comma 36 del

Il primo punto da esaminare concerne la verifica in ordine alla riconducibilità della richiesta proveniente dal Comune di Binago all’ambito delle funzioni attribuite