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La precarietà che affligge il mondo moderno vi si manifesta in tutte le sue accezioni: mobilità, spostamenti, instabilità affettiva, individualismo e comunità, sentimento di vuoto, solitudine, nonluoghi…

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Academic year: 2021

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Il concetto di «modernità fluida» presa direttamente dal saggio di Zygmunt Bauman, è ritornato costantemente lungo la mia analisi, prendendo atto di come questa definizione e analisi della società si rispecchiasse sotto molti aspetti nella filmografia sulla disoccupazione.

Gli elementi presi in esame dal sociologo si riflettono, in maniera più o meno costante, in tutti i film del corpus, e sono venuti alla luce più chiaramente attraverso i differenti punti di vista adottati per condurre l’analisi.

La precarietà che affligge il mondo moderno vi si manifesta in tutte le sue accezioni: mobilità, spostamenti, instabilità affettiva, individualismo e comunità, sentimento di vuoto, solitudine, nonluoghi…

I film del corpus si rivelano, a volte quasi a loro insaputa, dei perfetti prismi di osservazione della società contemporanea, confermando la tesi sostenuta da Marc Ferro su come «anche se sorvegliato, un film testimonia. Attualità o finzione, la realtà di cui il cinema ci offre l’immagine appare terribilmente vera» 1 . Ed è per questo che le osservazioni di Bauman, elaborate dall’osservazione della società, e ben lontane dal proporsi come griglia analitica cinematografica, si rivelano invece così calzanti.

1

«Même surveillé, un film témoigne. Actualité ou fiction, le réalité dont le cinéma offre l’image apparaît

terriblement vraie» (Trad. mia) in Marc Ferro, Analyse de film, analyse de société: une source nouvelle pour

l’histoire, Hachette, Paris, 1976, p. 9.

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a- Cinema e liquidità

Il vocabolario usato dal sociologo potrebbe addirittura spingerci oltre, se si interpretano le sue parole in senso più largo e si applicano all’immagine propriamente cinematografica le figure di «fluidità», di

«liquidità» alla base della sua interpretazione della realtà.

Si arriva in questo modo a notare come l’acqua e gli elementi che si richiamano alla sua essenza (come il vetro) siano presenti (e facciano significato) lungo tutta la filmografia.

Film fluido per eccellenza, Il cacciatore di teste, si apre non a caso sul parabrezza della macchina sotto una pioggia torrenziale, che lascia intravedere al di là il volto sfocato del protagonista. Per inserire più tardi, una sequenza in cui il protagonista sotto la doccia elimina le prove (il curriculum) dell’uccisione della sua prima vittima; mentre in seguito sarà la corrente del fiume ad occultare l’arma del delitto. Anche gli specchi costellano l’ambiente circondante l’ingegnere, ma, ancora più importante, è quel flusso di immagini del desiderio, di stimoli visivi che è lo schermo video. È attraverso i pixel dell’immagine televisiva che ci viene presentata Arcadia (la fabbrica che diventerà il fine ultimo degli sforzi di Bruno), con il presentatore incrostato digitalmente sullo sfondo mobile per illustrare l’azienda in tutto il suo splendore pubblicitario. E, alla fine, sarà sul nuovo video, trasmesso stavolta attraverso lo schermo di un computer, che la prossima cacciatrice di teste selezionerà il volto di Bruno, per farlo fuori a sua volta.

Un mondo liquido, mobile, informe, è quello vissuto da Vincent, in A

tempo pieno, rappresentato allo schermo grazie alla mobilità

dell’automobile, che permette anche di giocare con i vetri, la

trasparenza che origina la confusione tra ciò che è dentro e ciò che è

fuori, e la liquidità della pioggia che batte sul parabrezza, della neve

(stato né veramente solido, né propriamente liquido dell’acqua) sulla

quale avanzano lentamente gli pneumatici, della rugiada che copre tutto

(3)

col suo manto impalpabile, nelle albe vissute in un parcheggio. Il vetro è qui utilizzato in tutte le sue funzioni: doppio dello schermo cinematografico, elemento di separazione (frontiera) che al tempo stesso è prossimità (la trasparenza), e sintomo quindi dello sdoppiamento della personalità del protagonista.

Il vetro è anche caratteristica tipica della moderna architettura aziendale, e quindi a maggior ragione esso segnala l’inevitabile esclusione di Vincent dal mondo lavorativo (porte chiuse davanti a lui, sale riunioni ben visibili ma inaccessibili); è elemento strutturale di una intera parete di casa sua, simboleggiante il suo distacco rispetto alla famiglia, nascosto nella trasparenza intrinseca alla materia, occultato nel perbenismo della classe media (e quindi il malessere resta invisibile ad occhi esteriori, per i quali “tutto va bene”); è l’enorme vetrata della palestra che lo separa dal figlio, in un gioco di sguardi e di dissimulazione («guardalo, quel moccioso, fa finta di non vederci!»); la vetrina del negozio fa da sfondo alla discussione tra Vincent e l’ex collega, spiati da dietro dalla moglie insospettita dai loro comportamenti (ma la parete che li separa le impedisce la comprensione dei loro discorsi). Anche il secondo confronto con quest’uomo, che vorrebbe aiutarlo, è preceduto dalle immagini dei due separati dalle vetrate degli uffici: dopo una corsa in macchina (le immagini molto mosse rendono la velocità e la mobilità dell’auto che corre infuriata nella notte), Vincent scende, cammina fuori al buio, la camera a mano lo affianca veloce lasciando intravedere dietro di lui degli uffici illuminati (il mondo del lavoro), nell’ultima stanza Jeffrey sta parlando con dei colleghi; il protagonista attira la sua attenzione solo con uno sguardo che penetra attraverso la vetrata, l’uomo esce e i due litigano; Vincent allora se ne va, più lentamente stavolta, osservato dagli impiegati che si trovano dentro. Lui ne rimane fuori.

Vincent non è soltanto fuori dal mondo lavorativo e familiare, ma anche

da quello delle relazioni affettive. La sequenza infatti nella quale spia

Nono (l’amico che ha trovato la felicità nella disoccupazione) attraverso

(4)

le finestre illuminate 2 , rappresentano il distacco che l’uomo vorrebbe prendere rispetto al coinvolgimento emotivo, ma segna anche, in parte, la presa di coscienza dell’abisso che lo separa da una vita normale.

Anche quando tornerà a riportargli i soldi, eviterà ogni spiegazione e se ne andrà, lasciando Nono, allibito, seguire la sua dipartita attraverso la porta a vetri.

Questa liquefazione dei legami, unita alla mobilità fluida degli spostamenti in macchina, e all’immagine generale della precarietà lavorativa, fanno di A Tempo pieno un film che rende, in tantissimi elementi, narrativi come formali ed estetici, la società moderna nei termini impiegati da Bauman.

Rosetta è un film fluido nell’utilizzo della macchina a spalla, nei movimenti incessanti della protagonista e nello sballottamento visivo con il quale la seguiamo. Fluido in questo caso non si oppone a brusco, perché bisogna riconosce ai fratelli Dardenne il fatto di non essere affatto gentili con l’occhio dello spettatore, continuamente rimbalzato da una parte all’altra, continuamente frustrato da un montaggio netto, brutale. Il flusso di immagini, invece di scorrere, è ripetutamente interrotto, ricominciato, come se la regia aderisse a questa fluidità ma al tempo stesso gli facesse resistenza. La presenza dell’acqua per esempio è in questo senso enigmatica: si tratta di acqua stagnante, torbida, piena di melma nella quale si resta impantananti (sono i giovani in questo caso a cascarci). Anche la liquidità è qui messa in causa criticamente: per chi può, l’acqua scorre liscia, per altri invece è solo una trappola. Si tratta di questa precarietà che avvolge sordidamente la generazione di ventenni?

L’acqua, nell’immagine del mare, è elemento importante anche nei film di Guédiguian, non soltanto in quanto ambientati a Marsiglia, ma perché utilizzata come simbolo della paternità, dello scorrere della vita, della continuità che in un certo senso ci lega al nostro passato. Ma la

2

Cf. Prima Parte, p. 25.

(5)

troviamo essere anche rottura: Patrick si suiciderà buttandosi in mare (A la vie…), e il prologo di Marius e Jeannette vede galleggiare lungo i canali un mappamondo (di plastica) a testa in giù: «il pianeta è scombussolato» 3 , non ha più né capo né coda. Se nell’inquadratura seguente il mondo ha ritrovato il suo Nord, è forse che «nel paese di Marius e Jeannette, e di qualche altro, la terra si ostina a girare nel verso giusto» 4 . La modernità fluida ha contagiato inevitabilmente anche loro, nonostante le piccole comunità descritte da Guédiguian facciano ancora, a loro modo, resistenza.

b- Il tempo per fare

Il mondo moderno, con le sue conquiste tecnologiche e scientifiche, ha portato ad un cambiamento nel rapporto tra spazio e tempo. Con l’invenzione di macchine sempre più veloci, il tempo è diventato ottimizzabile, e quindi risparmiabile. I risultati si valutano nell’eliminazione dei tempi morti, dei momenti improduttivi.

Questo in fabbrica, ovviamente, è una delle ragioni dell’alienazione dei lavoratori, costretti a superarsi sempre di più, a rendersi competitivi per battere sul tempo colleghi o concorrenti di mercato. La velocità diventa parametro di qualità e in base a questo si licenzia.

Lo si può notare in molti rapporti padrone-operaio presenti nella filmografia: Jeannette al supermercato, Isa davanti alla sua macchina da cucire, Marc ne La raison du plus faible (dove il rapporto è solo agli oggetti prodotti e non ad una persona, rendendo il lavoro ancora più alienante); e ovviamente in Violence de échanges en milieu tempéré, dove il protagonista scende negli ateliers per misurare, cronometro alla mano, il lavoro degli operai, preparando un piano di licenziamento. Ma questo non vale più solo per gli operai, e infatti, nello stesso film, il

3

«La planète est débussolée» (Trad. mia) in Jean-Pierre Jeancolas, Marius et Jeannette –ce grand théâtre qu’est Marseille, in “Positif”, 442, dicembre 1997, p. 40.

4

«Au pays de Marius et Jeannette, et de quelques autres, la terre s’obstine à tourner rond» (Trad. mia),

Ibidem.

(6)

protagonista si lancia in una battuta, per niente apprezzata dai colleghi:

«Sembra che dopo trentacinque ore [i computer] si spengano automaticamente!». Si inserisce così nell’attuale dibattito sull’orario di lavoro in Francia, facendo eco a quello che prima riguardava soltanto gli operai: la spaccatura netta tra vita di fabbrica e vita sociale, tante volte portata allo schermo nella storia del cinema, e evidenziata da Cadé portando ad esempio la frase di Rufus nel film Lily, aime-moi (1974):

«Penso otto ore al giorno come se avessi la testa tagliata» 5 .

Alienazione sul lavoro, data dalla scansione del tempo, che oramai sfugge dalle mani, dal controllo diretto, sia per chi sta in alto che per chi sta in basso. E in più adesso il lavoro non dura, dei licenziamenti non ha più colpa nessuno, se il tuo posto è stato preso da un altro è perché la macchina deve continuare a girare, l’industria deve andare avanti e se l’occasione si presenta lo farà, volentieri, senza di te.

Invece, per chi il lavoro non ce l’ha, il tempo prende un’altra dimensione, si diluisce, si riempie di contenuti diversi. Già nei titoli, alcuni film, fanno riferimento alla dimensione temporale e al suo utilizzo: A tempo pieno (L’emploi du temps, nell’originale, letteralmente: «l’orario di lavoro», ma anche: «l’impiego del tempo»), Niente da fare (Rien à faire), En avoir (ou pas) (Averne oppure no, può riferirsi al lavoro, come al tempo, all’amore…), Une époque formidabile (tradotto in italiano con Formidabili amici…), e L’età inquieta (ma solo in italiano, perché il titolo originale è La vie de Jésus). Altri fanno comunque riferimento alla vita più in generale (La vita sognata dagli angeli, A la vie, à la mort!), e al suo trascorrere, più o meno liscio.

Insomma il disoccupato istaura un rapporto particolare con il tempo, che perde il significato di vincolo, non è più scandito dalle routines e dai doveri. Patrick; il giovane disoccupato di La raison du plus faible, occupa il suo tempo curando un orticello, luogo dove può ritrovarsi, da

5

«Je pense huit heures par jour comme si j’avais la tête coupée» (Trad. mia) in Cadé, L’écran bleu, cit., p.

137.

(7)

solo, pensare e al tempo stesso rendersi utile, produrre qualcosa con le sue mani, dato che il vero lavoro gli è negato.

La madre di Freddy, ne L’età inquieta, fa notare ai giovani della compagnia al ritorno da una scampagnata:

«Si sta bene disoccupati eh, Freddy?»,

«Ma domenica è domenica per tutti»,

«Si, ma per te è domenica tutti i giorni!» 6 ;

Portando in superficie la differenza di concezione tra il tempo scandito dagli orari lavorativi, e quello sempre uguale a se stesso di chi non ha niente da fare.

Se per Freddy il tempo è vuoto e immobile, per Vincent (A tempo pieno) il tempo lavorativo continua ad essere “rispettato”, nonostante sia riempito di nulla. Per Marie, il tempo si dilata e offre il posto per fare molte più cose, utilizzato per esercizi di yoga, partecipazione a programmi radiofonici e lezioni di guida. Non ha niente da fare, e si concede più attenzioni.

Anche i disoccupati di Vive la république non hanno un granché con cui occuparsi, e questo fa sì che possano permettersi di pensare, di riflettere sulla situazione in cui si trovano, al contrario di chi è preso negli ingranaggi del lavoro pensa solo a come far fruttare al massimo il poco tempo a sua disposizione, e a come guadagnare di più facendo sempre meno (i dipendenti di Yannik, per esempio). Loro, che di tempo ne hanno in abbondanza decidono di formare un partito politico che rispecchi veramente le loro idee, i loro bisogni, confrontandosi con più disoccupati possibili e di natura più varia, nell’utopia di poter portare a un grado di consapevolezza maggiore quello che significa essere disoccupato.

6

Dialoghi tradotti dalla versione originale del film : «Ça va bien le chômage hein, Freddy?», «Dimanche

c’est dimanche pour tout le monde», «Oui, mais pour toi c’est dimanche tous les jours».

(8)

c- In fine

Senza pretendere di aver condotto un’analisi sociologica approfondita del problema, mi piaceva rilevare, però, come il cinema riesce a dare un’immagine del tempo in cui vive.

L’analisi filmica ha dovuto comunque costantemente legarsi agli studi sociologici inerenti, per poter portare avanti il rapporto che lega strettamente il tipo di film presi in esame, e la società circostante. Lo scavo, avvenuto nelle due direzioni, cinematografico e sociale, mi ha portato a riflettere sulla prossimità che quest’arte può intrattenere con la realtà che la circonda, nonostante il filtro della finzione, che anzi, talvolta, aiuta l’avvicinamento.

Il sintomo rilevante è come questi giovani, e relativamente piccoli, autori, attirati da tematiche sociali riescano a darne un affresco vivo, personale e complesso, tracciando una mappa, all’interno della produzione di lingua francese, di resistenza attiva.

Non che tutti questi registi siano dei rivoluzionari, anzi, come si è notato, sono stati presi in considerazione tutti i film che facessero della disoccupazione un nodo importante della narrazione, ma tutti i tagli sono stati inseriti senza scarti di valore. Così un film di grande pubblico come Formidabili amici…, che fa delle disgrazie di un piccolo borghese spunto di comicità delirante (per mentalità borghesi), si trova affiancato a Rosetta, impegnata opera dei Fratelli Dardenne premiata con la palma d’oro a Cannes 1999, film che interroga la realtà e prende posizione rispetto ad essa. Ma comunque, solo per il fatto di rendere conto di una realtà come la disoccupazione, che sia girata in chiave comica o drammatica, rileva da parte degli autori l’intenzione di creare uno spunto di riflessione sul nostro presente.

Non stupisce, comunque, che per la maggior parte (tranne quelli di

Jugnot, e Costa-Gavras) si tratti di film a piccolo budget e di sporadico

successo commerciale (per non parlare di quelli che non sono neanche

stati distribuiti in Italia), dato lo scarso interesse, a livello di pubblico di

(9)

massa, alle problematiche che ci coinvolgono in quanto cittadini d’Europa. La gente va al cinema per divertirsi, ignorando spesso come questo possa essere anche uno strumento di riflessione, piacevole e variegato.

Ma la disoccupazione fa problema. Pone degli interrogativi, dei dubbi che investono tutta la persona, ci pone di fronte alle nostre responsabilità, ci confronta agli altri, in un mondo in cui nessuno vuole più prendere rischi di fronte ad una collettività che non è più tale, diventata ormai un ammasso di individualità, e dove tutto è programmato perché scorra liscio come l’acqua, liscio e fluido come l’Informazione che ci propinano ogni giorno attraverso la televisione, onde evitare che le persone si pongano troppe domande.

Fare problema può invece essere un bene, essere uno stimolo, una molla che faccia scattare una forza, in noi, altrimenti sopita. Ed è proprio perché la tematica “disoccupazione” ci pungola nel vivo del nostro quotidiano, che riesce a fare problema anche sullo schermo, ad essere materia trasportabile in finzione, permettendo di esprimere reazioni emotive e combattimenti sociali differenti, in mille maniere.

La disoccupazione è una questione accesa della nostra contemporaneità ed è un segno di resistenza che il cinema (o anche solo una parte di esso) ne prenda atto e ne faccia uno spunto importante per raccontare storie del nostro Oggi.

Malgrado la società stessa.

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