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Corleone: il riscatto dell'antimafia.

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE pag. 2

1. ANTIMAFIA SCONOSCIUTA DELLA SICILIA pag. 3

1.1. “I Facinorosi della classe media” pag. 3

1.2. La mafia ha un forte consenso sociale pag. 5

1.3. Sconfiggere l’ideologia sicilianista pag. 7

2. IL PRIMO MOVIMENTO ANTIMAFIA IN SICILIA pag. 9

2.1. I Patti di Corleone, primo esempio di contratto sindacale scritto pag. 10

2.2 Contro i contadini l’arma delle stragi pag. 12

2.3 Le affittanze collettive pag. 13

2.4. Il biennio rosso contadino pag. 15

2.5 L’assassinio dei dirigenti del movimento contadino e operaio pag. 16

3. L’ANTIMAFIA SOCIALE DEL SECONDO DOPOGUERRA pag. 19

3.1 I decreti Gullo e le prime lotte contadine pag. 19

3.2 Gli atti terroristici contro il movimento contadino: l’assassinio di A. Miraglia pag. 21

3.3 La denuncia della CGIL siciliana pag. 26

3.4 La strage di Portella della Ginestra pag. 27

3.5 La rottura dei governi di unità nazionale e la “normalizzazione” del 18 aprile pag. 30 3.6 La ripresa dell’occupazione delle terre incolte pag. 38

3.7 I mafiosi liberi, i contadini in carcere pag. 41

3.8 E arrivò la riforma agraria pag. 44

4. DALL’ANTIMAFIA CONTADINA ALLA RIVOLTA DEGLI ONESTI pag. 47

4.1 L’antimafia degli onesti e della società civile pag. 50

4.2 Le tre fasi storiche del movimento antimafia pag. 52

4.3 Libera. “Associazioni, nomi e numeri contro le mafie” pag. 54

4.4 Le Associazioni antiracket pag. 56

4.5 Le cooperative che lavorano sui terreni confiscati alle mafie pag. 59 4.6 Antimafia di classe o antimafia interclassista? pag. 60

4.7 La Chiesa contro la mafia pag. 61

4.8 Il Dio dei mafiosi pag. 62

4.9 Papa Francesco pag. 63

4.10 Quando la mafia si fa Antimafia pag. 63

5. L’ANTIMAFIA DI CORLEONE, ANTICA QUANTO LA MAFIA pag. 66

5.1 Bernardino Verro pag. 67

5.2 Placido Rizzotto, il contadino partigiano pag. 69

5.3 Abbiamo rotto il cerchio della paura e della vergogna pag. 74 5.4 La cultura della parola contro l’omertà mafiosa pag. 76

5.5 Anche Corleone “parte civile” contro la Mafia pag. 77

5.6 La rivoluzione dei sindaci pag. 78

5.7 Corleone: “Liberarci dalle spine” e i campi di lavoro antimafia pag. 79

5.8 Finalmente una tomba per Placido Rizzotto pag. 85

CONCLUSIONI pag. 87

BIBLIOGRAFIA pag. 89

APPENDICE pag. 96

a. Intervista al Magistrato Michele Prestipino pag. 96

b. Corleone: Intervista a Marilena Bagarella, Pres. dell’Associazione “Germoglio” pag. 98

c. CIDMA pag. 101

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INTRODUZIONE

Corleone oggi, forse, si presenta ancora come lo stereotipo del regno del Padrino, cristallizzato dall’omonimo film, identificandosi, ad un approccio superficiale, con l’immagine di tante foto di cronaca degli anni ’50, che hanno consegnato alla storia notizie di vittime di mafia, colpite in agguati avvenuti anche in pieno centro e tutti senza alcun testimone.

Non si può negare quanto sia avvenuto, né cancellare la storia, né edulcorarla: tante le efferatezze e le violenze, compiute da gruppi di uomini senza scrupoli, che hanno segnato profondamente, nella cultura e nell’economia, questa terra!

E’ pur vero, però, che la voglia di riscatto c’è sempre stata, pur se pervasa, magari, da una paura ancestrale che attanagliava: è quella che ha trovato i suoi alfieri in uomini come i coraggiosi sindacalisti del ‘900 uccisi dalla mafia, e, oggi, in tanti giovani, di Corleone e non solo, che animano un fronte di lotta all’illegalità, consapevole e fattivo.

Ne sono espressione le tante Associazioni che, a vario titolo, si spendono concretamente in progetti finalizzati a scardinare la cultura mafiosa, promuovendo i diritti dell’impegno onesto contro la sfrontata arroganza della sopraffazione.

Ne è espressione, soprattutto, la presenza a Corleone di un luogo emblematico: il CIDMA, quello che è conosciuto come il Museo della Mafia e dell’Antimafia. Il fatto che sia stato pensato e realizzato ci dà la misura dell’impegno, della fatica, della lotta che si è combattuta e di quanti uomini abbiano agito in sinergia, titanicamente, per traguardi che generazioni del passato avrebbero considerato solo follia.

In quest’ottica, ripercorrere la storia, anche quella dei suoi momenti più bui, si offre come strumento per capirne le dinamiche e tener deste le coscienze, nella consapevole speranza che, soprattutto, le nuove generazioni di Corleone abbiano intrapreso un percorso teso a costruire un futuro basato sui valori dell’onestà, nel segno di una società che celebri la forza civica dei diritti e dei doveri dei suoi cittadini.

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CAPITOLO I

L’ANTIMAFIA SCONOSCIUTA DELLA SICILIA

Nell’immaginario collettivo dell’Italia e dell’Europa, le stragi di Capaci (23 maggio 1992) e di Via D’Amelio (19 luglio 1992), dove persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e i loro agenti di scorta, hanno segnato uno spartiacque: prima di quelle stragi tanti in Italia e in Europa erano convinti che la gran parte dei siciliani fossero complici o succubi della mafia e che dopo quelle stragi, invece, fosse nato un movimento antimafia, capace di segnare in profondità la coscienza degli abitanti della nostra isola. In verità non è così, perché la Sicilia ha sempre avuto la capacità di reagire contro la mafia, fin dalle origini del fenomeno mafioso. Tanto che si può sostenere che l’antimafia siciliana è antica quanto la mafia. Si tratta purtroppo di un’antimafia sconosciuta, negata, di cui poco si parla. Eppure di essa si hanno notizie certe fin dalla fine del 1800, con la nascita del movimento dei Fasci dei lavoratori (1892-94) di orientamento socialista. La nascita di questo movimento scosse in profondità le rigide regole feudali della società siciliana dell’epoca (di cui la mafia era un elemento costitutivo), che ancora dominavano la vita sociale di tanti comuni della Sicilia interna, ponendosi, di fatto, in contrasto con le organizzazioni mafiose. Per comprendere meglio il contesto, occorre precisare che, nonostante il feudalesimo nell’isola fosse stato formalmente abolito nel 1812, le condizioni di vita delle masse contadine non erano migliorate. Anzi, accanto alla classe baronale, si era affermata una borghesia rurale parassitaria, che aveva ottenuto in affitto dai baroni interi ex feudi. Piuttosto che coltivarli direttamente, però, essa trovava più conveniente dividerli in piccoli lotti che subaffittava ai contadini poveri, a condizioni contrattuali molto pesanti. E per imporre le sue condizioni usava una fitta rete di campieri armati, col compito di garantire l’ordine sociale anche con la violenza1.

1.1 “I facinorosi della classe media”

Leopoldo Franchetti, intellettuale conservatore toscano, autore della famosa “Inchiesta in Sicilia” del 1876, definì gli esponenti di questa borghesia rurale parassitaria «facinorosi della classe media»2. Secondo lo studioso, si poteva considerare una «classe indipendente» che, con l'abolizione

1D. Paternostro, I Corleonesi. Storia dei golpisti di Cosa nostra, Nuova Iniziativa Editoriale, Roma 2005, p. 15-16. 2L. Franchetti, Condizioni politiche ed amministrative della Sicilia, Donzelli, Roma 1993, p. 101 (Orig. La Sicilia nel

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del sistema feudale, si trovava in una condizione davvero particolare: «non ha nulla che fare con quella dei malfattori in altri paesi per quanto possano essere numerosi, intelligenti e bene organizzati, e si può quasi dire di essa che è addirittura un'istituzione sociale»3. E proseguiva così: «Giacché, oltre ad essere un istrumento al servizio di forze sociali esistenti ab antiquo, essa è diventata, per le condizioni speciali portate dal nuovo ordine di cose, una classe con industria ed interessi suoi propri, una forza sociale di per sé stante»4. Riferendosi più specificamente alla mafia, Franchetti annotava che «tutti i cosiddetti capi mafia sono persone di condizione agiata»5. Rispetto ai “facinorosi della classe infima”, gli esecutori dei delitti, il capo mafia svolge, nella pratica, quella che veniva definita “l'industria della violenza”. Spiega il sociologo palermitano Umberto Santino che il capomafia «determina quell'unità nella direzione dei delitti, che dà alla mafia la sua apparenza di forza ineluttabile ed implacabile; regola la divisione del lavoro e delle funzioni, la disciplina fra gli operai di questa industria, disciplina indispensabile in questa come in ogni altra per ottenere abbondanza e costanza di guadagni. A lui spetta il giudicare dalle circostanze se convenga sospendere per un momento le violenze, oppure moltiplicarle e dar loro un carattere più feroce, e il regolarsi sulle condizioni del mercato per scegliere le operazioni da farsi, le persone da sfruttare, la forma di violenza da usarsi per ottenere meglio il fine. E' propria di lui quella finissima arte, che distingue quando convenga meglio uccidere addirittura la persona recalcitrante agli ordini della

mafia oppure farla scendere ad accordi con uno sfregio, coll'uccisione di animali o la distruzione di

sostanze, od anche semplicemente con una schioppettata di ammonizione. Un'accozzaglia od anche un'associazione di assassini volgari delle classi infime della società, non sarebbe capace di concepire siffatte delicatezze, e ricorrerebbe sempre semplicemente alla violenza brutale»6.

Con l’abolizione del feudalesimo, quindi, furono questi “facinorosi della classe media” a gestire molti latifondi in Sicilia, usando ogni forma di violenza privata per accumulare ricchezze e difendere il loro status. Con una terminologia più moderna, il prof. Umberto Santino l’ha definita «borghesia mafiosa», la cui attività fondamentale, secondo l’antropologa Jane Schneider e il sociologo Peter Schneider, consisteva nell’intermediazione parassitaria, tipica del «capitalismo di mediazione»7. «La mia analisi imperniata sul concetto di borghesia mafiosa – spiega Santino - ha dei precedenti, remoti e prossimi. Il precedente storico più remoto è dato dalle riflessioni di

3L. Franchetti, Ivi, p. 95. 4Ibidem.

5Ibidem.

6U. Santino, Borghesia Mafiosa, Narcomafie n. 12, dicembre 2003, Dizionario di Mafia e di antimafia. 7Cfr. Jane e Peter Schneider, Classi sociali, economia e politica in Sicilia, Rubbettino, 1989.

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Franchetti (…). Sciascia in uno scritto del 1968 parla di “una categoria sociale, se non di una classe, che approssimativamente si può dire borghese, borghese-mafiosa più esattamente”, che si forma dentro il calderone del sicilianismo. L’economista e dirigente politico Mario Mineo in un documento del novembre 1970 parlava di “borghesia capitalistico-mafiosa” come strato dominante della società siciliana, diffusa in tutta l’isola, Sicilia orientale compresa, e proponeva con 12 anni di anticipo sulla legge antimafia l’esproprio della proprietà mafiosa»8.

1.2 La mafia ha un forte consenso sociale

La mafia, comunque, è un fenomeno strutturale complesso. Per sconfiggerla occorre modificare la società e guarirla dal "pervertimento" mafioso. Infatti, la mafia è forte perché è radicata nella società. Spesso si insiste sui rapporti fra mafia e politica, fra mafia e Stato, fra mafia e istituzioni, e non si sottolinea sufficientemente l'insediamento della mafia nella società. Invece è questo insediamento, dal quale discendono tutti gli altri rapporti, che rende la mafia difficile da sconfiggere. Se così non fosse, la lotta contro la mafia sarebbe uno scontro tra due eserciti: da una parte Cosa Nostra, dall'altra lo Stato con la sua potenza militare, giudiziaria ed anche politica e morale. La mafia è enormemente più debole dello Stato. Se si trattasse solo di uno scontro militare, essa sarebbe in breve tempo inevitabilmente sconfitta. E invece la lotta è prevedibilmente lunga perché include la necessità di aiutare la società a guarire dal "pervertimento" che ancora la rende succube della mafia. È indubbio, infatti, che la mafia abbia saputo esercitare una sua egemonia culturale sul popolo siciliano, ricevendone un certo consenso. Non si può dominare a lungo con la sola violenza: ci vuole la costruzione di un sistema di valori nei quali anche i “dominati” possano in qualche modo riconoscersi. La mafia, nel corso degli anni, ha saputo elaborare ed imporre un proprio modello culturale, riconosciuto valido dal popolo. Non è stato un modello culturale originale, ma la distorsione e l’inquinamento della genuina cultura popolare. «Basti pensare – sostiene lo studioso corleonese Giuseppe Governali - allo stravolgimento che, nel passaggio dalla cultura folklorica a quella mafiosa, subiscono i valori-cardine della morale popolare: il senso dell’onore diventa omertà, il rispetto per il padre si trasforma in ossequio servile verso il padrino, il culto della famiglia si tramuta in familismo, immorale, quello sì, più che amorale»9. Anni di acculturazione, però, hanno costruito tra la gente una sorta di ambiguo “senso comune”, che non

8U. Santino, Borghesia mafiosa e società contemporanea. Relazione al convegno su “Mafia e potere” di Magistratura Democratica, Palermo, 18-19 febbraio 2005.

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favorisce una vera distinzione tra cultura popolare e sub-cultura mafiosa. Ci riferiamo all’ideologia sicilianista, fondata sulla convinzione che “tutti” i Siciliani debbano fare fronte comune per difendersi dagli “altri”, dagli “stranieri”, da chi siciliano non è. A farsi portatori di questa ideologia, che non ha capito o ha fatto finta di non capire, che la Sicilia, oltre ai nemici esterni, ha anche dei nemici interni, sono stati anche dei siciliani illustri, che non hanno avuto pudore di difendere la mafia, negandone l’esistenza o definendola – come scrisse nei primi del ‘900 Giuseppe Pitrè - un modo di essere dei siciliani: «La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti. Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino... il mafioso è semplicemente un uomo valente, che non porta la mosca sul naso; nel qual senso l’essere mafioso è necessario, anzi indispensabile. La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale “unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto di interessi e di idee”; donde l’insofferenza della superiorità e, peggio ancora, della prepotenza altrui»10. Né fu da meno lo statista Vittorio Emanuele Orlando, che, il 28 luglio 1925, in un discorso pronunciato a Palermo, al cinema Diana di via Ruggero Settimo, affermò: «Se per mafia, infatti, si intende il senso dell’onore portato fino all’esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte; se per mafia s’intendono questi sentimenti, e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni individuali dell’anima siciliana, e mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo»11. Ancora, nel 1955, il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, Giuseppe Guido Lo Schiavo, in occasione della morte di Calogero Vizzini, allora capo indiscusso della mafia siciliana, scrisse – incredibilmente - su una rivista giuridica: «Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi e ai fuorilegge (...) ha affiancato addirittura le forze dell’ordine (...). Oggi si fa il nome di un autorevole successore nella carica tenuta da Don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto alle leggi dello Stato e del miglioramento sociale della collettività»12. Si tratta della «complementarità tra autorità mafiosa e autorità statale… teorizzata da uno dei più alti magistrati italiani», sottolinea con stupore il

10G. Pitrè, Usi, costumi e pregiudizi del popolo siciliano, Forni, Bologna 1969, vol. II, p. 292. 11Dichiarazione di V. Emanuele Orlando riportata dal giornale L’Ora, 28 luglio 1925. 12G. G. Lo Schiavo, Nel regno della mafia, in Rivista Processi, 5 gennaio 1955.

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sociologo Pino Arlacchi13. Negli anni ‘60, anche il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini, in diverse occasioni, non mancò di sottolineare che la mafia intesa come «associazione a largo raggio» non esiste e che era solo un’invenzione di chi vuole diffamare la Sicilia14.

1.3 Sconfiggere l’ideologia sicilianista

Per liberare la Sicilia da Cosa Nostra, quindi, occorre sconfiggere questa ideologia sicilianista e mafiosa e conquistare i siciliani ai valori veri della legalità, della giustizia e della solidarietà. Alcuni economisti, come il dirigente comunista Emilio Sereni, avevano lasciato intendere che la mafia, almeno agli inizi, nel 1800, altro non fosse che una “borghesia impedita nel suo sviluppo” dai residui feudali15. Un simile punto di vista, però, non tiene conto della mafia dei giardini16, degli orti, dei mercati, dei macelli, dei mulini e del porto, molto forte a Palermo e nei paesi della Conca d’oro di quel tempo, che si trovava ad operare in una realtà economica più sviluppata rispetto a quella dei latifondi della Sicilia interna. Nonostante questo, non divenne solo “borghesia”, perdendo l’aggettivo di “mafiosa”, non utilizzò l’accumulazione primitiva tipica del capitalismo per investirla nell’economia legale, rinunciando alle attività criminose. Vale, allora, l’invito di Falcone a «sbarazzarsi una volta per tutte delle equivoche teorie della mafia figlia del sottosviluppo, quando in realtà essa rappresenta la sintesi di tutte le forme di illecito sfruttamento delle ricchezze»17. E invita ancora a non attardarsi «con rassegnazione, in attesa di una lontana, molto lontana crescita culturale, economica e sociale che dovrebbe creare le condizioni per la lotta contro la mafia. Sarebbe un comodo alibi offerto a coloro che cercano di persuaderci che non ci sia niente da fare»18. Nei decenni successivi al 1812, quindi, l’abolizione giuridica del feudalesimo non aveva prodotto quasi nessun effetto pratico in Sicilia. I metodi di gestione delle terre e le regole sociali imposte alla popolazione continuavano ad essere quelli tipici di quando anche formalmente era ancora in vigore

13P. Arlacchi, La mafia imprenditrice. Dalla Calabria al centro dell’inferno, Il Saggiatore, Milano, 2007, p. 59.

14Lettera del cardinale Ernesto Ruffini a mons. Angelo Dell’Acqua, ap. A. Cavadi, Il Vangelo e la lupara, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1993.

15U. Santino, Marxismo, mafia, antimafia, Vedi: http://www.centroimpastato.com/marxismo-mafia-e-antimafia/. 16La mafia dei giardini operava “nel territorio agricolo circostante la città di Palermo” ed era “dedita ad attività di intermediazione commerciale, alla gestione delle imprese, alla protezione-estorsione generalizzata, al controllo del territorio in tutto l’hinterland cittadino e intorno a Villabate, Bagheria, Monreale…” (S. Lupo, prefazione al saggio di V. Coco, La mafia palermitana, C. S. Pio La Torre, Palermo 2010, p. 7).

17G. Falcone - M. Padovani, Cose di Cosa Nostra, Rizzoli 1991, p. 63. 18Ibidem.

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il regime feudale. L’organizzazione economica e sociale delle campagne continuava, infatti, a ruotare attorno alle figure dei gabellotti. Dal punto di vista giuridico erano dei semplici affittuari dei fondi padronali, ma, di fatto, diventarono il perno di un blocco sociale, in grado di condizionare pesantemente la vita della Sicilia interna. Non svolgevano nessuna attività produttiva, ma si arricchivano attraverso l’attività d’intermediazione parassitaria tra gli agrari e i contadini. Questi gabellotti costituirono la struttura portante della mafia del feudo. Circondati da campieri e soprastanti, vere e proprie guardie armate, con la forza della violenza e della sopraffazione facevano il bello e il cattivo tempo. All’alba, nelle piazze dei paesi, erano loro a decidere chi assumere al mercato delle braccia. Erano loro che sceglievano a chi subaffittare un pezzo di terra. Sostiene lo studioso corleonese Dino Paternostro che «è nata così la mafia nei latifondi della Sicilia occidentale. Nessun mito, nessuna leggenda, ma un fenomeno storico ben preciso e definito, con una sua origine certa, che non affonda le radici nella notte dei tempi, ma nella prima metà dell’Ottocento»19. E contro questa mafia combatterono i contadini organizzati nei Fasci dei lavoratori già alla fine dell’Ottocento.

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CAPITOLO 2

IL PRIMO MOVIMENTO ANTIMAFIA IN SICILIA

Ma cos’erano i Fasci? Come nacquero? E perché i contadini vi aderirono in massa? Tra la fine degli anni ’80 e gli inizi degli anni ’90 del 1800, vi fu in Sicilia una crisi agraria di notevoli proporzioni, accresciuta anche dalla guerra commerciale tra l’Italia e la Francia, che fece crollare i prezzi dei prodotti agricoli20. Tutto ciò ebbe forti ripercussioni sui braccianti agricoli salariati e sui contadini poveri, che videro ancora di più peggiorare le loro condizioni. Erano quegli stessi braccianti e contadini che negli anni ’60 avevano entusiasticamente partecipato alle imprese rivoluzionarie di Garibaldi, sperando in un miglioramento delle loro condizioni economiche e sociali. Ma il nuovo Stato unitario invece di dare loro la terra promessa dal generale Garibaldi, impose il servizio di leva obbligatorio e persino l’odiosa tassa sul macinato21. Le condizioni di questi contadini, dopo l’unità d’Italia, sono state egregiamente descritte dal giornalista Adolfo Rossi, che, nell’autunno del 1893, mentre era in corso un imponente sciopero promosso dal Fascio, fece un viaggio in treno fino a Corleone. Scrisse infatti Rossi: «Mi faceva compagnia… un ufficiale dell’esercito il quale... mi diceva francamente che le condizioni estremamente misere dei contadini erano innegabili e che era deplorevole che l’esercito dovesse essere chiamato... in difesa di certi signori prepotenti, contro gli affamati. Bisogna risiedere qui come faccio io, per assistere a scene che vi fanno male. In una calda giornata dello scorso luglio, ricordo, per far riposare un po’ i miei soldati dopo una lunga marcia, mi fermai davanti a un’aia dove si stava misurando del grano. Ed essendo entrato per chiedere dell’acqua, fui testimonio di questo fatto. Finita la misurazione, non rimase al contadino che un tumulo di grano. Tutto il resto era andato al padrone. Il contadino, con le mani e il mento appoggiati al manico di una pala, guardò da principio come inebetito, quell’unico tumulo della sua parte, poi guardò sua moglie e i suoi quattro o cinque piccoli figli che se ne stavano in disparte, e pensando che dopo un anno di stenti e di sudori non gli era avanzato per mantenere la famiglia che quel tumulo di grano, rimase come impietrito: solo due lagrime gli scendevano silenziosamente dagli occhi. Fin che campo non dimenticherò mai quella scena muta. E noti che dopo la divisione non

20Cfr. S. F. Romano, Storia dei Fasci siciliani, Bari, Laterza 1959; F. Renda, I Fasci siciliani 1892-94, Torino, Einaudi 1977; U. Santino, Storia del movimento antimafia, dalla lotta di classe all’impegno civile, Roma, Editori Riuniti 2009. 21Fu una tassa sulla macinazione del grano e dei cereali introdotta nel giovane regno d’Italia per iniziativa di Luigi Federico Menabrea il 7 luglio 1868. Fu resa ancora più dura dal ministro delle finanze Quintino Sella nel 1870 e poi da Marco Minghetti, che raggiunse il pareggio del bilancio dello Stato. Fu considerata una tassa “odiosa” perché, in quanto indiretta, colpiva in egual misura tutta la popolazione, senza distinzione di condizione economica di partenza.

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solo certi contadini rimangono senza grano, ma restano anche in debito.

Ci vuole altro che la truppa qui!»22. In questa società feudale rigida, dove da secoli nulla cambiava, dirigenti dei Fasci dei lavoratori come Bernardino Verro a Corleone, Nicolò Barbato a Piana dei Greci (l’attuale Piana degli Albanesi) e Rosario Garibaldi Bosco a Palermo, insegnavano ai contadini che gli uomini sono nati tutti liberi e tutti uguali e che bisognava organizzarsi e lottare per conquistare libertà e giustizia e cambiare i patti agrari in vigore nelle campagne, profondamente ingiusti, per ritornare alla mezzadria. Uno dei dirigenti dei Fasci, il corleonese Bernardino Verro, per farsi capire, parlava ai contadini in dialetto. E, per spiegare l’importanza dell’organizzazione, diceva loro: «Se prendete una sola verga la spezzerete facilmente. Se ne prendete due, incontrerete più difficoltà. Ma se fate un fascio di verghe, sarà impossibile spezzarle. Così, se il contadino è solo a trattare col padrone, sarà piegato facilmente. Se invece si unisce in un fascio, in un’organizzazione, allora diventa invincibile»23. Un parlare semplice ed efficace, che spingeva tanti lavoratori della terra (ma anche minatori delle zolfare) ad iscriversi al Fascio. Fu così che in Sicilia, nell’arco di pochi mesi, i Fasci arrivarono a contare, secondo le fonti della polizia, circa 300 mila aderenti, «ma alcuni parlavano anche di 350.000, 400.000 aderenti»24. Un fenomeno straordinario, unico in Italia e in Europa. Già nel mese di maggio 1893 i contadini organizzati nei Fasci avevano iniziato i primi scioperi per chiedere il miglioramento dei contratti agrari.

2.1 I Patti di Corleone, primo esempio di contratto sindacale scritto

Ma, per dare uniformità alle rivendicazioni contadine e preparare le lotte autunnali, il 30 luglio 1893, le sezioni dei Fasci della provincia di Palermo decisero di riunirsi in congresso a Corleone per elaborare una precisa piattaforma rivendicativa. E approvarono i famosi “Patti di Corleone”, che lo storico siciliano Francesco Renda ha definito: «il primo esempio contratto sindacale scritto dell’Italia capitalista»25. Nel merito, i Patti non avevano nulla di rivoluzionario.A detta dello stesso Verro, i Patti si riducevano semplicemente alla rivendicazione della mezzadria, in vigore nelle campagne siciliane fino ad un decennio prima. Certo, il leader del Fascio di Corleone aveva tutto l’interesse a minimizzarne la portata per non allarmare le autorità, ma è vero che il contenuto dei Patti fu il frutto di un confronto con alcuni proprietari terrieri più disponibili ad aprirsi al progresso

22A. Rossi, L'agitazione in Sicilia, La Zisa, Palermo 1988, pp. 78-79. 23D. Paternostro, I Corleonesi. Storia dei golpisti di Cosa nostra, cit., p. 14.

24F. Renda, I Fasci siciliani: Corleone capitale contadina, testo della conferenza tenuta il 19.03.1979 presso il Liceo classico “G. Baccelli” di Corleone, Arch. Rivista Città Nuove Corleone.

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sociale nelle campagne. Una circostanza confermata da Antonio Palazzo, secondo cui all’epoca dei Fasci, il suo bisnonno dialogò proficuamente col movimento contadino di Corleone, riuscendo a comporre il conflitto perché considerato un padrone onesto. E rivela anche che il testo dell’accordo, passato, appunto, alla storia come i “Patti di Corleone”, fu preparato in casa sua con Bernardino Verro e poi sottoscritto in municipio da altri proprietari terrieri26. Circostanze, come si vede,

confermate dallo stesso Verro e dai contadini corleonesi, nelle interviste rilasciate ad Adolfo Rossi, corrispondente de “La Tribuna” di Roma, nell’ottobre del 1893.

La forza dei Patti stava nello straordinario potere di suggestione, dettato da un principio elementare e rivoluzionario ad un tempo. Un principio spiegato molto bene da Francesco Renda: «I contadini non dovevano più trattare da soli, ma dovevano accordarsi tra loro e organizzarsi in partito per costringere padroni e gabellotti ad accettare le loro richieste di miglioramento»27. In sostanza, dopo secoli di sottomissione, i contadini con l’organizzazione dei Fasci stavano imparando a camminare a schiena dritta e a rivendicare i loro diritti, guardando dritto negli occhi i padroni. Un cambiamento epocale, che sconvolgeva rapporti sociali secolari. Dopo il congresso dei Fasci, ad agosto, gli scioperi contadini ripresero con maggiore forza, proprio per chiedere l’applicazione dei Patti di Corleone. Dopo qualche settimana, diversi piccoli e medi proprietari terrieri di Corleone cedettero. Ma altri, e fra i più ricchi, come i Cammarata, i Bentivegna e i Paternostro, non vollero cedere, non tanto per una questione economica, quanto per puntiglio, per non aver l’aria di darla vinta ai Fasci, come sottolineò Verro. La mafia si schierò a fianco dei grossi proprietari terrieri, intimidendo i contadini ed assumendo direttamente e «a condizioni più vantaggiose per i proprietari la coltivazione di quelle terre che pretendevano di coltivare i contadini...»28. Verro denunciò alcuni mafiosi, accusandoli di «essere andati a coltivare le terre del barone Cammarata, avendole coi fucili a portata di mano, quasi in segno di sfida ai contadini scioperanti»29. Ad ottobre del 1893, lo sciopero durava già da un paio di mesi ed i contadini, che pure avevano messo da parte un po’ di grano, costituendo una “cassa di resistenza”, erano allo stremo delle forze. «Da una settimana la mia famiglia non ha potuto mangiare una briciola di pane e si sfama con fichi d’India», confessò Bernardo Sinatra, un contadino padre di sei figli. «Aiu cinquant’anni – aggiunse un vecchio – e un’aiu manciatu carni mai» (Ho 50 anni e non ho mai mangiato carne). «Certi proprietari – dichiarò un altro vecchio – non ci permettono neppure di raccogliere delle erbe da mangiare. Vogliono che le

26Cfr. A. Palazzo, Pupi d’Italia, Iseg, Perugia-Roma, 2012, p. 28. 27F. Renda, I Fasci siciliani, cit., p. 167.

28Tribunale di Palermo, ordinanza di rinvio a giudizio per l’assassinio di Bernardino Verro, cit., p. 20.

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lasciamo per le pecore». «Una settimana fa – raccontò un terzo – il barone Cammarata vide due ragazze che avevano raccolto della legna nelle sue terre. Scese da cavallo, fece deporre i fasci della legna e vi attaccò fuoco»30. Ciò nonostante, le lotte autunnali si conclusero con un successo parziale. I Patti furono accettati da alcuni proprietari terrieri, come Streva, Palazzo, Adragna, Mangiameli e Patti, mentre i proprietari più ricchi, come Cammarata, Bentivegna e Paternostro, con l’aiuto della mafia, ebbero buon gioco a disconoscerli. Da un lato, quindi, gli agrari siciliani e la mafia cercavano con tutti i mezzi di impedire il cambiamento, dall’altro lato i contadini si organizzavano per migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro. Uno scontro sociale da cui traspare la contrapposizione tra mafia ed antimafia.

2.2 Contro i contadini, l’arma delle stragi

Per imporsi sul movimento contadino, mafia e padronato agrario usarono anche la terribile arma delle stragi. La prima si verificò a Caltavuturo, in provincia di Palermo, il 20 gennaio 1893, quando l’esercito regio e i mafiosi spararono ad altezza d’uomo contro i contadini che protestavano, uccidendo 13 manifestanti e ferendone molti altri31. Poi, il 10 dicembre 1893, a Giardinello sempre in provincia di Palermo, durante una manifestazione contro le tasse, promossa dalla sezione del Fascio, furono uccise 11 persone, mentre altre rimasero ferite. I manifestanti saccheggiarono il municipio e uccisero il messo comunale e la moglie32. Il giorno di Natale del 1893, a Lercara Friddi (Palermo), durante una manifestazione contro le tasse, organizzata della sezione del Fascio, furono uccisi 11 manifestanti e diversi rimasero feriti33. Il 1° gennaio 1894, a Pietraperzia (Enna), vi furono 8 morti e 15 feriti durante una manifestazione organizzata dal fascio contro le tasse comunali34. Il 2 gennaio 1894, a Gibellina (Trapani), durante una manifestazione del fascio contro le tasse comunali ancora una volta si sparò sui contadini: i caduti furono 20, moltissimi i feriti35.

Ancora il 2 gennaio a Belmonte Mezzagno (Palermo), nel corso di una manifestazione pubblica contro le tasse comunali, vengono incendiati i casotti daziari. I soldati aprono il fuoco e uccidono 2 manifestanti36.

30Cfr. A. Rossi, L’agitazione in Sicilia, cit., pp. 82-83.

31F. Renda, I Fasci siciliani 1892-94, cit., p. 349. 32Ibidem, p. 354.

33Ibidem, p. 355. 34Ibidem, p. 356. 35Ibidem, p. 356. 36Ibidem, p. 356.

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Il 3 gennaio 1894, a Marineo (Palermo), a cadere sotto il piombo della mafia e del regio esercito furono 18 manifestanti del fascio, che protestavano contro le tasse comunali37. Il 5 gennaio 1894, infine, a Santa Caterina Villarmosa (Caltanissetta), sempre durante una manifestazione del fascio contro le tasse comunali, i caduti furono 14, molti i feriti38.

A chiudere definitivamente la partita con i lavoratori dei fasci pensò il governo Crispi, che il 4 gennaio 1894 proclamò lo stato d’assedio in Sicilia, sciolse d’autorità i fasci, ne fece arrestare i loro capi, li fece processare dai Tribunali militari e condannare a dure pene detentive39.

Per sconfiggere il neonato movimento contadino, quindi, era scattata a tenaglia l’alleanza tra gli agrari, la mafia e lo Stato40. Il Fascio di Corleone, insieme a quelli di Palazzo Adriano, Roccamena, Campofiorito, Contessa Entellina, Bisacquino, Prizzi, Chiusa Sclafani e Giuliana, fu sciolto con decreto prefettizio il 17 gennaio 1894. Il 7 aprile 1894 ebbe inizio il grande processo ai capi dei Fasci, che si concluse il 30 maggio, con condanne durissime. La pena più pesante la subì Giuseppe De Felice (18 anni di carcere, 3 di sorveglianza speciale e decadenza dal mandato politico di deputato). Garibaldi Bosco, Nicola Barbato e Bernardino Verro furono condannati, invece, a 12 anni di reclusione e 2 di sorveglianza speciale. Per il dirigente corleonese, però, la condanna fu assorbita da quella a 16 anni per i disordini di Lercara della vigilia di Natale 189341. Con l’aiuto decisivo dello Stato, quindi, gli agrari e la mafia riuscirono, almeno in questa fase, a tenere a bada il movimento contadino.

2.3 Le “affittanze collettive”

Ma le lotte contadine in Sicilia continuarono ancora agli inizi del 1900, con la stagione delle affittanze collettive, che si prefiggeva lo scopo di espellere i mafiosi dai feudi. I dirigenti contadini capirono che, per contrastare l’agguerrita mafia del feudo, bisognava dare al movimento contadino nuovi strumenti organizzativi, come le cooperative che avrebbero consentito di prendere in affitto le terre direttamente dai proprietari, senza la mediazione dei gabellotti mafiosi.

Mediante queste cooperative e utilizzando al meglio la legge Sonnino sul credito agrario

37S. F. Romano, Storia dei Fasci siciliani, cit., p. 447. 38F. Renda, I Fasci siciliani 1892-94, cit., p. 357.

39S. F. Romano, Storia dei Fasci siciliani, cit., pp. 480-493.

40Cfr. S. F. Romano, Storia dei Fasci siciliani, cit.; F. Renda, I Fasci siciliani, cit.; U. Santino, Storia del movimento

antimafia, cit.

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agevolato42, si sperimentò questa nuova strategia che ebbe effetti devastanti nei rapporti di potere nelle campagne. Essa, infatti, colpiva al cuore gli interessi dei gabellotti mafiosi, eliminando il loro ruolo d’intermediazione parassitaria43. «Codesti antichi gabellotti maffiosi – spiegò, infatti, Bernardino Verro il 31 gennaio 1911 - finché erano stati soli a pretendere in affitto gli ex feudi, avevano potuto imporre ai proprietari e ai contadini le condizioni più favorevoli ai loro interessi. Invece, col sorgere della cooperativa agricola e coi relativi scioperi, erano venuti a trovarsi di fronte ad una concorrenza formidabile, in quanto che la cooperativa offriva ai proprietari delle terre estagli (affitti – n.d.a.) più elevati da quelli imposti dai gabellotti maffiosi»44. I proprietari terrieri, inizialmente diffidenti nei confronti della cooperativa socialista, si resero conto che con le "affittanze collettive" potevano ottenere affitti più elevati, per cui cominciarono ad accordarsi con Verro e gli altri capi contadini. Paradossalmente, quindi, agrari e contadini si trovarono alleati in questo primo interessante tentativo d’espulsione dei gabelloti mafiosi dai feudi. A Corleone, «per rendersi conto dell'ampiezza del fenomeno e del danno causato agli interessi reali della mafia, basterà ricordare che nel 1910, quattro anni dopo la sua costituzione, nel momento del massimo fulgore, l'Unione aveva in affitto nove feudi 2.500 ettari di terra, la terra tanto a lungo sognata -divisi in 1.289 quote assegnate ad altrettanti contadini. Il che significò che almeno cinquemila persone erano state affrancate dalla schiavitù del gabellotto, dalle angherie del datore di lavoro e dei suoi sgherri. I nove feudi erano Rubina, Drago e Piano di Scala del barone Cammarata; Piano di Galera del cavalier Mirto; Sant'Elena dell'omonima amministrazione; Cerasa di proprietà demaniale; Torrazza del cavalier De Luca; Pirrello del Real Albergo dei Poveri di Monreale; Malvello dell'Opera Pia Solunto»45. Anche questa volta, però, la reazione dei mafiosi fu rabbiosa e violenta. Uno dopo l’altro, furono assassinati diversi dirigenti contadini impegnati nel movimento per le affittanze collettive: Luciano Nicoletti (1905), Andrea Orlando (1906) a Corleone; Lorenzo Panepinto (1911) a S. Stefano di Quisquina; Bernardino Verro (1915) ancora a Corleone.

42La legge Sonnino era stata approvata dal parlamento il 15 luglio 1906. Essa dava la possibilità ai contadini di accedere al credito agrario per prendere in affitto i grossi latifondi per dividerli tra i soci delle cooperative. Si venne a creare così un nuovo rapporto tra contadino e rendita fondiaria senza l’intermediazione dei gabelloti. La legge aveva anche lo scopo di assistere economicamente i contadini meridionali per non farli cadere vittime degli usurai.

43U. Santino, Storia del movimento antimafia, cit., pp. 125-133.

44Tribunale di Palermo, Ordinanza di rinvio a giudizio per l’assassinio di Bernardino Verro, 13 marzo 1917, ap. Archivio Istituto Gramsci Siciliano, Palermo, pp. 5-6. (consultato nell’archivio Ist. Gramsci)

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2.4 Il “biennio rosso” contadino

Un’altra ondata di lotta per la terra, che automaticamente si trasformò in lotta contro la mafia, fu vissuta in Sicilia durante il cosiddetto “biennio rosso” (1919-20). «Ormai in Italia era tramontato il giolittismo, con i suoi tentativi di faticoso compromesso tra capitale e lavoro, mentre si affermava un clima culturale di diffuso ed esasperato nazionalismo, che coinvolgeva sia la destra che la sinistra. Anche il movimento socialista si stava lacerando: la corrente riformista di Filippo Turati ormai era in minoranza, mentre prevaleva la corrente massimalista di Giacinto Serrati. La “grande guerra” (1915-18), insieme ai lutti e alle distruzioni, aveva visto fianco a fianco decine di migliaia di contadini meridionali e siciliani, facendo maturare in loro una certa solidarietà di classe»46. A questo si deve aggiungere la grande suggestione diffusa in tutto l’Occidente dalla Rivoluzione d’ottobre in Russia (1917), che lasciava sperare il movimento operaio e il movimento contadino in un prossimo crollo del capitalismo47. Il contesto, quindi, sollecitava iniziative per scuotere la società italiana e dare risposte immediate agli operai e ai contadini. Si affermò così il “biennio rosso” in Italia, che in Sicilia fu caratterizzato dall’accentuazione delle lotte contadine per il possesso della terra, incoraggiate «dallo slogan “la terra ai contadini” lanciato dalla propaganda di guerra del governo Orlando dopo il disastro di Caporetto»48. D’altra parte, l’enorme tributo di sangue pagato alla guerra vittoriosa, sembrò ai contadini un titolo indiscutibile da portare all’incasso. Tornati dalla guerra, chiesero quindi che lo Stato mantenesse la promessa fatta quando erano al fronte di concedere loro terra. «Nell’agosto del 1919, a partire da Prizzi, le agitazioni contadine ripresero con forza nelle zone interne della Sicilia, in particolare nella provincia di Palermo. Anche a Corleone, grazie al lavoro politico-organizzativo di Vincenzo Schillaci e di Luciano Rizzotto, i contadini superarono il trauma del delitto Zangara. E mentre i socialisti riformisti di Palermo, organizzati da Aurelio Drago e Vincenzo Raja, giravano per le campagne, invitando i contadini a tornare al lavoro, Giovanni Orcel organizzò un comizio al circolo operaio per tenere viva l’agitazione dei contadini in Sicilia»49. Il 2 settembre 1919, per provare a fronteggiare l’ondata rivoluzionaria, il governo Nitti varò il decreto Visocchi e il 22 aprile 1920 il decreto Falcioni, che stabilivano la possibilità di concedere le terre incolte o malcoltivate alle cooperative contadine. Il nuovo quadro normativo, al quale si sarebbe ispirato nel secondo dopoguerra il ministro dell’agricoltura Fausto Gullo, galvanizzò i contadini, ai quali per la prima volta una legge dello Stato garantiva il diritto di avere

46D. Paternostro, Il rifiuto al capobastone, quotidiano La Sicilia, Catania, 26 ottobre 2008. 47Cfr. G. C. Marino, Storia della mafia, Newton & Compton editori, Roma 2000, pp. 116-119. 48 Ibidem, p. 122.

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le terre dei “signori”. Ma preoccupò notevolmente gli agrari e i mafiosi, che ancora una volta reagirono col metodo della violenza.

2.5 L’assassinio dei dirigenti del movimento contadino ed operaio

In tutto il Paese era ormai nell’aria la svolta reazionaria. Contro il “pericolo rosso” si stavano scatenando la borghesia industriale del Nord e gli agrari del Mezzogiorno, mentre all’orizzonte facevano la loro apparizione i Fasci di combattimento di Benito Mussolini. Nei comuni del feudo della provincia di Palermo a dare man forte agli agrari ci pensò la mafia, che ancora una volta usò la strategia dell’assassinio politico. Fu così che nel 1919 a Corleone cadde Giovanni Zangara e a Prizzi Giuseppe Rumore50. La sera del 29 febbraio 1920 ancora a Prizzi fu assassinato Nicolò Alongi51. Alongi, allievo del corleonese Bernardino Verro, era il leader più prestigioso espresso dal movimento contadino della zona del corleonese e dell’intera provincia di Palermo. Egli aveva compreso che i contadini non avrebbero mai potuto resistere alla controffensiva degli agrari e della mafia, senza un’organica alleanza con gli operai delle città. Un’alleanza che era utile e necessaria anche per gli operai, che già stavano sperimentando l’intransigenza dei padroni delle fabbriche. «Finché gli operai della città non fan causa comune con i lavoratori dei campi verso la diritta via del socialismo – scrisse, infatti, sul giornale “la Riscossa socialista del 23 febbraio 1919 – i politicanti di mestiere saranno sempre i difensori della borghesia a danno del proletariato, che gli è servito da sgabello incoscientemente». Su questa impostazione trovò subito al suo fianco il palermitano Giovanni Orcel, leader degli operai metalmeccanici della Cgil. «Nacque così, per la prima volta in Sicilia e forse in Italia, l’alleanza operai-contadini»52, che anticipò quella elaborata in maniera più compiuta da Antonio Gramsci, fondatore nel 1921 del Partito Comunista d’Italia. Quella sera del 29 febbraio 1920, il capo dei contadini Nicolò Alongi si stava recando nella sede della Lega di Miglioramento, in via Umberto I, per tenervi una riunione. Era quasi arrivato, quando tre colpi di fucile lo colpirono al fianco e al petto, facendolo stramazzare per terra. Alcuni soci della Lega lo trasportarono immediatamente nella casa di Nicolò Provenzano e chiamarono un medico, che però non poté che constatarne la morte. Alongi aveva compiuto 57 anni.

50Cfr. U. Santino, Storia del movimento antimafia, cit., p. 146. Giovanni Zangara, assessore socialista della giunta Verro, e dirigente contadino, venne assassinato il 29 gennaio 1919; Giuseppe Rumore, allievo di Nicolò Alongi, e segretario della lega contadina di Prizzi, venne assassinato il 22 settembre dello stesso anno.

51Nicolò Alongi fu assassinato a Prizzi la sera del 29 febbraio 1920. Cfr. G. C. Marino, Vita politica e martirio di

Nicola Alongi contadino socialista, Novecento - Comune di Prizzi, Palermo-Prizzi, 1997.

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A Palermo, la sera del 14 ottobre 1920, il capo degli operai metallurgici della Cgil, Giovanni Orcel53, uscito dalla sede sindacale di via Lungarini, stava per raggiungere la sua abitazione in via Papireto. Ma, all’angolo tra Via Giusino e Corso Vittorio Emanuele, un sicario lo ferì gravemente al fianco sinistro con un pugnalata. Ricoverato urgentemente all'Ospedale “San Saverio”, morì nel corso della notte, anche per scarsa assistenza. Orcel doveva compiere 33 anni. A questi due omicidi ne seguì un terzo. Ancora a Palermo, domenica 23 gennaio 1921, in via Lincoln, all’angolo con via Castrofilippo, un uomo cadde ucciso con una pugnalata alle spalle. Era don Silvestre “Sisì” Gristina, uno dei più influenti capimafia di Prizzi, fratello del sindaco Epifanio Gristina. Da un cronista del “Giornale di Sicilia”54 don “Sisì” veniva descritto come «appartenente a distinta famiglia e assai bene stimata, oltre che a Prizzi suo paese natio, anche a Palermo, dove contava numerose amicizie e conoscenze. (...) A Palermo, il signor Gristina era solito mettersi in giro per i suoi affari con un suo amico, il signor Vito Cascioferro da Bisacquino». Quest’ultimo delitto potrebbe sembrare non collegato agli altri due. Ma non è così. Dopo l’assassinio di Alongi, Orcel aveva organizzato a Palermo delle imponenti manifestazioni operaie di protesta, facendo pressioni sulle autorità affinché scoprissero gli esecutori e i mandanti. Fu anche per questo che, la sera del 14 ottobre 1920, venne a sua volta assassinato dal misterioso killer. Racconta Marcello Cimino su “L’Ora” del 17 aprile 1971, che questi era un tizio «il quale neanche sapeva chi fosse la vittima e nemmeno perché dovesse essere uccisa». Lo capì dopo, attraverso le forti reazioni che la sua morte aveva provocato. Decise, allora, di confidarsi col fratello, un operaio socialista, che poi sarebbe stato uno dei primi a passare col Partito comunista. Dalla confessione del delitto, questi apprese, per certo, che il mandante era stato un temuto capomafia di Prizzi, lo stesso che aveva ordinato l’uccisione di Nicola Alongi. Fu così che, mentre la polizia non voleva o non poteva far luce sui responsabili, un ristretto gruppo di fidati compagni delle vittime poté venirne a capo, decidendo di «fare giustizia». Quel “temuto capomafia di Prizzi” era don Silvestre “Sisì” Gristina, l’uomo assassinato in via Lincoln a Palermo, il cui delitto per la giustizia ufficiale rimase sempre un mistero. Il killer che aveva ucciso Orcel e rivelato il nome del mandante sarebbe stato, a sua volta, eliminato dalla mafia. Con la morte di Nicola Alongi e Giovanni Orcel «fu spezzato il filo dell’alleanza operai-contadini. E la gravità del fatto avrebbe presto trovato un assai lugubre potenziamento in un nuovo intrigo di fatti delittuosi, segnato dal tentativo popolare di fare prevalere

53Giovanni Orcel, segretario degli operai metallurgici della Cgil di Palermo, fu assassinato la sera del 14 ottobre 1920. Cfr. G. Abbagnato, Giovanni Orcel. Vita e morte per mafia di un sindacalista siciliano 1887-1920, Di Girolamo, Trapani, 2007; U. Santino, Storia del movimento antimafia, cit., pp. 147-148.

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sulla calcolata impotenza della giustizia ufficiale, e sull’invincibile sistema di omertà e complicità dei pubblici poteri, una tanto disperata quanto sommaria “giustizia proletaria»55. Da un lato la decapitazione del movimento contadino ed operaio con l’assassinio dei suoi dirigenti più prestigiosi, dall’altro il sorgere e l’affermarsi del movimento fascista, fermarono le ondate di lotta nelle campagne e nella città. Era quello che volevano gli agrari siciliani e gli industriali del nord, fortemente preoccupati dagli esempi internazionali che venivano dalla rivoluzione russa.

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CAPITOLO 3

L’ANTIMAFIA SOCIALE DEL SECONDO DOPOGUERRA

Dopo il “buco nero” del ventennio fascista, nel secondo dopoguerra le lotte per la terra, per la riforma agraria e contro la mafia ripresero in tanti comuni siciliani. D’altra parte, scrive Paternostro, «le condizioni sociali ed economiche della Sicilia non erano affatto mutate, rispetto ai decenni passati. Esisteva sempre il forte contrasto tra pochi ricchi proprietari terrieri, a cui tutto era permesso, e sterminate masse di contadini poveri, privi dei mezzi più elementari per vivere. Con le “complicazioni” del banditismo e del movimento separatista, che, facendo leva sui diffusi sentimenti antistatali, rivendicava una Sicilia indipendente, magari sotto il protettorato americano»56. Nulla sembrava potesse cambiare questi rapporti di forza nelle campagne, quando, nel volgere di pochi mesi, accadde l’imprevedibile. Con lo sbarco alleato e la caduta del Fascismo, non si era liberata soltanto la mafia. Erano rinati anche i grandi partiti di massa, che si posero l’obiettivo della costruzione della democrazia in Sicilia, ponendo un freno allo sviluppo del separatismo, con la soluzione autonomista.

3.1 I Decreti Gullo e le prime lotte contadine

Tra il 1945 e il 1946 ebbero inizio in Sicilia le lotte per la terra, che continuarono fino al 1950 ed anche oltre, coinvolgendo centinaia di migliaia di contadini poveri, specie della parte centro-occidentale dell’Isola. Ad incoraggiarle fu il tentativo dei governi di unità nazionale, composti da tutti i partiti antifascisti, di dare risposte concrete al bisogno di terra e libertà delle popolazioni meridionali. Infatti, il 19 ottobre 1944 fu emanato dal ministro dell’agricoltura dell’epoca - il comunista Fausto Gullo- il decreto n. 279, che riconosceva ai contadini riuniti in cooperative il diritto di ottenere in concessione le terre incolte e mal coltivate degli agrari. Il provvedimento legislativo coglieva il bisogno fondamentale dei contadini di poter accedere alla terra, considerata strumento di emancipazione sociale. Nella Sicilia del secondo dopoguerra, la struttura della proprietà fondiaria era ancora caratterizzata dal prevalere del latifondo. Ancora nel 1946, la proprietà che superava i 50 ettari era pari al 39,3% della superficie agraria siciliana, mentre appena 282 proprietari possedevano il 10,6% della superficie agraria dell'isola. Secondo i dati del censimento del 1936, i 4/5 della popolazione addetta all'agricoltura non possedevano neanche un 56D. Paternostro, Placido Rizzotto. Alle radici dell'antimafia sociale a Corleone e in Sicilia, Istituto Poligrafico Europeo, Palermo 2011, pp. 26-27.

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pezzo di terra o ne possedevano talmente poca da potersi considerare povera. I contadini, quindi, incoraggiati dal nuovo quadro legislativo, cominciarono ad associarsi in cooperative e a presentare le domande di concessione per i feudi incolti o mal coltivati. Le loro richieste, però, rimasero inevase per mesi e mesi sui tavoli delle Commissioni provinciali, che avrebbero dovuto esaminarle. Fu per protestare contro questi ritardi che decisero di occupare simbolicamente le terre, rivendicando l’emanazione dei decreti prefettizi di concessione. Rapidamente, il movimento di occupazione delle terre incolte fu presente in tutte le province, ma si sviluppò più intensamente nella Sicilia centro-occidentale, a prevalente coltura latifondistica. Vi parteciparono piccoli proprietari, ma l'anima del movimento fu costituita da braccianti senza terra e da contadini poveri, più combattivi e numerosi.

Organizzatori di queste lotte furono i partiti democratici e i sindacati, appena ricostituitisi. In primo luogo, il Pci e il Psi, le Camere del lavoro della Cgil, che allora aveva al suo interno ancora la componente democristiana e la componente laica (Psdi, Pri), la Federterra, e in alcuni casi anche la Dc. Già il 10 ottobre 1945, a Santa Caterina Villarmosa, circa 1.500 contadini organizzarono la «marcia su Caltanissetta», per attirare «l'attenzione delle autorità sull'opportunità e l'urgenza di concedere le terre incolte…, prima che passasse l'epoca della semina», racconta Michele Pantaleone57. Una simile iniziativa di protesta fu organizzata, nell'autunno '46, dai contadini di Piana degli Albanesi, che si recarono a cavallo e a piedi fino a Palermo, percorrendo un tragitto di circa venti chilometri. Si mobilitarono anche i contadini di Corleone, di San Giuseppe Jato e di San Cipirello. Memorabile fu «la cavalcata», organizzata dal dirigente comunista e segretario della Camera del lavoro Accursio Miraglia, che si svolse nel settembre del 1946 a Sciacca (Agrigento). Migliaia di contadini di Sciacca e del circondario manifestarono per le strade del paese «la loro volontà di lotta, la loro volontà di rinnovamento, per la rinascita e il riscatto della nostra terra», avrebbe scritto Michelangelo Russo nel 1985.

Eccone il racconto a Danilo Dolci di un contadino che vi aveva partecipato:

La sera del sabato si disse che si doveva fare una cavalcata dentro il paese, per dare a capire quanto popolo aveva appresso lui (Accursio Miraglia), che voleva la terra (...) L'indomani all'orario che si organizzarono, vennero tutti i contadini; quando loro passarono, il primo che era davanti, era lui... dietro di lui tutta la massa. C'erano da Menfi, Montevago, Santa Margherita, Sambuca, Burgio, Caltabellotta, Lucca, Ribera, Calamonaci, Villafranca, tutti a cavallo. Erano allegri, chi faceva voci, chi faceva fischi, se incontravano quelli che erano contrari. I più ricchi

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quella mattina balconi non ne hanno aperto nessuno. C'erano anche ragazzi a cavallo col loro padre. Accursio Miraglia pareva Orlando a cavallo, era un piacere vedere questa potenza d'uomo a cavallo, era una persona da guardarlo, era un amore a guardarlo, la sua presenza era amorosa. I bambini buttavano qualche fiore, c'era il popolo a massa per lui... Era lunga la cavalcata... era una

cavalcata che non finiva mai, su due file... Le guardie facevano chiasso che volevano che si scioglievano presto. C'erano quattro o cinquemila muli, poi tutte le biciclette. Chi ce l'avevano nel cuore, salutavano e battevano mani, c'erano lì i mariti e i figli e le mogli che stavano sulla passata, aspettando di vederli. Poi al campo sportivo lui disse quattro parole per spiegare perché era stata fatta la cavalcata, lui era molto contento e fece applauso alle persone e ringraziò il popolo. E poi li fece sciogliere»58.

Dopo queste prime lotte, le prefetture cominciarono ad emanare i primi decreti di concessione delle terre incolte, ma i grossi latifondisti ostacolarono in tutti i modi (legali ed extra-legali) le procedure di assegnazione, paralizzando il lavoro delle commissioni provinciali che avevano il compito di esaminare le domande. Nelle campagne siciliane, quindi, si respirava un clima tutt’altro che tranquillo. Di fronte all’aperto ostruzionismo degli agrari, i contadini esasperati protestavano e sfogavano la loro rabbia, intensificando le invasioni dei feudi incolti o mal coltivati. Ma gli agrari, spalleggiati dai campieri e dai gabellotti mafiosi, intrecciarono l’ostruzionismo legale col terrorismo extra-legale. Proprio gli agrari, in preda al panico e alla rabbia, arrivarono a far finta di sconoscere l’esistenza dei nuovi decreti («Ma chi è questo Gullo?», ripetevano), oppure a negar loro validità in virtù dello statuto speciale della Sicilia. I contadini e le loro organizzazioni politiche e sindacali, dall’altro lato, accelerarono la costituzione delle cooperative agricole e delle leghe, per avere al più presto gli strumenti che potessero rendere operative le leggi. Ripresero le lotte contadine, ma riprese anche la reazione violenta di agrari e mafiosi, che colpirono duramente i dirigenti del movimento contadino.

3.2 Gli atti terroristici contro il movimento contadino: l’assassinio di Accursio Miraglia

Gli atti terroristici contro i dirigenti del movimento contadino cominciarono il 16 settembre del 1944, con l’attentato a Girolamo Li Causi, segretario regionale del PCI, durante un comizio a Villalba, il “feudo” di don Calò Vizzini. Proseguirono nel ‘45 e nel ‘46, con gli assalti alle Camere del lavoro, le intimidazioni e i pestaggi dei suoi dirigenti e con i primi omicidi. Prima di Azoti, infatti, erano già caduti Andrea Raja a Casteldaccia, Nunzio Passafiume a Trabia, Agostino

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D’Alessandria a Ficarazzi, Giuseppe Scalia a Cattolica Eraclea, Giuseppe Puntarello a Ventimiglia Sicula, Gaetano Guarino a Favara, Pino Camilleri a Naro, Giovanni Castiglione e Girolamo Scaccia ad Alia, Giuseppe Biondo a S. Ninfa e Paolo Farno a Comitini. Ma non sarebbe finita lì. Sotto il piombo della mafia, negli anni successivi, sarebbero caduti altri sindacalisti come Accursio Miraglia a Sciacca, Epifanio Li Puma a Petralia, Placido Rizzotto a Corleone, Calogero Cangelosi a Camporeale, Salvatore Carnevale a Sciara.

Emblematico fu l’assassinio di Accursio Miraglia, segretario della Camera del lavoro di Sciacca, uno dei leader più noti e più amati dalle masse contadine in tutta la provincia di Agrigento59. “Meglio morire in piedi, che vivere in ginocchio!”, era la frase che ripeteva spesso. L’aveva presa in prestito dal romanzo di Ernest Hemingway Per chi suona la campana, ma ormai la sentiva come sua. La ripeteva spesso alla moglie, alle sorelle e ai compagni del partito e del sindacato, ogni volta che gli agrari e i gabellotti mafiosi lo minacciavano o gli facevano arrivare l’invito a farsi i fatti propri. In quei primi anni del secondo dopoguerra, Miraglia era dirigente del Partito comunista e segretario della Camera del lavoro di Sciacca, un grosso paese marinaro in provincia di Agrigento. Si era messo in testa di far applicare anche nel suo paese i decreti Gullo sulla concessione alle cooperative contadine delle terre incolte o mal coltivate. E il 5 novembre 1945 aveva costituito la “Madre Terra”, una cooperativa di centinaia di braccianti e contadini poveri, alla quale riuscì a fare assegnare diversi ettari di un terreno relativamente fertile. Nel settembre del ’46 aveva organizzato la famosa “cavalcata”, che vide sfilare migliaia di contadini a cavallo e che si concluse con un imponente comizio. Per la proprietà latifondista e per i gabellotti mafiosi costituiva una sfida inaccettabile. Il 4 gennaio 1947, verso le nove e mezza di sera, Miraglia era appena uscito dai locali della sezione comunista per tornare a casa. A “scortarlo” c’erano quattro compagni: Felice Caracappa, Antonino La Monica, Tommaso Aquilino e Silvestro Interrante. Percorsero un tratto di strada insieme, poi Interrante e Caracappa si staccarono dal gruppo per far rientro nelle loro abitazioni. Gli altri due, invece, accompagnarono il dirigente contadino fino a 30-40 metri da casa sua, lo salutarono e ritornarono indietro. Ma passarono solo pochi secondi e il silenzio fu rotto da numerosi colpi di pistola. Capirono subito che i colpi erano diretti contro Miraglia. Aquilino si acquattò dietro una porta, mentre il La Monica «poté… distinguere, nei limiti di visibilità consentitigli dalla sua vista miope, che un uomo di corporatura esile, il quale vestiva con un pastrano abbottonato ed era a capo scoperto, o portava un berretto, standosene in piazzetta Lazzarini

59Cfr. Cfr. P. Basile, D. Gavini, D. Paternostro, Una strage ignorata. Sindacalisti agricoli uccisi dalla mafia in Sicilia

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sotto la lampada ad arco della pubblica illuminazione e retrocedendo, quindi, verso via S. Caterina, sparava, con arma automatica, in direzione della via Orfanotrofio, mentre un altro uomo, che non sparava, gli era vicino e con lui s’accompagnava. Dopo avere esploso numerosi colpi, lo sparatore ed il suo compagno si dileguavano per via S. Caterina».60

Probabilmente, insieme a questi due uomini ce n’era un altro, che si allontanò di corsa dopo gli spari. La Monica «ritornò indietro e vide un giovane, piuttosto esile, di media statura, con cappotto e berretto, che impugnava un’arma da fuoco lunga, dalla quale fece partire un’altra raffica di colpi. Lo sparatore era in mezzo alla strada, sotto una lampada accesa dell’illuminazione pubblica, e, dopo aver sparato, si allontanò di corsa verso l’uscita del paese. La stessa scena fu vista da Aquilino», scrive lo storico calabrese Umberto Ursetta61. Probabilmente, insieme a questi due uomini ce n’era un altro, che si allontanò di corsa dopo gli spari. Miraglia morì riverso sulla porta della propria abitazione, tra le braccia della giovane compagna russa, Tatiana Klimenko, che lo abbracciava, gridando dalla disperazione. Erano appena suonate le 22,00. Di corsa, erano arrivati La Monica e Aquilino. Poco dopo, arrivarono anche quattro carabinieri, attirati dagli spari. A 51 anni, Miraglia morì “in piedi”, perché non si era voluto piegare alla mafia e agli agrari, perché non volle tradire i suoi contadini. E questo lo capirono bene a Sciacca, dove il dirigente sindacale era benvoluto ed amato da tutte le persone oneste. Non era il primo omicidio di mafia. Prima di lui, in Sicilia, erano già caduti altri capilega. Il delitto Miraglia, però, fece scalpore non solo nell’Isola, ma anche nell’intero Paese. A Sciacca arrivarono i dirigenti sindacali e politici della sinistra, dal segretario regionale del Pci Girolamo Li Causi al sottosegretario alla giustizia del governo di unità nazionale Giuseppe Montalbano. Il funerale non poté tenersi prima di sei giorni, perché erano tanti i cittadini che volevano tributargli l’ultimo saluto. La bara col corpo di Miraglia rimase scoperta tre giorni all’ospedale civico e tre giorni nel salone della Camera del lavoro. Infine, l’11 gennaio si svolsero i funerali, a cui partecipò l’intera popolazione. I preti non vollero che Miraglia fosse portato in chiesa, perché era un morto ammazzato e per giunta comunista. Ma le esequie civili furono lo stesso solenni ed imponenti. In Sicilia, il 9 gennaio, in segno di protesta e di solidarietà la Cgil dispose la sospensione del lavoro di un’ora, dalle 11.00 alle 12.0062. Tutti i treni merci e viaggiatori si

60Requisitoria del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Palermo al processo per l’assassinio di Accursio Miraglia, 8 agosto 1947 (Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’interno, sindacalisti uccisi dalla mafia, ufficio di gabinetto, busta 33, anno 1948).

61Cfr. U. Ursetta, Nelle foibe della mafia. Accursio Miraglia e Placido Rizzotto, sindacalisti”, Nuova Iniziativa Editoriale, Roma, 2005.

62I lavoratori della zona di Cefalù, in provincia di Palermo, sospesero il lavoro per un’ora, dalle 11.00 alle 12.00, dando vita a numerose manifestazioni di cordoglio, come comunicava alla prefettura il comandante della compagnia dei

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fermarono per dieci minuti. A S. Giuseppe Jato circa 300 lavoratori parteciparono alla manifestazione indetta dalla Camera del lavoro per commemorare Miraglia. Gli oratori, tra cui un certo Carmelo Pedalino, «dicevano ai presenti di tenersi preparati, e se necessario armarsi per non lasciarsi cogliere alla sprovvista da altri eventi», destando «vivo risentimento tra gli aderenti ai partiti di centro-destra».63 In Italia, l’astensione dal lavoro fu di cinque minuti, mentre in tutte le fabbriche suonarono le sirene. Dalla Camera del lavoro al cimitero, la bara fu portata a spalla dai contadini. Era una giornata d’inverno, fredda ed uggiosa, ma non pioveva. Solo quando il corteo funebre arrivò davanti al portone d’ingresso del cimitero, cadde qualche goccia di pioggia, che bagnò la bara. “Un ti vosiru benidiciri l’omini, ma ti binidiciu Diu”, esclamò un anziano contadino. Oltre ad essere segretario della Camera del lavoro, membro del Comitato federale del PCI di Agrigento e membro della Commissione dell’assegnazione delle terre incolte, Miraglia era anche direttore dell’Ospedale civico di Sciacca, proprietario di una piccola industria del pesce, amministratore di una fornace per la produzione di laterizi e direttore del teatro “Rossi”. Un personaggio pubblico di rilievo, dunque, la cui tragica fine non poteva passare sotto silenzio. A condurre le indagini sul delitto fu la polizia, che fermò un certo Calogero Curreri, indicato da La Monica e Caracappa (i due militanti comunisti che la sera del 4 gennaio 1947 avevano accompagnato Miraglia) come facente parte del commando dei killer. Altri testimoni (tra cui la compagna di Miraglia e le sorelle Brigida ed Eloisa) indicarono nel proprietario terriero, cavaliere Rossi, e nel suo gabellotto Carmelo Di Stefano, alcuni dei possibili mandanti dell’assassinio. In appena nove giorni di indagini, gli inquirenti, quindi, si convinsero delle responsabilità di Rossi, Di Stefano e Curreri, che furono formalmente accusati dell’omicidio, individuandone la causale “nel contrasto, anzi nell’odio, che il Rossi ed i suoi familiari nutrivano verso il Miraglia” per essersi battuto a favore dei contadini.

La direzione delle indagini fu assunta direttamente dall’ispettore generale di P.S. per la Sicilia Ettore Messana, che partecipò direttamente all’arresto di Rossi e Curreri, condotti nel carcere di Sciacca.64 Non si poté arrestare il Di Stefano perché ricoverato nell’ospedale di Sciacca. Qualche giorno dopo, fu lo stesso ispettore Messana a far tradurre il cavalier Rossi dal carcere saccense a quello di Palermo. Durante il viaggio, però, il detenuto accusò un improvviso malore e fu fatto

carabinieri Mario Monizio, con nota del 9 gennaio 1947 (Archivio di Stato Palermo, Accursio Miraglia, busta 819). 63Legione territoriale dei carabinieri di Palermo, Tenenza di Partinico, nota del comandante della tenenza del 16.1.1947, Archivio di Stato Palermo, Accursio Miraglia, busta 813.

64Relazione sull’omicidio di Accursio Miraglia dell’Ispettore generale Tommaso Pavone del 5 ottobre 1947 (Archivio Centrale dello Stato, sindacalisti uccisi dalla mafia, ministero dell’interno, ufficio di gabinetto, busta 33 anno 1948).

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sostare nel famigerato ospedale di Corleone, diretto dal capomafia del luogo Michele Navarra. Qui, il dott. Dell’Aria gli rilasciò un certificato, dove dichiarava che il Rossi «era affetto da enterorraggia in atto». Una patologia sospetta, ma “provvidenziale”, che ne consigliò il ricovero nella clinica Orestano di Palermo, evitandogli così l’onta del carcere.

Ma i colpi di scena non finiscono qui. Giorni dopo, la polizia trasmise alla Procura della Repubblica di Palermo le “carte” dell’inchiesta, che, dopo appena 39 giorni dalla denuncia, ordinò la scarcerazione degli imputati per mancanza di elementi concreti di colpevolezza. «In effetti, gli indizi raccolti a loro carico appaiono molto fragili e di difficile tenuta in sede processuale», osserva Umberto Ursetta. Aggiunge, però, che fu forte il sospetto che l’ispettore Messana ebbe troppa fretta di chiudere l’indagine, presentando «denuncia contro alcuni individui sospetti, non sostenuta da alcuna prova, allo scopo di farli subito scarcerare e lasciare quindi il delitto impunito».65

La decisione della Procura di Palermo suscitò molte proteste. L’on. Li Causi e l’on. Montalbano presentarono un’interrogazione parlamentare, chiedendo energicamente le indagini fossero riaperte in maniera più approfondita. E qui fu un nuovo colpo di scena. La polizia e i carabinieri arrestarono nuovamente Calogero Curreri, ma stavolta insieme a Pellegrino Marciante e Bartolo Oliva. I primi due, interrogati dagli inquirenti, confessarono il delitto ed indicarono quali mandanti il cavalier Rossi, il cavalier Pasciuta, il cavaliere Vella e il gabellotto Carmelo Di Stefano. Caso risolto, dunque? Nemmeno per sogno. Davanti al Procuratore di Palermo, Curreri e Marciante ritrattarono le loro confessioni, accusando le forze dell’ordine di averle estorte con violenze e torture. Il giudice, quindi, prosciolse tutti gli imputati per non aver commesso il fatto, denunciando per torture e sevizie il commissario Giuseppe Zingone, il marescialle dei CC Gioacchino Gagliano e il brigadiere Salvatore Citrano, il maresciallo di P.S. Angelo Causarano e gli agenti di P.S. Vincenzo La Greca e Ernesto Moretto. Incredibilmente, però, anche il procedimento penale contro i “torturatori”, avviato dalla Procura di Agrigento, si concluse col loro pieno proscioglimento. Ma, se non ci furono violenze, gli imputati dell’assassinio Miraglia non avrebbero dovuto essere assolti. E, nel dubbio, s’imponeva almeno la riapertura delle indagini. Invece niente. Sulla vicenda calò un colpevole silenzio, che dura fino ad oggi.

«Mio padre era ricco, ma lasciò la sua famiglia povera», dice il figlio Nico Miraglia. E aggiunge: «Per lui i soldi avevano un valore, perché gli consentivano di fare opere di bene. Mia madre mi raccontava che all’orfanotrofio dei marinai, gestito da padre Arena, donava mille lire per ogni orfano ricoverato, mentre al convento del “Boccone del povero” ogni giorno faceva avere il pesce ed altri generi di prima necessità». Ma, grazie al “grande cuore” di Sciacca, la vedova e i suoi 3 figli

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