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Capitolo 3

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Academic year: 2021

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Capitolo 3 – Genio e degenerazione 1. La teoria degenerazionista in Francia

Per giungere al cuore della teoria lombrosiana è necessario a questo punto approfondire il concetto di “degenerazione”. Tale nozione, che assunse una rilevanza notevole nella psichiatria del secondo ‘800, conobbe i primi e più significativi sviluppi all’interno del dibattito francese. Per la precisione, punto d’inizio della storia che vado a raccontare è il celebre Traité des dégénérescences physiques, intellectuelles et morales de l’espèce humaine, scritto nel 1857 da Bénédict Augustin Morel1. La ricerca del medico franco-austriaco prendeva spunto da un’inquietante constatazione. Le statistiche segnalavano un costante aumento in Europa degli individui affetti da alienazione mentale o segnati da gravi anomalie fisiche congenite. Il crescente numero di suicidi, criminali e riformati alla leva non poteva essere ignorato. Sembrava di assistere, sul nostro continente, all’inesorabile deterioramento della specie. Non si trattava infatti di eventi individuali, ma di un fenomeno patologico su larga scala che coinvolgeva spesso intere famiglie. Quali le cause di un simile flagello? Tale domanda, da cui prendeva le mosse lo studio di Morel, racchiudeva il fulcro del suo approccio innovativo. A distinguere i diversi fenomeni degenerativi cui il medico aveva modo di assistere non erano infatti né i sintomi, né il peculiare decorso delle diverse malattie. L’impianto nosografico scelto era di natura eziologica. Questo conduceva il celebre psichiatra a rinvenire l’origine del disastro nelle condizioni ambientali nelle quali molti individui erano costretti a vivere. A compromettere la salute fisica e mentale delle persone erano nella maggior parte dei casi agenti intossicanti quali l’alcol (vera e propria piaga sociale), o le sostanze mefitiche che gli operai erano obbligati ad inalare quotidianamente negli opifici2. Non meno deleteria era la scarsa igiene dei quartieri e delle abitazioni in cui risiedevano i meno abbienti, per non parlare poi della loro dieta deficitaria, basata spesso su alimenti guasti e nocivi. E questo non era che l’inizio. Genitori malati, infatti, non

1 Cfr. B. A. Morel, Traité des dégénérescences physiques, intellectuelles et morales de l’espèce

humaine, Paris, Baillière, 1857.

2 Daniel Pick sottolinea al riguardo come in Francia il termine “dégénération” (cui in ambito medico si preferirà nel tempo quello di “dégénérescence”, onde distinguere meglio la degenerazione in quanto fenomeno biologico da quella intesa come processo sociale e culturale) rimandasse anzitutto alla critica del vigente ordine sociale e della politica del laissez-faire sostenuta dal governo (Cfr. D. Pick, Faces of degeneration: a European disorder, Cambridge, Cambridge University Press, 1993). Per contro Rafael Huertas ritiene che la teoria degenerativa fosse la risposta data dalla psichiatria del secondo ‘800 all’esigenza di ordine sociale necessario alla borghesia dell’epoca per il mantenimento dei rapporti di potere esistenti. Fenomeni come la lotta all’alcolismo, in tale prospettiva, altro non erano che un espediente ideologico borghese, che evitava il confronto con le reali radici del problema (Cfr. R. Huertas, Locura y degeneraciòn: psiquiatrìa y sociedad en el positivismo francès, Madrid, Consejo superior de investigaciones cientìficas, 1987). Pur ritenendo filosoficamente impeccabile la disamina dello studioso spagnolo, credo sia importante sottolineare, come fa Pick, l’impegno civile dei medici francesi. Alla stigmatizzazione del deviante impostasi ben presto in altri paesi d’Europa, si contrappose sul territorio transalpino una costante richiesta di riforme sociali che merita di essere evidenziata.

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potevano che generare una prole inferma. Non si assisteva necessariamente al ripresentarsi nei figli degli stessi caratteri patologici manifestatisi nei genitori. Anzi, nella maggior parte dei casi si verificava un progressivo peggioramento delle condizioni di salute attraverso le generazioni. Un semplice stato nevropatico del padre o della madre poteva generare nella loro discendenza una disposizione organica sfociante in seguito in una forma acuta di alienazione mentale, fonte a sua volta di disturbi ancor più gravi nelle generazioni a venire. Imbecilli e idioti rappresentavano l’ultimo anello di tale catena: le gravi tare da cui erano affetti era solitamente accompagnata da una provvidenziale sterilità, che poneva un limite al corrompersi della stirpe. I degenerati trasmettevano dunque alla prole non tanto una malattia specifica, quanto una predisposizione morbosa, una matrice biologica sempre più compromessa.

Ma cosa intendeva esattamente Morel con “degenerato”? Per rispondere a tale quesito, è necessario far luce sulla peculiare cornice metafisica entro cui l’analisi moreliana si veniva a collocare. Attenendosi ai dettami del credo cattolico, Morel faceva propria una visione di fondo di stampo creazionista. Creato da Dio a propria immagine e somiglianza, l’uomo era sin dall’origine una creatura perfetta. Per questo la degenerazione veniva definita come una deviazione dal tipo primitivo dell’umanità:

Il résulte de ce simple exposé, que l’idée la plus claire que nous puissions nous former de la dégénérescence de l’espèce humaine, est de nous la représenter comme une déviation maladive d’un type primitif. Cette déviation, si simple qu’on la suppose a son origine, renferme néanmoins des éléments de transmissibilité d’une telle nature, que celui qui en porte le germe devient de plus en plus incapable de remplir sa fonction dans l’humanité, et que le progrès intellectuelle déjà enrayé dans sa personne se trouve encore menacé dans celle de ses descendants3.

Il processo degenerativo rendeva dunque impossibile per l’uomo conseguire il fine affidatogli dall’eterna saggezza divina. Si aveva l’impressione di assistere ad una nuova cacciata dall’Eden: nel venir meno di uno stato di perfezione originaria, l’uomo pagava ancora una volta il fio delle sue brame incontrollate, manifestatesi stavolta nella sua cieca corsa al progresso4.

3

Cfr. B. A. Morel, op. cit., p. 5. 4

Tradizionalmente, la degenerazione divenne per i medici dell’epoca un male prodotto ed alimentato dai ritmi e dalle condizioni di vita imposti dalla civiltà urbana. Tale linea di pensiero trovò forse in Jules Dejerine l’esponente più radicale. A suo dire, infatti, i frenetici ritmi moderni generavano di continuo individui nevrastenici, svuotati d’ogni energia nervosa, e candidati ad iniziare un nuovo lignaggio degenerato. Si trattava a suo dire di un meccanismo fatale impossibile da arrestare (Cfr. J. Dejerine, L’hérédité dans les maladies du système nerveux, Paris, Asselin et Houzueau, 1886). Interessante eccezione a quello che divenne uno stereotipo molto diffuso fu uno studio di Alexandre Cullerre comparso nelle Annales, dedicato alla degenerazione nelle campagne. L’immunità del contesto rurale da tale fenomeno, a detta del’autore, altro non era infatti che una nuova versione del vecchio pregiudizio che vedeva nella campagna l’ultimo baluardo della virtù. I dati empirici raccolti testimoniavano invece della frequenza con cui fenomeni degenerativi si presentavano nelle regioni rurali francesi. Incidevano fattori quali l’alimentazione scarsa e poco variegata, l’alcolismo (per quanto diffuso solo nei giorni festivi), e la

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Non bisogna però lasciarsi fuorviare dal sapore apocalittico di simili elucubrazioni. Per quanto un alone di fatalità (se non di castigo divino) sembrasse campeggiare sul panorama descritto da Morel, il futuro non appariva poi così cupo. L’enfasi posta sul fattore eziologico, infatti, consentiva non solo di dar forma ad un più efficace impianto nosografico, ma anche di formulare contromisure terapeutiche. Su tale versante, decisivo diventava il concetto di profilassi. Se il processo degenerativo, una volta innestatosi, era difficilmente invertibile, non rimaneva che agire sulle cause di tale fenomeno. L’invito del medico franco-austriaco era dunque ad una massiccia azione sociale, volta a garantire condizioni di lavoro più umane, alloggi migliori ed un’alimentazione più adeguata a tutti i cittadini, in particolar modo ai meno abbienti. In tale frangente, la medicina non poteva che suggerire metodi e strategie, per la cui attuazione necessitava però del supporto della società e del Governo. E all’intervento sul piano materiale, doveva necessariamente accompagnarsi un’altrettanto vasta opera di educazione, senza la quale mai si sarebbe diffusa tra le persone la necessaria consapevolezza.

Le tesi di Morel divennero oggetto di un’ampia discussione tra gli psichiatri francesi, che si protrasse per quasi tutta la seconda metà dell’800. Il suo ottimismo terapeutico ricevette un’adesione pressoché unanime. Non fece eccezione Valentin Magnan, l’altro grande nome a cui è legato in Francia il concetto di degenerazione. In compenso, però, nei suoi lavori venivano messi in discussione molti degli assunti del medico franco-austriaco5. All’adozione di un approccio esclusivamente eziologico, anzitutto, si contrapponeva quello di una nosografia in cui trovasse posto al contempo un’adeguata considerazione per i dati di natura anatomica. I degenerati, per il medico del Sainte-Anne, erano infatti distinguibili dai semplici predisposti proprio in virtù delle loro stigmate fisiche, oltre che per le congenite anomalie della loro psiche6. Oltre a ciò, ancor più significativo il modo in cui con Magnan la degenerazione veniva ad essere

sedentarietà della popolazione, che conduceva spesso a matrimoni tra consanguinei, peggiorando una situazione di per sé già nefasta (Cfr. A. Cullerre, Des dégénérescences psycho-cérébrales dans les milieux ruraux. Étude etiologique, in <<Annales médico-psychologiques>>, XLII (1884), pp. 363-397).

5 Nel riportare le linee generali del pensiero di Magnan in tema di degenerazione mi rifaccio in particolare a V. Magnan, M. Legrain, Les dégénérés. État mentale et syndromes épisodiques, Paris, Rueff, 1895 (il disegno della figura 1 è tratto da qui). Cfr. anche V. Magnan, Leçons cliniques sur les maladies mentales, Paris, Progrès médical, 1887.

6 Nonostante ciò, Magnan rimase sempre contrario ad una caratterizzazione prettamente antropometrica dei soggetti degenerati. In particolare, poi, riteneva del tutto ingiustificato qualsiasi parallelo tra stigmate fisiche e morali, frutto di due processi tra loro completamente distinti. Alla luce di ciò, gli sviluppi della criminologia lombrosiana non potevano che apparirgli scientificamente infondati.

Figura 1- Degenerazione ed atavismo in Magnan

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inserita in un contesto evolutivo. Si trattava infatti di uno stato patologico, non di un’anomalia reversiva. Le cause degenerative rendevano l’individuo inferiore ai propri genitori sul piano psico-fisico, mentre la reversione avrebbe rappresentato il ritorno ad uno stato evolutivo meno perfezionato, ma normale (vedi figura 1: rispetto a Z, termine ultimo dell’iter degenerativo, a b c d ed e rappresentano le tappe intermedie di un normale processo evolutivo. La regressione ad uno di tali stati intermedi, per quanto svantaggiosa per l’individuo, avrebbe comunque rappresentato il ritorno ad uno stato fisiologico. Lo stesso non si poteva dire per Z). Non si trattava più della caduta da uno stato di perfezione originaria, quanto della compromissione di quel patrimonio ereditario necessario per affrontare la lotta per l’esistenza.

Con ciò, si prendevano le distanze non solo da Morel, ma anche da quanto si andava elaborando in merito in Italia, dove, come visto, l’influsso lombrosiano aveva portato il concetto di atavismo ad assumere una grande rilevanza. Non meno importante poi il modo in cui Magnan sancì una netta distinzione tra “degenerato” ed “ereditario”: a suo dire, si poteva diventare degenerati per cause accidentali e non trasmettere tale condizione ai propri figli. Molto significativa era infine la caratterizzazione psichica del degenerato da lui elaborata. Nota caratteristica dello stato mentale di questa categoria di individui era lo squilibrio, che poteva essere frutto sia della soppressa attività di alcuni centri cerebrali che dell’iperattività di altri. Del tutto incapace di esercitare un pieno dominio di sé, il degenerato si trovava a vivere letteralmente in balia della propria psiche compromessa. Se l’autonomo attivarsi dei centri motori lo rendeva infatti spesso soggetto a movimenti automatici ed incontrollati, sindromi episodiche di natura ossessiva o impulsiva erano stati sintomatici tipici di una mente del tutto fuori controllo7. Come detto, però, tutto questo non impediva al medico del Sainte-Anne di asserire che la degenerazione, più che una malattia individuale, era un pericolo sociale, cui era necessario opporre contromisure preventive adeguate.

Bisogna comunque sottolineare come anche in questo frangente fosse possibile riscontrare un significativo cambio di prospettiva. All’ottimismo moreliano subentrava un quadro più complesso. Nonostante una più attenta caratterizzazione anatomica e psichica, infatti, il degenerato diventava in Magnan una figura molto più sfuggente, “mimetica”. Possiamo anzi dire che tale era divenuto proprio in virtù dei suoi studi. Questo perché, nell’ottica da lui adottata, veniva meno ogni netta distinzione tra il normale ed il patologico.

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Maurice Legrain approfondì in maniera interessante tali tematiche, difendendo le tesi di Magnan, a detta del quale le malattie mentali assumevano nel degenerato caratteristiche peculiari. Lo stesso delirio cronico, in costoro, presentava una natura più caotica e proteiforme, che esulava dagli schemi clinici convenzionali (Cfr M. Legrain, Du délire chez les dégénérés: observations prises à l’asile Sainte-Anne, 1885-1886 (service de M. Magnan), Paris, Delahaye et Lecrosnier, 1886.

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Dall’individuo sano, che avrebbe potuto conoscere al massimo un breve disturbo di natura melanconica, al degenerato irrecuperabile correva una linea continua, priva di cesure8. Colui che agli occhi di un profano non sarebbe stato altro che un eccentrico, un individuo originale ma innocuo, era per il medico il possibile iniziatore di un lignaggio degenerato9. In molti casi, infatti, semplici tic nervosi o comportamenti fuori dal comune erano indici di un disturbo nervoso destinato ad aggravarsi nei discendenti. La nozione di “squilibrio”, in buona sostanza, finiva per rendere potenzialmente patologica ogni minima anomalia psichica o comportamentale10. Il tema del contagio, con le inquietudini ed i sospetti che lo accompagnavano, faceva quindi capolino anche nel dibattito francese. Era per questo un ottimismo velato di incertezza quello che portava Magnan ad allinearsi sulla medesima linea terapeutica esposta da Morel.

Si può dire in conclusione che i due autori da me prescelti, posti ai due estremi della seconda metà del XIX secolo, testimoniano adeguatamente dei mutamenti cui il concetto di degenerazione andò incontro in questo lasso di tempo. Al di là delle cesure e delle continuità riscontrate, però, permane un nodo problematico di fondo che, destinato all’epoca a rimanere irrisolto, deve ora essere analizzato. Ciò cui mi riferisco è il dibattito intorno al ruolo dell’eredità all’interno del processo degenerativo. Posto che, come precisato da Magnan, “degenerato” ed

8 A tal proposito anche Jules Dallemagne rilevò come fosse impossibile distinguere in modo netto le ossessioni “fisiologiche” da quelle “patologiche”. Lo scienziato che si dedica anima e corpo alla risoluzione di un problema rimasto insoluto da anni, come lo scrittore che lavora alacremente al proprio nuovo romanzo, altro non sono che due ossessi. Cosa li distingue dal malato di mente ossessionato dalle sue convinzioni di origine morbosa? (Cfr. J Dallemagne, Dégénérés et déséquilibrés, Bruxelles, Lamertin, 1895).

9 Per Cullerre, giungere a concepire l’eccentricità come un vizio congenito della mente era uno dei più importanti progressi resi possibili in psichiatria dagli studi di Morel e di Magnan (Cfr. A. Cullerre, Les frontières de la folie, Paris, Baillière, 1888). Anche Paul Moreau de Tours dedicò un interessante saggio alla figura dell’eccentrico. Secondo l’autore, quest’ultimo appariva agli occhi della gente come un individuo strano, che nessuno si sarebbe stupito di veder diventare folle a tutti gli effetti. Per il medico, non si trattava che di uno squilibrato che aveva il privilegio di non farsi rinchiudere. L’eccentrico era un alienato i cui atti stravaganti non erano accompagnati da un’alterazione della coscienza, ma che risultava comunque privo di una volontà capace di impedirgli di agire. Le strane gesta di tali individui finivano per attirare sempre più spesso l’attenzione dei giornali e dell’opinione pubblica. Si innescò così, a detta dello psichiatra, una vera e propria sindrome imitativa. Ecco allora tutta una sequela di individui impegnata nelle imprese più stravaganti, dal raggiungere Parigi in sella ai mezzi più impensabili ai viaggi intorno al mondo nelle condizioni più disagevoli. Un fenomeno innocuo, senz’ombra di dubbio. Lo stesso meccanismo, però, era alla base dell’escalation di violenza che durante le sommosse politiche portava gli individui più impressionabili a commettere i crimini più efferati. Gli eccentrici, minaccia invisibile all’integrità sociale, rappresentavano per questo in ogni istante una potenziale minaccia (Cfr. P. Moreau de Tours, Les excentriques. Étude psychologique et anecdotique, Paris, Société d’éditions scientifiques, 1894).

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Al fenomeno dello squilibrio era legato anche il celebre concetto di « degenerato superiore », un altro degli ossimori apparentemente tanto in voga tra gli psichiatri ottocenteschi. Stando a Magnan, infatti, lo sviluppo esagerato di determinate facoltà intellettuali poteva condurre individui anormali ad avere dei veri e propri lampi di genialità. Compensavano di solito tali exploit evidenti lacune sul piano morale e comportamentale. La natura patologica di questa forma di genialità non condusse però Magnan ad asserire una qualche parentela tra genio e follia.

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“ereditario” non erano termini equivalenti, rimaneva da chiarire come nei figli le anomalie dei genitori potessero andare incontro ad un drammatico peggioramento. Il concetto di “hérédité dissemblable”, coniato da Morel, non smetterà mai di suscitare dubbi e perplessità. Emblematiche al riguardo le parole pronunciate da Jules Cotard durante la seduta del 25 gennaio 1886 della Société Médico-Psychologique. Seguendo il ragionamento del medico franco-austriaco, a suo dire, si sarebbe infatti giunti alla conclusione paradossale per cui tratto distintivo dei degenerati ereditari era quello di non assomigliare ai propri genitori. Una simile assurdità era inammissibile: <<Nous ne sommes pas en droit d’altérer le sens des mots au point de qualifier d’héréditaire la genèse du dissemblable>>11. Nonostante le affermazioni di uno psichiatra tanto autorevole, la nozione di “eredità dissimile” seguitava ad essere il cavallo di battaglia di molti suoi colleghi. Basti pensare a quanto asserito pochi anni dopo da Charles Féré nel suo celebre La famille névropathique12, sorta di summa delle convinzioni scientifiche di un’epoca sull’argomento. Le malattie nervose, secondo l’autore, si trasformavano attraverso le generazioni. Questo perché l’eredità morbosa si sottraeva alle normali leggi ereditarie. La mancanza di somiglianza nella discendenza riscontrata nelle famiglie degenerate era indice di una debolezza embriogenica che non a caso portava infine alla sterilità e all’estinguersi della stirpe. Del resto, le analogie che non era possibile riscontrare tra i membri di una stessa famiglia erano invece rinvenibili quando si confrontavano tra loro gli alberi genealogici di famiglie diverse. Manifestandosi la degenerazione sotto un piccolo numero di forme comuni, infatti, si assisteva spesso ad un analogo succedersi di figure sempre più difformi dal tipo normale13. Si era dunque dinanzi al dissolversi dell’eredità fisiologica: la degenerazione finiva per coincidere, sulla scia di quanto asserito da Magnan, con la perdita delle qualità ereditarie che avevano determinato e fissato l’adattamento della razza.

Il coesistere, tra i medici dell’epoca, di opinioni tanto disparate sul medesimo argomento è facilmente spiegabile: basta ricordare come la reale natura dei meccanismi ereditari fosse ancora ignota. I quesiti intorno a cosa potesse essere trasmesso ai figli e come avvenisse tale trasmissione erano oggetto delle speculazioni più disparate14. Per questo, un'altra questione allora molto discussa

11

Crf. Discussion sur les dégénérescences, in <<Annales médico-psychologiques>>, XLIV (1886), pp. 427-433.

12

Cfr. C. Féré, La famille névropathique. Théorie tératologique de l’hérédité et de la prédisposition morbides et de la dégénérescence, Paris, Alcan, 1894.

13 Féré, aderendo in pieno ai dettami della moderna medicina sperimentale, eseguì una serie di esperimenti sulle uova di gallina per dimostrare la fondatezza delle proprie asserzioni. Sottoponendo le uova (per lo più tramite iniezioni) all’azione di agenti tossici di diverso tipo, si riscontravano nella covata gli stessi caratteri degenerativi segnalati da Morel nella discendenza dei degenerati. Dati costanti, in tali esperimenti, erano la dissomiglianza tra i membri della stessa famiglia e la somiglianza dei tipi dissimili delle diverse famiglie tra loro (Cfr. C. Féré, op. cit.). 14 Emblematico al riguardo un articolo di Elme-Marie Caro, che scettico nei confronti dell’ereditarietà dei caratteri psicologici teorizzata da Ribot, si trovava a dover fronteggiare un

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era destinata per il momento a rimanere insoluta. Tutt’altro che uniforme era infatti l’opinione dei medici del secondo ‘800 intorno alla questione dei matrimoni consanguinei. Erano davvero, come si credeva nell’antichità, un modo per preservare la purezza della razza? O si trattava piuttosto di un’usanza deleteria, come suggerito da Morel15? Contro l’ipotesi del medico franco-austriaco si pronunciarono nomi eccellenti come quelli di Broca e Bertillon16. Lo stesso Féré sostenne che la consanguineità non faceva che sommare le caratteristiche familiari: nel caso di lignaggi degenerati era dunque qualcosa da evitare ad ogni costo, mentre non poteva che avere esiti positivi all’interno di famiglie esenti da tare patologiche. Vero e proprio gigante dai piedi d’argilla, la teoria degenerativa era dunque priva di un reale fondamento scientifico, nonostante la mole di dati empirici che (almeno in apparenza) ne avvallavano le conclusioni. Tutto ciò non le impedì di essere ampiamente discussa per oltre mezzo secolo e di esercitare, specialmente in Francia, una vasta influenza culturale.

2. Lo strano caso di Max Nordau

Ritengo che non esista opera che testimoni della bagarre culturale legata in Francia al concetto di degenerazione meglio del saggio omonimo scritto nel 1892 da Max Nordau17. Era quest’ultimo un intellettuale di origine ungherese, che scrisse tutti i suoi saggi in lingua tedesca. Perché allora parlarne in rapporto al contesto transalpino? Perché all’epoca Nordau viveva e scriveva a Parigi, fulcro della civiltà “fin de siècle” da lui stigmatizzata. Città paradigmatica per quel che concerneva le ansie, le speranze, gli eccessi e le contraddizioni di quell’età crepuscolare, nessuno la seppe raccontare in maniera tanto provocatoria. Alle

vero e proprio rebus. Questo perché la trasmissibilità di un determinato carattere, a fronte della miriade di leggi secondarie e possibili eccezioni contemplate dalle teorie scientifiche dell’epoca, era pressoché impossibile da confutare (Cfr. E. Caro, L’hérédité intellectuelle et morale, in <<Revue des deux mondes>>, XLIII (1883), pp. 751- 787). Basti ricordare come all’epoca fosse ancora convinzione piuttosto diffusa che l’”impronta” lasciata in una donna dal primo coniuge potesse condizionare anche i caratteri trasmessi al figlio dal secondo marito. Testo di riferimento fondamentale per l’epoca, cui è necessario rimandare per una comprensione delle convinzioni più diffuse in tema di eredità rimane P. Lucas, Traité philosophique et physiologique de l’hérédité naturelle dans les états de santé et de maladie du système nerveux, Paris, Baillière, 1850.

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Il medico franco-austriaco riteneva per contro che gli incroci interrazziali potessero avere un esito rigenerante. Questo ovviamente a patto che fossero integrati in un adeguato contesto educativo, prescindendo dal quale, come già visto, ogni possibile strategia era destinata a perdere di efficacia (Cfr. B. A. Morel, op. cit.). Sulla stessa lunghezza d’onda anche le opinioni del suo allievo Gabriel Doutrebente, secondo il quale, più nello specifico, l’introduzione di un individuo sano in una famiglia degenerata avrebbe potuto rappresentare un nuovo inizio per le generazioni seguenti. Secondo lui i fatti, del resto, provavano chiaramente che era possibile per le razze rigenerarsi (Cfr. G. Doutrebente, Étude généalogique sur les aliénés héréditaires, in <<Annales médico-psychologiques>>, XXVII (1869), pp. 197-237, 369-394).

16 Al riguardo cfr. F. Papillon, L’hérédité au point de vue physiologique et moral, son rôle dans le

développement des nations, in <<Revue des deux mondes>>, XLV (1873), pp. 813-916.

17 Nel corso del capitolo mi rifaccio alla seguente edizione francese: M. Nordau, Dégénérescence, Paris, Alcan, 1896.

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cause degenerative descritte da Morel, infatti, l’autore ungherese aggiungeva il soggiorno in una grande città, che dava a suo dire esiti analoghi a quello in luoghi palustri. Il progresso della civiltà aveva sconvolto la vita delle persone, sottoposte a stimoli continui. Il consumo di energia organica era enormemente moltiplicato rispetto a cinquant’anni prima. A fronte di un cambiamento tanto repentino, non c’era stato tempo per un normale adattamento fisiologico. Questa era la fonte della generale “stanchezza” degli individui dell’epoca. Si trattava di una sorta di esaurimento nervoso su larga scala, da cui non poteva che originarsi una generazione di nevrastenici ed isterici, destinati a trasmettere ai figli la loro natura compromessa. Un pubblico del genere rappresentava il trampolino di lancio ideale per portare alla ribalta artisti degenerati. Era sempre più diffusa infatti tra le persone la continua ricerca di un qualche shock nervoso, di spettacoli capaci di stupire e disorientare. Nient’altro, del resto, avrebbe potuto scuoterle dal loro torpore.

In un’epoca tanto suggestionabile, pervasa da un’esasperata emotività di origine isterica, c’era bisogno di qualcuno che mettesse in guardia le giovani generazioni intorno alla reale natura delle avanguardie, di quegli artisti che amavano proclamarsi alfieri del futuro. Nordau intendeva essere quel qualcuno. La critica scientifica, il mezzo con cui progettava di portare a compimento il proprio piano. Altro non si trattava che del proposito di giudicare dell’opera partendo da una disamina del suo autore. Sulla scia delle osservazioni lombrosiane, si asseriva che negli artisti degenerati erano rinvenibili gli stessi tratti somatici ed intellettuali rinvenibili nei folli, nei criminali e negli anarchici. Al pari di questi ultimi, i nuovi artisti derivavano dalla loro incapacità di adattarsi al contesto le proprie istanze di rinnovamento radicale. Il loro riunirsi in “scuole”, del resto, era per Nordau frutto di quella tendenza a raggrupparsi tipica dei degenerati. Il parallelo, qui, era con le bande criminali: analoga era infatti in tutte le scuole artistiche la natura ossessiva del capo e l’estrema suggestionabilità dei discepoli, in cui latitava la volontà. L’esempio più celebre di scuola artistica era analizzato nella prima parte del suo lavoro, dedicata al misticismo, uno dei fenomeni culturali tipici della fin de siècle a cui Nordau intendeva dedicare la propria attenzione. E’ su tale disamina che mi concentrerò, prendendola a modello dell’approccio adottato nell’opera.

Per “misticismo” si intendeva quello stato d’animo in cui si crede di percepire o presagire rapporti sconosciuti o inesplicabili tra i fenomeni. D’altro non si trattava, in realtà, che di una condizione di confusione spirituale tipica del soggetto degenerato. In quest’ultimo, infatti, la mancanza di volontà generava l’incapacità di prestare attenzione, che conduceva a sua volta il soggetto a formulare falsi giudizi sull’universo, sulla qualità delle cose e sui rapporti tra esse. Al pensiero nebuloso del mistico non poteva che corrispondere un modo di esprimersi incerto, da cui il pubblico si lasciava sedurre. Esponenti di punta di

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tale fenomeno erano senz’ombra di dubbio i simbolisti, perfetto esempio per Nordau di banda di degenerati. Non a caso era rinvenibile in questi poeti una vanità sconfinata ed un’opinione esagerata del proprio merito, un pensiero confuso ed incoerente, nonché una marcata incapacità al lavoro serio e continuato. Quest’ultima inettitudine, a detta del medico ungherese, li relegava per tutto il giorno nei locali che fungevano da loro quartier generale, dove passavano il giorno a vaticinare oziosamente in compagnia dei loro simili.

Di Paul Verlaine, padre del simbolismo, venivano descritte l’asimmetria facciale e la fisionomia mongoloide, sottolineata dagli zigomi sporgenti, gli occhi a mandorla e la barba rada. Elitario, dipsomane ed impulsivo, sopravviveva comunque in lui almeno un barlume di senso morale. La sua glorificazione poetica del vagabondaggio altro non era per Nordau che il tentativo di giustificare a posteriori un irresistibile impulso organico. Le ripetizioni, frequenti nelle sue poesie, lungi da essere un espediente retorico, erano un segno di debolezza mentale. Lo stesso poteva dirsi per l’unione di sostantivi ed aggettivi tra loro incoerenti, legati solo da una vaga similitudine sonora. Non andava meglio a Mallarmé, in cui spiccavano le orecchie da satiro, altro segno fisico di un’evidente natura degenerata. Ad essere poi sottoposta ad un’attenta diagnosi medica era l’audizione colorata, ovvero la tendenza ad associare suoni e colori inaugurata da Rimbaud, nel solco di una tradizione poetica volta a scoprire nuovi legami tra le cose. Per il medico ungherese, quando la coscienza rinunciava ai vantaggi della percezione differenziata dei fenomeni e iniziava a confondere negligentemente i dati sensoriali, dava prova di un’attività cerebrale debole e malata. Si trattava infatti di una regressione agli inizi dello sviluppo organico. Allargando poi l’orizzonte ad alti fenomeni culturali di moda all’epoca ed inscrivibili nell’orizzonte del misticismo, veniva fatto un discorso analogo per Wagner. La sua idea di “leitmotiv”, incentrata sull’associazione di un determinato concetto ad un particolare motivo musicale, non era che un altro fenomeno degenerativo volto a superare i confini tra le arti, un ennesimo ritorno all’indistinto. Soffermandosi in seguito sui fenomeni dell’egotismo e del realismo (su cui avrò modo di tornare nel prossimo capitolo), Nordau proseguiva nel resto dell’opera a dar voce alla sua spietata diagnosi socio-culturale. A suo dire, il nuovo secolo ormai alle porte avrebbe visto il definitivo esaurirsi dei lignaggi degenerati, e l’avvento di un’umanità pienamente all’altezza dei ritmi moderni. Per questo, nello svelare la natura patologica delle opere allora tanto di moda, si tentava di salvare dal naufragio almeno la gran massa degli imitatori e degli adulatori non del tutto compromessi.

Il testo del medico ungherese divenne un vero e proprio bestseller, e in molti si pronunciarono sui suoi contenuti. A colpire è il modo in cui la natura patologica (presunta o reale) degli autori forniva qui lo spunto per svalutare e discriminare le loro opere. Per quanto non si negasse che lo squilibrio mentale potesse essere

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fonte di creazioni sublimi e contribuire alla genesi di una personalità geniale, l’opinione di Nordau in merito a tale fenomeno non smetteva di essere decisamente stigmatizzante18. Ritengo che una simile presa di posizione si inserisse alla perfezione nella tradizione francese sul tema. Già in Morel la degenerazione aveva una connotazione derivata e negativa, rappresentando la caduta da uno stato di perfezione originaria. Con Magnan, nonostante il concetto si collocasse entro una cornice diversa, la sostanza non era destinata a cambiare. Scomparendo infatti ogni netta distinzione tra il normale ed il patologico, i due concetti erano disposti lungo la medesima linea: la degenerazione non era che il venir meno della salute. Come rilevato da Canguilhem19, il prodursi di tale indistinzione ontologica negava alla malattia ogni autonomia: non era possibile concepire la patologia quale condizione esistenziale nella quale il soggetto potesse elaborare una visione alternativa della realtà, esulante dai canoni della normalità. Ancora una volta, non c’era posto per le voci fuori dal coro. In Nordau, a ben vedere, non si assisteva quindi che alla radicalizzazione di quello che era un assunto di fondo proprio di tutta la psichiatria francese in tema di degenerazione. Elaborato per la prima volta in Francia da un medico di origine austriaca, tale concetto trovò la più significativa espressione a livello culturale nelle pagine di un altro autore di lingua tedesca, che all’epoca risiedeva a Parigi. Strano destino davvero, come strana è la vicenda legata a Max Nordau. Ebreo di origine, le armi polemiche da lui affilate produrranno esiti aberranti nelle mani della propaganda nazista20. Paradossi della storia che sarebbe interessante indagare, ma che mi condurrebbero però oltre i confini temporali della mia indagine, entro i quali è ora tempo di rientrare.

3. Lignaggi degenerati

Il concetto di degenerazione non trovò applicazione solo nell’ambito della critica socio-culturale. Come già avvenuto per le categorie nosografiche da me esaminate nel capitolo precedente, divenne anche viatico ci un modo nuovo di guardare al nostro passato. In particolare, conobbero un successo crescente, tra ‘800 e ‘900, le analisi storiografiche volte a ricostruire in chiave degenerativa le vicende dei grandi casati nobiliari. La salute, uno dei valori centrali nella visione del mondo borghese, fungeva qui da discrimine tra la vecchia e la nuova classe dominante.

18 Difforme l’opinione in materia di Dallemagne, che pur celebrando l’importanza degli studi di Magnan, vedeva nel genio l’espressione di un perfetto equilibrio psichico (Cfr. J. Dallemagne, op. cit.). Secondo Cullerre invece, pur non potendosi definire a suo avviso il genio una forma di follia, i due fenomeni attingevano ad una fonte comune (Cfr. A. Cullerre, Les frontières…).

19 Cfr. G. Canguilhem, Le normal et le pathologique, Paris, Presses Universitaires de France, 1975. 20 Cfr. G. Pelloni, Tra razza, medicina ed estetica. Il concetto di degenerazione nella critica

culturale della fin de siècle, Padova, Unipress, 2008. Interessante il rilievo dell’autrice su come lo stile di Nordau finisse per renderlo compartecipe di quell’irrequietezza nervosa da lui tanto stigmatizzata.

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A sancire la nascita di questo peculiare genere di indagine fu un saggio di Paul Jacoby, uscito per la prima volta nel 188121. L’autore, alienista russo all’epoca operante in Francia, spiegava sin dal principio come tutte le dinastie, non solo quelle regnanti, soggiacessero al rischio di un progressivo deperimento attraverso le generazioni:

Voyez ce jeune homme, pâle, faible, languissant, se réchauffant à peine aux chauds rayons du soleil – c’est un héritier, le dernier porteur , le dernier représentant d’une grande race, heureuse encore si elle a la chance de disparaître discrètement avec un anémique, si elle ne s’écroule pas bruyamment dans la fange ou le sang avec un fou ou un scélérat22.

La morale insita in un approccio del genere era chiara. Coloro che intendono ergersi al di sopra del livello comune, condannano con ciò all’estinzione la propria discendenza, barattando l’autentica immortalità, quella fisiologica, con quella ben più effimera legata alla fama. <<L’avenir est aux mèdiocrités>>23. L’opera era destinata soprattutto ai magistrati, chiamati spesso a giudicare i rampolli di simili dinastie, nonché ai pedagogisti deputati a studiare misure speciali per l’educazione di costoro. Le lacune in quest’ultimo frangente, infatti, erano spesso decisive per la disgregazione della psiche. Segno distintivo delle malattie mentali era per Jacoby la debolezza dell’Io, in cui il processo educativo non aveva instillato principi di riferimento abbastanza solidi, capaci di porre l’individuo al riparo dall’essere in balia di ogni idea stravagante che si affacciasse alla sua mente. In una simile prospettiva, il potere assoluto non poteva che essere deleterio per lo sviluppo morale del soggetto.

Per dimostrare la validità di simili assunti, la casta nobiliare dominante era il “campione sperimentale” perfetto, in quanto socialmente isolata e non contaminata da fattori disturbanti quali la miseria o il soggiorno in luoghi insalubri. Per l’esattezza, la ricchezza di documenti aveva indotto il medico a fare della stirpe augustea l’oggetto delle proprie attenzioni. In Augusto, individuo valetudinario, l’unico disturbo nervoso significativo era il crampo dello scrittore, indice di un indebolimento dei centri nervosi moderatori. Del suo figliastro Druso Germanico non si sapeva molto. Amato per il suo coraggio e la sua bontà, morì giovane durante una campagna militare in terra teutonica. Si raccontava che durante una delle prime spedizioni gli apparve in una foresta un’enorme donna germanica, che lo spronò a spingere ancora più a fondo la propria incursione. Era

21 Cfr. P. Jacoby, Études sur la sélection chez l’homme, Paris, Alcan, 1904. Quella a cui rimando è la seconda edizione dell’opera, riveduta ed ampliata, pur senza intaccare la struttura originale. Nella prefazione all’edizione del 1904 Gabriel Tarde sottolinea come, all’epoca della prima comparsa, il testo rischiò di passare inosservato. Le teorie lombrosiane erano in quel momento al loro apogeo, ed offuscavano tutto il resto. Era invece a suo dire importante comprendere l’importanza del lavoro di Jacoby, specie in un’epoca in cui la democrazia esponeva tutti i cittadini ai rischi un tempo appannaggio esclusivo della casta dominante.

22 Cfr. P. Jacoby, op. cit., p. VII. 23

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questo un chiaro indizio della sua condizione nevropatica, di cui saranno evidenti le tracce presso i suoi discendenti, tra i quali abbondarono anche le morti premature. Spiccava tra costoro la figura dell’imperatore Claudio. Individuo malaticcio e mal conformato, la sua vita dissoluta ne faceva il degno sposo della celebre Messalina. L’amore per i giochi e gli spettacoli da lui dimostrato era un atteggiamento tipico degli imbecilli, al pari della completa assenza di sentimenti morali anche di fronte alle scene più cruente da lui organizzate. Non era infine più idilliaca la figura di Nerone, ultimo rappresentante della stirpe:

La race d’Enée commence par une déesse, et par son fils, un héros, pour finir par une prostitue incestueuse, souillée de tous les opprobres et de tous les crimes, et par son fils, histrion sanguinaire, parricide infâme et fou. Le premier de la race sauve son père, le dernier tue sa mère24.

Mi sono limitato a riportare le tappe principali del lungo ed articolato itinerario dinastico descritto da Jacoby, sufficienti credo ad illustrarne il senso. Chiunque vivesse in una condizione di dominio o di privilegio era destinato a soggiacere ad un destino nefasto analogo a quello cui era infine andata incontro la stirpe di Augusto. La causa di ciò, per il medico russo, non stava nelle usanze matrimoniali dei nobili, tra cui le unioni consanguinee non erano più diffuse che tra il resto della popolazione. Nemmeno la vita sregolata di costoro era considerabile un agente causale, essendo in verità tali eccessi una conseguenza della compromessa integrità della loro psiche. Era piuttosto la condizione di privilegio in cui costoro vivevano ad innescare il processo degenerativo, e l’unione tra persone cresciute nel medesimo ambiente corruttore non poteva che accelerare il processo. Ritengo che l’indagine storica di Jacoby finisse così per assumere i contorni di una sorta di “manuale del buon borghese”, volto a dissuadere dall’agiatezza i figli dei borghesi arricchitisi. A questi giovani di buona famiglia erano diretti gli ammonimenti dell’alienista russo. L’operosità, di cui la salute fisica era il presupposto necessario, era la sola virtù che potesse preservare la posizione di dominio di industriali e commercianti. Adagiarsi nel lusso significava esporsi ad un inesorabile declino. Ci si trovava quindi di fronte non tanto ad un semplice manifesto ideologico, come sostenuto da molti critici, ma ad una sorta di vero e proprio “romanzo educativo”25.

Non bisogna dimenticare però l’effettiva rilevanza storica di molti di questi studi, che dimostravano una volta di più come la medicina fosse ormai imprescindibile

24 Cfr. P. Jacoby, op. cit., p. 318.

25 Interessante a tale proposito il rilievo di Sean Quinlan, per il quale la letteratura medica ottocentesca mutuava di frequente topos narrativi tipici dei romanzi sentimentali. Gli esempi riportati nei testi medici dell’epoca mostravano spesso situazioni nelle quali i valori morali venivano messi in discussione, con scelte infelici che conducevano regolarmente a conseguenze nefaste (Cfr. S. Quinlan, The great nation in decline: sex, modernity and health crises in revolutionary France, Aldershot, Ashgate, 2007). Simili strategie narrative erano spesso associate al tema della degenerazione, e ritengo che il testo di Jacoby rientri appieno in tale filone “edificante”.

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per una più corretta comprensione del nostro passato. Esemplare al riguardo lo studio di Auguste Brachet sulle patologie mentali dei re di Francia26. Punto di partenza dell’indagine era la figura di Luigi XI, sul trono dal 1461 al 1483. I documenti relativi alla musicoterapia cui il re fu sottoposto erano interpretati da Brachet quale indizio del probabile manifestarsi nel monarca di una psiconevrosi, di cui la musica fu un espediente terapeutico diffuso sin dall’età medievale. Andando più nello specifico, i rimedi descritti dalle fonti d’epoca facevano risalire all’epilessia. Tale diagnosi era confermata dall’elenco di santi invocati a conforto del re. Nella zoofilia di Luigi XI si individuava poi una dei più lampanti indizi della sua natura compromessa. Sembrava infatti che questa passione si fosse spinta sino al furto di uccelli e altre specie esotiche custodite a Parigi. Un simile atto non poteva che rimandare alla cleptomania tipica dello zoofilo degenerato. Alla luce delle anomalie riscontrate, diventava necessario per lo storico ricostruirne la genesi. Tale operazione risultava più complicata del previsto. Se sul padre di Luigi, Carlo VII, non c’erano dubbi, ben diversa era la situazione per il nonno paterno, Carlo VI. Il concepimento del futuro erede al trono coincideva infatti, stando ai documenti, con un periodo in cui ormai il nonno di Luigi era in preda ad una grave crisi di follia e non era padrone delle proprie azioni. Da tempo ormai lui e la moglie non giacevano più assieme, ed era improbabile che l’effettiva paternità di Carlo VII potesse essergli attribuita. Bastava però il lignaggio di Isabella di Baviera, fiera quanto dissoluta nonna paterna di Luigi, a spiegare la follia tanto del figlio quanto del nipote27. Preda di innumerevoli fobie, le sue gambe corte assunsero nella discendenza l’aspetto di vere e proprie deformazioni articolari. I medicamenti prescrittigli nel tempo erano per Brachet indizio di una dismenorrea con concomitante eccitamento genesiaco. Era facile, a questo punto, rinvenire nel gracile ed instabile Enrico VII i segni evidenti di un retaggio materno di tal sorta. Carattere mutevole, era incline all’invidia e all’ingratitudine (basti pensare al modo in cui lasciò morire Giovanna d’Arco). Negli ultimi anni della sua vita sembrava poi essersi manifestato in lui un delirio sitofobico, a cui contribuirono presumibilmente le allucinazioni olfattive cui andava soggetto, oltre alla profonda depressione in cui lo fecero scivolare gli intrighi del Delfino. La madre di Luigi XI, Maria d’Angiò, portava in dote al figlio un lunghissimo lignaggio nobiliare, gravato anch’esso da numerosi disturbi nervosi, resi ancor più deleteri dai frequenti matrimoni consanguinei. L’origine delle tare di Luigi XI era stata dunque svelata, nonostante le difficoltà di un

26 Cfr. A. Brachet, Pathologie mentale des rois de France. Louis XI et ses ascendants. Une vie

humaine étudiée a travers six siècles d’hérédité, Paris, Hachette, 1903. La prima edizione è del 1896.

27 Barnabò Visconti, nonno materno di Isabella, viene descritto da Brachet come un vero e proprio “degenerato superiore”: per nulla privo di doti intellettuali notevoli, alternava in ambito morale una ferocia senza limiti ad un profondo senso della giustizia (squilibrio tipicamente degenerativo). Fu destituito, imprigionato ed avvelenato dal nipote Gian Galeazzo, destinato a diventare il primo duca di Milano.

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retaggio in parte avvolto nel mistero. Rispetto a Jacoby, però, non si intendeva qui elaborare una visione teorica d’insieme. Invertendo quanto avvenuto nell’indagine del medico russo, la medicina si metteva al servizio della storia. Segni indecifrabili per un profano diventavano per il medico indizi grazie ai quali ricostruire una trama all’apparenza inestricabile.

Tra gli antenati di Luigi XI, però, era destinato a suscitare il maggiore interesse tra i medici dell’epoca proprio quello il cui ruolo nella vicenda finiva per risultare marginale. La vita di Carlo VI, nonno paterno putativo di Luigi, eserciterà ancora a lungo il suo fascino misterioso. Secondo Brachet, Carlo, dotato di membra robuste e forte di una taglia superiore alla media, visse una giovinezza all’insegna degli eccessi, in special modo di natura sessuale. Dopo aver sofferto di una febbre tifoide di natura convulsiva, decise durante la convalescenza di intraprendere una spedizione punitiva in Bretagna, ai danni di Pierre de Craon. Partito nell’agosto del 1392 a dispetto dell’opinione contraria dei medici, il sole cocente e il fisico debilitato ebbero infine la meglio sui suoi propositi. Si racconta infatti che, entrato nella foresta di Mans, il re fu avvicinato da un mendicante lebbroso, vestito di stracci, che gli intimò di tornare indietro, o per lui sarebbe stata la fine. Suggestionato da tali parole, Carlo pensò di vederle avverare nel momento in cui uno dei paggi al suo seguito lasciò incautamente cadere al suolo una lancia. Spaventato dal rumore, il re si credette perduto, tradito dai propri uomini, contro i quali si avventò a spada sguainata, uccidendone un paio prima che si riuscisse a sedare il suo impeto e a ricondurlo a ragione. Si trattò con ogni probabilità di un attacco di follia di origine infettiva, dovuto alla stanchezza di un lungo viaggio reso improbo dalla calura estiva. Negli anni a venire però, la situazione del re era destinata a peggiorare. Secondo la tradizione, a perderlo definitivamente sarebbe stato un episodio verificatosi pochi mesi dopo. Da poco ripresosi dal tracollo dell’estate precedente, infatti, Carlo presenziò nel gennaio del ’93 a un ballo in maschera in onore delle nozze di una delle damigelle della moglie. Per l’occasione, il re organizzò con altri membri della corte una mascherata. Travestiti da selvaggi, ed incatenati gli uni agli altri, Carlo e gli altri fecero il loro ingresso nella sala, causando come previsto lo spavento dei presenti. Nella frenesia di quegli attimi, la pelliccia di uno dei membri della mascherata, che aveva forse urtato una torcia, iniziò a prendere fuoco. Le fiamme presero a propagarsi anche agli altri componenti del gruppo, ed il re venne salvato per miracolo dal pronto intervento di un cortigiano28. Brachet, contrariamente all’opinione invalsa sino ad allora, riteneva però che tale episodio non scosse affatto il re. Stando alle cronache dell’epoca, anzi, il re diede prova in quei mesi di un’assoluta impassibilità emotiva. Era questo un fenomeno

28 L’episodio di quello che divenne poi noto come “Bal des Ardents”, regolarmente citato in tutta la letteratura medica dedicata a Carlo VI, ispirò ad Edgar Allan Poe la macabra conclusione del celebre racconto Hop-Frog (Cfr. A. H. Quinn, Edgar Allan Poe: a critical biography, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1998).

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noto agli psichiatri ottocenteschi, che si riscontrava di frequente in seguito ad acute crisi di natura maniacale, specialmente se di origine infettiva. La ricaduta del re, in realtà, si sarebbe verificata nel giugno di quello stesso anno. Ve ne sarebbero state altre quarantadue, in una psiconevrosi protraentesi per trent’anni. Le cronache dell’epoca testimoniano di idee ipocondriache (vi erano ad esempio momenti in cui Carlo credeva di essere fatto di vetro), megalomania e delirio di persecuzione. La diagnosi elaborata da Brachet era di confusione mentale, che lo induceva ad asserire che il re seguitava ad essere incapace di intendere e di volere anche durante le fasi di remissione del suo disturbo mentale29.

Prima del testo da me analizzato, le vicende legate alla vita di Carlo VI erano state oggetto di una ricostruzione imprecisa e spesso arbitraria. Non aveva fatto eccezione a tal riguardo Paul Moreau de Tours, che nel narrare la vita del celebre monarca era arrivato al punto di invertire l’ordine cronologico degli eventi, anteponendo l’episodio del ballo in maschera a quello della foresta di Mans30. A rendere comunque interessante il suo saggio è la peculiare prospettiva da lui adottata. La sua attenzione era infatti incentrata non tanto sugli esponenti dei diversi casati regnanti, quanto su coloro chiamati ad allietarne le giornate. I nani e i buffoni di corte, visti attraverso l’occhio del medico, si inserivano alla perfezione nel mosaico degenerativo delle corti nobiliari. L’arguzia e la vivacità di spirito di costoro, infatti, non erano che il frutto dell’eretismo cerebrale che ne caratterizzava la follia. Quest’ ultima derivava dalla loro evidente costituzione rachitica, a cui secondo la psichiatria ottocentesca si accompagnavano spesso delle alienazioni mentali. Quali migliori compagni per i rampolli squilibrati di antichi casati? Essendo nota la tendenza dei degenerati a unirsi tra loro attraverso sodalizi di varia natura, non stupiva di certo che re e principi amassero circondarsi di simili individui. Emblematica, al riguardo, l’immagine del duca di Berry, uno degli zii di Carlo VI, condotto al sepolcro dai suoi folli vestiti a lutto. L’immagine che emergeva delle vecchie corti europee tendeva sempre di più al grottesco.

Con Victor Galippe, la follia delle vecchie casate regnanti assunse anche una più precisa dimensione iconografica. Nel suo saggio dedicato agli Asburgo, infatti, il medico francese indagò la trasmissione, all’interno della stirpe, di alcuni caratteri

29 Ernest Dupré, in un interessante articolo comparso nel 1910 sulla <<Revue des deux mondes>> propenderà per una diagnosi diversa. Rifacendosi all’opinione di Moreau de Tours e di Legrand du Saulle, infatti, descriverà la follia del re come una psicosi intermittente con predominio di accessi maniacali e stati misti. Nonostante ciò, non si escludeva la comparsa episodica di stati confusionali, in seguito a disturbi infettivi e tossici (Cfr. E. Dupré, La folie de Charles VI, roi de France, in <<Revue des deux mondes>>, LXXXII (1910), pp. 836-866).

30 Cfr. P. Moreau de Tours, Fous et bouffons. Étude physiologique, psychologique et historique, Paris, Baillière, 1885).

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anatomici degenerativi31. In particolare, si trattava di testimoniare del perpetuo trasmettersi attraverso le generazioni di un marcato prognatismo e di un eccessivo sviluppo del labbro inferiore. Era fondamentale, in tal senso, operare un’analisi accurata delle fonti iconografiche, tenendo conto della tendenza degli artisti a dissimulare o ad accentuare determinati tratti fisici. Secondo Galippe, la prima testimonianza del prognatismo asburgico si ha con una medaglia raffigurante Massimiliano I. Per il radicarsi di tale carattere nella famiglia risultò però decisivo il contributo di sua moglie, Maria di Borgogna. Quest’ultima discendeva da prognati come Filippo il Bello, Maria d’Asturia e Carlo V; il sangue dei Valois fu dunque decisivo per il definitivo installarsi nel retaggio degli Asburgo di quel prognatismo divenuto loro peculiare. La galleria di immagini messa assieme da Galippe32 (vedi figura 2) metteva l’autore in condizione di far emergere un dato di fatto piuttosto significativo sul piano scientifico: se la dissomiglianza (stando agli studi di Morel e all’opinione di larga parte degli scienziati) era la norma nella trasmissione di certe mostruosità, era evidente come vi fossero famiglie in cui si aveva una loro trasmissione omologa. Tali segni degenerativi, per di più, si accompagnavano di frequente con anomalie intellettuali e morali di cui il casato asburgico offrì innumerevoli esempi.

Figura 2- Rodolfo II e Leopoldo I d’Asburgo

Una simile constatazione non poteva che condurre a rivedere l’assunto popolare, in virtù del quale si era soliti rinvenire nel prognatismo inferiore l’indice di una volontà ferma e risoluta. Più in generale, la ricerca effettuata conduceva da ultimo Galippe a sottolineare una volta di più gli esiti nefasti dei matrimoni consanguinei all’interno dei lignaggi degenerati. L’assommarsi ereditario di anomalie e fisiche psichiche non poteva che essere foriero di esiti nefasti. E’ interessante rilevare come con Galippe la storia tornasse ad essere fonte di

31 Cfr. V. Galippe, L’hérédité des stigmates de dégénérescence et les familles souveraines, Paris, Masson, 1905.

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La mole di testimonianze iconografiche messa insieme dallo studioso francese era davvero notevole: basti pensare che nel testo erano raccolte più di 200 tavole illustrative raffiguranti diversi esponenti del casato asburgico.

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spunti interessanti a livello medico, senza che questo desse adito per forza di cose alle ardite speculazioni teoriche messe in atto da Jacoby.

L’indagine sul prognatismo asburgico finì per avere anche un rilievo d’attualità. Forte delle sue indagini, infatti, Galippe si trovò ad esprimere la propria opinione in merito alle rivendicazioni di Karl Wilhelm Naundorff, l’orologiaio tedesco che asseriva di essere nientemeno che Luigi XVII, erede designato al trono di Francia. Posto che sia Luigi XVI sia Maria Antonietta erano degli Asburgo, la peculiare fisionomia del casato avrebbe dovuto potersi riscontrare anche nel presunto Delfino, cosa che non avveniva né in Naundorff né nei suoi figli. Ecco dunque che le sue pretese venivano ad essere destituite di ogni fondamento. La bagarre interessò molto Augustin Cabanès, che vide nell’evento una sorta di investitura ufficiale per la patologia storica33. Testi come Fous coronnés testimoniano di come l’interesse del direttore della <<Chronique Médicale>> per questo tipo di tematiche fosse particolarmente pronunciato34. Le sue analisi storiche rappresentano il confine del periodo culturale da me indagato. Oltre a un sempre più marcato gusto per il dettaglio erudito fine a se stesso, infatti, emergeva in Cabanès un modo nuovo di concepire la ricerca medico-storica. Ne dà perfetta testimonianza il saggio da lui dedicato al casato degli Hohenzollern35. L’amore per i nani ed i buffoni di corte dimostrato da molti nobili europei lasciava qui il passo alla gigantomania di Federico Guglielmo, che spese cifre folli per mettere insieme i suoi enormi granatieri. Si trattava nella maggior parte dei casi di creature malformate, caratterizzate da numerosi scompensi fisici e mentali. Pur di ottenere nuovi “esemplari” da aggiungere alla propria collezione, Federico Guglielmo non esitò a mettere in atto dei veri e propri rapimenti, che ebbero spesso conseguenze spiacevoli sul piano diplomatico. Stando a Cabanès, la sua ossessione si spinse al punto che, nel timore di rovinare il suo meraviglioso esercito da parata, non dichiarò mai guerra a nessuno. Culmine della vicenda genealogica del casato prussiano era Guglielmo II, il cui fisico era descritto come minato da innumerevoli tare degenerative. Si era di fronte ad un epilettico salito al trono. Non solo si mostravano riassunte in lui tutte le tare dei suoi predecessori, ma la sua presenza contribuiva a diffondere la psicosi tra i sudditi, giungendo così a rappresentare una minaccia per il mondo intero. Il cambio di registro a cui accennavo credo risulti a questo punto evidente. L’eco di Sedan non si era ancora spenta e la prima guerra mondiale era ormai alle porte. Lungi dall’essere semplice sostegno per una più accurata ricostruzione storica, la medicina si avviava qui a diventare strumento per la propaganda nazionalista. Ci

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Cfr. A. Cabanès, La question Louis XVII à l’Académie de Médecine, in <<La Chronique Médicale>>, XII (1905), pp. 476-480.

34 Cfr. A. Cabanès, Fous couronnés, Paris, Michel, 1914.

35 A. Cabanés, Folie d’Empereur. Une dynastie de dégénérés: Guillaume II jugé par la science, Paris, Michel, 191 ?. Non è possibile risalire ad una più esatta data di pubblicazione. I contenuti mi inducono a pensare che l’opera sia comparsa intorno alla metà del secondo decennio del XX secolo, probabilmente nel 1913 o nel 1914.

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si trovava dunque sull’orlo di un baratro che avrebbe segnato la fine di un’epoca, dei suoi valori e delle sue illusioni.

Le diverse sfaccettature delle indagini storiche in chiave degenerativa succedutesi nel corso degli anni testimoniano della versatilità di tale concetto. Meglio ancora, sono la prova di un dibattito culturale molto più variegato di quanto spesso non si voglia ammettere, in cui la medicina giocò un ruolo sempre più centrale. Sulla scia di quanto andava succedendo oltralpe, la nozione di degenerazione conobbe anche in Italia sviluppi ed applicazioni molto interessanti ed originali, che proverò a ricostruire nel prossimo paragrafo.

4. Una storia controversa

Il concetto di degenerazione ebbe in Italia una storia intricata e spesso contraddittoria. Se è vero che non divenne mai, come in Francia, chiave di lettura culturale di un’epoca36, conobbe nondimeno una larga diffusione in psichiatria. Trattandosi di una vicenda contorta, artefice principale non poteva che esserne Cesare Lombroso. Le sue teorie criminologiche giunsero all’apice della fama proprio quando la delinquenza ed ogni altra forma di devianza vennero ad essere da lui interpretate in chiave degenerativa. Sulla scia di tali studi, e con l’influsso delle ricerche sul tema compiute in Germania da autori quali Krafft-Ebing, si impose nel nostro Paese una visione del fenomeno degenerativo molto più pessimistica di quella francese. Spicca anzitutto il ruolo di rilievo che i segni fisici degenerativi finirono per assumere da noi. Le celebri “stimmate” lombrosiane altro non erano che anomalie fisiche, indici di un organismo mal conformato. Tali deformità erano però anche segno, per l’alienista veronese, di un parallelo sviluppo anomalo della personalità e del senso morale. Come già visto nel capitolo precedente, caratterizzava poi il contesto italiano il modo in cui questo fenomeno patologico veniva ad essere interpretato in chiave atavistica. Si era con ciò dinanzi ad un altro esito tipicamente lombrosiano. L’atavismo aveva infatti rappresentato la prima chiave interpretativa del fenomeno delinquenziale adottata dal padre dell’antropologia criminale. La successiva sistemazione dei dati in suo possesso in un’ottica degenerativa avvenne per accumulazione, ovvero senza rinunciare agli schemi esplicativi sin lì utilizzati. A legare due concetti tra loro in apparenza inconciliabili, quel processo denominato all’epoca “arresto di sviluppo”: il degenerato altri non era che un individuo il cui sviluppo organico, durante la vita embrionale o i primissimi anni dell’infanzia, non era

36 Tale l’opinione, che condivido, è di Delia Frigessi (Cfr. D. Frigessi, Cesare Lombroso, etc.). In effetti, tranne rari esempi, non si segnalò in Italia il ricorso diffuso alla degenerazione quale metafora della condizione di un’epoca. I pochi studi in tal senso, in realtà, altro non erano, nella maggior parte dei casi, che saggi volti a testimoniare della validità degli assunti lombrosiani intorno alla natura degenerata del genio e del delinquente nato. Si veda ad esempio lo studio di Carlo Portigliotti su Giovanni dalle Bande Nere, la cui pazzia morale viene tratteggiata a tinte alquanto fosche (Cfr. C. Portigliotti, La pazzia morale in Giovanni dalle Bande Nere, in <<Archivio di psichiatria, antropologia criminale e scienze penali>>, XXIII (1902), pp.353-371).

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giunto a compimento37. Con un richiamo evidente al concetto haeckeliano per cui l’ontogenesi ricapitola la filogenesi, si asseriva che l’individuo il cui sviluppo era incompleto palesava con le proprie anomalie fisiche e psichiche l’arresto a un grado di evoluzione inferiore a quello attualmente raggiunto dalla specie umana. All’imporsi di questo particolare modo di concepire il degenerato diede sicuramente un rilevante impulso anche Giuseppe Sergi38. A lui si dovevano infatti importanti studi psicologici volti a dimostrare come, al deteriorarsi della nostra mente, le strutture evolutivamente più recenti fossero le prime a venire meno. La riemersione dell’elemento atavico poteva avvenire sia per una debolezza congenita delle strutture superiori, deputate a tenere a bada i nostri istinti primordiali, sia per una congenita esuberanza di questi ultimi, tale da risultare impossibile per il soggetto mantenerli sotto controllo. I degenerati rappresentavano per l’antropologo messinese la categoria dei vinti nella lotta per l’esistenza, dei deboli, di coloro che, sopravvissuti alla battaglia per miracolo, non erano più in grado di combattere e rendersi utili. Non aveva senso, nella sua ottica, imporre alla collettività un altruismo volto a profondere sforzi quasi sempre del tutto inutili. Quella degenerativa, infatti, era nella maggior parte dei casi una condizione irreversibile. Anche se Sergi non dimenticava certo di menzionare il ruolo dei fattori ambientali nella genesi di simili anomalie, tali considerazioni restavano in lui, come nella maggioranza degli studiosi italiani dell’epoca, alquanto marginali. Stigmatizzando il degenerato, la scienza ne rendeva possibile l’identificazione e la reclusione. La matrice criminologica di un simile sviluppo è lampante. In un’ottica di questo tipo, ogni azione collettiva volta a migliorare le condizioni di vita delle masse non poteva che passare in secondo piano39.

37

Cfr. G. Sergi, I caratteri degenerativi nell’uomo secondo Cesare Lombroso, in L. Bianchi (a cura di), L’opera di Cesare Lombroso nella scienza e nelle sue applicazioni, Torino, Bocca, 1906, pp. 32-38. Pur rilevando che quella di Lombroso era una concezione alquanto vasta e comprensiva della degenerazione, Sergi la difendeva con convinzione, al punto da ritenere che un ritorno all’originaria visione moreliana, da molti sostenuto, avrebbe rappresentato per la scienza un passo indietro secolare.

38

Nel ricostruire il punto di vista dell’antropologo messinese, il testo cui farò principalmente riferimento è G. Sergi, Le degenerazioni umane, Milano, Dumolard, 1889.

39 Emblematica al riguardo la presa di posizione di Giuseppe Portigliotti che giungeva sulle pagine dell’Archivio lombrosiano a proporre la sterilizzazione dei degenerati: <<Il degenerato è un malato dei più tenaci e dei più gravi: lottare per ricondurlo alla normalità è opera vana: almeno, impedendone la riproduzione, si faccia in modo che il focolaio, invece di dare calore e germi all’intorno, resti isolato per sempre e si spenga col suo ultimo soffio>>. Le riforme sociali, che avrebbero potuto essere proposte quale alternativa a misure tanto drastiche, erano oggetto dello scetticismo dell’autore, dato che la loro effettiva attuazione non avrebbe potuto che essere lontana nel tempo (Cfr. G. Portigliotti, La lotta contro la degenerazione, in <<Archivio di psichiatria, antropologia criminale e scienze penali>>, XXIV, (1903), pp. 18-27). Il nome dell’autore e la sede dell’articolo sono indici significativi del ruolo giocato da Lombroso e la sua scuola nel diffondersi in Italia di un marcato pessimismo terapeutico.

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La prospettiva dominante sin qui descritta non era però destinata ad imporsi in maniera incontrastata. Emblematico al riguardo un intervento di Silvio Tonnini al sesto congresso della Società Freniatrica Italiana, tenutosi a Novara nel settembre del 188940. L’epilettologo lombrosiano criticava anzitutto il modo in cui Sergi si era arrestato al limitare della questione, senza affrontare ad esempio il tema di quei degenerati che riuscivano ad imporsi nella lotta per l’esistenza proprio in virtù della loro natura squilibrata, o con l’ausilio della selezione artificiale. Costoro rappresentavano una minaccia ben più grave dei “vinti” descritti dal celebre antropologo. Gli appariscenti pregi di questi degenerati di successo erano infatti tali da occultare spesso le loro gravi anomalie, che venivano così propagate in seno alla popolazione. Occorreva dunque una nuova definizione: <<Il degenerato psichico è in genere quegli che, vittorioso o vinto nella lotta per l’esistenza, per le innate qualità o per l’acquisito sconvolgimento del carattere e dell’attività psichica, riesce improduttivo o nocivo alla società>>41. Questo primo rilievo operava senza dubbio un importante distinguo: la degenerazione non comportava sempre e solo un impoverimento delle potenzialità dell’individuo. Ciò era del resto ben noto anche a Lombroso. Tonnini prendeva però le distanze anche dal maestro, distinguendo nel seguito del suo intervento atavismo e degenerazione42. Se quest’ultima era concepita dall’epilettologo come una vera e propria “deumanizzazione”, lo stesso non poteva dirsi per il ritorno atavico. Nel primitivo la degradazione era ontogenetica, e si rivelava sia nei confronti dei suoi immediati ascendenti sia in quelli dei soggetti normali estranei alla famiglia. Nel caso del degenerato, invece, la degradazione era filogenetica, e si rivelava più nel confronto con i soggetti normali estranei alla famiglia che in quello con gli ascendenti, già in parte

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Cfr. S. Tonnini, Degenerazione e primitività, in <<Atti del sesto congresso della Società freniatrica italiana tenuto in Novara dall’8 al 14 settembre 1889 (supplemento al fascicolo I, 1890, del giornale <<Archivio italiano per le malattie nervose>>), Milano, Rechiedei, 1890, pp. 99-161. 41

Cfr. S. Tonnini, op. cit., p. 115.

42 Un simile rilievo critico era già stato in parte sviluppato in S. Tonnini, Le epilessie in rapporto

alla degenerazione, Torino, Bocca, 1891. Nel testo in questione, l’autore operava anche un rilievo destinato poi ad essere ampiamente ripreso e sviluppato da Lombroso. Le sue osservazioni lo avevano infatti condotto a constatare come i segni degenerativi concernessero spesso i caratteri sessuali del soggetto. Che si trattasse di esagerazione, spostamento, precocità, tardività o aberrazione, erano sempre tali caratteri ad essere coinvolti. Tali osservazioni condussero il celebre epilettologo a constatare come nelle donne si riscontrassero meno segni degenerativi anatomici rispetto agli uomini. La bellezza, del resto, non escludeva il darsi di sintomi degenerativi, che poteva anzi contribuire ad occultare. Si verificava in poche parole quanto solitamente avveniva con la genialità maschile: per questo, secondo Tonnini, si poteva definire la bellezza il genio somatico della donna. Il tema, avente un’evidente valenza discriminatoria, sarà ripreso da Zino Zini, per il quale la genialità femminile coincideva nella maggior parte dei casi con il presentarsi di un’anomala virilità. Nell’uomo di genio era invece riscontrata una volta di più lo svanire dei caratteri maschili, soprattutto secondari. L’asessualità del genio ne confermava una volta di più la natura degenerativa, dato che tutta l’evoluzione biologica, stando a Zini, si affermava tramite una sempre più grande differenziazione tra i sessi (Cfr. Z. Zini, Neutralité du génie, in <<Archivio di psichiatria, antropologia criminale e scienze penali>>, XVII (1896), pp. 117, 127.

Figura

Figura 2- Rodolfo II e Leopoldo I d’Asburgo
Figura 3- Monaldo Leopardi
Figura 4- Paolina Leopardi

Riferimenti

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