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Indice Introduzione …………………………………………………… I Capitolo I Quadro generale e presupposti dell’affidamento in prova

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Indice

Introduzione ……… I

Capitolo I

Quadro generale e presupposti dell’affidamento in prova

1. Premessa ...…... p 1 2. Intenti del legislatore ………..………..……… p 1

3. Ruolo del Servizio Sociale ………...……….……… p 2

4. Natura giuridica e tipologia ………...…….... p 3 5. Affidamento in prova comune ………...…….. p 6 6. Condizioni di applicabilità ... p 7 6.1 Entità della pena e tipo di reato ……….… p 8 7. Prognosi di rieducabilità” .………..….. p 18 8. Il condannato detenuto ………..………..……. p 23 9. Assenza di cause ostative .. ………..………….………. p 28 10. Contenuto e regime dell’affidamento ………...….. p 35 11. Delitti dei “colletti bianchi” …....……. ………...………... p 40 12. Esito del periodo di prova ……….………….. p 42 13. Valutazione negativa della prova e declaratoria di estinzione della pena ………....…. p 45

Capitolo II

Profili procedimentali

1. Premessa ……….…..………..………...………... p 47 2. Procedimento ex art. 47 O.P. ………..………...…..…….… p 47 3. Magistrato di sorveglianza …..……….………..……... p 53 4. Tribunale di sorveglianza ….……….……..…………... p 58 5. Procedimento ex art. 656 c.p.p. ….……….………..…….... p 62 6. Poteri del Pubblico ministero …..…... p 64

Capitolo III

Revoca, annullamento ed esito finale della prova

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2. Annullamento ………...…...… p 70 3. Esito della prova ... p 77

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Introduzione

L’istituto oggetto del presente lavoro – l’affidamento in prova al servizio sociale – è stato introdotto nell’ordinamento penitenziario dalla l. n. 354/’75 e continua a dar luogo a numerosi dibattiti non solo in sede giurisprudenziale, ma anche a livello politico “specie in un epoca, come quella attuale, caratterizzata dal fenomeno, chiamato in gergo giornalistico, del sovraffollamento delle carceri”. Infatti, spesso le strutture carcerarie avevano una capienza di detenuti sopra le loro capacità; spesso i detenuti si lamentavano delle condizioni, anche disagiate, in cui dovevano essere reclusi; l’amministrazione penitenziaria sovente faceva ricorso (almeno nei primi anni della riforma) a provvedimenti di tipo sanzionatorio privi, però, di una loro legittimità; gli uffici di sorveglianza (all’origine “sezioni”) erano sovraccariche del lavoro a loro demandato in ordine alla legalità o meno di certi provvedimenti dell’a. p.

Tutto ciò, unito ad un orientamento (anche internazionale) che vedeva nella pena detentiva un motivo in più di desocializzazione del detenuto, portarono il legislatore ad una riforma corposa ed organica (almeno nel 1975) delle alternative alla detenzione come strumenti in grado di combattere la criminalità “in modo differenziato ed individualizzato”. Infatti, fra i punti cardini vi sono espressamente richiamati l’individualizzazione del trattamento penitenziario, la conformità al principio di umanità della pena, lo scopo risocializzativo del trattamento.

Lo scritto è il frutto di un’approfondita ricerca che mette in evidenza quali sono stati la genesi dell’affidamento in prova al servizio sociale, quali le sue modifiche successive, gli intenti del legislatore e gli interventi delle Corti di Cassazione e Costituzionale.

Il presente lavoro della presente tesi ha avuto come scopo mettere in evidenza come gli interventi legislativi e delle Corti (di Cassazione e Costituzionale) abbia fatto perdere di vista l’intento per cui il legislatore abbia previsto tale misura alternativa. Infatti i continui allargamenti del campo applicativo della misura in questione hanno avuto come effetto quello di farle assumere un scopo prettamente premiale, concedibile a coloro che abbiano commesso un qualunque reato, per qualsiasi pena inflitta (purché rientrante nel limite di 4 anni) e, dato più rilevante e preoccupante, a prescindere sia dall’osservazione in istituto (viene concessa anche a chi è in stato di libertà), sia a prescindere da qualsivoglia disadattamento sociale dell’interessato (ne beneficiano anche i “colletti bianchi” o soggetti che ricoprono cariche in società con interesse pubblico).

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Capitolo I

Quadro generale e Presupposti

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1.1 Premessa

Tra le misure alternative disciplinate nel capo VI della l. n. 354/1975, l’affidamento in prova assume una posizione preminente. A tale modalità di espiazione della pena, extra moenia (con modalità diverse dall’esecuzione in istituto penitenziario), è attribuito un ruolo molto importante, anche da parte dei giudici di merito.

È un tipo di sanzione che consente al condannato detenuto di espiare la pena detentiva inflitta dal giudice della cognizione in regime di libertà assistita e controllata, dunque fuori dal carcere.

L’affidamento in prova ha una storia relativamente recente rispetto alle altre misure alternative quali la semilibertà, la libertà vigilata e libertà condizionale (previste, addirittura, nel Codice Zanardelli del 1889). Infatti, l’affidamento è stato previsto dal legislatore del ’75 come modalità alternativa alla detenzione, per evitare ai condannati per reati di lieve entità l’ingresso al carcere.

Si colloca nel filone del “probation system”, cioè di quel sistema che vuole che il condannato possa esser “messo in prova per un determinato periodo di tempo” al fine di verificare se tale periodo è stato utile al suo reinserimento nella società. Più precisamente, rientra nel “probation penitenziario”, dato che l’affidamento viene concesso dopo che è intervenuta una sentenza di condanna (indipendentemente dalla sua effettiva esecuzione). I soggetti coinvolti nel lungo procedimento (dall’istanza alla messa in libertà del condannato) sono diversi e sono diversi anche le funzioni ed i ruoli a cui sono preposti. A titolo esemplificativo: condannato (detenuto o internato; in stato di libertà); P.M.; magistrato di sorveglianza; Tribunale di Sorveglianza; U.E.P.E.; direttore dell’istituto di esecuzione.

1.2 Intenti del legislatore

Il legislatore originario voleva perseguire sin dall’inizio una serie di intenti, tutti fra loro egualmente rilevanti.

Fra questi, ce n’era uno: quello di consentire che, per reati di lieve entità, il condannato non venisse posto nel luogo di detenzione, ma potesse espiare la sua pena in modo alternativo. Nasce così l’idea che, in relazione alla gravità del delitto commesso, si possa meglio attuare il principio (poi diventato cardine nella riforma) della rieducazione della

pena.

Alcune misure alternative alla detenzione erano già state previste anche nei sistemi precedenti all’entrata in vigore della Costituzione. Si parla, a tal proposito, delle misure della semilibertà, della libertà vigilata e della libertà condizionale.

Le altre misure alternative (fra cui spicca l’affidamento) vennero introdotte con la riforma del ’75. Quindi: semidetenzione, affidamento in prova (sia “ordinario” che speciale e terapeutico) , libertà controllata.

Non ci occuperemo di tutte le misure alternative, ma dell’affidamento in prova, anche se per le altre si farà qualche cenno e comparazione per una miglior comprensione dell’istituto.

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Per tutte le misure, il legislatore ha previsto un procedimento (diverso per ciascuna misura), dei requisiti per l’ammissione ad esso (alcune misure ne hanno qualcuno in comune). In base a questi criteri (requisiti e procedimento), il soggetto (internato, recluso o detenuto) potrà avanzare una richiesta per ottenere una misura. Non dimentichiamo che esse sono “cumulabili” fra loro a certe e rigorose condizioni. Nel proseguo vedremo come e quando, cioè analizzando i requisiti e le preclusioni per l’affidamento in prova.

A seguito delle riforme, sono cambiati la valutazione dei requisiti di legge ed il potere del magistrato con riferimento all’affidamento.

Con le modifiche intervenute negli anni successivi, gli intenti del legislatore si son rivelati diversi da quelli originari, tant’è che vi è stato un allargamento del campo applicativo di ammissione alle misure. Infatti, oltre agli intenti di concessione per reati di lieve entità si sono aggiunti quelli di “lotta alla criminalità” (anche autori di reati di particolare gravità sia sul piano politico, che su quello socio-culturale ne hanno beneficiato), concessione per reati superiori al limite originario. E, non ultimo, le esigenze connesse al numero dei detenuti in carcere, comunemente chiamato “emergenza sovraffollamento carceri”. Tutti, comunque, sono riconducibili, soprattutto, ad esigenze di politica criminale.

Nel proseguo analizzeremo nel dettaglio i vari intenti e le loro conseguenze pratiche e giuridiche.

1.3 Ruolo e funzione del Servizio Sociale

Il Servizio Sociale, insieme anche al “Servizio di Osservazione e Trattamento” (anche con la presenza di esperti ex art. 80 O.P.) svolge un ruolo importante per quanto riguarda il controllo del condannato posto in libertà e per quanto riguarda le “risultanze” da inviare al Tribunale per la valutazione di concessione della misura.

Intanto, c’è da dire che un ruolo centrale viene svolto da parte del Servizio Sociale. Le competenze ed i ruoli sono:

-compiti di controllo ed assistenza dell’affidato (art. 47 co 9 O.P.);

- obbligo di riferire periodicamente al magistrato sul comportamento del soggetto (art. 97 co 9 Reg. Es.), e ciò ai fini di una eventuale modifica delle prescrizioni che di una possibile revoca della misura;

- il direttore dell’ Ufficio locale per l’esecuzione penale esterna designa un assistente incaricato di seguire l’esecuzione della prova, sia personalmente sia con l’ausilio di volontari.

L’ambito di intervento dell’assistente sociale viene disciplinato molto scarsamente dalla legge sull’ordinamento penitenziario, ma compiutamente dal regolamento. Infatti, l’art. 97 co 8 Reg. Es. prevede un rinvio all’art. 118. Preliminarmente preme notare come l’originario co 8 dell’art. 47 O.P. facesse riferimento al compito principale del servizio: quello di aiutare l’affidato nelle relazioni esterne, al fine di rendere meno difficoltoso il suo inserimento nella società. Tra l’altro, il servizio (tramite il suo personale, direttamente dipendente dall’amministrazione penitenziaria e sotto la supervisione del Direttore dell’Ufficio locale) poteva intrattenere rapporti con la famiglia, gli amici e i colleghi (oltre

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che con il datore di lavoro) dell’affidato. Questo compito ora viene disciplinato (anche se non in modo chiaro e semplice) nell’art. 118 d. P. R. n. 230/2000.

Altro compito importante è l’attività di controllo sul comportamento dell’affidato. Attenzione a leggere tale previsione legislativa come sinonimo di “controllo di polizia”, perché si incorre nel gravissimo errore (impostazione costituzionalmente illegittima e fuorviante) di sottoporre l’affidato ad un controllo del tutto estraneo alle peculiari esigenze proprie dell’affidamento: quelle della rieducazione e del reinserimento nella società. Dunque, la disposizione legislativa deve esser letta nel senso che, nella collaborazione diretta ed effettiva tra servizio sociale e affidato si deve instaurare un rapporto che si indirizzi ai reali bisogni dell’affidato. In altre parole, il Servizio sociale deve porre in essere tutta un’ “attività di sostegno e di aiuto” concreti che facciano sì che l’affidato non sia sottoposto ad un controllo di polizia. Ecco perché l’art. 47 O.P. al co 10 O.P. prescrive che il servizio <<riferisce periodicamente al magistrato di sorveglianza sul comportamento del soggetto>>, proprio ad indicare questa collaborazione fra i tre: affidato, che dovrà rispettare, se sottoscrive il verbale, le prescrizioni; servizio sociale, che dovrà adoperarsi affinché il reinserimento nella società dell’affidato sia il meno gravoso possibile e riferisce al magistrato degli “sviluppi” della prova; magistrato, che dovrà valutare le informazioni fornitegli dal servizio e “dialogare” con l’affidato al fine di provvedere in ordine alle prescrizioni (se renderle più o meno gravose) o alla misura (se ammetterne la sospensione o addirittura la revoca).

1.4 Natura giuridica e tipologia

L’istituto dell’affidamento in prova è stato oggetto di un acceso dibattito parlamentare iniziato nel 1971 e terminato nel ’74. Alla base di un grave ritardo nell’approvazione di un punto importante nell’ambito del “trattamento penitenziario”, ci sono motivi di varia natura, fra cui possiamo collocare anche quelli di opportunità politica.

L’iter legislativo che portò all’approvazione dell’istituto è stato travagliato e lungo.

Il legislatore italiano, nell’introdurre l’affidamento in prova, poteva utilizzare diversi modelli di probation.

Poteva propendere per la “rinuncia condizionata” all’esercizio dell’azione penale, cioè sospensione del procedimento per iniziativa dell’organo incaricato di promuovere l’azione penale. Ma questa impostazione contrastava con l’obbligatorietà dell’azione penale che è posta a carico del Pubblico Ministero da parte della Costituzione (art. 112).

Un’altra via poteva essere quella di scegliere il modello della sospensione del procedimento da parte del giudice, mediante un provvedimento di non luogo provvisorio alla pronuncia di condanna. Tale impostazione si adatta bene a quei sistemi che conoscono la divisione in due fasi del processo, nella quale la prima fase è improntata all’accertamento della colpevolezza e la seconda, invece, alla determinazione del quantum di pena da espiare. Prima della riforma del c.p.p., l’ordinamento italiano non conosceva la divisione in due fasi del processo, quindi l’impostazione mal si conciliava con i dettati legislativi.

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La terza via poteva essere quella del modello francese, cioè della sospensione condizionale della pena, che si concreta in un provvedimento del giudice che, conclusa la fase di cognizione con una sentenza di condanna, ha l’effetto di sospendere il processo di esecuzione. (1)

Dai lavori preparatori e dalle discussioni in seno al parlamento di allora si evince una “doppia” volontà, di non inquadrare l’istituto nel “probation giudiziale” e, dall’altro, di ampliare l’ambito di applicabilità dell’istituto della sospensione condizionale della pena. Tale ultimo orientamento sarà quello più seguito nelle modifiche successive.

Dato tutto ciò, si può evincere che l’istituto dell’affidamento (nella sua struttura originaria) è un “sui generis”, visto che si discosta dai diversi modelli configurati negli ordinamenti stranieri e si colloca in sede penitenziaria, e presuppone sia un condanna definitiva (o passata in giudicato sostanziale) sia l’ingresso del condannato in carcere almeno per un certo periodo.

L’affidamento, una volta concesso e conclusosi con esito positivo (art. 47 co 10 originario; attuale co 12 ), fa << estinguere la pena ed ogni altro effetto penale>>. Cosa intendeva il legislatore con tale espressione? Ecco che entra in gioco la natura giuridica della misura alternativa.

Così si prospettano due orientamenti diversi.

Da un lato si colloca la posizione di chi sostiene la natura di misura alternativa integrale

alla pena, vale a dire di misura sospensiva dell’esecuzione iniziata.

Secondo qualcuno, l’affidamento in prova può essere abbinato ad una “sospensione condizionale della pronuncia di condanna”. Infatti, così viene anticipato quanto più è possibile l’inizio dell’affidamento in prova: col duplice risultato di ottenere un effetto di prevenzione generale più accentuato, per l’accresciuta prontezza della sanzione, e al tempo stesso un effetto di prevenzione speciale con prospettive migliori posto che un’opera di rieducazione può sortire risultati tanto più apprezzabili quanto essa è precoce e collegata, anche temporalmente, al fatto commesso. (2) Tale tesi porta con sé un pericolo da non dover sottovalutare: emanata la sentenza di condanna che rimanda al principio della

certezza della pena, la si dovrebbe sospendere (sulla base di determinati criteri) al fine di

valutare se il soggetto possa essere ammesso o meno ad un trattamento alternativo. Col pericolo che il periodo corrispondente alla sentenza possa passare in modo rilevante (per es., di 3 anni il soggetto passa in libertà, perché tale è la sua condizione fino al momento della decisione, 2 anni; col risultato che non vi è alcun intento rieducativo da perseguire) senza che si dia esecuzione ad una sentenza legittimamente emessa.

La giurisprudenza di merito ha assunto orientamenti contrastanti trattando di altri argomenti connessi: quello della revoca e quello del computo per la pena residua da espiare.

(1) F. Bricola, “Affidamento in prova al servizio sociale” in La questione criminale, Il mulino Bologna

1976, dopo un’accurata disgressione storico-legislativa, parla anche delle difficoltà riscontrate a proposito delle riforma del ’75 in coordinamento con il codice penale. Egli evidenzia come si proceda all’applicazione delle norme sostanziali, ma contestualmente non si sia proceduto, fino al 1975, ad un riforma in fase esecutiva della pena inflitta. Con grave aggravio di quelle situazione nella quali si potevano evitare le conseguenze negative dell’ingresso nell’istituto carcerario.

(2) Pagliaro, in Riv. it. Diritto e proc. pen. 1979, p. 1198 ricollega all’affidamento due diversi profili:

trattamento risocializzante e sospensione condizionale della pena detentiva. Argomenta dicendo che si è accentuato il secondo profilo a discapito del primo, che era l’obiettivo principale della riforma.

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Secondo un primo orientamento, considerando la misura totalmente alternativa alla detenzione, la pena da espiare potrà essere scontata in uno dei due modi alternativi: o in detenzione oppure in affidamento in prova. La pena si potrà espiare in affidamento solo se sussistono tutte le condizioni stabilite dall’art. 47 e, contestualmente, non sussistono cause

ostative. Con la conseguenza che la misura alternativa potrà essere revocata se non

sussiste più un motivo per la sua prosecuzione ( a titolo esemplificativo: comportamento incompatibile; violazione delle prescrizioni; esito negativo; violazione delle prescrizioni che configuri la commissione di un reato) ed il condannato dovrà espiare la pena, sin dal suo inizio (massimo 2 anni e 6 mesi, secondo la dizione originaria), in detenzione dato il carattere dell’alternatività della misura rispetto alla detenzione (3

). Le argomentazioni e motivazioni di una tale scelta interpretativa le affronteremo nel capitolo della revoca. Dall’altro lato c’è chi ritiene che l’affidamento sia vera e propria pena, alternativa alla detenzione, avvicinandola alla custodia preventiva. Si sosteneva ciò argomentando sul fatto che, sì, l’affidamento si pone come misura alternativa alla detenzione ma, per il suo

contenuto afflittivo connesso alle penetranti limitazioni alla libertà conseguenti alle

prescrizioni imposte all’affidato e per la sua finalità rieducativa, essa partecipa dei caratteri e della attenere l’affidato e corrispondentemente lo si affida ad un centro di servizi sociali che dovrà svolgere le funzione di “controllore”, cioè dovrà informare il funzione della pena. Infatti, al momento di concedere l’affidamento, il magistrato dovrà decidere le prescrizioni a cui si deve (nella dizione originaria) magistrato delle eventuali violazioni (gravi) commesse, durante il periodo di affidamento, dallo stesso affidato. In relazione a questa disciplina si è detto che l’affidamento de quo ha i caratteri proprio della pena. Una volta che l’organo procedente concede l’affidamento al condannato, esso da solo <<fa venir meno ogni rapporto dello stesso con l’istituzione carceraria>>, prospettandosi quale

trattamento in libertà che si sostituisce alla detenzione.

Ci si pone una domanda: ma tale istituto è applicabile alle pene detentive di conversione di pene pecuniarie? La risposta, secondo qualcuno, è affermativa. Infatti l’art. 49 espressamente prevede che “qualora le pena detentiva derivi dalla conversione di pena pecuniaria, il soggetto dovrà essere posto in semilibertà <<sempreché il condannato non sia affidato in prova al servizio sociale>>.

Tale orientamento è anche in linea con i dettati costituzionali. Infatti, si pensi al soggetto che, per cause a lui non imputabili, si trovi in disagiate condizioni economiche. Si prospetterebbe come unica via la detenzione, anche per una pena detentiva lieve a fronte di una pena pecuniaria convertita. Ecco che qui interviene anche la parte riguardante << …estingue la pena ed ogni altro effetto penale>> e la conversione di pena pecuniaria in pena detentiva rientra fra gli effetti che la legge penale (quindi quella sostanziale) prevede. Infatti a norma dell’art. 163 c.p. comma 3 << …. la sospensione può essere ordinata quando si infligga una pena restrittiva della libertà personale non superiore a due anni e (3) C 30-5-78, Ragazzi, in C. pen. 79, p. 989 si è espressa a proposito del caso del periodo trascorso in

dell’affidamento ai fini dell’ammissione alla semilibertà, computando o meno il relativo periodo. La S.C. negava la computabilità sul rilievo che la norma ricollega gli effetti favorevoli dell’affidamento solo al caso che questo si sia concluso positivamente; C 30-5-78, Novelli, in C. pen. 79, p. 986 si è espressa in senso sfavorevole a proposito del periodo trascorso in affidamento in prova, affermando che la revoca della misura ha efficacia retroattiva ex tunc ed il relativo periodo non può esser considerato come pena espiata.

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sei mesi ovvero una pena pecuniaria che, sola o congiunta alla pena detentiva e ragguagliata a norma dell'articolo 135, sia equivalente ad una pena privativa della libertà personale per un tempo non superiore, nel complesso, a due anni e sei mesi. In caso di sentenza di condanna a pena pecuniaria congiunta a pena detentiva non superiore a due anni e sei mesi, quando la pena nel complesso, ragguagliata a norma dell'articolo 135, sia superiore a due anni e sei mesi, il giudice può ordinare che l'esecuzione della pena detentiva rimanga sospesa”. Si noti poi che l’art. 167 c.p. prevede espressamente che “se, nei limiti stabiliti, non commette alcun delitto ovvero una contravvenzione della stessa

indole, ed adempie gli obblighi impostigli, il reato è estinto>>, mentre il secondo comma

prevede <<in tal caso non ha luogo l’esecuzione delle pene>>.

Tutto ciò fa propendere per la tesi che ne estende l’applicabilità dell’istituto alle pene pecuniarie.

Come si è detto, durante il periodo “di prova”, l’affidato viene sottoposto al controllo da parte del Servizio Sociale che dovrà, fra le altre cose, riferire al magistrato “dettagliate notizie”. Sul ruolo e funzione del Servizio Sociale si prospettano due orientamenti che ne rilevano, da una parte, il ruolo di “ausiliario” dell’affidato (<< … anche attraverso l’aiuto del personale ..>>) e, dall’altro, il carattere di “organo di controllo” ( <<… riferire dettagliate informazioni al magistrato ed anche proporre la modifica delle prescrizioni precedentemente imposte>>).

Sulla questione della natura giuridica della misura alternativa è stata chiamata a pronunciarsi la Corte Cost. che (dopo un’ iniziale conferma delle posizioni prese dalle S.U. Cassazione) ha determinato un orientamento che si basa su precedenti sentenze ed ordinanze delle S. U. Cassazione.

1.5 Affidamento in prova ordinario

Nell’attuale disciplina (considerando anche la recente riforma del 2014, l. n. 21), l’affidamento in prova può essere concesso per pene che non superino i 4 anni di detenzione.

La recente riforma è stata dettata per esigenze di numero dei detenuti (quello che viene chiamato in gergo giornalistico “sovraffollamento delle carceri”), al fine di porre in libertà un certo numero di detenuti e per svuotare le carceri.

Il problema di fondo che si pone a questo proposito sta nel fatto che la riforma è stata mossa primo da esigenze di consenso elettorale (la riforma è del febbraio ed a maggio ci sarebbero state le elezioni europee) e poi per motivi anche giudiziari. Infatti la Corte di Strasburgo aveva condannato, nel mese di gennaio del 2013, l’Italia per le cattive condizioni in cui versavano i detenuti e per il loro numero superiore alla capacità contenitiva.

La domanda che ci si pone è: ma è legittimo pensare ad una riforma che si basi principalmente sul “sovraffollamento delle carceri”? Non è che sia, invece, più corretto dettare una riforma sulla base anche di altre esigenze anche di costituzionali?

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1.6 Condizioni di applicabilità

Nella disciplina originaria, il legislatore, per ammettere un soggetto ad usufruire dell’affidamento, aveva posto delle condizioni di applicabilità che erano necessarie affinché la misura potesse raggiungere gli obiettivi che si prefissava. Alcuni di essi sono ancora oggi previsti, anche se su di essi si sono sviluppate teorie diverse che ancora oggi sono pilastri nell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.

Queste condizioni erano diverse dall’attuale previsione di cui all’art. 47. Nella dizione originaria, la misura era applicabile esclusivamente dopo l’inizio della esecuzione della pena e previa osservazione trimestrale (co 2 originario) della personalità. Potremmo dire che queste due condizioni costituivano l’ossatura portante dell’affidamento; il che non vuol dire che fossero le uniche. Infatti, la previsione originaria comprendeva anche l’osservazione trimestrale in istituto della personalità del condannato. Nell’attuale dizione, a seguito di un’opera di ampliamento del campo applicativo della misura, ci furono diverse modifiche. La prima riguarda il tipo di reato. Originariamente concedibile ad autori della piccola criminalità (o autori di reati di modesta entità), adesso anche autori della media e grande criminalità possono essere destinatari della misura, anche se dopo aver scontato un tempo abbastanza lungo in carcere. Poi c’era la modifica che riguardava l’abbassamento del termine ad 1 mese (l. n. 663/86) di osservazione, che rese ancor più difficile l’osservazione in istituto per la concessione della misura. Infine, si previde la configurazione di una nuova fattispecie applicabile prima dell’inizio dell’esecuzione della pena ed a prescindere dall’osservazione in istituto (l. n. 165/’98).

Il primo punto (dopo l’inizio dell’esecuzione della pena) lo si deduce dal fatto che l’osservazione in istituto per almeno tre mesi richiedeva, appunto, l’ingresso del condannato nell’istituzione carceraria.

Dato ulteriore era che i reati per cui era ammissibile la misura erano modesti (massimo 2 anni e 6 mesi di reclusione). Venivano esclusi tutta una serie di reati: precedenti reati <<della stessa indole>>, rapina aggravata, estorsione, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di rapina o estorsione.

Il termine iniziale di pena è stato successivamente oggetto di diverse modifiche che ne hanno innalzato il limite prima (l. n. 663/86) a 3 anni, poi (l. n. 10/2014) a 4 anni.

Le condizioni iniziali, col tempo, furono modificate dal legislatore e da interventi della giurisprudenza costituzionale ed erano dovute soprattutto al movimento internazionale che non vedeva più la pena detentiva come strumento idoneo alla rieducazione del condannato, ma anzi come modalità deleteria per la sua psiche e salute. Così alla misura si fece assumere, grazie alla novella del 1986 (legge Gozzini; che riguardava sia il termine di osservazione, ridotto ad un mese, che il termine di pena, aumentato a 3 anni), un intento diverso da quello originario, effettuato soprattutto per esigenze di decarcerazione (il cd “sovraffollamento delle carceri”)(4

). Quel che più preoccupa di quasi tutti gli interventi legislativi è il fatto che vennero effettuati “senza cognizione di causa”, o, per meglio dire, senza un’attenta valutazione degli eventuali esiti delle modifiche.

(4) Palazzo, Pol. Dir. 1988, p 237 ss. elogia la riforma del ’86 a proposito della <<generalizzata

possibilità di applicazione delle misure alternative prima che il condannato faccia ingresso in carcere. Questo fenomeno di “decarcerazione delle misure alternative” si pone, infatti, in antitesi con i criteri ispiratori della legge del ’75, la quale si espone alle generalizzate critiche della dottrina tra l’altro proprio

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Fu così che la misura, per quel che a noi interessa, assunse un carattere prettamente

premiale, concedibile anche alla fine dell’espiazione di pena e per reati di una certa gravità.

Ad oggi vengono esclusi solo gli ergastolani. Perfino gli autori di reati per i quali originariamente la misura venne esclusa , a seguito delle riforme, poterono beneficiare del trattamento in questione: si tratta dei reati di cui all’art. 4-bis O.P.

Elenchiamo le limitazioni o le esclusioni dalla misura alternativa. Le esclusioni riguardavano:

1) coloro che avessero commesso un reato di cui all’art. 4-bis (anche se la dizione della norma si riferisce <<alle misure alternative di cui al capo IV, ad esclusione della liberazione anticipata>>);

2) se il reato era quello di cui agli artt. 600 (riduzione in schiavitù), 600-bis, primo comma (prostituzione minorile), 600-ter comma 1 e 2 (pornografia minorile), 601(tratta di persone), 602 (acquisto ed alienazione di schiavi), 609-bis (violenza sessuale), 609-octies (violenza sessuale di gruppo) c.p., la concessione della misura poteva avvenire solo sulla base dei risultati <<dell’osservazione condotta collegialmente per almeno un anno>>; 3) se il soggetto avesse commesso un delitto per finalità di terrorismo, eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, o di cui all’art. 416-bis (associazione di tipo mafioso);

4) condannati che abbiano commesso precedentemente reati della stessa indole;

5) rapina aggravata, estorsione, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di rapina o estorsione.

Le limitazioni, invece, riguardavano:

a) se la pena detentiva inflitta fosse stata preceduta da una misura di sicurezza detentiva; b) osservazione condotta per almeno 3 mesi in istituto;

c) che le prescrizioni di cui al co 4 siano << sufficienti alla rieducazione del condannato ed a prevenire il pericolo che egli commetta altri reati>>;

d) osservazione delle prescrizioni impartite dal magistrato e dal Tribunale;

e) adempimento puntuale degli obblighi di assistenza nei confronti della vittima e dei familiari e obbligo di risarcire il danno;

f) altri elementi (che saranno tratti in relazione alla “prognosi di rieducabilità”), tra cui si può considerare il comportamento serbato nel periodo di libertà.

1.6.1 Entità della pena e tipo di reato

L’O.P., al fine di concedere l’affidamento, pone a base dello stesso diversi presupposti che dovranno manifestarsi sia nel momento in cui l’organo procedente vorrà concedere la misura che persistere in corso di svolgimento. Infatti, se per una causa (che vedremo nello specifico più avanti) il soggetto affidato si rivela non idoneo alla prosecuzione della misura, il Tribunale Sorveglianza potrà procedere alla revoca della misura.

Nella disciplina del ’75, l’affidamento poteva essere concesso a condannati per pena non superiori a 2 anni e 6 mesi.

per il carattere strettamente penitenziario, in particolare, delle misure dell’affidamento e della semilibertà per le pene minori>>.

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I problemi esegetici che all’epoca si ponevano erano diversi e si posero all’attenzione della Corte Costituzionale nel 1989, cioè dopo la riforma del 1986 (L. Gozzini) che elevò il limite di pena a 3 anni, oltre a modificare la disposizione per quanto riguarda le preclusioni (che ne ha abrogate alcune di esse).

I vari quesiti riguardavano, primo fra tutti: a) deve trattarsi solo di pena detentiva oppure è possibile prendere in considerazione anche come pena una misura di sicurezza? b) si fa riferimento ad una sola condanna oppure è ammissibile l’affidamento anche quando si tratti di più condanne?; c) sono computabili eventuali cause estintive della pena, quali condono e indulto, oppure no? d) in caso di revoca o annullamento (da tenere nettamente

distinti l’uno dall’altro), qual è l’interpretazione da dover dare alla lettera dell’art. 47 O.P.?

Per il primo punto (lettera a) dobbiamo fare una premessa.

Quando il legislatore ha introdotto le misure di sicurezza (fra cui spicca l’arresto) lo fece a determinati scopi: quello precipuo di impedire che il soggetto imputato potesse “inquinare” le prove (pericolo di inquinamento delle prove; esigenza più che giustificata), poi per impedire che il soggetto non si desse alla fuga (pericolo di fuga; esigenza importante quando il soggetto avesse commesso un reato di estrema gravità e si fosse reso irreperibile o “latitante”).

A tal proposito, il legislatore “penitenziario” intervenne in modo chiaro e molto limitativo, prevedendo che l’affidamento non poteva esser concesso se la pena detentiva fosse stata <<preceduta da una misura di sicurezza detentiva>>. Il motivo di ciò era da ricollegare alla particolare pericolosità di cui erano portatori i soggetti che fossero stati sottoposti ad una misura di sicurezza restrittiva della libertà personale. Della questione ce ne occuperemo in modo più approfondito quando parleremo dei tipi di reato.

Però col tempo, le misure di sicurezza assunsero (grazie anche alla pratica dei giudici di imporle quasi sempre durante le indagini preliminari) un connotato diverso: quello di ”anticipazione della pena”. Con ciò dando adito a dubbi di carattere giuridico e costituzionale.

E fu così che si dovette raggiungere un orientamento che impedisse che la misura di sicurezza non fosse tenuta in considerazione (quindi, il periodo trascorso agli arresti non venisse considerato), soprattutto per il computo della pena. Il motivo risiedeva nel fatto che la misura di sicurezza costituiva, secondo l’ottica della Costituzione, una “limitazione alla libertà personale” del soggetto (imputato), contrastante con il principio di non colpevolezza. Si aggiunga anche il fatto che se non si considerava come espiazione il periodo trascorso agli arresti domiciliari, si commettevano una serie di violazioni di ulteriori principi. A cominciare da quello di difesa, cioè, limitando la libertà del soggetto prima che si instauri un processo nei suoi confronti, si viola l’art. 24 Cost. che espressamente dispone che il

diritto di difesa è inviolabile <<in ogni stato e grado del procedimento>>.

Ancora. Escludendo che valga come pena espiata il periodo trascorso in arresti domiciliari, si aggraverebbe la posizione del soggetto, data dal fatto che prima del processo ha subito una limitazione alla propria libertà e dopo il processo (a sentenza emanata) dovrà scontare la pena intera in un luogo di detenzione. Per cui si viola il brocardo latino ne bis in idem, cioè per uno stesso fatto il soggetto dovrebbe pagare due volte. Ciò è inammissibile.

Punto più importante della tesi or ora considerata è dato dal fatto che viene violato, nel modo più evidente, l’art. 27 (commi 2 e 3) Cost. Il comma 2 espressamente prevede che l’imputato non è considerato colpevole sino alla sentenza definitiva (o passata in giudicato

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sostanziale). E visto che la misura di sicurezza ha assunto il carattere di “anticipazione della pena”, come non si potrebbe non considerarlo colpevole? Questa esigenza impone che si debba tenere in considerazione il periodo trascorso in custodia cautelare. Non solo. Il comma 3 prevede che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. E come si potrebbe raggiungere tale obiettivo se lo Stato prevede che la custodia cautelare non debba esser tenuta in debito conto ai fini del calcolo della pena da espiare? Per non parlare anche delle conseguenze di carattere sociale, date dal fatto che i soggetti imputati vedrebbero la loro posizione aggravarsi senza una valida giustificazione.

Si potrà, dunque, concordare con quella parte della dottrina e della giurisprudenza che consente di detrarre (o computare) ai fini della pena da espiare anche il periodo di tempo trascorso sotto una misura di sicurezza. Dunque, quando la lettera della legge parla di “pena detentiva inflitta” si deve far riferimento a quelle misure che comportano una forte

limitazione della libertà personale, come lo sono le misure di sicurezza.

In base al testo originario, si erano prospettate diverse soluzioni per quanto riguarda la tematica del “cumulo delle pene” e ciò in base all’assunto che il legislatore aveva utilizzato due diverse nozioni: pena detentiva <<inflitta>> e pena <<da espiare>>. Sulla base di ciò, si è dato adito ad un contrasto giurisprudenziale fra Le S.U. Cassazione (propense a non computare nella pena detentiva inflitta le pene espiate o quelle condonate) e la Corte Costituzionale (che, avendo dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47 co 1 O.P. a seguito della riforma del 1986, ammetteva nel computo della pena anche quelle espiate).

Per il vero, già il c.p. menziona fra le cause estintive della pena sia l’avvenuta espiazione della stessa, sia l’eventuale condono o indulto legislativamente intervenuto. Per cui è un principio sostanziale quelle di tener in debito conto queste due cause estintive della pena. L’orientamento della giurisprudenza è molto altalenante. Soprattutto per i vari interventi effettuati dalla Cassazione penale. Questa, in fatti, rifacendosi al dato che per pena detentiva inflitta il legislatore facesse riferimento alla pena che viene emessa nella sentenza di condanna (potremmo dire, dunque, che la Cassazione aderiva all’impostazione “statica”), escludeva una serie di “cause estintive della pena”, quali pene parzialmente espiate, condono (eventualmente sopravvenuto), indulto.

Di contrario avviso erano, invece, la Corte Costituzionale ed alcuni giudici di merito, i quali ammettevano che si dovesse far riferimento al momento in cui l’interessato avesse presentato la richiesta (o avanzato la relativa istanza) di ammissione alla misura alternativa. Ripercorriamo brevemente le tesi prospettate e le loro argomentazioni.

Già sulla base del testo originario dell’art. 47 co 1 O.P. i giudici di merito seguirono un orientamento (potremmo definirlo “leggermente aperto”) teso a riconoscere l’ammissibilità della misura quando, pur essendo la pena irrogata nella sentenza di condanna superiore al limite di 2 anni e 6 mesi, la pena da espiare in concreto fosse inferiore <<per l’esistenza di una causa di estinzione o di fatti giuridici che ne implichino un ridimensionamento della pena stessa>>.

Non mancarono, a tal proposito, riserve della dottrina a tale orientamento, basate essenzialmente sull’assunto che così facendo si estendeva l’ambito di applicazione della misura oltre i limiti che il legislatore stesso aveva posto al fine di ammettere soggetti

idonei alla misura. Infatti, argomentavano che cause estintive della pena, fatti giuridici ed

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verificano sempre, ogni qualvolta il giudice (sia della cognizione che quello dell’esecuzione) debba procedere alla “quantificazione” della pena residua.

La tesi or ora menzionata non tiene conto che ciò si verifica anche per volontà di legge. Infatti, già il c.p. prevede che nella commisurazione della pena si debbano tener conto <<anche di eventuali cause estintive, modificative della pena stessa>>. Fra le quali si annoverano, appunto, quelle che il legislatore pone anche una tantum: condono, indulto, abolitio criminis, amnistia impropria, violazione del ne bis in idem. Ecco, dunque, che la tesi che ammette nel computo della pena anche le cause estintive ha la sua ragion d’essere proprio in una corretta interpretazione del dato legislativo “complessivamente

considerato”.

A fondamento di tale tesi “ampliativa” stava, però, l’intento di rimuovere le rigide preclusioni stabilite legislativamente. E forse qui le si potrebbe rimproverare un eccesso di zelo, non giustificato nemmeno a livello costituzionale. Un conto è dover interpretare la legge, cercando di darle un significato “costituzionalmente orientato”; altro conto è voler rimuovere delle preclusioni stabilite dal legislatore. Questa seconda funzione istituzionale (e costituzionale) è riservata esclusivamente al legislatore dalla stessa Costituzione. Se non che, per poter rimuovere certe preclusioni, la giurisprudenza di merito avrebbe dovuto rimettere la questione di illegittimità costituzionale proprio alla Corte Costituzionale. Evento che si è verificato, però, negli anni ’80 (sent. 85/185; 85/312; 89/386).

In contrasto ad un precedente orientamento della Cassazione che ammetteva che si dovesse tenere in considerazione <<la pena da espiare in concreto>> (nella speranza che rimanesse una voce in disparte e che la sua posizione “aperta” nei confronti della questione non fosse soggetta ad ulteriori allargamenti), la stessa Corte, invece, affermò che <<non avevano incidenza alcuna sulla pena inflitta con la sentenza o con le sentenze di condanna le cause estintive della sola pena, come l’indulto, in quanto la pena inflitta rimane quella irrogata con la sentenza o con le sentenze di condanna>>. A proposito della pena espiata, precisò che <<parimenti non incide sulla pena inflitta la detrazione del periodo di detenzione sofferto in precedenza per altro reato, qualora sussistano le condizioni per la fungibilità, in quanto si tratta in effetti di pena già scontati>>. Infatti, in una nota sentenza ( 26/4/1989, Russo) la Corte dichiarò che <<la pena detentiva inflitta non superiore a 3 anni richiesta dall’art. 47 co 1 O.P. [a seguito della modifica intervenuta con la l. n. 663/1986], quale condizione per l’affidamento in prova, è costituita dalla pena irrogata con la sentenza o con le sentenze di condanna, eventualmente risultante per effetto del cumulo, senza considerare le cause estintive della sola pena, come indulto, che influiscono sulla determinazione della pena da eseguire in concreto e non di quella inflitta>>. Come ha osservato criticamente qualcuno (5), la Corte, con una sentenza a S.U., proclamò che a parte talune ipotesi tassative (abolitio criminis, amnistia impropria, violazione del ne bis in idem), i fatti giuridici sopravvenuti alla sentenza di condanna non vanno tenuti in alcun conto ai fini della determinazione della pena da espiare. Infatti, facendo riferimento alla pena “inflitta nella sentenza di condanna (o nelle sentenze), essa ha necessità di essere eseguita (tralasciamo per il momento il quesito del quantum). Forse fin qui la tesi potrebbe reggere, ma pone un punto fermo di difficile comprensione nella dinamica

dell’esecuzione penale. In dettaglio. Una volta che il giudice della cognizione proceda ad

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emanare una sentenza di condanna, la tesi della Cassazione regge il confronto anche alle obiezioni che le si potrebbero muovere, a cominciare da quella che vuole “spostare” ad un momento successivo il termine certo da cui far decorrere l’esecuzione. Solo che l’orientamento della Cassazione non tiene conto del fatto che la pena da eseguire si svolge su un piano concreto, dinamico difficile da cristallizzare. Così, al momento della richiesta di ammissione e secondo la tesi della Cassazione, il condannato non ha altra scelta che aspettare che una pena per un reato venga completamente espiata e poi avanzare, se ricorrono le altre condizioni, la relativa istanza per la concessione.

Per comprendere i termini della tesi, facciamo un semplice esempio.

Tizio viene condannato per 3 reati (furto, 1 anno; danneggiamento, 1 anno; lesioni personali, 3 anni) per un totale di 5 anni di reclusione. Durante il processo, è stato sottoposto a sei mesi di arresti domiciliari. Nella determinazione della pena bisognerà tenere conto di questo pre-sofferto. La pena è di 4 anni e 6 mesi e viene eseguita, traendo in carcerazione il condannato. Dopo 2 anni, il detenuto avanza l’istanza. Egli la vedrà dichiarata inammissibile poiché, secondo la tesi delle Cassazione, egli non potrebbe esser destinatario della misura “perché non è stata espiata completamente la pena relativa ai danni personali”(3 anni). Il trattamento peggiorativo del detenuto è evidente e non trova alcuna giustificazione nel dato normativo. E si può notare come vengano violati i principi costituzionali della pena e del suo intento rieducativo. Infatti, non ammettendo, nell’ipotesi in esame, il detenuto alla misura alternativa, come potremmo dire che l’intento della “rieducazione del condannato” viene raggiunto se egli vedrà rigettata la sua richiesta? Lo scopo viene vanificato sin dall’origine.

Vediamola da un altro punto di vista: quello della “condotta” del soggetto o del controllo-aiuto del Servizio sociale. Il soggetto non può essere posto in affidamento, di conseguenza il servizio sociale, che è l’organo che controlla all’esterno la condotta dell’affidato, non può svolgere le sue funzioni per le quali la legge lo ha dichiarato idoneo nel “trattamento penitenziario”: aiutare l’affidato a superare le difficoltà connesse all’ambiente esterno e intraprendere relazioni con il mondo (affettivo, familiare, lavorativo) dell’affidato (co 8 originario). Se il potenziale affidato resta in carcere perché “non idoneo” ad esser destinatario della misura, come potrebbe svolgere, il servizio sociale, le sue funzioni? Potremmo dire che la previsione di legge è “inutiliter data”.

Altro quesito che si pone è in relazione all’osservazione all’interno dell’istituto per valutare se al detenuto, tramite i risultati della personalità, possano essere impartite le prescrizioni di cui ai commi 4 e 5 (dizione originaria) è se queste si rivelano sufficienti alla sua rieducazione ed a prevenire il percolo che egli commetta altri reati. Come si potrebbe, dunque, dire che il detenuto è meritevole di fiducia da parte dello Stato se gli si impedisce, sin dalla richiesta, di poter essere ammesso alla misura? D’altro canto, quando il detenuto avanza la richiesta, egli lo fa al fine di non restare in carcerazione e sperimentare quello stato di libertà (anche se limitata dalle prescrizioni di cui ai commi 4 e 5) che la misura si presuppone di raggiungere. Ѐ come se lo Stato volesse dire al detenuto qualcosa che suona in questi termini: “ti concedo la libertà, a condizione che tu rispetti le prescrizioni che il Tribunale determinerà secondo legge. Quindi ritengo, in termini prognostici, che tu sia meritevole di questa misura. Avanza la relativa richiesta ed essa sarà esaminata nel merito dal giudice”. Ma quando al detenuto gli si nega la possibilità che valga come pena espiata quel periodo di tempo trascorso in detenzione <<perché non sono ammesse nel computo le

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pene parzialmente espiate>>, come si potrebbe dire che lo Stato ha raggiunto quel

“contratto sinallagmatico” che si era prefissato? Non si potrebbe affermare una cosa del genere.

Non potendo trovare un punto di comune accordo, qualche giudice di merito (Tribunale di Sorveglianza Brescia) sollevò questione di illegittimità costituzionale dell’art. 47 co 1 O.P. perché non prevede che si debba tener conto, nel computo delle pene, ai fini del limite dei 3 anni [modifica avvenuta nel 1986], almeno nell’attuale lettura della giurisprudenza, a fini dell’ammissibilità del condannato all’affidamento, <<anche delle pene già espiate>> poiché questa interpretazione viola gli artt. 3 e 27 co 3 Cost.

La questione è stata sollevata dal momento che l’art. 47 co 1 O.P. (sempre a seguito di riforma del ‘86) prevede espressamente la dicitura << … la pena inflitta non supera i 3 anni …>>.(6

) Il problema principale sorge allorquando, avendo il condannato riportato più pene concorrenti a seguito di più sentenze di condanna, ne sia stato disposto il cumulo, ex art. 76 co 1 c.p.; (e poi quello concomitante) oppure anche quando, anche senza l’esistenza di un provvedimento formale di cumulo, il condannato si trovi in corso di espiazione delle varie pene inflitte senza soluzione di continuità.

L’orientamento della Cassazione, per tali ipotesi, era nel senso che <<si debba sempre far riferimento, per stabilire l'ammissibilità all'affidamento in prova, al cumulo delle pene inflitte, o comunque in corso di ininterrotta espiazione se un formale cumulo non è stato disposto; e se il cumulo supera i tre anni di pena detentiva, l'affidamento non è ammissibile anche se la residua pena da scontare sia inferiore al detto limite>>.

Ammetteva, tuttavia, la detta giurisprudenza che le pene condonate o comunque estinte debbano essere escluse dal computo, ma non le pene espiate.

In quell’occasione intervennero sia il Procuratore Generale sia l’Avvocatura dello Stato, ognuno con le proprie ragioni e con le proprie argomentazioni.

Alla fine la Corte Costituzionale accolse in parte la questione sollevata dal Tribunale che riguardava l’illegittimità costituzionale dell’art. 47 co 1 O.P., ma l’altra questione relativa alla legittimità dell’art. 51-bis l’ha ritenuta inammissibile.(7

)

A tal proposito, in relazione al cumulo, intervennero diverse sentenze della Corte Cost. volte, alcune, a precisare gli esatti termini della precedente sentenza, altre, invece, a rendere possibile un’interpretazione libera che gli stessi giudici di merito possono avvallare. Di più. Il legislatore è intervenuto, con l’art. 14-bis l. n. 356/1992, a dare chiarezza alla terminologia adottata nell’art. 47 O.P. a seguito della riforma del 1986. L’art. 14-bis è una norma di “interpretazione autentica” (legittima secondo i canoni della Costituzione e del sistema) che si rese necessaria a seguito (dal 1986 fino al 1991) di un dibattito sulla questione irrisolvibile. In essa, il legislatore precisò che il limite di 3 anni va inteso nel senso che <<deve trattarsi della pena da espiare in concreto, tenuto conto anche dell’applicazione di eventuali cause estintive>>.

Se si pone maggiore attenzione alla lettera della nuova norma, potremmo dire che il legislatore è intervenuto per avallare l’interpretazione di quella parte della giurisprudenza (6) La riforma del 1986 ha eliminato anche le preclusioni relative alla “precedente misura di sicurezza”

ed quella relativa ai reati di “rapina, rapina aggravata, estorsione, estorsione aggravata e sequestro di

persona a scopo di rapina o estorsione”.

(7) Corte Costituzionale sent 89/386; in tale occasione la Corte aveva affrontato la questione dal

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(prima fra tutte, la Corte Cost.) che voleva intendere la dizione “pena detentiva inflitta” come equivalente a “pena da espiare in concreto”.

In tale prospettiva, la giurisprudenza ha precisato che “pena da espiare in concreto” va intesa come “pena residua da scontare” ed il fatto che nella lettere della norma (art. 47 co 1) fosse espressamente previsto << ... tenuto conto anche dell’applicazione di eventuali cause estintive>> ciò voleva dire che il legislatore ha voluto riferirsi, con la congiunzione “anche”, ad ogni possibile detrazione di pena.(8

)

Come si può dedurre dalle conclusioni a cui la giurisprudenza, prima, ed il legislatore, poi, sono giunti, si potrebbe dire che l’interpretazione dell’art. 47 co 1 O.P. (sia nella dizione originaria, sia in quella riformata) è stata lunga e travagliata, irta anche di ostacoli finalizzati a rendere il significato della norma il più possibile in linea con quello originario. Infatti, a tal proposito la Cassazione, con la sentenza 1/7/1992, ha avuto il merito di arrestare, nei limiti del possibile, la “caduta libera” cui andava soggetto l’affidamento in prova (9).

Quest’ultimo tentativo della Cassazione fu vanificato da vari interventi che resero arduo potersi attestare su un’interpretazione relativamente aperta.

Infatti, se agli inizi il legislatore aveva posto dei limiti e condizioni abbastanza stringenti (pena detentiva e misura di sicurezza; esclusione per determinati reati; limite di pena inferiore a 2 anni e 6 mesi; osservazione in istituto per almeno 3 mesi; prognosi di rieducabilità; prescrizioni volte ad evitare la “recidiva”; recidivo specifico; revoca della misura) al fine di non includere determinati soggetti (in particolare: autori di reati di una certa gravità; recidivo specifico; affidato che avesse tenuto un comportamento “incompatibile con la prosecuzione della misura”), successivamente tali intenti furono stravolti sia dalla Corte Costituzionale (sentt. n. 185 e 312 del 1985), sia da interventi del legislatore (riforma del 1986, legge Gozzini, che ha innalzato il limite di pena a 3 anni ed abrogato le preclusioni; riforma del 1998 che ha introdotto una nuova forma di affidamento: per i condannati che si trovino in stato di libertà); interventi che hanno reso la misura alternativa un vero e proprio beneficio, concedibile per quasi tutti i condannati per tipi di reato, ad eccezione dell’ergastolano.

Il terzo punto (lettera c) è già stato trattato ampiamente.

Passando ad un altro ordine di tematiche, si prospetta la questione del tipo di reato

commesso.

Al riguardo, se da un lato l’art. 47 O.P. non contiene (nella formulazione attuale) alcuna preclusione legata alla natura del reato, è altrettanto vero che rispetto a determinati delitti la concessione della misura (così come delle altre misure alternative, ad esclusione della liberazione anticipata) è soggetta a particolari restrizioni e limitazioni.

In particolare:

- nei confronti degli autori dei reati elencati all’art. 4-bis, l’affidamento in prova può essere concesso solo se il condannato ha collaborato con la giustizia e nei termini di cui all’art.58-ter;

- nei confronti degli autori dei reati di cui al comma 1-quater (sempre art. 4-bis) l’affidamento in prova può essere concesso soltanto sulla base dell’osservazione

(8) C 7-5-93,in Cass. Pen. 1994, p 1353

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scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno anche con la partecipazione di esperti di cui all’art. 80 co. 4 O.P.;

- nei confronti dei delitti indicati nel comma 1-quinquies (introdotto a seguito della l. n. 172/2012), ai fini dell’applicazione dell’affidamento in prova il Tribunale deve valutare la positiva partecipazione del condannato al programma di riabilitazione ex art. 13-bis l. n.172/2012.

Alla disciplina attuale si giunse solo dopo una serie di interventi della Corte Costituzionale che fu chiamata a dirimere una serie di censure avanzate da parte dei magistrati di sorveglianza contro la politica criminale del legislatore del 1975. Nel dettaglio, nella formulazione originaria dell’art. 47 co. 2 si prevedeva che l’affidamento non poteva essere concesso per autori di due tipi di reati:

a) <<delitti della stessa indole>> e

b) <<per rapina aggravata, estorsione, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di rapina o estorsione>>.

Con la prima preclusione (delitti della stessa indole), il legislatore effettua una sorta di “tipo normativo d’autore” (connotato negativamente) e, contestualmente, appone, sia al giudice di sorveglianza che a quello della cognizione, incongrui limiti valutativi riferibili al caso concreto. In quest’ottica, il legislatore pone un automatismo di difficile comprensione e contrastante con i principi di individualizzazione del trattamento, asse portante del sistema della pena rieducativa e punto fermo dei ripetuti interventi della Corte Costituzionale volti a rimuoverli.

Per l’istituto della recidiva, esiste già una norma che lo disciplina in modo chiaro, anche se le limitazioni in essa contenute (come d’altronde risultano inappropriate le manipolazioni che si traducono in divieti assoluti: artt. 47-ter co. 1-bis, 50-quater co. 1; per non parlare dei vincoli alla reiterabilità delle misure, art. 58-quater co. 7-bis) risultano di difficile comprensione e di difficile coordinamento con il sistema. Si pensi alla previsione del co. 2 art. 99 c.p. che espressamente prevede che l’aumento di pena è fino alla metà <<se il nuovo delitto non colposo è stato commesso nei cinque anni dalla condanna precedente>>. Infatti, il lasso di tempo tra l’uno e l’altro delitto non è di poco conto, ed al soggetto condannato recidivo non potrebbero essere concesse le misure alternative, in specie l’affidamento. Per comprendere i termini del problema, facciamo un semplice esempio. Tizio viene condannato a 5 anni, nel 2010, per un delitto non colposo (corruzione; avvenuta nel 2005). La sentenza passa in giudicato nel 2012. Il soggetto commette un delitto non colposo (oltraggio a p. u.) nel 2014, e vien condannato ad una pena detentiva di 2 anni. Come si può notare, il lasso di tempo intercorso fra la commissione del primo reato non colposo (corruzione) ed il secondo (oltraggio a p. u.) è notevole. Considerato, poi, il fatto che la giustizia impiega il suo tempo per emettere una sentenza che passi in giudicato, si comprende come il soggetto “recidivo” abbia un trattamento di sfavore rispetto a coloro che commettono più reati colposi (anche in concorso con delitto non colposo): si pensi ad un soggetto che commetta il delitto di rapina a cui sia seguito un incidente stradale per disattenzione, con la relativa morte della vittima: per il primo delitto non colposo viene condannato a 5 anni, per il secondo a 5; il soggetto potrebbe “beneficiare” dell’affidamento in prova dopo aver scontato una parte della pena (7 anni e 6 mesi). In dettaglio, si nota immediatamente la disparità di trattamento fra i due soggetti, senza che ciò, a livello legislativo, possa essere giustificato da qualche norma. Infatti, la domanda che si pone

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spontanea è: per quale ragione giuridica i due soggetti, trovandosi in situazioni simili (commissione di più delitti), debbono avere un trattamento differente? La risposta è evidente: ragioni non ce ne sono.

Quindi, il legislatore, prevedendo il “recidivo specifico”, non fa altro che esprimere una <<presunzione assoluta di capacità a delinquere>>, in contrasto con la lettera dell’art. 99 c.p. dove espressamente si demanda al giudice la valutazione della gravità o meno del secondo reato e della possibilità di un aumento di pena. Infatti, la dizione “può” denota, evidentemente, una discrezionalità (del giudice) che mal si concilia con l’art. 47 co 2 O.P., dove si prevede che l’affidamento in prova <<non si applica…>> ai recidivi ( commissione di reati “della stessa indole”).

A livello legislativo c’era un’incongruenza di difficile applicazione. Dunque, per evitarla sarebbe stato meglio: a) non prevedere il potere discrezionale del giudice, o b) non prevedere la presunzione assoluta. Ma il legislatore non pensò in questi termini. Ciò lo si deduce dal fatto che l’O.P. entrò in vigore in un periodo in cui vi era un forte allarme sociale per gli eventi di grave portata, anche istituzionale. Siamo, infatti, nel periodo che in gergo giornalistico vengono chiamati “anni di piombo”.

Per un verso, tali preclusioni alla concessione dell’affidamento in prova sono giustificate. I termini della questione sono delicati e complessi da più punti di vista.

Se a livello legislativo prevale l’esigenza “general-preventiva” tipica della predeterminazione delle fattispecie criminose, è vero anche che tale esigenza non è la sola nell’ordinamento italiano.

Sicuramente il legislatore incontra una certa discrezionalità nello scegliere quali reati sono più gravi rispetto agli altri, quale sanzione prevedere alla loro commissione, e, se del caso, prevedere anche eventuali esclusioni da determinati benefici.

Non solo. Il legislatore potrebbe essere mosso da esigenze di allarme sociale per disciplinare tali esclusioni. Infatti, previsioni criminose, esigenze general-preventive e allarme sociale sono in sintonia l’uno con l’altro.

Ma non si dimentichi che l’allarme sociale è un “elemento” abbastanza criticabile, proprio perché consiste nella reazione suscitata nella comunità dalla commissione di determinati reati. Ed oscilla fra un senso di insicurezza, sdegno fino ad un atteggiamento di rivalsa. Infatti, esso dipende sostanzialmente da tre fattori. Il tipo di reato, dato dal fatto che determinati reati colpiscono il quivis de populo (rapina, estorsione e simili), destando un particolare allarme nella collettività. Secondo, le modalità di esecuzione del reato, poiché certe modalità efferate suscitano più preoccupazione. Terzo (ma non meno importante degli alti), la frequenza con cui vengono commessi certi reati rispetto ad altri.

Allo stesso tempo, l’allarme sociale ha delle caratteristiche fondamentali (che stanno fuori dal sistema e si trovano nella concretezza). La sua evidente natura emotiva consiste nella reazione psicologica collettiva, condizionata da più elementi. Il suo evidente carattere

transeunte e contingente dipende dalle mutevoli cause di condizionamento psicologico e

dall’andamento variabile per quantità e qualità del fenomeno della criminalità. Le insopprimibili difficoltà di accertamento obiettivo e razionale derivano dagli elementi precedenti.

A conforto della prospettiva del legislatore si aggancia la sentenza n. 107/1980 della Corte Costituzionale che ha chiaramente detto che <<le scelte discrezionali del legislatore possono ben tener conto degli ”accentuati allarmi nella società contemporanea”>>.

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Dal punto di vista della ragionevolezza, la scelta del legislatore, mossa da esigenze anche di politica criminale, non può essere soggetta alla valutazione di sindacabilità. Da un altro punto di vista, ci si domanda se sia legittimo sottrarre determinati reati all’ambito applicativo di istituti chiaramente risocializzativi per motivi esclusivamente di allarme sociale. Sicuramente muovendo dalla considerazione che l’istanza risocializzativa deve essere contemperata con le esigenze di prevenzione generale e con il perseguimento di altri scopi, essenziali alla tutela dei cittadini e all’ordine giuridico contro la delinquenza, allora risulterà evidente che (come sostenuto nella stessa sent. 107/1980), è facile farvi rientrare anche il concetto di allarme sociale (10).

Che l’intento del legislatore, per prevedere le esclusioni di cui all’art. 47 co 2, sia mosso esclusivamente da esigenze di allarme sociale, questo sì che è discutibile.

Non solo. La deroga al finalismo rieducativo desta particolare perplessità in quanto si tratta di istituti dell’esecuzione penitenziaria, fase in cui è più intensa (se non quasi esclusiva) l’istanza risocializzativa.

Sennonché, solo tale intento non può giustificare una presunzione assoluta di capacità a delinquere (come previsto dall’art. 47 co 2, dizione originaria). Infatti, i dettati costituzionali esprimono la volontà che la pena tenda alla rieducazione del condannato, oltre al trattamento individualizzato per perseguire meglio tale obiettivo. Così, se da una parte (e grazie all’orientamento internazionale che vede la detenzione come luogo deleterio per la salute del condannato) si prevedono misure alternative alla stessa (affidamento, semilibertà, libertà condizionale ecc), dall’altra bisogna che la misura sia adeguata al soggetto per evitare che questi commetta altri reati. E quale modo migliore se non quello, in fase esecutiva, di “modellarlo” sul condannato? Dunque, escludendo la possibilità di concedere certe misure alternative a certi soggetti (recidivi; autori dei reati di cui al co 2 art. 47 O.P.), il legislatore vanifica in radice (e sin dall’inizio) l’obiettivo di rieducazione della pena. Per non parlare, ancora, del trattamento differenziato di situazioni simili.

Con le successive modifiche intervenute, nell’attuale lettera dell’art. 47 O.P. non esistono tali preclusioni. La domanda sorge spontanea. Ma, allora, l’affidamento in prova comune è applicabile a tutti i tipi di reati e a tutti condannati e internati? Se la risposta fosse affermativa, non terremmo conto che l’O.P. non è fatto principalmente della misura dell’affidamento in prova, ma accanto ad esse ve ne sono altre. Non solo. Nell’O.P. vi sono articoli che prevedono che determinati delitti vengano sottoposti a condizioni più stringenti affinché ai loro autori possa essere concesso l’affidamento e le altre misure alternative (ad esclusione della liberazione anticipata).

Qual è la logica che ha spinto il legislatore a porre una disposizione del genere? La risposta risiede nel fatto che l’affidamento costituisce una modalità di esecuzione della pena, perciò è connotata dal suo carattere afflittivo (insito nelle prescrizioni dell’organo decidente) e della limitazione della libertà personale (dedotta dal fatto che il servizio sociale svolge anche un ruolo di controllo nei confronti dell’affidato, che si spinge fino alla facoltà di proporre modificazioni alle prescrizioni; questo, almeno, nella formulazione originaria).

La disciplina della concedibilità dell’affidamento in prova ai condannati di reati della criminalità organizzata (delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o (10) Palazzo, Prevenzione generale ed allarme sociale … , in Giur. Cost. 81, p. 1726 ss

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