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CAPITOLO III

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Academic year: 2021

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CAPITOLO III

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1. IL MOVIMENTO ESPRESSIVO TRA NATURALEZZA E BIOMECCANICA

Continuiamo a porre l’attenzione sulla relazione tra ciò che scaturisce dal volto di un personaggio/attore e cosa lo spettatore percepisce e accoglie. Per continuare a farlo un passaggio è obbligatorio, ci trasferiamo in Russia, dove l’universo dell’espressività ha conosciuto personalità che hanno determinato una gigantesca evoluzione nell’ambito della comunicazione teatrale e cinematografica. Una di queste figure chiave è senz’altro Sergej Michajlovic Ejzenstejn, disegnatore, regista visionario, sceneggiatore e montatore, nato a Riga nel 1898 e vissuto fino al 1948, anno in cui morì nella città di Mosca. La sua carriera è costellata di studi e sperimentazioni inerenti al mondo del teatro e della cinematografia e il suo operato, sia teorico che pratico, è tra i più influenti nella storia delle arti figurative. Prima di esplorare l’immenso mondo del regista sovietico, occorre necessariamente passare dalle ricerche effettuate da Vsevolod Emil’evic Mejerchol’d. Inizialmente attore, poi regista e impresario teatrale, attivo all’interno del Teatro d’Arte di Mosca nel primissimo Novecento, divenuto poi celebre per la sua attività all’interno del Teatro Studio di Mosca. Proprio sotto l’influsso del suo insegnamento, Ejzenstejn concentra la sua attenzione sull’organizzazione dei movimenti dell’attore, poiché egli credeva che il movimento espressivo fosse l’unico responsabile dell’emozione del pubblico. Nelle sue ricerche Mejerchol’d focalizza l’attenzione sul corpo degli attori sul palcoscenico, al fine di renderli il più possibile espressivi e “contagiosi”. E così si dedicò all’elaborazione di un nuovo sistema di recitazione detto “biomeccanica”, un sistema che nelle sue intenzioni doveva rappresentare il contributo del teatro

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all’estetica del costruttivismo. La biomeccanica di Mejerchol’d mirava a insegnare agli attori come gestire nel modo più consapevole e preciso possibile i propri movimenti nello spazio teatrale, facendo riferimento a una teoria generale del movimento del corpo umano e attraverso delle vere e proprie forme di allenamento.

Si può studiare il corpo da un punto di vista anatomico, ma tale studio non basta all’attore che deve prendere parte a una rappresentazione teatrale: questi deve studiare a fondo il proprio corpo per sapere in ogni momento che aspetto ha. L’attore deve sapersi rapportare allo spazio, ogni suo piccolo gesto deve essere accuratamente calcolato. Se cade, deve sapere perché cade, deve saper risalire al movimento imprevisto che gli ha fatto perdere l’equilibrio…1

O ancora: La biomeccanica non tollera niente di casuale, tutto deve essere fatto consapevolmente, con calcolo. In ogni momento l’attore deve stabilire e sapere alla perfezione in che posizione si trova il suo corpo e utilizzarne disinvoltamente ogni parte per mettere in pratica il suo proposito.2

La biomeccanica è principalmente una prassi attoriale, un training, potremmo definirla oggi. Riassume in sé diverse tradizioni: entusiasmo costruttivista, psicologia riflessologica di Pavlov e Bechterev (cioè lo studio delle relazioni tra sollecitazioni, risposte fisiche e reazioni psichiche); la teoria delle emozioni di William James, il convenzionalismo dei gesti ed anche il taylorismo, ovvero lo studio scientifico dei processi lavorativi e dei gesti connessi alla lavorazione industriale. Essa si proponeva come “meccanica dell’educazione fisica dell’uomo” e come un “metodo della recitazione attoriale”. Questa “educazione” si fondava sul principio secondo cui l’uomo moderno doveva conoscere con precisione le

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F. MALCOVATI (a cura di), V. MEJERCHOL’D, L’attore biomeccanico, Milano, 1993

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leggi del proprio movimento al fine di dominarlo e perfezionarlo. Nell’epoca della meccanizzazione, la biomeccanica fissava «i principi dell’esecuzione precisa e

analitica di un movimento», pianificandolo in tutto il suo sviluppo, geometrizzandolo, stabilendone con precisione l’inizio e la fine, dando vita a una sorta di “taylorismo visivo” dei gesti, nella convinzione che l’organizzazione dei movimenti lavorativi nello spazio della fabbrica potesse essere riportato a teatro.3

Tutto questo era il presupposto per rendere il movimento attoriale più preciso ed efficace. Mejerchol’d auspicava dunque al movimento perfettamente autoconsapevole, «l’attore contemporaneo deve essere sulla scena come il motore di

un’auto moderna», così che il singolo gesto fosse considerato come il risultato di tutto il corpo.4 Differentemente dal metodo di recitazione proposto da Stanislavkij, fondato sull’immedesimazione e la riviviscenza e dunque l’identificazione col personaggio, Mejerchol’d sosteneva che le emozioni fossero il prodotto dei loro corrispettivi movimenti corporei e non viceversa.

Ci sentiamo tristi perché piangiamo, arrabbiati perché colpiamo, preoccupati perché tremiamo […] Se le percezioni non fossero accompagnate da stati corporei, sarebbero puramente cognitive, pallide, senza colore, prive di colore emotivo.5

Secondo il metodo Stanislavskij, invece, è necessario che l’attore creda nella realtà dei suoi sentimenti scenici immaginari e questo deve raggiungere e coinvolgere lo spettatore; con la piena verità di questi sentimenti deve dar corpo

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J. AUMONT, Montage Ejzenstejn, Images modernes, Paris, 2005, p. 211

4 S. M. EJZENSTEJN, La biomeccanica fra recitazione e vita. Lezioni al teatro Proletkul’t, in ID., Sulla biomeccanica. Azione scenica e movimento, a cura di A. CERVINI, prefazione di P. MONTANI,

Armando, Roma 2009, p. 48

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all’idea dell’autore. La recitazione diventa efficace solo se l’attore è in grado di suscitare dentro sé i sentimenti che vuole trasmettere al pubblico.

Al contrario, nell’ottica di Mejerchol’d la capacità dell’attore di esprimere efficacemente una data emozione e di trasmetterla al pubblico, derivava dalla corretta esecuzione del movimento corporeo che accompagnava quella stessa emozione. Poiché l’espressione consiste sempre in un momento cinetico e quindi rappresenta l’essenza stessa del cinema, la visione del gesto attoriale sviluppata da Mejerchol’d influenzò Ejzenstejn, e i principi sopraelencati rappresentano il punto di partenza della sua riflessione. Egli adottò la pianificazione precisa ed efficace del movimento in modo da produrre effetti calcolabili sul pubblico. Ma la biomeccanica doveva trasformarsi per Ejzenstejn in una “teoria dell’espressività dell’opera d’arte in generale”. Il regista sovietico proponeva un procedimento compositivo capace di organizzare tutti i registri espressivi dell’opera al fine di organizzare lo stesso spettatore. «Mejerchol’d è un attore, io sono un ingegnere» scrisse Ejzenstejn nel 1926.6 “Un ingegnere della psiche”, lo definirà poi Sergej Tret’jakov. L’arte di Ejzenstejn era un’arte finalizzata all’organizzazione delle emozioni e l’artista doveva dunque porsi come uno “psico-ingegnere”. Per questo si avvicina alla biomeccanica e ne prende al contempo le distanze. Nel 1923 scrive Il movimento espressivo nel quale ritiene che la teoria del movimento espressivo non deve richiamarsi – come invece sosteneva Mejerchol’d – al “taylorismo visivo”. I movimenti lavorativi industriali non potevano essere un punto di riferimento per la teoria del movimento espressivo. Quello dei lavori in fabbrica è un movimento quotidiano, il cui obiettivo non è quello di contagiare lo

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S. M. EJZENSTEJN, Kaputt, in ID., Il movimento espressivo. Scritti sul teatro, Marsilio, Venezia 1998, p. 242

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spettatore con la “contagiosità mimica”, che Ejzenstejn attribuiva invece al movimento attoriale.

Ogni movimento ha un centro di gravità; basta governare quel centro, nell’interno della figura; le membra, che non sono altro che pendoli, seguono, senz’altro soccorso, in una maniera affatto meccanica, da sé. Scrisse Kleist nel saggio Il teatro di marionette, del 1810.

L’intera biomeccanica si fonda sul principio che se si muove la punta del naso, si muove tutto il corpo. Tutto il corpo prende parte al movimento del più piccolo organo […] Il gesto è il risultato del lavoro di tutto il corpo.7

All’idea di totalità, secondo Ejzenstejn, bisognava accostare e opporre quella di contrasto: solo attraverso il conflitto il movimento può essere davvero efficace e «produrre una traccia emotiva durevole» provocando una «contagiosità mimica».8

Questa concezione sarà poi la base da cui il regista sovietico partirà per la celebre teoria del montaggio delle attrazioni; concepita come strumento con cui agire sullo spettatore, visto, quest’ultimo, come materiale da plasmare attraverso la pressione della psiche.

Sebbene Ejzenstejn fosse affascinato dalla biomeccanica, successivamente se ne allontanerà per constatare che la coscienza rimane l’elemento determinante del movimento espressivo.

Si può scoppiare in singhiozzi, persino morire sulla scena, ma il pubblico non sentirà nulla, se io non sarò cosciente dei mezzi per trasmettere al pubblico ciò che voglio.

7

F. MALCOVATI (a cura di), V. MEJERCHOL’D, L’attore biomeccanico, cit., pp.76-77

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Ejzenstejn si accorgerà, infatti, che la teoria dell’espressività biomeccanica si rivela insufficiente. È cosciente del fatto che il movimento espressivo non può risolversi nei limiti di un campionario di soluzioni predeterminate; l’espressività non deve nascere dall’intenzione di assecondare lo spettatore, compiacendolo con la conferma di una convenzione. L’attore non deve essere il risultato di uno studio accurato, ma la forma dei sentimenti; deve incarnare il perfetto incontro tra consapevolezza e naturalezza. Motivo per cui ritiene che il movimento sarà autenticamente espressivo solo se l’attore, invece di produrre alla lettera il risultato dei processi motori, effettuerà un lavoro motorio tale da ottenere un disegno emotivo naturale e dunque efficace. Se il movimento verrà eseguito correttamente e verrà adeguatamente sottolineato, senza ostentazione, si creerà nello spettatore uno stato d’animo emotivo elementare.

Il gesto è anzitutto relazione, è situato in punto di articolazione tra il sociale e l’individuale e così il suo utilizzo comporta, inevitabilmente, anche implicazioni etiche. La società, la politica, la morale e il background personale di ognuno andrà dunque a inficiare sulla percezione dello spettatore e anche su quella dell’attore.

Il corpo umano sposa la forma del mondo e la sua geografia interiore ne riproduce l’ordinamento.9

Secondo Ejzenstejn lo scopo dell’attore è dunque

riprodurre qualcosa e, con i propri mezzi (cioè scuotendo il pubblico con il proprio corpo), suscitare nello spettatore l’emozione prestabilita. Non bisogna puntare sulla

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credibilità di ciò che viene rappresentato, ma sulla sua capacità di “mettere in moto” il pubblico.10

Come è stato affermato nei capitoli precedenti, anche in Ejzenstejn troviamo conferma del fatto che l’espressione nasce dal nesso operativo e semantico tra uomo e mondo e si realizza laddove avviene una trasformazione tangibile nello spettatore. Il movimento rappresenta dunque un’attrazione che, sappiamo bene, è per Ejzenstejn sinonimo di funzionamento ed efficacia dello spettacolo. Egli, inoltre, considera impossibile racchiudere entro codici definiti il significato ultimo della forza scaturita dal movimento espressivo; lo spettatore non può far altro che cogliere e accogliere il contagio emotivo e il senso che ne deriva.

Ogni film è orientato verso una conclusione ideologica, che sta alla base della sua struttura ed il film deve dunque orientare lo spettatore verso di essa. Come accade nel finale di Sciopero, nel quale due occhi in primissimo piano guardano in macchina come per voler dire: «Proletari, ricordate!». Il movimento espressivo è inteso quindi come emotivamente contagioso e deve trasmettersi empaticamente dall’attore allo spettatore. In un racconto per immagini, come nella vita reale, il corpo umano diviene corpo conflittuale, in cui l’impulso centrale si scontra con le resistenze provenienti dalle zone periferiche. Un corpo dialettico, i cui movimenti sono sempre il risultato di tensioni che lo attraversano e vengono, successivamente, sintetizzate. Al cinema ciò diviene possibile grazie al montaggio, attraverso il quale l’espressività viene accentuata e sintetizzata, alternando i primi piani dei volti a dettagli sulle mani a campi lunghi. La forma cinematografica produce dinamizzazione emotiva e intellettuale ed ogni

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inquadratura, considerata da Ejzenstejn una cellula del montaggio, produce una dialettica fatta di emozioni e pensieri.

Queste idee, seguite poi da studi tangibili, furono condivise e appoggiate da artisti d’avanguardia e trovarono terreno fertile nel mondo della cinematografia mondiale, che vide la realizzazione concreta del pensiero ejzenstenjano. Nel 1922, per esempio, Aleksej Gan scrisse in un articolo che il compito del cinema sarebbe quello di “organizzare le emozioni”.

Una rappresentazione metaforica dell’indagine che stiamo sviluppando si potrebbe trovare nell’opera Glass House che Ejzenstejn realizzò nel 1927. Si tratta di una raccolta di disegni nei quali architetture di vetro rivelano ogni aspetto di ciò che è raffigurato, anche da prospettive insolite. Le immagini vengono così trafitte dallo sguardo e rivelate per ciò che contengono realmente. Qualcosa di simile è rintracciabile nel risultato che produce lo sguardo della macchina da presa: quello di svelarci cosa sta dietro ciò che vediamo.

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2. IL VOLTO COME PARS PRO TOTO

Un po’ come nei quadri futuristi, dove gli elementi sono frammentati e distaccati ma uniti in un'unica consequenzialità, le pellicole di Ejzenstejn racchiudono e sottolineano la possibilità di afferrare simultaneamente tutti i lati di un fenomeno in una rappresentazione. Senza questo incontro non esiste arte, non c’è conoscenza. Secondo Ejzenstejn soltanto con l’avvento del cinema sarebbe stata offerta all’artista la possibilità di afferrare simultaneamente tutti i lati di un fenomeno in una rappresentazione corrente. Attrazione, conflitto, mobilitazione accompagnano ogni immagine.

Ejzenstejn ripone completa fiducia nell’efficacia del cinema, poiché la considerava la vera arte del futuro, anche se, paradossalmente, è quella maggiormente capace di regredire verso il passato. Concetto spiegato e ribadito nel capitolo di Metod intitolato Il tamburo ritmico, nel quale sostiene la capacità del cinema di operare nel modo più compiuto ed efficace la discesa verso gli strati profondi del pensiero sensibile.

Ancora una volta ci si ritrova, inevitabilmente, sul terreno della psicologia e dell’antropologia. Infatti, secondo Ejzenstejn, nel corso della visione di un film lo spettatore regredisce verso lo stadio del pensiero prelogico, dove si perderà la differenza tra soggettivo e oggettivo, dove diventerà più acuta la capacità di percepire l’intero attraverso il parziale unitario (pars pro toto), quindi il primo piano, dove i colori cominceranno a cantare, dove i suoni sembreranno avere una forma (sineddoche), dove la parola suggestionante obbligherà a reagire come se si

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fosse realizzato il fatto stesso designato dalla parola (comportamento ipnotico).11 Questo “regresso” psichico di cui parla Ejzenstejn può essere raggiunto attraverso il ritmo del montaggio e un’altra fondamentale via: il primo piano, che si collega direttamente a tutte le forme di espressione e di pensiero fondate sul principio della pars pro toto. Nel capitolo Peripezie della pars pro toto di Metod, vi è uno scritto intitolato Storia del primo piano, all’interno del quale Ejzenstejn menziona forme diverse in cui di volta in volta la parte sostituisce il tutto, come se fosse ad esso equivalente, oppure si distingue nettamente dal tutto, senza entrare in relazione con esso, o viene rappresentata insieme al tutto, ma portata in primo piano per aumentare la forza espressiva dell’immagine. Grazie alle ricerche di Ejzenstejn, ma anche affidandoci semplicemente alla percezione personale, si può insomma affermare la potenza unificatrice del volto.

La composizione è costituita da tre forme che si susseguono: equivalenza assoluta della parte e del tutto (tesi); la loro netta separazione (antitesi); il ricongiungimento di entrambe in un’unità che non ne sopprime le differenze ma le traspone su un livello superiore (sintesi). A quest’ultimo stadio appartengono, secondo Ejzenstejn, gli esempi migliori di pars pro toto, che si erano manifestati nell’arte con il primo piano, forma che l’autore sovietico ritrova anche nei contesti culturali delle incisioni ukiyo-e giapponesi.

Come la storia ci insegna, il primo piano nasce con Griffith e al cinema bisogna dare il merito di aver utilizzato in modo costruttivo e sintetico il principio della

pars pro toto che invece in altri contesti viene praticato in forme non orientate

verso la sintesi, come il fotomontaggio o le avanguardie occidentali, nelle quali

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frammenti provenienti da contesti diversi venivano assemblati in libere associazioni, al solo scopo di sorprendere il lettore. Nell’opera di Ejzenstejn il vero senso del primo piano non è quello di una semplice frammentazione del reale, è rivolto a obiettivi più alti e non deve offrire un semplice spaesamento. Il primo piano è dunque un concetto non un frammento; è una forma compiuta, sintetica, capace di creare tensione dialettica tra la parte e il tutto. Nelle sue pellicole, infatti, il regista preleva un frammento non per isolarlo ma per reinserirlo in una sintesi dialettica carica di tensione. Basti osservare un qualsiasi suo lavoro per averne conferma.

L’autore sovietico arriverà a considerare l’arte cinematografica come simile all’esperienza intrauterina, poiché essendo un’arte fondata su basi fotografiche, e quindi su immagini che nascono dall’impronta dei raggi di luce su una pellicola fotosensibile, si ricollega alla genealogia di pratiche che affonda le proprie radici nei primordi dell’umanità: dalle impronte nell’argilla alle maschere mortuarie, dalle silhouettes studiate dalla fisiognomica di Lavater alla nascita della fotografia e poi del cinema, “tecnica della super maschera” fondata sul principio del negativo.12 In alcune inquadrature di Que viva Mexico!, ad esempio, avviene la

riattivazione delle strutture prelogiche e la realizzazione della sintesi di cui sopra: il presente del profilo del volto degli indios e il passato delle figure Maya e degli Aztechi scolpite nella pietra si mescolano fino a creare un’immagine di perfetta sintonia e somiglianza, come per voler annullare i secoli di storia che li dividono. Siamo difronte a un momento emblematico della forza sintetizzante del volto: centinaia di anni racchiusi in un profilo.

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Ecco che il paesaggio-volto, simbolo di storie che prendono forma sotto l’epidermide, testimone e insieme emblema dell’evoluzione dell’uomo e della storia dell’umanità, trafigge lo schermo e si fa portatore di messaggi misteriosi ma comprensibili una volta svelati.

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3. ATTRAZIONE E ISTERIA

È nel cinema che la formula del pathos o dell’estasi si manifesta nella forma più coinvolgente. Questo avviene perché è il dispositivo stesso ad essere strutturato in modo tale da indurre nello spettatore, tramite lo scorrere ritmico e ipnotico dei fotogrammi, una forma di regressione verso strati mentali prerazionali. Quasi inspiegabilmente si piange e si ride davanti a una tela piatta, su cui si muovono le ombre di persone esistite un tempo o che “semplicemente” recitano; si tratta di un piano che sprigiona una forza incontrastabile ed è per questo che Ejzenstejn parla di “capacità incatenante” del film.

Al centro della teoria di Ejzenstejn c’è l’operazione mirante a comporre materiali eterogenei che lui chiama “rappresentazioni” (izobrazeinie); le singole componenti creano un tutto: un’immagine (obraz) è al tempo stesso sintetica, in quanto capace di dare un significato generale agli elementi di cui è composta, ed efficace, poiché emotivamente carica e in grado di influenzare il suo spettatore. Il montaggio permette di raggiungere questo risultato, così da creare un’unità di senso, una tensione che rende l’opera espressiva ed efficace. Quella che Ejzenstejn chiama obraznost.

L’intera storia delle arti si rivela come una serie interminabile di tentativi di sperimentare in modo sempre più efficace un unico procedimento: quel procedimento del montaggio,

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dell’unificazione di più “rappresentazioni” in un’unica “immagine che le arti hanno sempre praticato ma che nel cinema trova la sua più ampia realizzazione.13

Gli approfondimenti teorici di Ejzenstejn sono ricchi di rimandi a contesti artistici e culturali differenti, per concretizzare i suoi studi egli prese in considerazione, ad esempio, l’opera di El Greco (vero nome Dominikos Theotokopoulos), pittore, scultore e architetto greco, vissuto tra la metà del Cinquecento e il primo Seicento, il quale realizzò opere empatiche capaci di cogliere lo stato emotivo dell’autore e trasmetterlo allo spettatore. Questo autore si rivela cruciale per lo studio sui volti poiché i soggetti delle sue opere vengono investiti da emozioni che stravolgono i loro volti e i loro corpi; le loro posture vengono descritte da Ejzenstejn come estatiche e isteriche, facendo così riferimento anche agli studi sull’isteria condotti da Jaen-Martin Charcot. Questi, infatti, fece delle dimostrazioni durante le quali venivano presentati al pubblico malati che, sottoposti a scatti fotografici, mostravano agli studiosi in sala gli effetti della stimolazione elettrica del volto. Da ciò ne derivò l’analisi di una serie di pose “tipiche” e ricorrenti: la contrattura, la minaccia, l’erotismo, la supplica, l’estasi. L’idea di accostare estasi e isteria e trattarle come forma di gestualità espressiva ricca di potenzialità artistiche è qualcosa di fondamentale nella ricerca ejzenstenjana e più in generale nell’estetica cinematografica. Anche se, nel corso degli anni Venti, gli studi di Charcot venivano contestati, nell’undicesimo numero della rivista La Révolution

surréaliste, nell’articolo intitolato Le cinquantenarie de l’hystérie, l’isteria venne

celebrata come «la più grande scoperta poetica della fine del XIX secolo».

Secondo i giornalisti Breton e Aragon l’isteria, più che una patologia, era «un

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mezzo supremo di espressione», una gestualità intensa e al tempo stesso trasgressiva, erotica e disordinata, sospesa tra misticismo e pornografia.14

Secondo Dalì l’estasi è «lo stato vitale più straordinariamente sconvolgente fra tutti i fantasmi e le rappresentazioni psichiche» , uno stato capace di creare immagini incisive ed autentiche; attraverso il quale può esprimersi la realtà e il surrealismo insieme poiché si realizza il sovvertimento di tutti i valori.15

L’esposizione di tali concetti la si può trovare chiaramente nei film di Ejzenstejn: nell’estasi sterile del fanatismo religioso ortodosso o in quella fertile dei contadini entusiasti della collettivizzazione. L’efficacia dell’opera d’arte e il suo effetto espressivo sta, secondo il regista sovietico, proprio nell’esibizione della condizione di estasi. Il primo piano e lo sfondo, proprio come nei quadri di El Greco, si allontanano vertiginosamente l’uno dall’altro, creando una tensione estrema. Il volto trasfigurato del Laocoonte, insieme a quello dei figli è, secondo Ejzenstejn, la rappresentazione della forma dell’estasi per eccellenza; è al contempo oggetto e forma della rappresentazione. Esattamente quell’estasi che si può trovare nei disegni di Ejzenstejn, dominati da una dialettica sentita, esperita anziché compresa coscientemente ed intellettualmente; frutto di un’esperienza sensibile ed estatica. Un’estasi derivante dall’esperienza con cui si mettono in contatto l’ora e l’allora, il vicino e il lontano, il logico e il prelogico. Vi è dunque una collisione di emozioni e «un’immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. L’immagine è la dialettica

14 L. ARAGON e A. BRETON, Le cinquantenarie de l’hystérie, 1878-1928, in La Révolution surréaliste, 1928, n II, pp. 21-22, in A.SOMAINI, Ejzenstein, cit., p. 354

15

S. DALI’, Le Phénomène de l’extase, in Minotaure, 1933, nn. 3-4, p. 76, in A. SOMAINI,

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nell’immobilità».16 Il cinema va così a inserirsi in una genealogia artistica ricca di

immagini in cui è presente la tensione tra primo piano e sfondo, pensiamo a Hiroshige e Hokusai, a Degas e Toulouse-Lautrec e molti altri.

Al cinema, dunque, grazie alla rappresentazione dettagliata di un sentimento, accade qualcosa di simile all’ipnosi: stato in cui si reagisce alla descrizione di determinati fatti come se si trattasse di fatti reali. Sia Ejzenstejn che Epstein, insieme a molti altri, parlano del cinema in termini di ipnosi, inebriamento e assuefazione. Epstein, ad esempio, nel 1921 dedica un saggio all’analisi del primo piano e della sua relazione di prossimità assoluta con lo sguardo dello spettatore, rivelando in questo incontro qualcosa di immensamente ineguagliabile:

Mai prima d’ora un viso si è proteso tanto sul mio. Mi marca strettissimo, e io a mia volta lo inseguo testa a testa. Non c’è più spazio tra noi, lo divoro. È in me come un sacramento. Acuità visiva massima17.

In modo analogo Béla Balàzs sostiene, ne L’uomo visibile, del 1924, che la cinepresa è dotata di uno sguardo “fisiognomico”, ovvero capace di cogliere appunto il “volto” delle cose inanimate e riscoprire quelle atmosfere e quelle “tonalità emotive” (Stimmungen) che il razionalismo della modernità aveva progressivamente dimenticato18.

Tutti e tre questi autori avevano dunque visto nel cinema, già negli anni Venti, un incontro di arcaicità e modernità; un incontro dato, incredibilmente, dalla più moderna delle forme artistiche.

16

A. SOMAINI, Ejzenstejn, cit., p. 391

17

J. EPSTEIN, Ècrits sur le cinéma, Paris, 1975 in A. SOMAINI, Ejzenstein, cit., p. 236

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Ejzenstejn quindi mescola, sconvolge, azzarda e funziona. Al centro del suo pensiero c’è dunque la volontà di sorprendere e catturare emozioni e reazioni tramite la forza attrazionale. Creare nuove combinazioni e nuovi confronti in nome della definizione di nuovi legami. Egli voleva liberare le forze dell’inconscio giocando con le immagini.

Nel 1930 vennero pubblicate su una doppia pagina della rivista Documents, trenta fotogrammi dal film La linea generale (Il vecchio e il nuovo), una vera e propria galleria fisiognomica all’interno della quale, ancora una volta, Ejzenstejn sottolinea l’importanza del ruolo svolto dal tipaz in questo tipico esempio di montaggio eterogeneo; la successione di volti mostra le differenti espressioni di personaggi vicini e lontani. Grazie alla disposizione a griglia, i primi piani entrano in relazione gli uni con gli altri e i temi portanti del film emergono: il fanatismo, la superstizione, la povertà, la ricchezza, l’entusiasmo. I fotogrammi utilizzano il pathos dei volti per sintetizzare il messaggio ideologico del film.

L’effetto espressivo nel cinema è il risultato del confronto. È questo lo specifico del cinema.19

Il montaggio è dunque per Ejzenstejn il più potente mezzo compositivo per dare forma ma soprattutto sostanza al soggetto narrativo; è il bisturi, il plettro del film. Ciò che dà una forma e una struttura specifica all’immagine.

È così che immagini statiche ed immagini estatiche si fondono e si confondono e

«quando la tensione all’interno di un’inquadratura raggiunge il culmine e non può più

19

S. M. EJZENSTEJN, Béla dimentica le forbici, in BALAZS, L’uomo visibile, pp. 373-74 in A. SOMAINI, Ejzenstejn, cit., p. 312

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crescere in quei limiti, allora l’inquadratura esplode, frantumandosi in pezzi di montaggio».20

Con questi termini Ejzenstejn porta avanti la convinzione che le esigenze della composizione cinematografica non sono meno imperative e impegnative di quelle che riguardano la letteratura o la musica.

20

S. M. EJZENSTEJN, Lezioni di regia, in Forma e tecnica del film e lezioni di regia, Einaudi, Torino 1964, p. 478, in A. SOMAINI, Ejzenstejn, cit., p. 369

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4. LA PIENEZZA EMOTIVA DEL VOLTO

Il principio cinematografico non è piovuto dal cielo sull’umanità, ma è scaturito dal seno stesso e dalle profondità della cultura umana […] il cinema nel suo complesso, non solo nella rappresentazione, ma anche nel principio di tutta la sua composizione, cioè nella sua forma, è la riproduzione di una sola cosa, sempre la stessa: l’Uomo.21

Esattamente in linea con le sue convinzioni creative, nei disegni di Ejzenstejn, come nei suoi film, vi è la costruzione di contrapposizioni ideologiche e psicologiche, attraverso un’attenta distribuzione dei tratti fisiognomici.

In Ejzenstejn si fa strada la consapevolezza che la natura delle immagini, la loro genesi e la loro trasmissione nel tempo, la loro efficacia e il loro pathos, devono essere studiati secondo una prospettiva antropologica, prendendo in considerazione quelle pratiche simboliche arcaiche che sopravvivono ancora nella modernità.22

Egli riponeva estrema fiducia nella capacità del cinema di proporsi come uno strumento di pensiero, di analisi e di conoscenza.

È il quadrato l’unica forma che sia parimenti adatta ad abbracciare tutta la verità dei rettangoli espressivi esistenti. Per imprimersi nella psicologia dello spettatore grazie all’imperturbabilità “cosmica della sua “quadratezza”.23

21

S. M. EJZENSTEJN, Teoria generale del montaggio, in A. SOMAINI, Ejzenstejn…, cit., p. 315

22

A. SOMAINI, Ejzenstejn…, cit., p. 119

23

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Nelle sue opere i volti svolgono un ruolo non solo fondamentale ma cruciale per la reale e completa comprensione del messaggio cui si fanno portatori. I volti qualificano i personaggi.

L’occhio insanguinato, trafitto da un proiettile che ha mandato in frantumi la lente degli occhiali di una cittadina vittima della repressione nella Corazzata Potemkin, diviene simbolo di una tragedia che si sviluppa sotto i nostri occhi. È la sintesi di un massacro inaudito. Lì abita la potenza di un’immagine – o meglio – di un volto, che si fa portatore di un messaggio storico, politico e sociale.

L’utilizzo che Ejzenstejn fa del primo piano richiama quella tradizione della fisiognomica che aveva teorizzato la possibilità di leggere inscritti in un volto i tratti non solo di un carattere, ma di un intero contesto mentale e sociale. Nella conferenza “La forma cinematografica: problemi nuovi” Ejzenstejn parlò di fisiognomica come un esempio di disciplina la cui pretesa di “scientificità” aveva ormai perso ogni credibilità, ma che poteva essere riattivata nel presente proprio nel campo del tipaz cinematografico. I contrasti psicologici, sociali e politici vengono visualizzati, prima ancora che attraverso il linguaggio, attraverso la forza espressiva dei volti. Quelli che troviamo nel cinema ejzenstenjano sono volti fortemente espressivi e immediatamente leggibili. Attraverso un’attenta distribuzione dei tratti fisiognomici, Ejzenstejn costruisce contrapposizioni ideologiche e psicologiche.

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Lo schermo è specchio fedele non solo dei conflitti emotivi e tragici, ma anche di quelli psicologici e ottico-spaziali, deve essere un campo di battaglia appropriato per le schermaglie di fronte allo spettatore.24

Sullo schermo l’inconscio delle immagini emerge, proprio come la psicoanalisi rivela l’inconscio umano.

Solo gli elementi cinematografici sono capaci di cogliere la rappresentazione del flusso completo dei pensieri in un uomo turbato […] Come rappresentando sui volti il gioco interiore, la lotta dei dubbi, degli impeti della passione, della voce, della mente, notando con “l’avanzamento rapido” o il “ralenti” la differenza dei ritmi dell’uno e dell’altro, e insieme contrastando l’azione esteriore quasi assente: contraddicendo, con la febbre delle discussioni interiori, la maschera di pietra del volto.25

Nei lineamenti dei personaggi ejzenstejniani si trova, inoltre, una singolare sensazione di immobilità. Nelle sue pellicole si percepisce l’intenzione di recuperare qualcosa di arcaico e cerca di farlo attraverso l’accostamento di volti moderni a forme antiche, ad esempio. Come accade nel film Que viva Mexico! nel quale i volti degli abitanti dello Yucatan vengono accostati a quelli raffigurati nelle rovine precolombiane. Egli gioca con la profondità di campo, utilizzandola proprio come un linguaggio moderno; elementi in primo piano come un volto e un profilo in pietra si stagliano contro edifici e paesaggi visti in campo lungo, diventando la traduzione del passato che “veglia” sul presente, qualcosa di lontano

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The Dynamic Square, conferenza tenuta da Ejzenstejn il 17 settembre 1930, organizzata dall’Associazione dei tecnici della Academy of Motion Picture Arts and Sciences di Hollywood

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ma incredibilmente vicino e palpabile. «I volti degli uomini si fondono con le immagini di pietra e la gente sembra pietrificata».26

Morte e pietrificazione ritornano e sembrano sempre uguali a se stesse. La drammaturgia della forma si può vedere in modo nuovo. Le immagini si fanno sintesi di qualcosa di estatico e conflittuale. Il viaggio che Ejzenstejn compie nell’espressività umana va di pari passo a un viaggio nel tempo, a una regressione verso stratificazioni temporali profonde e verso forme di espressione che appartenevano al passato ma sopravvivono nel presente. La sua è una riflessione sugli strati profondi dello sviluppo dell’individuo e da questo studio ne deriva l’efficacia della sua opera. Egli tenta di usare il mezzo cinematografico per restituire su di uno schermo un pensiero concepito come flusso e al contempo come tensione tra spinte contrastanti. Mette in gioco soluzioni inedite per dar vita a concetti primordiali ancora misteriosi, poiché la nostra attività mentale è contemporaneamente razionale e irrazionale e dunque il prelogico e il mistico coesistono con il logico. Emblema di questo incontro-scontro è allora l’incontro di due facce che è l’incontro di due poli, che per un momento si rovesciano l’uno nell’altro e, incorporandosi, danno vita a qualcosa di sacro.

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S. M. EJZENSTEIN, Sceneggiatura di Que viva Mexico!, in BASSOTTO e CAVAGNIS (a cura di)

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5. VISIONE E PERSUASIONE

Il tema di presente e passato che si fondono ritorna più volte nelle pellicole ejzenstejniane. Nel film Il Prato di Bezin, del 1937, ritroviamo quel processo dialettico ed estatico cui si accennava precedentemente. Vi è una sequenza in cui dei contadini entrano in chiesa con i volti sorridenti; sollevati dall’assenza dei sabotatori, saccheggiano e smantellano le icone sacre, indossano i paramenti sacri, inseriscono i loro volti all’interno delle cornici dopo averne rimosso le figure. Iconoclastia e “autoiconizzazione” si fondono e confondono, i sorrisi iniziali si tramutano in gioiosa estasi, un carnevalesco rovesciamento delle gerarchie prende vita. Le icone vengono così ripensate in termini nuovi e più attuali.

La religione, straordinario repertorio di forme efficaci con cui agire sulle masse, deve essere svuotata dei suoi contenuti – proprio come l’icona in cui si inserisce il suo volto la giovane contadina – per poi appropriarsi delle sue forme e riorientarle verso altri scopi. Allo stesso modo, le arti del passato non devono essere semplicemente superate, ma studiate alla ricerca di forme efficaci da riattivare nel presente.27

Qualcosa di simile la vediamo nella sequenza del film Ivan il Terribile quando Basmanov compare vestito da donna, con tanto di maschera femminile sul volto; toccando adesso il tema dell’androginia, si assiste, ancora una volta, alla fusione degli opposti e all’inversione dei ruoli.

Il “gioco” dei volti nelle opere di Ejzenstejn lo si vede anche nella pellicola intitolata Aleksandr Nevskij, nella quale la figura del protagonista, Nevskij

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appunto, risulta autoritaria e fiera. Anche qui si trova un’opposizione eloquente e narrativa dello stato dei personaggi: il volto autorevole del principe dei russi si contrappone a quelli spietati dei principi Teutoni. Certamente permeata dalla propaganda patriottica, questa pellicola rappresenta il punto di maggior contatto all’estetica del realismo socialista del periodo. (inserire fotogrammi dei volti). I ritmi ripetitivi offrono allo spettatore un effetto ipnotico, al fine di far recepire l’immagine nella maniera più persuasiva possibile il messaggio ideologico. Anche in questo caso arriva la conferma di un cinema pensato come opera d’arte totale. Messaggio che arriva – ancora – nel film Ivan il Terribile, nel quale Ejzenstejn mostra esemplarmente come il cinema possa raccogliere in sé tutti gli stili e tutte le forme artistiche, «vicine e lontane, nel tempo e nello spazio, convocandole di volta in volta a seconda delle specifiche necessità compositive in gioco». Ciò che è lontano si unisce a ciò che è vicino, non solo ideologicamente ma anche fisicamente grazie all’accostamento di primi piani a campi lunghissimi, rendendo visibile ciò che fisicamente non può essere unito. I movimenti estremamente stilizzati dei corpi dei personaggi dialogano con la macchina da presa; i primi piano sono insistenti e i volti sono ridotti a maschere la cui intensità espressiva si concentra nel movimento degli occhi. Addirittura la barba appuntita del protagonista diviene elemento grafico col quale comporre l’inquadratura.

Quello di Ivan il Terribile fu ed è ancora un enorme esperimento compositivo; grazie anche alla dote di gran disegnatore, Ejzenstejn delinea con precisione la relazione tra i profili di ognuno degli elementi dell’inquadratura. Ombre, volti e oggetti si connettono in un gioco visivo e musicale «creando un fitta rete di corrispondenze, quasi di rime visive, che richiama l’uso dei Leitmotiv fatto da

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Wagner».28 Lungo il percorso del film ritorna più volte anche il tema dello sguardo, che l’autore ribadisce e sottolinea con estrema intensità. Si vede l’occhio vigile, l’occhio che osserva e che scruta ciò che accade intorno: lo si vede nel momento in cui Ivan sbircia mentre sul volto gli è stata calata la Bibbia aperta in attesa dell’estrema unzione; poi viene mostrato l’occhio del Cristo dipinto sullo sfondo del profilo di Kurbskij; più volte nel corso del film viene riproposto anche l’occhio onnipresente di Maljuta, alleato di Ivan, come occhio che spia e che sorveglia.

L’importanza del volto e degli elementi che ne fanno parte risulta quindi non solo fondamentale ma anche insostituibile in quanto a espressività, dinamismo, energia ed emozionalità. Emerge così un’intensa drammaturgia, che diviene medium instabile e aperto, sempre pronto a valicare i suoi limiti. La storia delle forme viene insomma indagata e poi sviluppata. Producendo nuove forme dialettiche e una nuova manifestazione, ovvero l’obraz di cui sopra. Attraverso il film la realtà risulta, così, “malleabile” e più comprensibile, poiché il tempo e le immagini vengono pensate e manifestate.

Stiamo dunque effettuando un viaggio principalmente antropologico. Fissare un’immagine sulla pellicola cinematografica si inserisce, come dice Bazin, nella tradizione di forme “registrate” come il calco di maschere mortuarie, come l’imbalsamazione o come la fotografia. La sua posizione all’interno della storia delle arti si rivela essere un crocevia di tempi diversi. Esso è chiamato a confrontarsi costantemente non solo con una fitta rete di rimandi, ma con la

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conoscenza, le emozioni, la manipolazione del tempo, dello spazio e della mummificazione dei fenomeni.

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