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Il problema epistemologico della conoscenza scientifica: rappresntazione e spiegazione secondo Galilei e Einstein

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Academic year: 2021

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Fabio Minazzi

Il problema epistemologico della conoscenza scientifica:

rappresentazione e spiegazione secondo Galilei e Einstein

«L'analisi antica, libera tratto tratto, ma sempre inerme, divenne libera e armata; divenne irresistibile; essa è ancora preordinata e fatale, ma il suo ordine è l'ordine di Dio; il suo fato e la verità. Libertà e verità! Signori, scrivete queste parole sulle porte di tutte le università»

Carlo Cattaneo, Psicologia delle menti associate, 1859-1866.

1. Il Dialogo di Galileo e la genesi della scienza moderna

La scienza moderna inaugurata da Galileo Galilei (1564 - 1642) si basa sull'uso sistematico delle matematiche per studiare il mondo fisico e la realtà. Tuttavia, nell'antichità greca classica si riteneva impossibile utilizzare la matematica per studiare il mondo naturale. Meglio ancora: gli antichi pensavano che si potesse applicare la matematica (ovvero la geometria, portata alla sua massima espressione di rigore deduttivo nei celebri tredici libri degli Elementi [Stoichôia] di Euclide) unicamente in relazione al mondo perfetto ed immutabile del mondo sovralunare.

Ma per il nostro mondo, quello della realtà contenuta entro e sotto il cielo della luna, dove regnano imperfezione e cambiamento continuo, la matematica non può essere di alcun aiuto. Perché? Proprio perché il nostro mondo, essendo imperfetto, è sottoposto a continui ed infiniti mutamenti. Il nostro è un mondo in cui, per dirla con Eraclito, panta rei e tutta la realtà, per dirla invece con Aristotele, è sempre sottoposta ad un complessivo processo di generazione e corruzione. Proprio per questo motivo, sempre secondo gli antichi, la geometria si poteva applicare unicamente allo studio del mondo sovralunare: questo mondo celeste, composto di etere o quintessenza, costituisce infatti un mondo perfetto in cui il movimento di tutti i corpi del cielo sembrava descrivere un moto circolare perfetto, sempre regolare, in cui si poteva appunto registrare l'eterno ritorno dell'identico. Anche i moti più stravaganti ed eccentrici, come, per esempio, quello dei pianeti “errabondi”, che sembrano, appunto, vagare in modo assai stravagante, (muovendosi in avanti per poi improvvisamente invertire il loro moto e retrocedere, senza regola apparente), erano stati infine genialmente ricondotti alla combinazione di alcune figure geometriche perfette tramite la teoria dei deferenti e degli epicicli, elaborata da astronomi come Appollonio di Perge (262 - 180 a. C.) e Ipparco di Samo (II sec. a.

C.). La combinazione di numerosi cerchi consentiva così di spiegare, con grande rigore geometrico, il moto apparentemente “errabondo” e “stravagante” dei pianeti.

Naturalmente la soluzione di Appollonio e di Ipparco, nel momento in cui risolveva

brillantemente la questione della spiegazione geometrica del moto dei pianeti,

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salvando anche il dogma platonico della circolarità dei moti celesti, suscitava, tuttavia, numerosi altri problemi, come quello attinente il nesso che poteva poi esistere tra la geometria e la realtà fisica del mondo sovralunare. Non per nulla fu anche elaborata, da Eudosso di Cnido (406 circa - 355 circa a. C.), l'illustre Endoxos, la teoria astronomica alternativa delle sfere omocentriche che, sempre ricorrendo ad una figura geometrica perfetta come quella della sfera, riusciva a meglio tutelare un'immagine realista del cosmo, che fu poi difesa anche da Aristotele di Stagira (384-322 a. C.). Ma senza ora entrare in tutti questi aspetti che hanno alimentato, per secoli, le discussioni antiche, basti tener presente che per tutti gli antichi sembrava pressoché assodato ed evidente che il rigore della matematica e della geometria non potesse essere mai applicato allo studio del mondo fisico sublunare. Ma proprio su questo punto, per dirla con Alexandre Koyré (1892-1964), con la nascita della scienza moderna si realizzò, invece, il decisivo e fondamentale passaggio «du monde de l'“à-peu-près” à l'univers de la précision» dei moderni

1

. Galileo Galilei, il padre riconosciuto della scienza moderna, ha riflettuto a lungo e assai approfonditamente su questa svolta, fornendo un contributo decisivo per attuarla e diffonderla. Stimolato soprattutto dall'opera di un grande studioso dell'antichità come Archimede di Siracusa (287 - 212 a. C.), lo scienziato pisano ha progressivamente abbandonato l'impostazione fisica (e metafisica) tradizionale, per elaborare una nuova immagine scientifica della realtà fisica. Ma la sua capacità critica di pervenire infine a questa nuova immagine del mondo non è naturalmente nata come Minerva nella testa di Giove ed è stata frutto di una lunga e difficile riflessione, che ha dovuto superare molti ostacoli e numerosi dubbi. Assumendo questo punto di vista concernente la genesi specifica della scienza moderna, propongo allora di leggere uno dei capolavori di Galileo, il suo celebre Dialogo sui due massimi sistemi del mondo, il tolemaico e il copernicano (1632), come la storia del dialogo critico interiore più profondo e silente con il quale Galileo è infine riuscito ad abbandonare l'impostazione fisica (e metafisica) tradizionale, per abbracciare, infine, una nuova e rivoluzionaria prospettiva scientifica. Da questo punto di vista non nego certamente che i tre personaggi del Dialogo - Salviati, Sagredo e Simplicio - svolgano un differente ruolo interlocutorio e non nego neppure che questa immaginazione letteraria, come anche tutta la cornice dell'opera, sia da riportare al preciso contesto teatrale e retorico del Seicento. Ma, al di là di questi elementi storici indubbi, che mi sembrano tuttavia essere, in ultima analisi, abbastanza estrinseci e di “contesto”, mi pare molto più importante sottolineare come il dialogo “messo in scena” da Galileo in quest'opera, sia, in primo luogo, il frutto del suo dialogo interiore più profondo ed intimo, il risultato prezioso di un ampio percorso di riflessione, originale e profondamente innovativo, dal quale è infine scaturito un nuovo modo di intendere e praticare la ricerca scientifica. In altre parole, il Dialogo costituisce, perlomeno a mio avviso, la storia di un'anima, appunto quella di Galileo che, infine, è fuoriuscita dalla tradizione concettuale entro la quale si era formata per pervenire ad un nuovo e fecondo punto di vista scientifico affatto rivoluzionario. Meglio ancora: a mio avviso il Dialogo documenta la storia di tutti i dubbi e di tutte le riflessioni critiche ed autocritiche attraverso le quali Galileo è passato per poter infine elaborare il suo nuovo e rivoluzionario punto di vista scientifico. Se si legge il Dialogo da questo nuovo punto di vista ermeneutico e storico-critico, allora quest'opera assume un'importanza storico-concettuale ancora

1 Cfr. Alexandre Koyré, Etudes d'Histoire de la pensée philosophique, A. Colin, Paris 1962,

l'importante saggio in questione richiamato nel testo risale al 1948.

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più importante, rappresentativa ed emblematica, perché ci documenta - quasi in presa diretta - la storia dell'evoluzione interiore del pensiero di Galileo. In altri termini il Dialogo diventa la testimonianza più diretta e straordinaria dello stesso processo d'invenzione scientifica, di quel processo che ha indotto infine Galileo a concepire la scienza moderna e il suo modo rivoluzionario di operare, onde poter meglio conoscere il mondo della realtà fisica. Ma in questo caso il Dialogo non parla tanto dell'invenzione e della scoperta di una particolare teoria scientifica - in particolare di quella copernicana che pure è al centro dell'interesse manifesto dell'opera galileiana - ma ci parla, invece, della genesi della nuova mentalità scientifica e documenta, quindi, tutti i dubbi, le obiezioni, le difficoltà e le domande contro le quali si è infine imposta, in Galileo, una nuova mentalità, quella propria e specifica della scienza moderna galileista. Galileo infatti non è nato “galileista”, ma è diventato tale attraverso un percorso non facile, lungo il quale ha dovuto superare tutte le difficoltà e i vincoli che la tradizione classica, entro la quale si era formato, ha cercato di opporre alla genesi di questo nuovo e rivoluzionario modo di pensare scientifico e di praticare quindi l'indagine conoscitiva. Il Dialogo documenta esattamente tutta la ricchezza e la difficoltà di questo percorso biografico-intellettuale da cui è infine scaturita la scienza moderna. In questa prospettiva il dialogo tra Salviati, Sagredo e Simplicio deve allora essere letto, in primo luogo, come il dialogo, più profondo ed interiore, dello stesso Galileo: le obiezioni di Simplicio sono così le obiezioni che Galileo faceva a se stesso nel momento stesso in cui iniziava, tuttavia, a scorgere un nuovo punto di vista scientifico. D'altro canto anche le risposte di Salviati, come anche le puntuali osservazioni e i vari rilievi critici di Sagredo, manifestano tutte le molteplici riflessioni intrecciate, i numerosi dubbi e le varie, alternanti, convinzioni che evidentemente si affacciavano, progressivamente e più o meno linearmente, nella mente di Galileo. Per questa ragione propongo allora di leggere unitariamente il Dialogo, interpretando tutti i diversi personaggi e le loro molteplici movenze dialogiche, come l'espressione diretta ed unitaria della stessa complessa e più intima riflessione galileiana, quella stessa che lo ha infine indotto ad abbracciare un nuovo punto di vista di indagine del mondo, appunto quello inaugurato dalla scienza moderna. In tal modo il Dialogo si trasforma allora in un documento storico e concettuale davvero formidabile e straordinario: quello che, appunto, ci documenta, passo dopo passo, dubbio dopo dubbio, obiezione dopo obiezione, risposta dopo risposta, e anche in presa diretta, la genesi stessa della nuova mentalità scientifica moderna.

2. L'uso euristico delle matematiche

Se ora si considera il Dialogo sopra i due massimi sistemi, tolemaico e copernicano di Galileo da questo nuovo punto di vista ermeneutico, epistemologico e storico- critico, emerge allora, con indubbia forza e altrettanta pregnanza, il valore di una pagina invero decisiva, quella che si legge nel corso della seconda giornata del dialogo, nella quale Galileo delinea la sua immagine dello scienziato, presentandolo come un «filosofo geometra»

2

. In questa giornata Simplicio avanza un'obiezione

2 All'approfondimento specifico di questa potente immagine galileiana ho peraltro dedicato un mio studio monografico: Fabio Minazzi, Galileo «filosofo geometra», Rusconi, Milano 1994 che ho poi intrecciato anche con lo studio del dibattito epistemologico svolto nel volume Il flauto di Popper.

Saggio critico sulla «new philosophy of science» e la sua interpretazione di Galileo, Franco Angeli,

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invero decisiva contro l'impostazione galileista. Se la nuova scienza della natura si basa infatti sull'uso sistematico della matematica per studiare il mondo, allora Simplicio, appellandosi esplicitamente alla grande tradizione fisica (e metafisica) aristotelica, che a sua volta si rifaceva, direttamente, al pensiero degli antichi, reputa che tale possibilità sia, in realtà, negata e del tutto preclusa dalla natura intrinseca del mondo fisico reale, nonché anche da quella del mondo perfetto della geometria.

A suo avviso il mondo della realtà fisica sensibile si configura, infatti, come un mondo infinitamente ricco di sfumature e sempre mutevole, così come noi lo possiamo ben conoscere attraverso la nostra stessa esperienza sensibile basata sui quinque sensibus che ci fanno appunto conoscere il mondo nella sua infinita ricchezza fenomenologica e anche nella sua straordinaria immediatezza sensibile.

Di contro, la geometria ci parla, invece, di un mondo perfetto e rigoroso, che, rispetto all'infinita ricchezza del mondo sensibile, si configura come un mondo rigoroso e perfetto ma anche come un mondo molto povero, come un'ombra evanescente del mondo sensibile, proprio poiché riduce quest'ultimo a punti, linee, piani, fasci di rette, superfici, volumi, sezioni geometriche, etc., etc. che non sono mai in grado di cogliere la ricchezza, pressoché infinita, della concreta realtà sensibile, con tutti i suoi mille e più colori, i suoi molteplici profumi ed odori, con la sua inesauribile ricchezza qualitativa, pressoché infinita, intessuta sempre di molteplici sfumature, di innumerevoli sensazioni, di qualia e anche di emozioni che sempre accompagnano il nostro ricco vissuto sensibile-esistenziale. Come sarebbe mai possibile cogliere tutta questa infinita ricchezza del mondo sensibile dell'esperienza immediata del mondo riducendolo sistematicamente alla vuota ed evanescente rigidità del freddo e algido mondo geometrico?

Il passo in cui Galileo discute questa obiezione è, invero, decisivo e occorre quindi considerarlo con grande attenzione analitica. In primo luogo, di fronte alla precisa obiezione di Simplicio, che colpisce, al cuore, la possibilità stessa di poter applicare la matematica allo studio della realtà fisica, Salviati preferisce ripetere, in prima battuta, l'obiezione di Simplicio, onde vedere se ha effettivamente ben compreso il puntuale rilievo critico del suo interlocutore. Il che, indubbiamente, costituisce un buon punto di partenza critico. Quando infatti vogliamo rispondere correttamente ad una critica, in primo luogo dobbiamo sincerarci di aver ben compreso la natura concettuale del rilievo critico che ci viene presentato. Ecco allora che Salviati riassume, con le sue parole, l'obiezione decisiva di Simplicio:

«Salv. Adunque, tuttavolta che in concreto voi applicate una sfera materiale a un piano materiale, voi applicate una sfera non perfetta a un piano non perfetto; e questi dite che non si toccano in un punto»

(VII, 233, [p. 207])

3

.

Milano 1994.

3 Dialogo di Galileo Galilei Linceo Matematico Sopraordnario dello Studio di Pisa e Filosofo e Matematico Primario del Serenissimo Gr. Duca di Toscana, dove ne i congressi di quattro giornate si discorre sopra i due Massimi Sistemi del Mondo, Tolemaico e Copernicano, proponendo indeterminatamente le ragioni filosofiche e naturali tanto per l'una, quanto per l'altra parte, in Fiorenza, per Gio. Batista Landini, MDCXXXII, citato direttamente secondo il testo presente nell'Edizione Nazionale delle opere di Galileo (VII, pp. 25-489) che riproduce appunto quello della prima edizione del Dialogo. Tra parentesi tonda indico direttamente la pagina dell'Edizione Nazionale delle opere galileiane curate da Antonio Favaro. Da tener presente anche la traduzione inglese:

Galileo Galilei, Dialogue Concerning the Two Chief World System - Ptolemaic & Copernican,

translated by Stillman Drake, foreword by Albert Einstein, University of California Pressi, Berkeley and

Los Angeles 1962 (in questo caso fornirò sempre tra parentesi quadre il riferimento alla pagina della

citazione).

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L'obiezione di Simplicio è chiara e si rifà proprio alla tradizionale mentalità metafisica: la geometria ci dice che una sfera perfetta toccherà un piano perfetto in uno e in un solo punto. Tuttavia, se dal mondo perfetto e rigoroso della geometria ci spostiamo, invece, sul mondo della realtà fisica, allora tutto cambia: infatti nel mondo della nostra esperienza fisica diretta e sensibile non abbiamo mai a che fare con sfere perfette e con piani perfetti. Pertanto, se prenderemo una sfera di legno e un piano di legno, pur costruiti nel miglior modo possibile dai più abili artigiani, tuttavia la nostra sfera di legno sarà sempre una sfera imperfetta e anche il piano di legno sarà sempre un piano imperfetto. Conseguentemente, una sfera imperfetta toccherà, necessariamente, un piano imperfetto non in un solo punto, ma in più punti. Quindi, quello che afferma la geometria non risulta essere affatto vero in relazione con quanto accade nel mondo fisico della nostra concreta realtà. Tra fisica e realtà fisica concreta sussiste, quindi, un'autentica discrasia, uno iato, una frattura del tutto incolmabile.

Di fronte a questa constatazione, che costituisce anche una obiezione epistemologica decisiva, la prima risposta di Galileo sembra essere introdotta quasi per “prendere tempo”. Come del resto spesso succede anche nelle nostre conversazioni quotidiane ed ordinarie: di fronte ad un interlocutore che ci incalza vivamente con le sue obiezioni e critiche, può infatti accadere che, di primo acchito, si cerchi di interloquire svolgendo qualche prima considerazione d'ordine affatto generale, la quale non costituisce ancora la nostra vera risposta, ma ci consente tuttavia di “prender tempo”, onde poter meglio delineare la nostra vera risposta all'obiezione che percepiamo essere di un preciso rilievo. Così sembra fare anche Salviati che riflette immediatamente sull'obiezione tradizionale cercando di immunizzarla, trasformando il suo punto di forza la discrasia esistente tra il mondo geometrico e quello fisico concreto e reale del nostro mondo sensibile - in un rilievo affatto banale e, quasi, del tutto scontato. Osserva infatti Salviati:

«Ma io vi dico che anco in astratto una sfera immateriale, che non sia piano perfetto, può toccare un piano immateriale, che non sia piano perfetto, non in un punto, ma con parte della sua superficie;

talché sin qui quello che accade in concreto, accade nell'istesso modo in astratto: e sarebbe ben nuova cosa che i computi e le ragioni fatte in numeri astratti, non rispondessero poi alle monete d'oro e d'argento e alle mercanzie in concreto» (VII, 233, [207]).

Con questa sua prima risposta Salviati ribalta dunque l'obiezione di Simplicio,

trasformandola, apparentemente, in un suo punto di forza. Se l'obiezione di

Simplicio consisteva nel mostrare come una sfera imperfetta toccasse un piano

imperfetto in più punti, Salviati sembra quasi dire che allora non vede proprio quale

sia il problema scientifico ed epistemologico. Non si può forse immaginare, in termini

astratti, l'esistenza di una sfera imperfetta che tocca in più punti un piano

imperfetto? La mossa di Salviati è interessante perché con questo rilievo sembra far

sua, senza particolari problemi, la tradizionale prospettiva epistemologica, secondo

la quale la validità di una teoria deriva proprio dal suo saper corrispondere,

perfettamente, alla realtà. Ma con questa prima mossa interlocutoria in realtà

Salviati cercare proprio di ribaltare, come un guanto, l'obiezione di Simplicio. Se

nella realtà una sfera imperfetta tocca un piano imperfetto in più punti, allora,

controreplica Salviati, noi possiamo sempre immaginare di costruire una

teorizzazione di questa specifica situazione reale. Con questa teoria immagineremo

allora che esista, anche in astratto, una sfera imperfetta che tocca in più punti un

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piano imperfetto. Allora, aggiunge Salviati, dove mai sta il problema? In questo caso ciò che accade in astratto accade infatti anche nel concreto e tra teoria ed esperienza si registra, dunque, una perfetta coincidenza, così come del resto richiedeva il tradizionale paradigma epistemologico degli antichi. Per esempio quello in virtù del quale, secondo la nota dottrina corrispondentista aristotelica, una teoria risulta essere vera se e solo se corrisponde perfettamente a quanto succede nella realtà empirica immediatamente verificabile. Se così ci si riferisce alla storia delle teorie astronomiche è indubbio che proprio questo specifico criterio epistemologico corrispondentista abbia svolto un suo preciso e decisivo ruolo euristico nel far prevalere proprio la dottrina tolemaica - geocentrica e geostatica - contro l'opposta teoria di Aristarco di Samo - eliocentrica ed eliostatica. La dottrina tolemaica è stata in genere accolta come l'unica teoria vera e corretta proprio in virtù della sua capacità di saper aderire, in modo pressoché immediato, all'esperienza quotidiana del senso comune, mentre quella eliostatica ed eliocentrica di Aristarco è stata decisamente scartata e rifiutata dal senso comune dell'antichità, proprio perché entrava in drammatico e flagrante conflitto con l'esperienza dei quinque sensibus. A fronte dell'egemonia incontrastata di questo paradigma epistemologico corrispondentista l'esempio galileiano, tratto dall'attività mercantile, sembra del resto confermare nuovamente la verità di questa prima risposta di Salviati: anche nell'acquisto commerciale ordinario delle varie e più diverse mercanzie i calcoli matematici astratti, che risultano essere corretti, finiscono sempre per corrispondere con precisione (ovvero: devono sempre corrispondere) esattamente ai calcoli commerciali con i quali vengono vendute ed acquistati i differenti beni mercantili.

Insomma: tra concreto ed astratto, tra teoria ed esperienza, tra calcolo matematico e mondo della prassi, deve sempre potersi scorgere una corrispondenza diretta e pressoché perfetta, che si configura, dunque, come la vera garanzia della verità complessiva del nostro stesso discorso. L'astratto sarà pertanto tanto più vero nella misura in cui corrisponderà al concreto. Non solo: la vicinanza della teoria alla concretezza del mondo costituirà il suo sigillo di verità. Ciò che corrisponde all'esperienza sensibile comune e diretta sarà vero, mentre ciò che contrasta apertamente con questa esperienza sensibile sarà, necessariamente, falso. Questo criterio pragmatico - sia detto per inciso - rappresenta, del resto, un fecondo criterio operativo che, nel corso evolutivo della storia della nostra specie, ha senz'altro rafforzato le nostre stesse speranze di vita, finendo così per diventare un elemento costitutivo imprescindibile del nostro stesso senso comune vitale e biologico.

Tuttavia, Salviati sa anche bene che questa sua prima risposta non è, in realtà, la

vera risposta galileista, quella che invece vuole dare all'obiezione, invero decisiva, di

Simplicio. Per questo motivo, nella stessa pagina, aggiunge, subito dopo, la sua

vera e innovativa risposta, autenticamente rivoluzionaria. Da rilevare come la vera

risposta galileista venga subito introdotta, assai abilmente, con un rapido cambio del

registro linguistico. Salviati cambia infatti il tono del suo intervento esordendo, ex

abrupto, con una domanda chiaramente retorica, con la quale, in realtà, lo stile e

l'andamento complessivo della pagina cambiano rapidamente di tono, proprio

perché l'interlocutore è radicalmente convinto della verità di quello che sta per

illustrare e si pone pertanto su di un piano superiore in cui vuole appunto spiegare -

quasi pedagogicamente - come si configuri effettivamente il processo conoscitivo se

si guarda ad esso con occhi epistemologici profondamente diversi da quelli propri

della tradizionale dottrina corrispondentista. In questo specifico frangente Salviati,

da mero interlocutore incalzato criticamente da Simplicio, si trasforma così in un

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sicuro e nuovo punto di riferimento epistemologico, che controreplica attaccando decisamente la tradizionale corrispondenza tra teoria ed esperienza . Ci si trova così di fronte ad un Salviati che sa ora molto bene come rispondere a Simplicio, proprio perché presenta un nuovo punto di vista rivoluzionario che ribalta non solo l'obiezione tradizionale dell'aristotelico, ma modifica anche, assai radicalmente, la tradizionale impostazione epistemologica (e metafisica!) del problema corrispondentista, offrendo, in tal modo, una nuova e, appunto, del tutto rivoluzionaria, prospettiva critica. Prosegue infatti Salviati affermando con decisione:

«Ma sapete, signor Simplicio, quel che accade? Sì come a voler che i calcoli tornino sopra i zucheri, le sete e le lane, bisogna che il computista faccia le sue tare di casse, invoglie ed altre bagaglie, così, quando il filosofo geometra vuol riconoscere in concreto gli effetti dimostrati in astratto, bisogna che difalchi gli impedimenti della materia; che se ciò saprà fare, io vi assicuro che le cose si riscontreranno non meno aggiustatamente che i computi aritmetici. Gli errori dunque non consistono né nell'astratto né nel concreto, né nella geometria o nella fisica, ma nel calcolatore, che non sa fare i conti giusti» (VII, 234, [207-208]).

Per Salviati il «filosofo geometra», ovvero lo scienziato, deve dunque saper operare realizzando una mossa profondamente innovativa e, invero affatto rivoluzionaria, poiché deve saper «difalcare» gli impedimenti della materia, sapendo al contempo riconoscere, in concreto, gli effetti prima dimostrati in astratto. Quindi per Salviati occorre, in primo luogo, prender le mosse proprio dall'astratto, ovvero dalle teorie ipotetiche, per poi dedurre, con rigore matematico, tutte le conseguenze che possiamo ricavare per via meramente inferenziale. Infine, in terzo luogo, occorre anche mettere in relazione quanto si è dedotto con la realtà empirica e sensibile: ma per Salviati questo confronto finale non si configura mai come un confronto immediato, acritico e diretto, perché lo scienziato deve invece saper sempre opportunamente «difalcare» gli impedimenti della materia. Ovvero lo scienziato deve sempre saper interpretare correttamente le risposte che la natura fornisce alle domande che lo stesso scienziato gli pone con precisione, attraverso la costruzione di uno specifico apparato sperimentale di mediazione tecnologica.

Alla luce di questa rivoluzionaria risposta galileiana si comprende allora come per

Salviati la scienza moderna si costruisca entro una duplice polarità critica: da un lato

esiste infatti la polarità dell'astratto, della teoria, dell'ipotesi, che costituisce la prima

mossa dalla quale occorre poi ricavare, con un'inferenza matematica, tutte le

conseguenze rigorose che si possono e si devono appunto poter dedurre prendendo

le mosse dalle premesse della teoria specifica che si intende sviluppare. Ma questo

primo movimento, puramente astratto, teorico, deduttivo ed inferenziale, si deve poi

incontrare con la risposta, del tutto autonoma, che la natura darà alle nostre

specifiche domande. Ma per ottenere queste risposte lo scienziato deve sempre

essere in grado di «difalcare» gli impedimenti della natura. Ma cosa significa

affermare che lo scienziato deve essere in grado di saper sempre «difalcare» gli

impedimenti della natura? Significa che lo scienziato deve saper interpretare e

leggere la natura alla luce della sua specifica costruzione teorica ed astratta,

collegandola in modo significativo con i risultati sperimentali dei suoi esperimenti. Il

che significa anche che lo scienziato deve sempre saper interrogare adeguatamente

la natura attraverso la costruzione di un apposito momento sperimentale, che si

realizza sempre attraverso la mediazione critica della tecnologia. In altre parole lo

scienziato deve saper «difalcare» gli impedimenti della materia, proprio perché non

può mai basarsi sulla natura studiandola nella sua immediatezza acritica. Al

contrario, lo scienziato deve saper costruire una realtà sperimentale, entro la quale

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porrà precise domande alla natura, la quale sarà allora costretta, sempre dallo scienziato, a rispondere con un si o con un no alle specifiche domande che l'esperimento sperimentale pone. Secondo Francis Bacon, natura nisi parendo vincitur: in profonda sintonia con questa rilievo anche Galileo è convinto che si può comandare alla natura solo se le si obbedisce. L'esperimento predisposto sperimentalmente dallo scienziato consente appunto di difalcare gli impedimenti della natura costringendo la natura a rispondere precisamente alle nostre domande.

Il saper «difalcare» gli impedimenti della materia implica, pertanto, perlomeno due mosse critiche decisive: il saper rileggere la realtà naturale alla luce della propria teoria e il saper poi congegnare un esperimento sperimentale mediante il quale la natura formulerà, in piena autonomia relativa, il suo verdetto. Verdetto invero decisivo perché concerne direttamente la stessa eventuale portata conoscitiva della nostra teoria astratta. Pertanto in questa nuova visione galileista le due opposte polarità del procedere scientifico, quella teorica e quella sperimentale, quella ipotetica e quella pragmatica, risultano essere egualmente decisive per poter approfondire criticamente la nostra conoscenza oggettiva del mondo fisico.

In altre parole, da questo scambio di battute tra Simplicio e Salviati emerge come Galileo abbia ben compreso come per conoscere più approfonditamente il mondo non ci si possa mai limitare a descriverlo passivamente. Al contrario, occorre sempre saper prendere le mosse da alcune nostre precise idee e prospettive concettuali, da alcune nostre peculiari ipotesi teoriche, da alcune nostre specifiche teorie, più o meno innovative, per poi saper investire il mondo con un inedito punto di vista teorico nuovo, originale e, possibilmente, criticamente fecondo. Ma quando avremo comunque costruito una teoria nuova ed originale, che ci permette, appunto, di vedere il mondo da un nuovo punto di vista, con questa operazione avremo fatto solo metà del nostro cammino, perché poi bisognerà saper mettere in relazione critica questa nostra nuova teoria con la realtà stessa. Ma non certo con la realtà fisica immediata, colta nella sua immediatezza acritica della conoscenza sensibile dei quinque sensibus. Lo scienziato deve infatti saper sempre «difalcare gli impedimenti della materia», ovvero deve sempre saper reinterpretare l'esperienza sensibile e sperimentale alla luce delle sue teorie, avendo tuttavia la consapevolezza che le risposte che la natura darà alle sue domande sperimentali sono ineludibili, proprio perché costituiscono un momento decisivo e fondamentale dell'intero processo conoscitivo posto in essere dall'impresa scientifica.

Per questo motivo Galileo concepisce allora in modo profondamente innovativo il

tradizionale rapporto epistemologico tra teoria ed esperienza: se per gli antichi

garanzia di verità della teoria era la sua capacità di saper corrispondere

perfettamente all'esperienza sensibile, per Galileo, invece, le teorie ipotetiche,

costruite per definizione assertoria, devono sempre essere distaccate criticamente

dalla realtà immediata, devono insomma saper raggiungere un piano specifico di

autonoma astrazione relativa, a partire dal quale, ricavando, per via rigorosamente

deduttiva e matematica, le proprie conseguenze, devono poi saper reinterpretare il

mondo fisico alla luce del loro particolare punto di vista teorico. Ma, si badi, per

Galileo questo secondo e decisivo momento di “ritorno” al mondo della prassi

sensibile e sperimentale è non meno problematico e decisivo, proprio perché si

realizza attraverso la mediazione critica della dimensione sperimentale e della

tecnologia. Il mondo risponde così alle nostre sollecitazioni formulando delle risposte

che selezionano le nostre stesse opzioni teoriche. In questa nuova prospettiva

epistemologica la conoscenza scientifica teorizzata ed effettivamente praticata da

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Galileo appare allora come basata su una struttura critica eminentemente duale, in cui emergono due polarità che sempre si devono intrecciare criticamente nell'opera dello scienziato: la polarità delle «certe dimostrazioni» (la matematica e la capacità creativa teorica ed astratta) e l'opposta polarità, quella delle «sensate esperienze»

(la dimensione tecnologico-sperimentale in cui si compiono le verifiche e le falsificazioni altrettanto decisive). La scienza nasce proprio da questo gioco critico e da questo specifico intreccio ad un tempo concettuale e sperimentale che, secondo Galileo, ci deve sempre indurre ad intrecciare criticamente ciò che le nostre teorie ci dicono del mondo con ciò che il mondo stesso ci dice in relazione alle nostre ipotesi teoriche.

Ma è allora evidente che per Galileo questo suo nuovo schema critico- epistemologico prevede che l'incremento critico della conoscenza si possa conseguire unicamente con l'incremento critico dell'astrazione e anche con l'incremento critico della stessa dimensione tecnologico-sperimentale. Così il modello epistemologico cui l'antichità aveva guardato, per secoli, viene rivoluzionariamente ribaltato: con la scienza moderna la garanzia della verità non si radica più nella vicinanza corrispondentista immediata delle nostre teorie al piano empirico, bensì deve essere semmai individuata proprio nell'intreccio critico e problematico, sempre aperto e costruttivo, che dobbiamo essere in grado di costruire, passo dopo passo, ponendo sempre in tensione critica feconda le nostre astrazioni teoriche con la nostra stessa capacità tecnologico-sperimentale con la quale chiediamo al mondo fisico di certificare (oppure di falsificare) le nostre ipotesi teoriche. In questa nuova prospettiva la scienza si configura, pertanto, come un gioco critico molto più complesso, problematico e affascinante, mediante il quale l'incremento della nostra conoscenza del modo è affidata alla nostra stessa capacità di saper escogitare sempre nuove teorie, per poi sottoporle a contini e sempre più sofisticati controlli critici, in una feconda e continua relazione in cui il polo teorico dell'astrazione e quello sperimentale della componente tecnologica si intrecciano sempre più, bando vita a quelle specifiche tecno-scienze che oggi costituiscono la realtà effettiva del nostro stesso patrimonio tecnico, conoscitivo ed operativo.

4. Valori e limiti della soluzione galileista

Sviluppando questa innovativa e rivoluzionaria risposta scientifica che possiede anche una precisa e innovativa valenza epistemologica (tale da scaturire direttamente dalla prassi stessa della scienza moderna), Galileo, proprio attraverso il complesso gioco dialettico e critico-dialogico del confronto tra Salviati, Simplicio e Sagredo, si mostra ben consapevole tanto dei punti di forza della sua risposta, come anche, al contempo, dei suoi punti più deboli e invero assai problematici. Il punto di forza, indubbio, si radica nel ribaltamento radicale del tradizionale punto di vista metafisico: la conoscenza umana non scaturisce mai da un'osservazione passiva, meramente “descrittiva”, del mondo. Possiamo osservare quanto vogliamo il mondo e la realtà che ci circonda, ma se non siamo in grado di elaborare nuovi punti di vista teorici con investire criticamente la realtà e leggere quindi innovativamente il mondo, quest'ultimo non sarà mai in grado di rivelarci alcunché e, tanto meno, i suoi segreti.

In altre parole, questi nuovi elementi conoscitivi del mondo non possono mai essere

recepiti passivamente dalla realtà, ma devono essere sempre strappati e carpiti al

mondo facendo leva sulla nostra intelligenza e sulla nostra eventuale capacità di

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saper vedere e saper leggere, innovativamente, la realtà del mondo. Per questo motivo Galileo, nella terza giornata del Dialogo, fa dichiarare a Salviati di non poter

«trovar termini all'ammirazione mia, come abbia possuto in Aristarco e nel Copernico far la ragione tanta violenza al senso, che contro a questo ella si sia fatta padrona della loro credulità» (VII, 355, [328, ]il corsivo è mio).

La ragione deve dunque far forza al senso, proprio perché sono sempre le teorie che devono saper investire criticamente la realtà, onde farci conoscere nuovi aspetti del mondo. Di contro, Galileo è però convinto che anche il principio euristico aristotelico (di ascendenza empirista) concernente il saper sempre anteporre ciò che l'esperienza insegna alle nostre differenti teorie, costituisca un momento altrettanto importante e invero costitutivo, proprio perché la dimensione sperimentale e quella tecnologica che ci permettono di verificare (oppure di falsificare) le nostre differenti teorie. Questo complesso e sempre fecondo intreccio critico-problematico tra il momento teorico/astratto e il momento tecnologico/sperimentale costituisce, del resto, il preciso orizzonte di riferimento costante cui Galileo inserisce tutta la sua, pur molteplice e molto differenziata, ricerca e produzione scientifica. Così, quando nel 1638 pubblicherà a Leida, presso Elzevier, il suo autentico capolavoro scientifico, ovvero i non meno celebri suoi Discorsi e dimostrazione matematiche intorno a due nuove scienze, ebbene anche in quest'opera Galileo dichiarerà di non voler affatto analizzare l'«essenza» metafisica del moto di caduta dei gravi. Semmai il suo scopo dichiarato e programmatico è invece proprio quello di volersi unicamente attenere allo studio delle «passioni» di un moto accelerato qualsiasi, onde poter poi ricondurre coerentemente tutte le sue molteplici manifestazioni, sperimentalmente documentabili, ad una sola legge unitaria. Pertanto, di fronte a chi, come, per esempio, il fisico aristotelico genovese Giovanni Battista Baliani, gli imputava che i principi teorici dai quali Galileo aveva preso le mosse per sviluppare il suo trattato sul moto non esistevano affatto in natura e non erano documentati dall'esperienza della realtà fisica, Galileo ribadiva, apertis verbis, la «aggressione diversa» della sua riflessione scientifica, e lo faceva, nella lettera del 7 gennaio 1639, difendendo, ancora una volta, la fecondità del suo nuovo approccio scientifico.

Appellandosi direttamente al modello classico del De spiralibus di Archimede, Galileo ribadiva così di aver preso le mosse, nei suoi Discorsi, per studiare il moto dei gravi discendenti, da una precisa ed ipotetica definizione del moto:

«ma tornando al mio trattato del moto, argomento ex suppositione sopra il moto, in quella maniera diffinito; siché quando bene le conseguenze non rispondessero alli accidenti del moto naturale de' gravi descendenti, poco a me importerebbe, siccome nulla deroga alle dimostrazione di Archimede il non trovarsi in natura alcun mobile che si muova per linee spirali. Ma in questo sono io stato, dirò così, avventurato, poiché il moto dei gravi et i suoi accidenti rispondono puntualmente alli accidenti dimostrati da me del moto da me definito» (XVIII, 12-13). .

Ma se Galileo si riferisce, dunque, costantemente, a questo suo nuovo orizzonte

concettuale e pratico-sperimentale, tuttavia il Nostro è ben lungi dal ritenere che la

sua nuova impostazione scientifica sia in grado di rispondere, in modo pienamente

persuasivo, all'obiezione aristotelica decisiva di Simplicio. Quest'obiezione di

Simplicio, più in generale, concerne infatti lo studio e la conoscenza delle forme, dei

qualia, delle multiformi morfologie degli oggetti sensibili del nostro mondo fisico. Di

fronte alla intrinseca difficoltà oggettiva posto dallo studio analitico e rigoroso delle

differenti morfologie - quella che potremmo anche appellare, à la René Thom, come

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la «parte maledetta» dell'ileomorfismo aristotelico - Galileo è infatti costretto a compiere una mossa come quella che aveva già delineato ne Il Saggiatore (1623).

Con riferimento esplicito al mondo fisico oggetto del nostro studio Galileo distingue infatti, sia pur su un piano dichiaratamnte operativo, due differenti e opposte qualità:

le «qualità primarie» e le «qualità secondarie». Le prime sarebbero tutte le qualità fisiche traducibili senza soverchi problemi in quantità matematiche e, quindi, in numeri (masse, velocità, posizioni, peso, figure geometriche, etc.). Di contro le seconde sarebbe invece inevitabimente connesse alla nostra parte corporea sensibile ed animale e, per questa ragione, perlomeno sempre in linea di principio, non sarebbero mai “matematizzabili”. Introducendo questa distinzione, sempre, sarà meglio ribadirlo, su un piano eminentemente operativo - che sarà poi indebitamente sostanzializzato e metafisicizzato proprio dal pensiero filosofico successivo (si pensi, per esempio, a John Locke, per non fare che un esempio emblematico) - Galileo si rende conto di poter difendere la sua nuova impostazione scientifica, anche se per farlo deve necessariamente abbandonare alla cosiddetta “sensibilità animale corporea umana” tutta la dimensione qualitativa e sensibile dei qualia. In tal modo, però, l'obiezione avanzata da Simplicio sembra allora riemergere in tutta la sua piena rilevanza critica ed epistemologica, perché una conoscenza scientifica del mondo che non sia tuttavia in grado di spiegare la natura, oltremodo complessa e multiforme, dell'esperienza sensibile non può che risultare alquanto manchevole e parziale dal punto di vista della nostra eventuale possibilità di poter effettivamente conoscere la complessa realtà nella quale viviamo.

Galileo percepisce tutto il peso “scientifico” di questa obiezione di Simplicio, ma poiché non dispone di algoritmi matematici in grado di trattare, con sufficiente rigore, i qualia, preferisce allora escluderli senz'altro dall'ambito della vera e propria conoscenza scientifica, restringendo necessariamente quest'ultima alla sola dimensione delle quantità matematizzabili. Il che, naturalmente, non mancherà di esercitare una sua precisa conseguenza, eminentemente negativa, su pressoché tutta l'immagine della conoscenza scientifica elaborata nei secoli successivi al Seicento galileiano che, non a caso, troverà proprio nella fisica-matematica il suo punto di riferimento programmatico ed egemonico. Un punto di riferimento privilegiato con cui si cercherà, per esempio, di indebolire o anche di sminuire senz'altro la portata conoscitiva oggettiva di altre discipline scientifiche (basti pensare alle complesse vicende connesse con tutte le molteplici ricerche sviluppatesi in ambito squisitamente biologico).

Né va infine taciuto un rilievo finale. La sicurezza ostentata da Galileo nelle righe

finali del passo citato di Salviati, se viene posto in relazione alla storia concreta ed

effettiva della scienza moderna può infatti colorarsi di tinte molto fosche. Quando

infatti Galileo ricorda che lo sbaglio non si radicherebbe mai nelle singole teorie,

bensì nel calcolatore, che non sa fare i conti giusti e corretti, sembra quasi che dalle

sue parole si innalzi un'ombra assai inquietante sul complesso rapporto che può

sempre instaurarsi tra l'affermazione storica e culturale di una determinata dottrina

scientifica e i singoli ricercatori che operano entro quel determinato paradigma

oggettivo. Se infatti un paradigma scientifico è diventato veramente egemone, è

allora facile immaginare che se uno scienziato volesse ostinarsi a lavorare su un

problema aperto o irrisolto di questo stesso paradigma dominante avrebbe allora di

fronte a sé solo uno scenario prospettico molto condizionante e invero assai

pericoloso: o riesce a risolvere il problema aperto utilizzando le categorie concettuali

messegli a disposizione dal paradigma dominante (nel qual caso sarà acclamato

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come un grande scienziato), oppure, in caso di un insuccesso complessivo del suo tentativo, sarà semplicemente considerato come uno scienziato fallito, (mentre il paradigma dominante continuerà invece ad essere ritenuto sempre sicuro e pienamente affidabile, malgrado la presenza di quel determinato problema ancora

“irrisolto” e “aperto”). Il che dovrebbe appunto far riflettere anche sulla specifica ma autentica “tirannia” conoscitiva che un determinato paradigma può esercitare una volta che è diventato del tutto egemone e tale da condizionare profondamente il senso comune di una comunità scientifica, nonché gli stessi percorsi formativi degli stessi scienziati. Certamente Galileo era indotto a questa sua affermazione dalla constatazione del carattere tendenzialmente “definitivo” delle conoscenze scientifiche, cui lo scienziato pisano attribuiva un carattere i assolutezza che oggi ci appare molto problematico. Tuttavia noi oggi, trovandoci invece in un ben differente contesto culturale, abbiamo ormai piena consapevolezza critica, epistemologica ed ermeneutica, che le conoscenze scientifiche non possono mai essere presentate come autentiche conoscenze assolute ed immodificabili, perché, semmai, costituiscono invece delle verità relative, ossia costituiscono delle verità oggettive che tali risultano essere solo entro un ben preciso e assai determinato contesto conoscitivo

4

. Il che non le rende meno vere, ma non ci consente più di concepirle come dotate di un'assolutezza meta-storica e meta-teorica. Proprio i limiti specifici dell'immagine galileiana della conoscenza scientifica ci devono pertanto indurre a riflettere nuovamente sulla possibilità di costruire una diversa immagine della conoscenza scientifica.

6. Il ruolo della tecnologia nell’opera galileiana

Tuttavia va anche segnalato e ricordato come Galileo, proprio nell’affrontare questo problema concernente l’effettiva portata conoscitiva dell’impresa scientifica, non solo non abbia mai espresso alcun dubbio al proposito, ma abbia avvertito anche la necessità di appoggiarsi, espressamente e programmaticamente, al piano della stessa dimensione tecnologica. Che Galileo non abbia mai nutrito soverchi dubbi a proposito dell’effettiva portata consocitiva della scienza è testimoniato da molte fonti tra le quail si può ricordare, in primis, lo stesso celeberrimo processo cui fu sottoposto dall’inquisizione cattolica. Se infatti Galileo avesse semplicemente accettato di ridurre la teoria copernicana a mera ipotesi, come peraltro, assai insistentemente, richiedevano le gerarchie cattoliche (appoggiandosi anche al famoso “argomento di Urbano VIII”), sicuramente lo scienziato pisano non sarebbe stato sottoposto al processo nel corso del quale il Nostro decise infine di abiurare pubblicamente, onde potersi salvare (e non seguire le orme di Giordano Bruno).

Dap arte di Galileo questa abiura scaturisce esattamente dalla realistica constatazione di non poter più difendere, in nessun modo, la verità della teoria copernicana di fronte ad un terribile potere politico e religioso inquisitoriale che, con la forza di cui poteva effettivamente disporre, non voleva accettare come verità la teoria copernicana (che condannava come pernicioso errore). Ma proprio questa clamorosa abiura conferma, paradossalemnte, l’intima convinzione galileiana a

4 A questo proposito sono da tener presenti le puntuali considerazioni di Ludovico Geymonat,

Scienza e realismo, Feltrinelli, Milano 1977, in relazione alla cui opera e ad una sua puntuale

disamina critica sia lecito rinviare perlomeno alla mia più recente monografia Geymonat

epistemologo, Mimesis, Milano 2009.

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proposito della verità della teoria scientifica copernicana. Galileo non può infatti più difendere pubblicamente questa verità del copernicanesimo ed è quindi costretto, dal potere politico e religioso del tempo, ad abiurare senz’altro la teoria scientifica che riteneva vera e corretta onde salvare la propria vita. In tal modo Galileo si salva, da penitente platealmente umiliato, abiurando quanto aveva insegnato, ma in cuor suo continua, tuttavia, a sempre difendere la verità della prospettiva copernicana

5

, come ben emerge anche dal suo capolavorom scientifico, i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze che lo scienziato pisano pubblica quando è ormai condannato e alla totale mercé del potere politico che gli ha tolto ogni libertà di movimento.

Tuttavia, proprio in questa difficile condizione di prigionia, Galileo dimostra di non aver affatto rinunciato a difendere la portata conoscitiva della teoria copernicana, come emerge ampiamente da tutto l’impianto scientifco di questi Discorsi in cui la sviluppo analitico delle due nuove scienze, la statica dei materiali e la dinamica del moto, si svolgono sempre su un articolato orizzonte di pensiero che rafforza e difende la portata veritativa della teoria copernicana. Da questo punto di vista non è allora senza significato la decisione con la quale Galileo apre, programmaticamente, il suo capolavoro scientifico con uno dei più pregnanti elogi della tecnologia. Il passo galileiano è così bello, emblematico e concettualmente signficativo che vale senz’altro la pena rileggerlo ancora una volta, totidem verbis:

«Salv. Largo campo di filosofare a gl’intelletti specolativi parmi che porga la frequente pratica del famoso arsenale di voi, Signori Veneziani, ed in particolare in quella parte che mecanica si domanda;

atteso che quivi ogni sorte di strumento e di machina vien continuamente posta in opera da numero grande d’artefici, tra i quail, e per l’osservazioni fatte da i loro antecessori, e per quelle che di propria avvertenza vanno continuamente per se stessi facendo, è forza che ve ne siano de i peritissimi e di finissimo discorso» (VIII, 49)

6

.

Ogni volta che si rileggono queste considerazioni programatiche è veramente difficile non avvertire la pronda consapevolezza critica con la quale Galileo parla della tecnologia e del suo pieno e profondo valore culturale, nonché l’audacia della mossa, indubbiamente rivoluzionaria, con la quale lo scienziato pisano antepone senz’altro il colloquio con gli operai specializzati (i cosiddetti «proti» rinascimentali) al dialogo e al confronto con I propri colleghi universitari. Il passo è dunque mirabile

5 Come è del resto attestato anche dalla tradizione popolare secondo la quale Galileo, dopo aver letto pubblicamente il testo dell’abiura, avrebbe comunque sussurrato la sua convinzione più profonda:

“eppur si muove!”. Naturalmente è altamente improbabile che Galileo abbia mai pronunciato, sia pur sottovoce, alcunché nel momento solenne e terribile della pubblica abiura. Tuttavia, proprio la presenza di questa tradizione popolare conferma come i più sapessero che Galileo, in cuor suo, non aveva affatto cambiato modo di pensare. Ma per la chiesa cattolica questo intimo e profondo convincimento di Galileo non solo non era del tutto sondabile (per la fortuna dello stesso scienziato pisano!), ma era anche, in fondo, del tutto irrilevante, a fronte dell’abiura formale e pubblica. Per la chiesa cattolica quello che veramente contava era infatti l’aspetto pubblico e formale, che con il processo a Galileo si era dispiegato in tutta la sua intrinseca virulenza politica (e anche nella sua intrinseca dimensione farisaica, in profonda sintonia, del resto, con la prassi plurisecolare dello stesso cattolicesimo che ha sempre vissuto su questo terreno meramente formale, calpestando sistematicamente i contenuti del suo stesso credo religioso).

6 Ma per una disamina più articolato di questo passo e di tutti i Discorsi galileiani sono ancora da

tener presenti i fondamentali contributi che si leggono nell’edizione ampiamente commentata di

quest’opera di Galileo approntata da Adriano Carugo e Ludovico Geymonat (Paolo Boringhieri, Torino

1958). Per una discussione della difesa rivoluzionaria della tecnologia operata da Galileo sia anche

lecito rinviare al mio studio Galileo «filosofo geometra», Rusconi, Milano 1994.

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per più aspetti e ragioni. In primo luogo Galileo difende apertamente il valore culturale del lavoro pratico-tecnologico e lo fa individuando proprio nel settore della

“meccanica” il cuore strategico della sua rilevanza culturale, scientifica e filosofica.

Per capire la distanza che separa Galileo da tutta la tradizione culturale egemone nella cultura occidentale basterebbe tener presente tutte molteplici valenze axiologiche, costantemente negative, che nel coros dei secoli sono state variamente associate alla prassi della “meccanica”. Ebbene, ergendosi complessivamente proprio contro questa tradizione, che riduce, sistematicamente, i operai meccanici a

“vil meccanici”, Galileo ne difende, invece, il pieno valore culturale, filosofico e teoretico stratecico, perché sostiene, appunto, che per gli intelletti «specolativi»

proprio la sezione della meccanica offre «largo campo di filosofare». Per Galileo non è mai lo studio sui libri della tradizione metafisica, non è il dialogo e il confronto con i dotti delle varie università, che può contribuire all’avanzamento del sapere. Al contrario, per Galileo solo il dialogo e il confronto con i «vil meccanici» è ciò che può offrire agli intelletti, perlomeno a quelli dotati di autentico acume filosofico, la possibilità e l’opportunità di approfondire e sviluppare la riflessione filosofica più originale ed articolata.

Inoltre, in secondo luogo, da questo passo si evince anche come Galileo fosse ben informato sulla natura composita del sapere delle maestranze che lavoravano

«in quella parte che mecanica di domanda»: il loro sapere presuppone, infatti, un incremento critico differenziale continuo. Incremento critico differenziale continuo che scaturisce sia dalle osservazioni svolte dalle varie e precedenti generazioni di meccanici, sia anche dalle osservazioni che i singoli «proti» vengono svolgendo per loro proprio conto. Nel richiamare tale rilievo Galileo si mostra, dunque, pienamente consapevole del ruolo e della funzione che il dialogo e il confronto critico continuo tra i vari meccanici svolge entro la loro stessa prassi lavorativa. Il saper lavorare di chi opera “meccanicamente”, ovvero «in quella parte che mecanica si domanda», non è dunque affatto “meccanica”, secondo la tradizionale e diffusissima accezione axiologica (e semantica!) di questo termine. Anzi, l’avverbio “meccanicamente” non fa che stravolgere l’autentica portata dell’effettivo lavoro meccanico che non è affatto un lavorare ripetitivo, automatico e passivo, ma richiede, invece, tutta la creatività, la fantasia e l’intelligenza delle varie generazioni di “meccanici” le quali hanno sempre incrementato, criticamente e variamente, le loro stesse molteplici prassi lavorative, introducendo, generazione dopo generazione, varie modificazioni e varie innovazioni per mezzo delle quail la loro stessa prassi tecnologica si è continuamente modificata. Solo l’occhio inesperto, ignorante e invero supponente di chi non ha mai lavorato «in quella parte che mecanica si domanda», può allora aver fatto nascere questa misinterpretazione del lavoro tecnologico. Galileo, invece, che ha sempre praticato direttamente anche il lavoro “meccanico” (costruendo, per esempio nel suo laboratorio privato, tutti gli strumenti di cui aveva bisogno nel corso delle sue molteplici indagini e ricerche scientifiche, a partire dal celebre “cannocchiale galileiano”, ovvero il suo «cannone dalla lunga vista»), conosce benissimo tutta la creatività sempre insita nell’operare tecnologico. Solo chi non ha esperienza di tale lavoro meccanico e solo chi è totalmente digiuno di un’esperienza diretta di tale prassi meccanica può allora illudersi di poterla ridurre ad un operare passivo, ripetitivo e, appunto, meramente “meccanico”, secondo l’accezione axiologica più diffusa e fuorviante. Galileo, che si è sempre “sporcato le mani” nel saper lavorare

«in quella parte che mecanica si domanda» e che ha anche sempre variamente

discusso con gli operai che lavoravano in questo specifico settore dei cantieri navali

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veneziani, non può cadere in questo abbaglio critico e, quindi, difende apertamente lo straordinario valore culturale e filosofico della stessa prassi dei meccanici.

Il che lo ricollega, in terzo luogo, ad una ben differente immagine dello stesso sapere. Infatti, muovendosi sul piano della tecnologia, il sapere umano si configura profondamente diverso da quello che è stato spesso immaginato (e sognato) dalle varie metafisiche classiche. Se queste ultime hanno sempre inseguito il sogno di un sapere assoluto e definitivo, in grado di poter spiegare l’univereso mondo, al contrario entro la prassi concreta del lavoro meccanico l’unica conoscenza possible è quella sempre provvisoria, sempre aperta alle più diverse integrazioni critiche, in cui l’opera delle varie generazioni, come anche l’opera dei vari operai meccanici, concorre, costantemente, ad incrementare, continuamente, il patrimonio collettivo delle conoscenze. In questa prospettiva, perlatro già difesa apertamente anche da un autore come Francis Bacon (1561 – 1626)

7

, il modello del sapere scientifico si presenta come un modello incrementale, in cui la conoscenza non può che crescere per integrazione critica continua. In questa precisa prospettiva si inserisce anche la mossa rivoluzionaria con la quale Galileo difende apertamente il pieno valore filosofico e culturale della tecnologia: quest’ultima è infatti portatrice di una nuova immagine del sapere e della stessa cultura, in cui la conoscenza non appare più come qualcosa di mitico e di assoluto, bensì come il frutto del lavoro collettivo di molteplici generazioni e di gruppi, assai compositi, di operai e tecnici che, attraverso la loro continua collaborazione, sono effettivamente in grado di produrre una conoscenza che si dilata criticamente, sempre in modo incrementale.

Ma questo modello del sapere scientifico-tecnlogico rinvia anche, in quinto luogo, ad una diversa percezione critica della genesi dello stesso pensiero umano. Per Galileo il pensiero scaturisce sempre dal lavoro umano. Meglio ancora: scaturisce dalle molteplici difficoltà che ciascun lavoratore incontra nello svolgimento concreto del suo lavoro e dalla capacità di saper vincere queste difficoltà pensando con la propria testa, ovvero utilizzando tutte la propria intelligenza e tutta la propria

7 In particolare è da tener presente perlomeno la Redargutio philosophiarium (del 1608, circa) nella quale Bacon tra l’altro scrive: «non è affatto strano che si osservi una simile differenza tra le arti meccaniche e la filooofia poiché nella prima i singoli ingegni si mescolano, nella seconda si corrompono e si distruggono l’un l’altro. L’errore consiste nel credere che vi sia un limite al progresso delle scienze e che esso possa essere raggiunto entro il periodo della vita di un singolo individuo che, approffittando delle circostanze della sua età, si pone alla testa dei suoi tempi, esamina e giudica tutti gli altri scrittori e conduce la scienza ala sua assoluta e definitive perfezione. Dopo di lui gli scrittori più tardi mirerebbero a conquistarsi solo un gloria di riflesso limitandosi a esporre e commentare le opere del maestro adattandole al gusto dei tempi. Chi crede che le cose procedano in questo modo, attribuisce al genere umano più saggezza, più ordine e più fortuna di quanto non riveli l’esperienza.

Le cose umane, in verità, lasciano posto alla fortuna; ma la vanità umana riesce a corrompere anche I

doni della fortuna. Ecco infatti come vanno le cose: dopo che una determinate scienza, mediante il

lavoro e l’osservazione di molti che apprendono reciprocamente l’uno dall’altro, è stata seriamente

affrontata e trattata nelle sue singole parti, sorge qualcuno dalla spirito presuntuoso, dal linguaggio

potente e dal metodo popolare che a suo arbitrio costituisce un unico sistema da tutti i contributi

individuali e lo trasmette alla posterità. In questo compendio tutto viene corrotto e depravato e

vengono inevitabilmente omessi come opinioni esagerate e stravaganti tutti quei passaggi che

possono presentare le speculazioni più alte e più degne. I posteri in seguito, contenti della facilità e

della brevità dell’argomento, si congratulano con se stesse della loro buona fortuna, adottano quel

servile atteggiamento di cui abbiamo parlato e abbandonano la ricerca. È una verità inoppugnabile,

figli miei, che la conoscenza che è fondata sulla natura ha sorgenti e fonti perennemente nuove come

le acque vive, mentre la conoscneza che è fondata sull’opinione è suscettibile di variazioni, ma non di

progresso» (F. Bacon, Scritti filosofici, a cura di Paolo Rossi, Utet, Torino 1975, p. 430, ma cfr. anche

il volume di F. Bacon, Scritti scientifici, a cura di Benedino Gemelli, introduzione generale di Silvia

Manzo, Utet, Torino 2010, passim).

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determinazione per trovare, infine, una strada onde poter superare (appunto, diffalcare!) gli ostacoli che impedivano la realizzazione del proprio scopo. In tal modo nelle stesse parole di Galileo emerge una ben diversa e affatto rivoluzionaria consapevolezza (moderna) del legame intrinseco che sempre collega la capacità di saper lavorare con il pensiero umano. Per Galileo quest’ultimo scaturisce infatti dal lavoro dell’uomo e non dalla frequentazione dei testi dell’antichità i quali, semmai, documentano quanto si è progressivamente sedimentato alla luce del precedente lavoro tecnoloigico svolto dall’umanità nel corso della sua storia. Ma per Galileo ogni generazione deve sempre essere in grado di cimentarsi liberamente e creativamente con i propri, autonomi e specifici problemi, sapendo appunto diffalcare tutte le eventuali difficoltà che il lavoro gli pone incessantemente di fronte.

Last but not least Galileo è infine convinto che è proprio sul piano della mediazione tecnica e tecnologica che possiamo saggiare la portata veritiativa delle nostre stesse teorie scientifiche. A suo avviso proprio il successo pratico – meccanico! – connesso con una determinate tecnologia costituisce infatti la migliore prova che queste prassi tecnologiche sono state effettivamente state capaci di cogliere e catturare un aspetto effettivo della realtà. In questa prospettiva la verità di una teoria è allora documentata proprio dal suo successo pratico, dalla sua capacità di cogliere un “filo di verità” in base al quale l’uomo riesce infine, baconianamente, a comandare alla natura… ubbidendole: nisi parendo natura vincitur! In altri termini, proprio l’effettivo e positivo funzionamento di una determinate prassi meccanica conferma la capacità della nostra teoria di saper cogliere un aspetto effettivo – appunto, reale – del mondo. In questa prospettiva non si ha affatto l’affermazione di un pragmatismo che riduce sistematicamente la verità delle teorie al loro successo pratico, bensì emerge, al contrario, la nuova consapevolezza epistemologica e critica, che una teoria è vera proprio perché riesce a porre in essere un’apparato meccanico che effettivamente funziona e che quindi può entrare, in modo affidabile, entro il patrimonio delle prassi sociali collettive di una determianta società.

Indubbiamente, con tale rivoluzionario ribaltamento critico della propria prospettiva, Galileo inaugura, effettivamente, una nuova percezione critica non solo della dimensione “meccanica” della cultura tecnologica, ma apre anche un nuovo orizzonte di pensiero, entro il quale proprio il paradigma tecnico-scientifico si pone come la leva più affidabile della stessa modernità.

5. L'immagine einsteiniana della scienza

Alla delineazione criticamente più approfondita di questo importante problema, concernente direttamente l'immagine epistemologica più corretta e rigorosa della conoscenza scientifica, propria e specifica dell'impresa scientifica, ha del resto fornito un prezioso e interessante contributo, peraltro in profonda sintonia con l’opera e la stessa riflessione galileiana, un altro grande fisico e scienziato del Novecento, Albert Einstein (1879 - 1955). Infatti Einstein, scrivendo, il 7 maggio 1952, a Maurice Solovine (1875 -1958)

8

, per illustrare proprio il suo modo complessivo ed unitario di intendere la «questione epistemologica» connessa con la precisa natura concettuale della scienza, ha tracciato il seguente, assai illuminante, disegno:

8 A. Einstein, Lettres a Maurice Solovine, reproduites en facsimile et traduit en français, Gauthhier-

Villars, Editeur-Imprimeur-Libraire, Paris 1956, pp. 118-121.

(17)

Figura n. 1

La linea E indica il piano delle «esperienze immediate», quello che potremmo indicare, à la Husserl, come il piano del Lebenwelt. Non è naturalmente un kosmos, ovvero un mondo ordinato, bensì un autentico caos, ovvero un mondo prodotto dalle nostre sensazioni immediate, vitali, spesso contraddittorie e confuse, a partire dalle quali si può tuttavia decidere di costruire poi un mondo ordinato e rigoroso, appunto quello della conoscenza. Questo primo livello rappresentato dalle esperienze immediate può anche essere configurato come il mondo della vita pragmatica entro il quale tutti noi siamo sempre costantemente immersi. Da questo mondo della prassi trae origine ogni nostra possibilità operativa, come anche ogni nostra possibile conoscenza oggettiva. Nel disegno di Einstein gli A rappresentano poi «gli assiomi, dai quali traiamo conclusioni». Secondo Einstein da un punto di vista psicologico gli A poggiano sulle E, tuttavia non esiste alcun «percorso logico» che dalle E conduca necessariamente agli A: esiste «solamente una connessione intuitiva (psicologica) e sempre “sino a nuovo ordine”». Non a caso l'arco di parabola che porta agli A prende le mosse non dal piano E, bensì da un punto leggermente staccato che fluttua leggermente sopra il piano E. Il suo lieve ma chiaro distacco dal piano E indica allora la presenza di una realtà che, pur essendo prossima ad E, tuttavia non coincide affatto con le nostre esperienze sensibili immediate. Semmai, come si è accennato, “fluttua” sopra E, creando così la possibilità di pervenire a degli assiomi teorici come A. Dagli assiomi teorici A, continua Einstein, «si ricavano, con procedimento deduttivo, enunciati particolari S che possono pretendere di essere veri». Infine, «gli S sono messi in relazione con le E (verifica per mezzo dell'esperienza)». Secondo Einstein anche questa connessione tra gli S e il piano E

«appartiene essa stessa alla sfera extralogica (intuitiva), non essendo di natura logica la relazione tra i concetti che intervengono negli enunciati e le esperienze immediate». Per questa ragione il nesso tra gli S e il piano E è indicato da linee tratteggiate: il tratteggio indica, appunto, la problematicità intrinseca complessiva di questo auspicato “ritorno” al piano dell'esperienza. Ma Einstein si premura anche di precisare che

«questa relazione tra gli S e le E è tuttavia (pragmaticamente) molto meno incerta di quella che sussiste tra gli A e le E (ad esempio, tra il concetto di cane e le corrispondenti esperienze immediate).

Se una tale corrispondenza, pur restando inaccessibile alla logica, non potesse essere stabilita con un elevato grado di certezza, tutto l'armamentario logico non avrebbe alcun valore ai fini della

“comprensione della realtà” (esempio, la teologia)».

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