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Academic year: 2021

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CAPITOLO 4

LE MAESTRANZE DEL

LAVORO NEI SITI DI

PRODUZIONE DEL GHIACCIO

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4.1 L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO

Il sistema produttivo del ghiaccio richiedeva un’elevata quantità di manodopera a basso costo proveniente da un ambiente socio-economico di estrema miseria: nelle ghiacciaie la forza-lavoro doveva essere disponibile immediatamente, a qualsiasi ora e in forma del tutto saltuaria. Senza queste condizioni lavorative, il prezzo del prodotto, già elevato ed elitario, sarebbe divenuto ancor più proibitivo. È interessante dunque focalizzare la nostra attenzione su questi lavoratori che con il tempo avevano acquisito un’ottima maestranza nel svolgere particolari operazioni nel settore. Tuttavia, a fronte di questo interesse, è sempre bene tenere a mente che la produzione di un bene così utile e prezioso come il ghiaccio si è sempre fondata, oltre che sull’operosità e l’ingegno umano, anche sul duro lavoro di figure professionali umili e poco remunerate. La borghesia locale controllava economicamente l’attività, il flusso di denaro legato al commercio del ghiaccio solo in scarsa quantità arrivava al produttore diretto, perché i prezzi erano stabiliti dai compratori e spesso nello scambio si inserivano gli intermediari.

Lo schema di seguito cerca di dare un quadro di riferimento utile per capire meglio la suddivisione socio-economica all’interno dei siti di produzione:

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In cima alla piramide troviamo il capolago, solitamente l’anziano più esperto, che aveva il compito di controllare il bacino nel momento della formazione del ghiaccio ed era colui che organizzava il gruppo di lavoro. Egli, assieme ad altri uomini muniti di

accetta, si recava sulla superficie gelata per cominciare a tagliare dal bordo del bacino

la barca. Per spezzare in blocchi più piccoli l’enorme massa di ghiaccio, inizialmente il

capolago creava dei fori con la palamina. Da questi ultimi, altri ghiacciaioli (i palaminari) andavano a scalfire ulteriormente la lastra provocandone il distacco: ciò

veniva eseguito sempre grazie alla palamina, che veniva maneggiata sapientemente inclinando l’utensile a destra e poi a sinistra.

A mano a mano che il taglio del ghiaccio si allontanava dall’entrata della ghiacciaia, i blocchi venivano utilizzati come vere e proprie zattere, sulle quali salivano uno o due ghiacciaioli che le spingevano verso riva utilizzando pertiche come remi.

All’interno della ghiacciaia, un ghiacciaiolo detto accomodino (dal nome dell’attrezzo utilizzato) aveva il compito di sistemare (“accomodare”) i blocchi in modo da non lasciare spazi vuoti tra l’uno e l’altro, cioè spazi vuoti che portavano all'aumento della temperatura all'interno della ghiacciaia e quindi allo scioglimento del ghiaccio. Il ghiaccio veniva disposto a strati, e tra uno strato e un altro veniva creato un letto di foglie secche. Al termine di ogni singola raccolta ci si limitava a chiudere bene la porta della ghiacciaia. Quando la ghiacciaia risultava piena ma il clima era ancora particolarmente freddo e quindi favorevole alle gelate, il ghiaccio veniva raccolto e conservato nelle ghiacciaie di riserva. Queste ultime erano luoghi ben riparati e protetti ma privi di copertura fissa; per questo motivo l'ultimo ghiaccio depositato veniva ricoperto da uno spesso strato di foglie e iuta bagnate, in modo da proteggerlo dagli agenti atmosferici e mantenere la temperatura bassa. Dalle ghiacciaie di riserva veniva prelevato il primo ghiaccio e successivamente quello conservato all’interno della ghiacciaia principale.

La ghiacciaia con il suo prezioso contenuto veniva riaperta solo in estate: il prelievo del ghiaccio avveniva a vendita già avvenuta su carta, al momento in cui l’acquirente (di solito un grosso imprenditore di pianura) richiedeva il ghiaccio. Solo quando il

barroccio era posizionato pronto all’uscita della ghiacciaia si iniziava il lavoro di

prelievo. Il carico doveva procedere rapidamente per evitare lo scioglimento del ghiaccio. Venivano allora effettuate le operazioni opposte a quelle eseguite durante l’inverno: si apriva la porta al lato della strada e si asportavano parzialmente le foglie

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che formavano lo strato coibente superficiale, poi all’interno un uomo preparava le zane cariche di stanghe di ghiaccio e le passava alle donne. Quest’ultime si sistemavano le

zane colme di ghiaccio in testa e facevano da spola dalla ghiacciaia al barroccio. Qui un

ghiacciaiolo passava la stanghe dalla zana ad un collega che le sistemava ordinatamente di costa con la faccia minore poggiante sul pianale del carro, fino a riempimento del

barroccio. Ogni lastra veniva avvolta da sacchi (balle) di iuta bagnata e tutto il carico

coperto con un telone incerato. Il barroccio, veniva caricato in piena notte per sfruttare l’assenza di sole, e una volta terminato il carico il barrocciaio iniziava il viaggio verso le città vicine. Questa figura di piccolo imprenditore, dalla vita solitaria condotta giorno e notte lungo le strade, offriva anche servizi di recapito di oggetti e di informazioni. Oltre alla manodopera maschile, come si è visto anche donne e ragazzi erano coinvolti in questo ciclo produttivo. In Toscana, coppie di sei o otto donne dotate di rampini avevano il compito di arpionare e trascinare le lastre di ghiaccio dai margini dell’acqua fin dentro la ghiacciaia (chiamata vaticano); sempre alle donne era assegnato il compito di trasportare zane colme di ghiaccio dalla ghiacciaia al barroccio; infine, assieme a bambini e ragazzi, le donne si occupavano anche di andare a raccogliere nel bosco foglie secche di castagno e faggio che servivano da materiale isolante tra i vari strati di ghiaccio. Ai ragazzi era anche spesso affidata la conduzione delle barche di ghiaccio, spesso vigilati dalle mamme (Figg. 4.1 - 2 -3). Nel Veneto invece, donne e bambini si occupavano solo della raccolta del fogliame secco.

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Fig. 4.2. Foto d’epoca che im-mortala la raccolta del ghiaccio nel pelago di una ghiacciaia della Valle del Reno, Pistoia.

Fig. 4.3. Donna con zana in testa in una foto d’epoca.

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È dunque possibile osservare come la produzione del ghiaccio naturale era non solo un mestiere ma anche un'arte, nella quale solo l'impegno comune e l'esperienza di uomini, donne e bambini poteva dare frutti.

Confrontando le realtà prese in considerazione in questo lavoro, e tenendo presente che sia la ghiacciaia della Madonnina (PT) che l’esempio di Cerro Veronese (VR) erano ghiacciaie commerciali, si è potuta stimare approssimativamente la quantità di manodopera richiesta in entrambi i comparti. Per il comparto produttivo di Pisa la poca bibliografia1 in merito all’argomento non ha permesso di quantificare le maestranze richieste; tuttavia si può presumere che non doveva essere molto diversa dalla realtà pistoiese.

Per ogni unità produttiva nella Valle del Reno occorrevano nei mesi all’apice della produzione (dicembre-febbraio) dalle quindici alle venti persone, e solamente la metà era necessaria nel periodo estivo. A Cerro Veronese invece, poiché il comparto produttivo era più piccolo, risultavano essere sufficienti solo una decina di persone per il taglio ed il deposito, mentre bastavano solo quattro giasssaroi per il prelievo del ghiaccio: uno all’interno che staccava le singole lastre e le legava alla corda di salita, un secondo all’esterno per far ruotare l’argano per il sollevo del blocco, un terzo uomo che afferrava il blocco in uscita ed un quarto che sistemava il carico sul carro.

Purtroppo, con l'avvento di norme igieniche più severe e con l'aumento delle richieste, la produzione di ghiaccio artificiale ha pesantemente sostituito quella di ghiaccio naturale, togliendo a molte famiglie una fonte di reddito che, anche se bassa rispetto alla durezza del lavoro, sfamava intere famiglie. Solo poche persone trovarono impiego stabile presso i nuovi stabilimenti di ghiaccio sorti in città.

1

Gli unici documenti che citano nel dettaglio le ghiacciaie di Pisa sono due contratti risalenti al 1740 e al 1780. Quest’ultimo contiene una dettagliata descrizione delle ghiacciaie e di tutti i luoghi annessi, mentre nel contratto del 1740 per l’appalto della produzione del ghiaccio a Pisa, vi è anche un elenco completo sugli attrezzi e strumenti di lavoro utilizzati nelle ghiacciaie.

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4.2 L’ABBIGLIAMENTO DEL GHIACCIAIOLO

La complessità dell’abbigliamento tradizionale ed il suo seguire ogni tipo di mutamento di condizione nella vita individuale ribalta forse il famoso detto “l’abito non fa il monaco” e ci porta a credere che invece l’abito, almeno per come era concepito e utilizzato in passato, “faceva il monaco”, fornendo sull’individuo molte più informazioni di quanto non faccia oggi. Una complessità e un potere comunicativo quindi che purtroppo non viene illustrato con ricchezza di documentazione fotografica per quanto riguarda la complessità dell’abbigliamento del ghiacciaiolo.

La deperibilità dei tessuti ha reso difficile l’acquisizione di reperti diretti e si è dovuto ricorrere al patrimonio artistico-fotografico e, in modo marginale, alle testimonianze orali. Le poche foto conservate negli archivi permettono comunque di riflettere sulle trasformazioni economiche e sociali intervenute nel nostro Paese e comparativamente sul ruolo che l’abbigliamento, oggi come in passato, ha avuto ed ha ancora nella definizione di identità sociale e culturale. Tuttavia come già accennato, questa lacuna viene in parte colmata dai ricordi delle persone più anziane, testimoni e portatori di usanze e di costumi ormai completamente scomparsi. In quest’ultima frase si è volutamente sostituita la parola abbigliamento con la parola costume, poiché quest’ultimo è il termine più corretto; ciò deriva dal fatto che la parola costume, oltre a connotare lo stato sociale, nasce quasi esclusivamente dalle esigenze pratiche delle categorie di persone che lo indossano e che possiedono una identità. Al contrario, l’abbigliamento tende a omologarsi con lo sviluppo economico e tecnologico, e grazie alla moda esso torna ad essere fattore sociale discriminante. In quest’ottica non deve quindi stupire la coerenza e l’uniformità protratte nel tempo presentata nel costume di queste persone, nei quali i lievi mutamenti sono soluzioni dettate unicamente dalla praticità.

Il costume dell’uomo era molto simile a quello del contadino, la cui base era composta

da una camicia generalmente in canapa o in lana di pecora tessuta in casa; al di sopra della camicia gli uomini indossavano un gilet ed eventualmente una giacca in sàia2.Le gambe erano infine ricoperte da brache lunghe anch’esse in saia, il cui tessuto caldo era

2 Conosciuto nel termine inglese twill, è un tipo di intreccio tessile avente un dritto ed un rovescio,

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adatto al lavoro nei momenti più freddi dell’anno con temperature molto al di sotto dello zero e sempre a contatto con acqua gelida. Le brache erano sostenute da una

fusciacca, un semplice pezzo di lana avvolto attorno ai fianchi o alla vita che fungeva da

ausilio per i pantaloni e che al contempo forniva calore e protezione alla schiena. Inoltre sotto le brache i ghiacciaioli indossavano le mutande, un indumento derivato dalle

brache romane e prettamente maschile, in canapa o di flanella, portate lunghe sia

d’inverno che d’estate.

Se la giornata si presentava particolarmente fredda, sotto alla camicia potevano portare una maglia di lana, a maniche lunghe d’inverno e a maniche corte a partire dalla primavera, ed una mantella in panno con taglio a ruota, senza maniche, indossata gettandone un lembo su una spalla. A protezione del capo portavano il cappello, nero e di feltro.

Ai piedi avevano delle calze lunghe in lana e come scarpe degli stivaletti con ghette, fatti di stoffa pesante e alti fino alle caviglie per impedire la penetrazione dell’umidità del ghiaccio.

Il costume femminile era caratterizzato come per quello maschile da tonalità spente, ma

rispetto al quale la canapa sostituiva il lino e la flanella sostituiva la pura lana. Generalmente era composto da:

- una gonnella ampia e lunga di vari tessuti ma generalmente di sàia;

- un grembiule annodato sul davanti della vita lungo fino a pochi centimetri dall’orlo della gonna a protezione di questa;

- una camicia in cotone di ghinea3 da indossare sotto il corpetto;

- il corpetto a maniche aderenti e lunghe abbottonato completamente sino alla gola, da portare sia dentro oppure fuori la gonnella, in quest’ultimo caso il grembiule si allacciava sopra.

La biancheria intima non esisteva e come per gli uomini, anche le donne sotto alle vesti indossavano dei calzoncini lunghi fino al ginocchio in lana per proteggersi dal freddo. Sopra a tutto, uno scialle a frange portato libero, fissato o incrociato sul petto. Onnipresente era il fazzoletto sulla testa annodato dietro la nuca (la pezzola in Toscana) utilizzato per coprire e proteggere la testa delle donne che lavoravano in ghiacciaia, questo all’occorrenza si poteva arrotolare (prendendo così il nome di balzolo) e si

3 Cotone di qualità piuttosto scadente, appena torto. Originario dall’Inghilterra, dove si tesseva per

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metteva in testa per collocarvi stabilmente le zane cariche di ghiaccio assolvendo l’identica funzione di protezione della testa tenendo staccata la cesta.

Ai piedi le donne indossavano delle calze in lana realizzate con i ferri oppure fatte di ghinea, spesso indossati a più strati per creare più caldo, infine come scarpa le

polacchette, una sorta di stivaletto che copriva la caviglia ed allacciate sul davanti con

legacci.

Fig. 4.4. Foto che ritrae un gruppo di lavoratori in posa , uomini e donne, con i loro attrezzi.

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