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I profughi giuliano-dalmati nella provincia di Massa Carrara

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione ... 1

Capitolo 1: I territori di confine tra il 1919 e il 1946. ... 4

1.1 Tra le due guerre. ... 4

1.2 La guerra contro la Jugoslavia e le violenze di confine...16

1.3 Dall’armistizio del 1943 all’occupazione jugoslava. ...25

1.4 Politica e violenza jugoslava...38

Capitolo 2: Il Secondo dopoguerra. ...49

2.1 L’esodo. ...49

2.2 Una difficile accoglienza. ...62

2.3 L’esodo da Fiume...70

2.4 Esodo da Pola...76

Capitolo 3: Esuli in terra apuana. ...81

3.1 Vita quotidiana all’interno dei CRP. ...81

3.2 Trovare lavoro e crearsi una nuova vita. ...93

3.3 Gli industriali giuliano-dalmati. ...103

3.4 Le leggi a favore degli esuli. ...112

Conclusioni ...119

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Introduzione

Il presente lavoro è stato suddiviso in tre capitoli e attraversa un arco temporale che va dal 1918 fino al 1960, in relazione a quelle che furono le premesse storiche e delle fasi salienti della questione giuliano-dalmata e istriana. La prima parte dello studio non ha potuto prescindere da un’analisi delle specificità storiche del periodo preso in considerazione e

delle relative vicende politiche nazionali e internazionali: dal Trattato di Versailles del 1919, dopo la Prima guerra mondiale, all’avvento del

fascismo con il conseguente varo delle politiche di “italianizzazione” e di violenza che si abbatterono sulla componente slava lungo i territori della Slovenia tra il 1926 e il 1937.

Nella seconda parte ho preso in esame le vicende riguardanti il confine orientale italiano nel periodo successivo all’armistizio del settembre 1943 tra Italia e alleati, quando le forze partigiane di Tito e la resistenza italiana si unirono nella lotta al nazifascismo. L’occupazione dei territori giuliani e di parte dell’Istria da parte dei titini gettò queste province in

un clima di paura e di violenza a causa dei numerosi episodi di infoiba menti e di arresti preventivi verso coloro che venivano identificati come oppositori del regime. Alla persecuzione nei confronti degli italiani si aggiunse la politica di slavizzazione da parte delle autorità jugoslave che

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sollecitò la fuga degli italiani verso la penisola. Ebbe così inizio quel fenomeno definito dalla storiografia e dalla memorialistica come “l’esodo” giuliano-dalmata e istriano. Un'ondata di vaste proporzioni

che, in un arco di tempo compreso tra l'immediato dopoguerra e la seconda metà degli anni Cinquanta, vide circa 350.000 profughi intraprendere la lunga via dell'esilio e dirigersi verso il continente Americano, in Australia e, soprattutto, in Italia, dove furono allestiti ben 109 Centri di Raccolta Profughi (CRP). La creazione di queste strutture coinvolse anche la provincia di Massa Carrara, dotata di due campi, rispettivamente a Marina di Massa e a Marina di Carrara.

Per la stesura di questa parte del lavoro, in particolare, insostituibili sono state le fonti archivistiche gentilmente concesse dalla prefettura di Massa Carrara e dall’associazione giuliano-dalmati provinciale. Importanti ai fini della ricostruzione delle vicende dell’esodo, inoltre, sono stati i

giornali locali.

Nella terza parte, infine, mi sono concentrato sull’esperienza vissuta dai profughi all’interno dei CRP di Massa e di Carrara, rievocando problemi

e vicende ad essa legate: dalle contestazioni dei movimenti anarchici locali, alle difficoltà dei capifamiglia nel trovare un’occupazione e un’abitazione, per proseguire con le leggi in favore degli esuli, e

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3

concludere con gli incontri tra il rappresentante degli industriali giuliano-dalmati e le autorità romane per favorire l’impianto di alcune fabbriche nel distretto apuano.

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Capitolo 1: I territori di confine tra il 1919 e il 1946. 1.1 Tra le due guerre.

È assai arduo analizzare l’esodo istriano e giuliano-dalmata senza prendere in esame le vicende che caratterizzarono i territori di partenza nel corso degli anni precedenti. Nel 1919, dopo la conclusione del Primo conflitto mondiale e con l’apertura a Parigi delle trattative di pace, la

questione del confine orientale italiano costituiva uno dei temi più dibattuti dalle potenze vincitrici. In particolar modo, Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti d’America, si oppose al riconoscimento dei diritti che l’Italia vantava in base agli accordi di Londra sui territori della

Dalmazia e della parte orientale dell’Istria. Tale opposizione risaliva al 1917, quando un gruppo di esperti della politica estera americana rifletté sulla possibilità di realizzare uno Stato jugoslavo che si sarebbe esteso fino ai territori della costa orientale dell’Istria, includendo il litorale

dalmata e Fiume. Possibilità che venne vista con favore anche da Gaetano Salvemini, il quale auspicava la caduta dell’Impero Austro-Ungarico e la creazione di un nuovo Stato, che avrebbe garantito rapporti di buon vicinato con l’Italia1

. Sul versante opposto, la delegazione jugoslava presente a Parigi avanzò pretese non solo sulle zone

1

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precedentemente citate, ma anche sulle città di Gorizia, Trieste e Udine, riportando di fatto i confini italiani al 1866. Anche la Francia voleva estendere i propri interessi nell’area balcanica, sostituendosi all’Italia e

alla Russia nel controllo di quei territori2.

Come noto, il polemico abbandono da parte di Orlando e Sonnino delle trattative di pace non sortì dal punto di vista diplomatico l’effetto sperato

e, anzi, il successivo rientro della delegazione italiana a Parigi segnò di fatto le sorti del governo, che il 19 giugno rassegnò le dimissioni, sostituito da un nuovo esecutivo guidato da Francesco Saverio Nitti; nei mesi successivi, il nuovo ministro degli Esteri Tittoni si incontrò con gli altri delegati della conferenza di pace per arrivare ad un accordo sui territori del confine orientale. A partire dai primi mesi del 1920, poi, fu lo stesso Presidente del Consiglio Nitti a trattare con i rappresentanti di Francia e Gran Bretagna a Parigi e a Londra, dichiarando che avrebbe accettato l’ipotesi della città libera di Fiume, purché all’Italia fosse

concessa una striscia di territorio per unire il territorio nazionale alla città balcanica. Nitti, inoltre, reclamò le isole di Lagosta e di Cherso e la costituzione di Zara in città libera.

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Le trattative proseguirono per diversi mesi, mentre fu nominato un nuovo governo affidato a Giolitti, sino ad arrivare, nel novembre 1920, alla ratifica del Trattato di Rapallo, che regolava (seppur non in modo definitivo) la questione sul confine orientale. L’accordo assicurava all’Italia le isole di Cherso, Lussino, Pelagosa, Lagosta e la sovranità

sulla città di Zara. Per quanto riguarda Fiume, invece, decadeva l’ipotesi di costituire uno Stato libero a maggioranza croata, a vantaggio della creazione di una città libera. Una popolazione di 500.000 persone tra croati e sloveni entrava a far parte dello Stato italiano. Lo Stato libero di Fiume ebbe tuttavia vita brevissima: infatti nel marzo 1922 un colpo di Stato condotto dai fascisti destituì il governatore della città liburnica, aprendo un nuovo contrasto tra italiani e jugoslavi.

Con il successivo Trattato di Roma del 27 gennaio 1924 i due paesi definirono l’annessione di Fiume all’Italia, mentre Sussak passava alla

Jugoslavia. A Fiume l’elemento nazionalista iniziò ad affermarsi sin da subito, divenendo un fenomeno politico centrale e i ceti liberal-nazionali antiasburgici contribuirono a fomentare l’antislavismo durante il periodo

fascista3.

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7

A Trieste, nel luglio del 1920 i contrasti tra la popolazione di origine slava e quella italiana degenerarono: circa 2.000 persone, convocate dal fascio locale per manifestare in seguito alla morte di due italiani avvenuta a Spalato, si diressero alla Casa della Nazione (Narodni Dom), simbolo della presenza slava nel triestino, e diedero fuoco all’edificio. Analogo episodio si verificò nei giorni successivi a Pola4. Al riguardo, Raoul Pupo ha affermato che tali episodi rientravano nella più generale strategia delle autorità fasciste di avviare un’opera di snazionalizzazione

delle componenti slovene e croate presenti nei territori giuliani annessi all’Italia. Intorno alla fine degli anni Trenta la componente slava della

popolazione giuliana risultava pressoché costante sul piano numerico, anche se il suo profilo sociale era stato ridisegnato a forza mediante l’eliminazione degli strati superiori e la dispersione dei ceti intellettuali5

. Infatti il fascismo perseguiva i propri obiettivi in un duplice modo: in prima battuta confiscando le terre annesse dalla Jugoslavia dopo la Prima guerra mondiale, poi attuando un’opera di assimilazione degli slavi alla

lingua e alla cultura italiana. Raoul Pupo ha spiegato in questi termini i caratteri di tale politica: “Sembrava sufficiente disperdere la classe dirigente slava, portatrice dell’ideologia nazionale, ed eliminare tutti gli

4

Cfr. R. Pupo, Il lungo esodo, Milano, Bur, 2005, pp. 31-32. 5

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8

strumenti di cui le comunità slovene e croate si erano dotate nella seconda metà dell’800 per affermare la loro identità. A quel punto una

società destrutturata e priva di punti di riferimento sarebbe stata, si pensava, facile preda del processo di italianizzazione”6

. A quanto sopra descritto seguirono una serie di disposizioni tra le quali: la possibilità di sciogliere partiti e movimenti politici di opposizione nonché di censurare giornali, riviste, circoli. Si conteggiarono circa 500 associazioni sciolte nei settori dello sport e della cultura, tra gruppi corali, ginnici e teatrali. Per quanto riguarda il settore della stampa è interessante sottolineare che a partire dall’ottobre 1923 i giornali slavi furono obbligati a pubblicare

notizie con la traduzione in italiano; tale disposizione fu modificata solo dopo un incontro con le autorità jugoslave. Sul piano dell’istruzione, le

scuole slovene e croate furono ridotte di numero e alcuni corsi di studio furono aboliti, mentre con la riforma del ministro Gentile si riconosceva come unica lingua d’istruzione l’italiano. Agli insegnanti slavi, infine, fu

concesso di svolgere il proprio lavoro solo dopo il superamento di un esame di abilitazione all’insegnamento della lingua italiana.

Nei vari comuni della Venezia Giulia i consigli comunali e i sindaci slavi vennero sostituiti dalla nuova figura del Podestà, nominato dalle autorità

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governative centrali, di nazionalità italiana, e responsabile nei confronti del prefetto. Un convegno dei segretari federali delle sei province di frontiera tenuto a Trieste nel giugno del 1927 sottolineò in modo più chiaro gli obiettivi del regime nei territori orientali dell’Italia, testimoniando la profonda coesione tra il fascismo e il nazionalismo di confine7.

Non rimase esente da interventi del governo fascista nemmeno il comparto economico, anche se in modo meno radicale rispetto ai settori sopracitati. In particolare, furono adottati provvedimenti come l’accorpamento di alcune cooperative all’interno di consorzi italiani, il

commissariamento o la sostituzione degli organi direttivi degli istituti di credito8. Tra le decisioni adottate figurò anche il cambiamento della toponomastica, con l’italianizzazione dei cognomi e l’impossibilità dei

genitori di chiamare i propri figli con nomi tipici slavi. Così a partire dal 1927 fino al 1933 nella sola città Pola 56.000 persone cambiarono il proprio cognome, soprattutto tra le famiglie degli strati sociali più bassi. Le famiglie più potenti, invece, in particolare quelle della società triestina, mantennero i propri cognomi come: Slataper, Brunner, Suvich9.

7

Cfr. M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., p. 175. 8

Cfr. ibidem, p. 176. 9

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10

Il fervente sentimento nazionalista degli esponenti del regime portò ad esaltare l’antislavismo, così come testimoniato, per esempio, nello scritto

di Luca Pietromarchi (sotto lo pseudonimo di Luca dei Sabelli), dal titolo

Nazione e minoranze etniche, studio del 1929 finanziato dall’Istituto

Nazionale Fascista di Cultura. Per l’autore, in particolare, l’Italia non aveva problemi legati alle minoranze: “Tra popoli barbari e civili non è

possibile concepire alcuna parità di diritti, perché il barbaro era il nemico del mondo civile”10. Nelle pubblicazioni come il “Popolo di Trieste” e “Italia”, inoltre, si chiedeva di “incidere a fondo questa piaga purulenta e rimuovere questa ulcera senza pietà”, di “bonificare” il territorio dalla palude slava eliminando l’ibrido realizzato dal dominio austriaco11

. Il giornalista Livio Ragusin Righi, sempre nel 1929, nell’opuscolo Politica

di confine ribadiva la necessità di rimuovere in maniera chirurgica il

frutto nato dalla “cancrena austriaca” e sosteneva che solo il fascismo

avrebbe potuto assolvere questo compito. La politica dell’Austria asburgica, secondo il giornalista, non aveva creato una vera e propria unità identitaria delle popolazioni slave, tantomeno una propria civiltà. Secondo Ragusin solo il fascismo aveva la capacità di trasmettere il

10

L. Pietromarchi, Nazione e minoranze etniche, vol. 1, Milano, Zanichelli editore, 1929, p. 28. 11

Cfr. G. Sluga, La nazione italiana fascista 1922-1938, in M. Cattaruzza (a cura di), Nazionalismi di

frontiera. Identità contrapposte sull’Adriatico Nord-orientale, 1850-1950, Soveria Mannelli,

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11

soffio di una civiltà superiore tra popolazioni meno evolute in modo più efficace rispetto al precedente governo12, mediante la “diffusione” di cultura, scuole, progresso, istruzione, lavoro, acqua, luce, strade, sicurezza.

L’interesse del regime verso i confini orientali italiani si concretizzò in

massicci interventi infrastrutturali con investimenti che si aggirarono intorno ai 430 milioni di dollari tra il 1928 ed il 1934, impiegati nella realizzazione di: 450 km di strade, 200 km di ferrovia, 4 ponti, 1065 case, 363 edifici pubblici, 260 km di acquedotto istriano, 5 dighe marittime, 1800 km di elettrodotti, 6 centrali elettriche, 996 opere di bonifica, 14 compressori, il porto franco di Fiume e di Zara, il villaggio dell’Arsa per 6.000 minatori e la raffineria di Fiume13

. Per favorire gli interessi nazionali nei nuovi territori entrati a far parte dell’Italia, il regio

decreto legge n. 646 del 28 marzo 1929, inoltre, concesse una serie di facilitazioni tributarie e doganali alla realtà produttiva delle aree intorno a Pola, facilitazioni che negli anni successivi furono estese anche alle imprese delle zone contigue. Furono favorevolmente incentivate da

12

Cfr. ibidem. 13

Cfr. F. Rocchi, L’esodo dei 350 mila profughi giuliani, fiumani e dalmati 1° parte,Treviso, Alcione editore, 2007, p. 12.

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12

queste iniziative, in particolare, il settore della cantieristica navale e una cementeria a forno elettrico14.

Il territorio istriano era invece molto importante per le risorse minerarie, e Pola divenne il punto di transito di queste merci destinate a Porto Marghera. Il comprensorio offriva bauxite e riforniva gli stabilimenti della Montecatini e Sava; l’industria vetraria di Murano si serviva delle

sabbie silicee, così come la Vetrocoke di Porto Marghera. Fondamentali per la politica autarchica del regime divennero i bacini carboniferi dell’Arsa, da cui nel solo 1929 partirono circa 12.000 tonnellate di

carbone15. La cantieristica navale trasse benefici dalle agevolazioni concesse dal governo con il rdl del 5 aprile 1928, a favore della fascia costiera istriana, dalmata e delle zone del Quarnaro, così come la raffineria Romsa, una cartiera, una riseria, depositi di olii minerali. Nel 1925 con il rdl dell’8 luglio n. 1249 furono stanziati 25 milioni per la concessione di mutui a condizioni particolarmente favorevoli alle industrie e alle imprese commerciali della città di Fiume. Con il varo di questi provvedimenti, il regime fascista cercava di guadagnare un ampio consenso anche tra la popolazione slava. Vero è, tuttavia, che sin dai primi anni ’20 era stato introdotta la definizione di “allogeno”, per

14

Cfr. R. Petri, La frontiera industriale, Padova, Franco Angeli, 1990, p. 28. 15

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13

connotare le minoranze nazionali o i cittadini minoritari (in questo caso gli slavi). L’allogeno poteva sperare sempre di essere accettato dalla società, purché rispettasse i valori e i principi della comunità maggioritaria. Secondo Ragusin Righi per favorire l’integrazione tra le

due popolazioni era necessario inserire nelle comunità allogene la componente italiana (maggioritaria)16. Nell’ottica fascista, gli allogeni dovevano entrare a far parte della nuova società italiana, meglio ancora se pienamente coinvolti nelle strutture organizzative del fascismo come “romani della modernità”, “con un sola fede e una sola morale, tutto interamente dedito allo Stato divinizzato”17. L’assimilazione perciò non

passava solamente attraverso lo sradicamento della lingua, della cultura e delle tradizioni di queste popolazioni, ma anche attraverso la devozione al nuovo credo politico dello Stato totalitario. Secondo Righi, infatti, per plasmare la nuova comunità si rendeva necessario inserire i croati e gli sloveni nelle milizie volontarie; questo avrebbe trasmesso in loro la fierezza di essere parte del popolo italiano. Insomma da una parte il fascismo cercò di avvicinarsi alle minoranze presenti nel territorio promuovendo un processo di assimilazione (anche di tipo politico), dall’altra adottò provvedimenti drastici come l’espropriazione delle

16

R. Righi, Politica di confine, Trieste, società editrice mutilati e combattenti, 1929, pp. 43-44. 17

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14

terre, sino ad arrivare al trasferimento nei campi di internamento. Infatti proprio tra il 1934 ed il 1938 nella provincia della Venezia Giulia e nella zona di Fiume 104 famiglie su 178 subentrarono ai vecchi proprietari. Largo fu l’utilizzo, inoltre, della politica dei trasferimenti di massa: Durante l’ottobre 1927 il regime emanò una circolare in cui si affermava che il governo non intendeva porre ostacoli all’emigrazione degli “allogeni”, che anzi doveva essere in tutti i modi facilitata anche, se

necessario, con provvedimenti straordinari18. Nell’ondata migratoria furono coinvolti circa 7.000 “allogeni” che lasciarono l’Istria per

raggiungere la Jugoslavia tra il 1930 e il 1933. In un primo momento, nel 1930, gli spostamenti si concentrarono in Slovenia e in Croazia, mentre in una seconda fase, nel 1933, diversi profughi provenienti dalla Venezia Giulia furono inviati nel territorio ungherese, con l’obiettivo di rafforzare “artificialmente” la componente slovena ivi presente. Un’altra

parte della popolazione fu invece trasferita in Kosovo e in Macedonia, nell’ambito della politica di snazionalizzazione messa in atto nei

confronti degli albanesi e delle etnie serbe19.

Gran parte dei nuovi profughi trovò un nuovo lavoro nell’originario

settore di impiego, andando a migliorare l’istruzione, i servizi pubblici e

18

Cfr. R. Pupo, Il lungo esodo, cit., p. 47. 19

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15

le forze di sicurezza della limitrofa Jugoslavia. In proposito, Pupo ha osservato che “Solamente intorno ai primi anni Trenta la situazione mutò, in quanto la crisi economica mondiale investì inevitabilmente anche quelle regioni, avviando un nuovo processo migratorio verso altri paesi. Si verificò una terribile analogia con le difficoltà che i giuliano-dalmati avrebbero affrontato nel secondo dopoguerra in Italia”20

. Successivamente il processo di migrazione delle popolazioni slave dai territori della Venezia Giulia conobbe un nuovo impulso in seguito al varo delle leggi razziali.

20

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1.2 La guerra contro la Jugoslavia e le violenze di confine.

A partire dall’aprile 1941, forze militari italo-tedesche varcarono il

confine jugoslavo, in seguito al colpo di Stato del generale Simovic, e in pochi giorni riuscirono ad occupare tutta la regione, aiutati nell’azione

militare da forze ungheresi e bulgare. Già il 17 aprile a Belgrado venne firmata la resa e 334.000 uomini furono fatti prigionieri dalle truppe italo-tedesche. Il vecchio Regno di Jugoslavia fu così spartito dai paesi vincitori. In particolare, la Germania annetté parte della Slovenia, mentre l’Italia occupò la capitale Lubiana, costituendone una provincia. Le città

di Sussak, Buccari e Kupa furono inglobate nelle province di Fiume e di Zara. Rientrarono tra le acquisizioni italiane il protettorato sul Montenegro e indirettamente (attraverso l’annessione all’Albania) alcuni

distretti occidentali del Kosovo e della Macedonia. Anche Cattaro e Spalato nella zona dalmata furono annesse al Regno d’Italia. In

concomitanza nasceva un nuovo Stato indipendente croato governato da Ante Pavelic, che comprendeva una parte della Bosnia Erzegovina e della Vojvodina. La parte orientale del nuovo Stato croato entrò sotto la sfera di influenza tedesca, mentre la parte occidentale sotto quella italiana. L’occupazione dei territori dalmati fu voluta con forza da

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17

originari del territorio croato; con la stipula dell’accordo con lo Stato di Croazia di Pavelic all’Italia furono assegnate Lissa, Arbe, Veglia,

Curzola, Melada e Vir. L’incarico di governare la provincia (circa 250.000 persone) venne affidato a Giuseppe Bastianini prima, e a Francesco Giunta poi; all’arrivo del primo governatore, tuttavia, la presenza degli italiani era ancora limitata a causa delle operazioni militari che avevano interessato l’area. I nuovi territori annessi furono lentamente ripopolati dagli italiani mentre il governatore Giuseppe Bastianini metteva in atto, così come era avvenuto per la Venezia Giulia e il Sudtirol, una politica di italianizzazione. In primo luogo, infatti, l’italiano divenne obbligatorio per gli insegnanti e i funzionari pubblici,

anche se veniva lasciata la possibilità di parlare la lingua croata all’interno dell’amministrazione civile. Il fenomeno di assimilazione

riguardò poi le strade, le piazze, le città, i cui nomi furono “italianizzati”; alle autorità, inoltre, fu demandata la facoltà di sciogliere le associazioni prive di un connotato politico fascista. Venne inoltre attuato l’ordinamento comunale adottato in Italia con l’istituzione dei registri

della popolazione e dello stato civile, mentre sul piano economico il bilancio venne messo a carico dello Stato italiano.

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18

Ben presto nei territori ex jugoslavi passati nelle mani delle truppe dell’Asse cominciarono a costituirsi i primi nuclei della resistenza. In concomitanza, il comando dell’esercito italiano fu affidato a Emilio

Grazioli, che venne nominato Alto commissario della provincia di Lubiana. Le forze armate italiane a partire dall’estate del 1941 furono

duramente impegnate nella lotta contro le azioni partigiane dei gruppi sloveni. Più in generale, Marina Cattaruzza ha osservato che: “In un primo momento, tuttavia, il fascismo mantenne un profilo moderato nei confronti della popolazione civile, garantendo l’utilizzo della lingua slovena nelle scuole, nella pubblica amministrazione, (…) giornali e vita culturale, a differenza invece di quanto avvenne nella parte tedesca della Slovenia, dove circa 21.000 persone lasciarono il territorio in favore della parte italiana”21

. Tra i movimenti armati jugoslavi si costituirono due gruppi: la MVAC (milizia volontaria anticomunista), collaborazionista del regime fascista, e l’OF (Osvobodilna fronta), che si oppose alle forze italiane. L’Of, formazione partigiana a guida

comunista, nacque nel maggio del 1941, con i seguenti obiettivi: il riconoscimento dell’autoaffermazione della nazione slovena, l’opposizione allo smembramento della Jugoslavia, la lotta per la

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19

liberazione e l’unificazione della Slovenia e l’amicizia con l’Urss e con i

paesi democratici22.

Le autorità fasciste, in risposta alle prime azioni anti-italiane, decisero di predisporre alcuni provvedimenti in tema di ordine pubblico e sicurezza che consistettero nella fucilazione o nell’applicazione della pena capitale nei casi di passaggio clandestino della frontiera, detenzione di armi, azioni di sabotaggio, propaganda e assistenza ai sovversivi. La lotta tra le due fazioni fu molto dura, comprendendo anche azioni di estrema brutalità, che esacerbarono ulteriormente i già difficili rapporti tra le due popolazioni. Per l’Italia non fu affatto facile controllare il territorio della

provincia di Lubiana, a causa della presenza in loco di numerosi gruppi armati resistenziali, che dal settembre 1941 misero in atto una energica campagna contro gli occupanti che, oltre a registrare episodi di sabotaggio a linee telefoniche e ferroviarie, si tradusse in violenze e omicidi nei confronti della popolazione e dei militari italiani23. La risposta delle autorità fasciste fu quasi immediata: i rastrellamenti portarono all’arresto di circa 6.000 persone, con duri interrogatori e

torture. Ad avere la peggio potevano essere anche i civili accusati di collaborare con le formazioni partigiane.

22

Cfr. ibidem, p. 220. 23

(21)

20

Nel febbraio 1942 i militari italiani istituirono un rigido blocco intorno alla città di Lubiana, con l’obiettivo di controllare – attraverso arresti

preventivi e sequestri di materiale – la locale popolazione maschile. Nel marzo successivo il generale Mario Roatta, comandante della Seconda Armata, ordinò in una circolare inoltrata ai soldati italiani di stanza a Lubiana di “reagire prontamente e nella forma più decisa e massiccia possibile, alle offese dell’avversario”24

. E, nello stesso documento, precisò: “il trattamento da fare ai partigiani non deve essere sintetizzato dalla formula: ‘dente per dente’ ma bensì da quella ‘testa per dente’”25

. L’insistenza posta nel ribadire un atteggiamento risoluto nei confronti

dei partigiani fu dovuta a una serie di casi in cui alcune colonne di militari italiani, sorprese in imboscate, avevano opposto una scarsa resistenza al nemico tanto da abbandonare le armi sul posto26. Per fronteggiare queste evenienze Roatta minacciò di sottoporre i militari a “rigorose inchieste, e gravissimi provvedimenti disciplinari o penali”27

. Particolari misure furono adottate contro coloro che collaboravano con le forze partigiane, consentendo all’esercito italiano di incendiare villaggi,

razziare il bestiame, portare via beni alimentari e compiere violenze

24

http://dev.dsmc.uniroma1.it/dprs/sites/default/files/436.html, in data 21 marzo 2014. 25 Ibidem. 26 Cfr. ibidem. 27 Ibidem.

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21

sommarie. Diversi soldati italiani criticarono le azioni di violenza verso la popolazione locale, anche quando, alcuni mesi successivi alla morte di 27 granatieri caduti in un’imboscata, ebbero l’ordine di fucilare 40 prigionieri ritenuti responsabili dell’attentato. Nei mesi di luglio e di

agosto del 1942 si contarono circa 3.670 morti nelle fila partigiane, tra caduti in combattimento (1.053), fucilati (1.236) e prigionieri successivamente deceduti (1.381)28.

Alle soglie del 1943 le autorità militari italiane, in sempre maggiore difficoltà nell’opera di contrasto delle bande partigiane, iniziarono a fare

un sempre più largo uso dei campi di internamento, dove furono recluse anche famiglie con bambini. I principali campi di prigionia in Friuli Venezia Giulia furono quelli di Cighino, Gonars, Poggio Terzamata e Visco; in Veneto: tali strutture furono costruite presso Monigo, Chiesanuova e Padova. Particolare importanza avevano i campi di Arbe e di Gonars. Il primo, ospitato in un’isola situata nella regione del Quarnaro, venne costruito nel corso del giugno 1942: “In questo campo gli internati vivevano in tende da 6 posti l’una, in uno stato di

sovraffollamento indicibile tenendo presente che vi furono ammassate fino a 6.000 persone. Per buona parte del suo funzionamento Arbe fu una

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22

sterminata distesa di tende circondate da filo spinato e da torrette di guardia. Nell’autunno del 1942 venne avviata la costruzione di baracche,

alcune di legno e altre in muratura, e allestite tende più grandi capaci di contenere anche 80-90 persone”29. Nel campo di Gonars (Udine), nel giugno del 1942 finirono reclusi anche operai, disoccupati, profughi, senzatetto, mendicanti, maestri, impiegati e parroci della Venezia Giulia trasferitisi in Jugoslavia dopo il 1922 .

È difficile calcolare precisamente il numero complessivo degli internati, ma secondo le stime ufficiali essi ammontavano a 30.000 persone30, di cui 6.577 detenuti nella sola Arbe, dove il tasso di mortalità tra i detenuti era maggiore, contando circa 1.400 decessi nell’inverno 1942-1943. Le

cause principali di morte durante il 1942 furono le infezioni intestinali, che colpivano soprattutto i minori, e la carenza di cibo. L’anno

successivo le morti diminuirono in seguito al miglioramento delle strutture delle baracche, realizzate in muratura, e all’aumento delle

derrate alimentari31. La diocesi di Lubiana, in una lettera inviata al generale Roatta nel 1942, calcolò che nei campi di concentramento era stato rinchiuso il 10% della popolazione: “a Gonars (diocesi di Udine)

29

C. Capogreco, I campi del Duce: l’internamento civile nell’Italia fascista 1940-1943, Torino, Einaudi, 2004, pp. 268-269.

30

Cfr. M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., p. 230. 31 Cfr. ibidem.

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23

circa 4.000, a Monigo (Treviso) circa 3.500 (fra questi 700 bambini al di sotto dei 10 anni), a Padova circa 3.500 e ad Arbe (diocesi di Veglia) circa 15.000 (fra questi oltre 1.000 bambini). E per di più si trasporta nei campi di concentramento quasi ogni giorno ancora altra gente di ambedue i sessi e di tutte le età”32

. Nella sua replica, Roatta ridimensionò con evidente freddezza tali cifre: “In base alla circolare s.m.r.e. n.

02/46480 del 6 settembre c.a. i campi di concentramento di Gonars, Monigo (Treviso), Chiesanuova (Padova) e Renicci (Arezzo), dipendono da questo comando solo per il movimento degli internati, mentre per l’organizzazione, l’amministrazione, la disciplina interna e i servizi

dipendono dalle difese territoriali competenti per il territorio. Il numero complessivo degli Sloveni internati, è di 17.400 circa (e non 30.000), così ripartiti: a Arbe 6.577, a Gonars (Udine) 2.250, a Monigo (Treviso) 1.136, a Chiesanuova (Padova) 3.522, a Renicci (Arezzo) 3.880; a cui sono da aggiungere altri 2.000 circa, ancora a Lubiana ed in via di sgombero sui campi anzidetti, Arbe escluso. Ad Arbe il numero massimo degli internati − fra croati e sloveni − è stato di 10.552, e non 15.000 com’è accennato nel suddetto appunto. Da tempo non vi si eseguono internamenti in massa: si è provveduto anzi, all’inizio del mese in corso,

32

(25)

24

a sgombrare su Gonars 1.613 donne, 1.368 bambini, 6 uomini (internati a scopo protettivo: in totale 3.041 persone cui sono da aggiungere 1.300 sgomberati in precedenza o restituiti”33.

33

(26)

25

1.3 Dall’armistizio del 1943 all’occupazione jugoslava.

L’annuncio dell’armistizio tra Italia e Alleati, l’8 settembre 1943, mutò radicalmente la situazione nelle province dell’Istria, della Venezia Giulia e di Lubiana. Tra le fila dell’esercito italiano, come noto, moltissimi

soldati disertarono o si arresero alle forze titine come accadde nel caso dei 1.200 uomini di Albona e dei 1.000 uomini di Pisino. La Wehrmacht subentrò alle truppe italiane, ormai allo sbando, e lentamente le città di Fiume, Gorizia e Pola passarono sotto l’amministrazione militare dell’esercito tedesco, mentre tra i soldati italiani chi non riusciva a fare

rientro in patria veniva arrestato e condotto nei campi di prigionia nazisti.

Marina Cattaruzza ha descritto le conseguenze dell’armistizio ai confini orientali in questi termini: “L’ 8 settembre non significò solo nella Venezia Giulia, lo sbandamento di massa dell’esercito, ma anche la

scomparsa delle articolazioni dello Stato italiano (…) La firma dell’armistizio provocò infatti un’accelerazione dei processi che erano andati delineandosi già a partire dal 1942, quando l’attività partigiana al

di qua e al di là del vecchio confine aveva trasformato la parte orientale del territorio nazionale in zona di guerra (…) La Venezia Giulia

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26

sembrava terra di conquista più che territorio nazionale”34

. I croati, dal canto loro, nel tentativo di sfruttare a proprio vantaggio la situazione creatasi, istituirono nei territori occupati i Comitati di Salute Pubblica. A Pisino, il 20 settembre 1943, il comitato provinciale di liberazione jugoslava (CPL) proclamò l’annessione dell’Istria, della Dalmazia e delle isole alla Jugoslavia. Per gli italiani fu l’inizio della tragedia: “Le

vicende del settembre 1943 hanno conservato invece una valenza fortemente traumatica; neo istituiti Tribunali Popolari, alle dipendenze dei Comitati Popolari di Liberazione, eseguirono in forma più o meno clandestina e del tutto irregolare da 500 a 600 condanne a morte contro rappresentanti del regime fascista e dello Stato italiano, oppositori politici e maggiorenni della comunità italiana”35

.

L’occupazione slava durò trentacinque giorni, fino a quando cioè i

tedeschi riuscirono a riconquistare i territori persi e il 13 ottobre 1943 ricacciarono le truppe nemiche oltre il precedente confine. In concomitanza le forze armate tedesche e quelle della neocostituita Repubblica Sociale Italiana (RSI) istituirono la zona delle operazioni del Litorale Adriatico, che comprendeva i territori del Friuli Venezia Giulia, Lubiana, Fiume, ad esclusione di Zara e della Dalmazia. Le violenze e le

34

M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., pp. 241-244. 35

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27

giustizie sommarie attuate tra il settembre e l’ottobre 1943 dalle autorità

jugoslave suscitarono ovviamente non pochi timori tra la componente italiana in Istria, che decise in buona parte la fuga verso Trieste e il Nord Italia. I principali flussi provenivano soprattutto dalla Dalmazia, sia dai territori annessi al Regno d’Italia nel corso del 1941, sia dalla città di

Zara, già sotto l’autorità italiana dopo la Prima guerra mondiale. A fuggire erano soprattutto i pubblici dipendenti, che dopo l’arrivo degli

ustascia croati rischiavano di perdere la vita, poiché privati intenzionalmente di qualsiasi mezzo di sussistenza. Così la maggior parte di loro decise di abbandonare tutto e scappare verso Pola e Trieste36. Una particolare situazione d’emergenza visse la città di Zara, dove una parte della popolazione era già fuggita nel corso del 1942, timorosa di un possibile arrivo dei partigiani jugoslavi. Le principali partenze si registrarono tra il novembre 1943 e l’ottobre 1944, in seguito

ai bombardamenti alleati che provocarono circa 2.000 morti e che distrussero il 90% degli edifici (secondo dati della prefettura). Risultarono disastrosi, in particolare, gli attacchi del 2 e del 28 novembre, che provocarono centinaia di vittime. Le incursioni proseguirono anche nei mesi successivi, ma Zara oramai era diventata

36

(29)

28

una città fantasma. Ai disagi provocati dai bombardamenti si aggiunse, il 24 maggio 1944, l'ordine di sfollamento impartito dal comando di piazza tedesco, che spinse gli zaratini a intraprendere una fuga senza possibilità di ritorno che si trasformò in concreto in esilio. Gran parte della popolazione decise così di sfollare inizialmente nelle campagne circostanti, per poi spingersi verso mete più lontane come Trieste e Venezia. Le persone si riversarono nel molo del porto cittadino di Zara, poi da qui si imbarcarono sulla nave “Sansego” alla volta delle città dell’altra sponda dell’Adriatico. Verso la fine del 1944 il piroscafo fu

affondato, al largo di Lussinpiccolo, limitando le possibilità di fuga degli zaratini37. Coloro che rimasero in città, così, divennero testimoni dell'instaurazione del potere jugoslavo e della conseguente scia di violenze che questa determinò. L’esercito tedesco lasciò Zara il 30 ottobre 1944, insieme al prefetto italiano Vincenzo Serrentino, ad alcuni cittadini e ai caporioni dello squadrismo, noti per il loro antislavismo. Gli abitanti passarono dai 21.372 del 1940 a 10.00038. Nel territorio giuliano non si registrarono partenze da parte dei cittadini italiani; ciò era motivato da diverse ragioni pratiche e politiche, così come descritto da Raoul Pupo: “Ragioni pratiche dal momento che nella zona di operazioni

37Cfr. ibidem, p. 78. 38

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29

Litorale Adriatico, direttamente amministrata dai tedeschi, non esisteva alcuna autorità intenzionata a gestire uno spostamento cospicuo, né capace di farlo, nelle ultime, convulse fasi del conflitto (…) Importanti erano le ragioni politiche. Per un verso, tanto i giuliani di sentimenti italiani, quanto il governo di Roma, coltivarono fino alla fine la speranza che a liberare la regione fossero le forze anglo-americane e non quelle jugoslave. Dall’altra parte, anche nella popolazione italiana esisteva un nucleo, circoscritto, ma significativo, che nell’esercito di liberazione non

vedeva affatto un pericolo, bensì il portatore di prospettive di libertà e di riscatto sociale fino a poco tempo prima impensabili”39.

Il comando della zona di operazioni del Litorale Adriatico venne affidato al carinziano Friedrich Rainer, mentre Franz Hofer si occupò della zona operazioni delle Prealpi. Entrambi ebbero l’ordine, tra gli altri, di mantenere sotto controllo le principali strade come il Brennero, via di comunicazione importante per il passaggio dei rifornimenti delle truppe dall’Italia. I tedeschi consideravano un errore la politica di

italianizzazione forzata attuata dal fascismo, in quanto la chiusura delle scuole slovene e la proibizione dell’uso della lingua di appartenenza non

avevano fatto altro che esasperare il già delicato rapporto tra le due

(31)

30

comunità. Come prima decisione, i due commissari tedeschi eliminarono i prefetti della Repubblica Sociale Italiana, sostituendoli con uomini (sempre italiani) di fiducia, vicini alla Germania; inoltre le autorità tedesche cercarono di strumentalizzare a proprio favore le tensioni tra le componenti italiane e slovene, al solo scopo di estendere i confini della Germania al Sudtirol, una volta terminata la guerra.

Sul fronte opposto, il movimento partigiano jugoslavo, dopo gli attacchi del 1943, si riorganizzò e si preparò ad una nuova controffensiva nei territori dell’Istria, del Friuli Venezia Giulia e della Slovenia nel corso dell’estate del 1944. Si unirono alla lotta contro le forze nazifascista

anche le formazioni della Resistenza italiana. Tra i gruppi partigiani slavi ed italiani, tuttavia, vi fu fin da subito una reciproca diffidenza40. Nonostante ciò nel triestino la Brigata Garibaldi e il IX Korpus sloveno trovarono un’intesa che rimandò al termine della guerra le future

questioni legate ai confini. Il Partito comunista italiano e quello jugoslavo avevano differenti concezioni in merito all’internazionalismo e alla futura diffusione del socialismo in Europa. Per i comunisti italiani, in particolare, sul piano politico era importante costituire una grande alleanza con tutte le forze antinaziste, determinata dall’intesa tra tutti i

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31

componenti del CLN (Comitato Liberazione Nazionale). I comunisti jugoslavi, invece, - secondo Pupo - mettevano in primo piano la costruzione di una salda egemonia incentrata sulle altre forze resistenziali, (ossia quelle slave), secondo un indirizzo che si collegava alla visione fortemente antagonista dei rapporti internazionali41; individuavano negli Usa un nemico da battere, anticipando la politica dei blocchi contrapposti assunta negli anni successivi dall’Urss. Partendo da questi presupposti, ha osservato Pupo: “I risultati conseguiti nella vittoria sulla Germania nazista e i suoi alleati, dovevano essere sfruttati fino in fondo, anche e soprattutto in termini territoriali, a favore del mondo comunista, in modo da poterli mettere sul tavolo di pace una volta conclusa la guerra, in uno scontro con il mondo imperialista”42

. Nell’aprile del 1945 iniziò la ritirata tedesca, in seguito alle avanzate della IV armata jugoslava e dell’VIII armata britannica. Durante questa

fase le forze jugoslave considerarono della massima priorità raggiungere nel più breve tempo possibile la linea dell’Isonzo. Le armate slave iniziarono l’offensiva finale contro i tedeschi nel marzo e nell’aprile

giunsero alle porte di Fiume. Da qui gli jugoslavi si diressero verso Gorizia e Trieste, occupando l’intero territorio della Venezia Giulia e

41

Cfr. R. Pupo, Il lungo esodo, cit., p. 81. 42

(33)

32

dell’Istria dal 1° maggio al 15 giugno43

. La rapidità di tale operazione era motivata dalla rilevanza politico-strategica dell’intero territorio giuliano. Per gli anglo-americani, invece, l’obiettivo era marcatamente militare, ossia distruggere le forze tedesche nell’Italia settentrionale e occupare

Trieste per proseguire le operazioni verso il territorio austriaco. Le forze alleate (neozelandesi), così, con un attacco decisivo riuscirono ad entrare a Gorizia il 1° maggio e a Trieste il giorno successivo, suscitando le proteste dei reparti jugoslavi che nel frattempo avevano instaurato sul territorio la propria amministrazione militare44.

Contestualmente si aprirono le trattative diplomatiche tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Jugoslavia per decidere i destini del confine orientale, trattative che si protrassero sino all’accordo di Belgrado del 9 giugno

1945. In base a tale intesa la parte occidentale, della Venezia Giulia, denominata zona A, passò sotto l’amministrazione alleata, includendo

Trieste, Caporetto, Tarvisio; la zona B, invece, che comprendeva l’Istria, la città di Fiume, le isole di Cherso e Lussino, fu assegnata alle autorità jugoslave. Conseguentemente alla firma dell’accordo, il 12 giugno le forze armate di Tito lasciarono Trieste, Pola e Gorizia.

43

Cfr. ibidem, p. 91. 44 Cfr. ibidem, p. 92.

(34)

33

La situazione conflittuale nella zona del confine italo-jugoslavo era tuttavia destinata a protrarsi a lungo e a partire dalla primavera del 1946 si susseguirono una serie di visite da parte delle delegazioni di Usa, Gran Bretagna, Urss e Francia nei territori della Venezia Giulia, con il compito di stabilire una nuova linea di demarcazione. Nel corso dell’estate 1946 si affermò il progetto francese, che prevedeva la perdita, da parte dell’Italia, di vasta parte della Venezia Giulia e la creazione del

Territorio Libero di Trieste (TLT)45. Durante i colloqui tra le autorità Alleate e quelle jugoslave, che poi portarono all’accordo di Belgrado del

9 giugno 1945, denominatore comune del comportamento delle grandi potenze era stata la prudenza: “Prudenza degli inglesi, la cui

preoccupazione principale venne espressa da Harold MacMillan, ministro britannico (…) Prudenza degli americani, che temettero di

ritrovarsi coinvolti in quelle che consideravano complicazioni balcaniche da evitare con cura e che mostrarono una grande riluttanza a fronteggiare in armi gli jugoslavi (…) E prudenza anche infine dei sovietici, che non

mostrarono alcun entusiasmo di farsi trascinare in situazioni di crisi periferiche, rispetto ai loro interessi”46

.

45

Cfr. http://www.crsrv.org/it/istria_tempo/PDF/597-646.pdf , in data 13 marzo 2014, p. 607. 46 R. Pupo, Il lungo esodo, cit. p. 95.

(35)

34

Malgrado gli inviti alla cautela che Mosca rivolse a Tito, durante le diverse fasi delle trattative diplomatiche con le grandi potenze emerse il reale progetto del leader jugoslavo nei riguardi dei territori della Venezia Giulia: “Un progetto che saldava in maniera inestricabile motivazioni

nazionali ed ideologiche; era compiutamente totalitario, perché ambiva a controllare tutti gli aspetti della realtà locale, ed era rivoluzionario. Fu questo progetto a costituire la base dei comportamenti tenuti dalle autorità jugoslave nella primavera-estate 1945 nell’area giuliana, per designare i quali, come per le stragi dell’autunno ’43, viene comunemente usata l’espressione foibe”47

.

Prima della parziale evacuazione seguente agli accordi di Belgrado, quindi, la violenza dei comunisti jugoslavi si abbatté su tutte le zone del territorio giuliano: “in Istria – l’ondata di violenza – apparve come una

brutale ripresa della logica di sangue interrotta nell’ottobre 1943. Tuttavia arresti e uccisioni si concentrarono questa volta soprattutto nei centri urbani, che due anni prima ne erano rimasti immuni in quanto prontamente occupati dai tedeschi e in particolare a Trieste e nel Goriziano (…) Le autorità jugoslave diedero il via a un’ondata di arresti che seminò il panico nella popolazione italiana”48

. Anche il leader del

47

Ibidem, p. 98.

48

(36)

35

partito comunista sloveno e collaboratore di Tito, Edvard Kardelj, in un dispaccio del 28 agosto 1944 sottolineava l’aspetto importante della “jugoslavizzazione” con queste parole: “Occupare per primi. Tenere

preparato tutto l'apparato! Dappertutto, il più possibile, bandiere slovene e jugoslave. A eccezione di Trieste, non permettere in nessun altro posto manifestazioni italiane!”49. Furono così perseguitate persone diverse che avevano in comune il fatto di costituire, agli occhi degli jugoslavi, una minaccia: funzionari nazisti e fascisti, elementi dello squadrismo giuliano, ma anche esponenti del fronte partigiano che non accettavano il dispotismo del movimento di liberazione jugoslavo. Anche coloro che avevano un pensiero politico diverso, anticomunista e comunque vicino alle posizioni italiane, finivano per essere severamente puniti dalle autorità, come descritto da Raoul Pupo: “A parte i casi evidenti di giustizia sommaria, sia gli arresti che le eliminazioni non avvennero tanto sulla base delle responsabilità personali, quanto dell’appartenenza,

mirando, più che a punire colpevoli, a mettere in condizioni di non nuocere intere categorie di persone considerate pericolose. La repressione più che giudiziaria fu politica, una sorta di epurazione preventiva diretta a eliminare tutti gli oppositori, anche solo potenziali,

49

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36

al progetto del nuovo potere: un progetto che era al tempo stesso nazionale e politico, dal momento che consisteva nell’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia comunista”50

.

Da parte sua, Stalin sosteneva che nella futura conferenza di pace le annessioni jugoslave avrebbero dovuto avere motivazioni maggiormente fondate e che soprattutto avrebbero dovuto riscuotere il necessario consenso internazionale e delle popolazioni locali.

Nell’ottica del leader sovietico, quindi, era importante inserire la politica

di occupazione dei territori giuliani nella prospettiva della lotta al nazifascismo, mentre l’uso della forza veniva ammesso al fine di

eliminare preventivamente le sacche ostili all’annessione.

Sloveni, croati e italiani subirono quindi indistintamente la repressione delle autorità jugoslave, anche se a essere maggiormente colpita fu la componente italiana. In proposito, Pupo ha osservato che: “fra gli

sloveni e i croati le parole d’ordine annessioniste fatte proprie dal movimento di liberazione jugoslavo avevano consentito di superare in larga misura la diffidenza nei confronti dei comunisti (…) Nei confronti

della popolazione non slava la pulizia doveva essere assai più larga, dal momento che, se anche essere etnicamente italiani di per sé non veniva

50

(38)

37

considerato una colpa, essere politicamente filo italiani lo era senz’altro.

Possiamo dire quindi che per una serie di ragioni storiche e politiche riguardanti il passato (ossia le colpe del fascismo), il presente (cioè l’opposizione alle rivendicazioni slovene e croate) e anche il futuro (vale a dire la permanenza data per scontata dell’Italia nel mondo capitalista),

da parte della dirigenza jugoslava il gruppo nazionale italiano della Venezia Giulia era ritenuto nella sua globalità, se non automaticamente nemico, perlomeno altamente sospetto”51

.

51

(39)

38

1.4 Politica e violenza jugoslava.

Come precedentemente affermato, le violenze slave verificatesi durante la prima occupazione del 1943 nei confronti della popolazione italiana si ripeterono nel 1945, in concomitanza con la caduta del regime fascista prima e di quello nazista poi. Tali violenze condussero alla morte migliaia di persone tra civili e militari, che furono gettate nelle foibe. Solamente nel 1943 si contarono circa 500-700 vittime dell’infoibamento. Per quanto riguarda il 1945 le stime furono più

elevate: si ipotizzarono tra le 4-5.000 e le 10-12000 vittime52.

Flaminio Rocchi, nel testo L’esodo dei 350 mila giuliani fiumani e

dalmati, descrive con estrema crudezza le violenze commesse dagli

jugoslavi: “Le truppe slave, irritate dall’attacco di quelle italiane che

erano arrivate fino a Lubiana, provocate dagli incendi e dalle fucilazioni dei tedeschi, logorate ed incattivite dalla fame, si precipitano sull’Istria con una terribile carica di vendetta. Le prime popolazioni italiane che capitano sotto devono pagare l’aggressione bellica, ordinata da Berlino e da Roma. L’espiazione di questa aggressione peserà su tutti i giuliani”53

. E Alcide De Gasperi, in una lettera inviata al Presidente del Consiglio Ferruccio Parri, osservava: “l’occupazione di tutta la Venezia Giulia per

52

http://www.crsrv.org/it/istria_tempo/PDF/597-646.pdf , in data 13 marzo 2014, p. 612. 53 F. Rocchi, L’esodo dei 350 mila,op. cit., p. 17.

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39

quaranta giorni ha avuto un tale carattere di autentiche barbarie, ha instaurato un tale regime di violenze, ha privato la popolazione così brutalmente dei diritti più elementari, ha dato esempio di ferocia disumana e tale prova di incapacità di amministrare quelle terre (…)”54

. Nei dintorni di Trieste, in particolare, durante il maggio del 1945 fu compiuta una vera e propria operazione di “pulizia” etnica: “Nel

linguaggio dei comunisti jugoslavi il campo semantico del termine <<fascismo>> è assai più largo del corrispondente uso nella cultura politica italiana. Detto in altre parole essere considerati fascisti è davvero facile. Non occorre nemmeno mai aver indossato la camicia nera, basta pensarla in maniera diversa da quella richiesta dalle autorità (…) E’ sufficiente non essere d’accordo con uno o più dei punti qualificanti il

progetto politico nuovo che si sta affermando nella regione e non mostrare la dovuta deferenza ai poteri che lo incarnano. In tal modo, quindi, il campo della repressione si allarga fino a comprendere un numero elevatissimo di bersagli: si può anche dire che nella primavera del 1945 un triestino non milita esplicitamente nelle organizzazioni del nuovo regime o perlomeno vi mostra simpatia allora rischia di venire considerato non <<dei nostri>>, ma <<degli altri>>, e ciò può costargli

54

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40

caro, molto caro. Tanto più, dal momento che fra i quadri partigiani è alquanto diffusa l’abitudine di considerare <<italiano>> e <<fascista>>

due termini equivalenti. È un uso strumentale, si capisce, ma che viene facilitato assai dall’impegno che nei decenni precedenti il regime di

Mussolini ha profuso nel saldare i due concetti, Italia e fascismo, ottenendo, ahinoi, risultati significativi”55

. La “pulizia” nei confronti della componente italiana doveva essere perciò più estesa possibile, per evitare di “correre rischi inutili”, come sostenuto dallo storico Raoul

Pupo56. Quello che venne attuato tra maggio e giugno del 1945 nella Venezia Giulia, quindi, fu un progetto

di “epurazione preventiva”, come dichiarato anche dallo stesso Edvard

Kardelj nell’aprile del 1944: “Epurare subito, però non sulla base della nazionalità, ma del fascismo”57

. Basovizza, Monrupino, Opicina e parte dei territori istriani divennero cittadine tristemente famose per gli infoibamenti di civili, carabinieri, militari italiani, tedeschi, neozelandesi che, una volta spogliati e legati, venivano mitragliati e gettati nelle cavità carsiche. Solo nella cittadina di Basovizza furono scagliate nelle profondità del suolo quasi 2.500 persone.

55

R. Pupo, Trieste ’45, Roma-Bari, Editori Laterza, 2010, p. 233. 56

Ibidem, p. 234. 57

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41

Anche Churchill in una lettera inviata nella primavera del 1945 al leader sovietico Stalin si lamentò del comportamento violento delle truppe titine nelle città di Trieste e Fiume contro la componente italiana58. Alle proteste di Churchill fecero seguito le dichiarazioni del generale britannico Harold Alexander: “I nostri uomini furono costretti ad assistere, senza poter intervenire, ad azioni che offendevano il loro senso di giustizia ed avevano la sensazione di rendersi complici di malefatte”59

. Oltre al numero dei morti, ancora oggi difficile da stimare, colpì l’entità degli arresti, che riguardarono tra le 6000 e le 10000 persone60. L’antifascista G. Holzer descrive così la situazione a Trieste nel maggio 1946: “Gli arresti in massa ebbero inizio subito, il 1° maggio. Parecchie

migliaia di giuliani, molti dei quali ex combattenti della libertà, vennero prelevati unicamente perché contrari al colpo di mano titino. Questi disgraziati furono in parte infoibati ed i rimanenti inviati in campi di concentramento in Jugoslavia. Sino al 15 giugno 1945 il campo di S. Pietro in Carso raccoglieva circa 14.000 internati”61

. Nei campi di concentramento dei partigiani titini, come Lissa, Biševo, Goli Otok62, il trattamento degli italiani incarcerati, censiti in oltre 50.000, era

58

Cfr. F. Rocchi, L’esodo dei 350 mila , op. cit., p. 19. 59 Ibidem, p. 18.

60

Cfr. R .Pupo, Trieste ’45, cit., p. 230. 61

F. Rocchi, L’esodo dei 350 mila, op. cit., p. 21. 62

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42

disumano. La Croce svizzera descrisse la situazione in questi termini: “In Serbia si trovano 4 mila fra ufficiali e soldati italiani. Le loro condizioni sono pietose. Vestiti di cenci; alimentazione insufficiente; nessuna forma di assistenza. Ma c'è di più: il sentimento anti-italiano dei combattenti titini colpì anche quei nostri connazionali che dopo l'armistizio del '43 erano passati dalla parte dei partigiani”63.

Nel 1944, durante gli incontri tra il CLNAI (Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia) e le armate partigiane slovene e jugoslave, i comunisti sloveni avevano cercato di convincere il PCI della Venezia Giulia, ed in particolare quello triestino, ad abbandonare lo sciovinismo e ad accettare la linea annessionista della Jugoslavia di Tito. Nei mesi seguenti l’accelerazione impressa dai comunisti jugoslavi in merito al “problema” delle frontiere giuliane creò numerosi problemi al PCI.

Palmiro Togliatti si trovò costretto a subire le pressioni dei gruppi comunisti slavi che avanzavano pretese sul passaggio delle città di Gorizia e Trieste alla Jugoslavia. Il leader del PCI mantenne un profilo basso sino al maggio 1945, inizialmente invitando ad accogliere i soldati di Tito come truppe liberatrici e a evitare contrasti tra il popolo italiano e quello jugoslavo; in un secondo momento egli condannò l’occupazione

(44)

43

di Trieste da parte delle forze titine: “Il PCI nel suo rapporto con i

comunisti jugoslavi scontò le sue contraddizioni in merito agli sbocchi politici da offrire alla lotta di liberazione in Italia, ma soprattutto lo scarto esistente fra la propria condizione di partito costretto a misurarsi con altri competitori nell’agone politico, sotto l’attento controllo anglo-americano, e quello jugoslavo, che si stava invece facendo Stato”64

. In realtà i legami tra i gruppi partigiani italiani e quelle slavi potevano già dirsi deteriorati proprio durante il 1944, come dichiarò il dirigente comunista sloveno Boris Kraigher, che definì tutte le unità non tedesche e l’intero apparato di polizia e di amministrazione di Trieste come

nemici e occupanti65. L’ostilità jugoslava nei confronti degli antifascisti italiani fu evidente anche a Gorizia, dove il CLN italiano si sciolse immediatamente all’arrivo degli jugoslavi, mentre a Fiume gli

autonomisti Mario Blasich e Giuseppe Sincich furono uccisi. Secondo Tito infatti divenne importante limitare le aspirazioni italiane sulle regioni occupate e per rendere possibile questo fu necessario eliminare gli esponenti locali del CLN italiano e gli autonomisti. I Comitati Popolari di Liberazione (CPL), nati come strutture di riferimento per i rifornimenti dei partigiani jugoslavi, assunsero ben presto una funzione

64

R. Pupo, Il Lungo esodo, cit., p. 85. 65

(45)

44

politica. La struttura politica e amministrativa jugoslava iniziò ad operare subito dopo l’entrata dei partigiani nei vari centri dell’Istria e a

Fiume66.

Iniziò quindi ad instaurarsi un regime politico che faceva uso della violenza, con modalità e metodi tipici dello stalinismo, con l’obiettivo di

sopprimere chiunque fosse considerato fascista e che si fosse opposto all’annessione del territorio occupato dalla Jugoslavia. Chiaramente tutto

ciò, come vedremo nei capitoli successivi, non fece altro che accelerare l’esodo giuliano, istriano e dalmata verso il territorio italiano67

.

La politica titina nei confronti dei territori suddetti, tuttavia, affiancò al progetto di “epurazione preventiva” la realizzazione della cosiddetta “fratellanza italo-slava”, in nome dell’internazionalismo proletario e in

antitesi al nazionalismo borghese68. Nella primavera 1945, e fino a tutto il 1946, la priorità delle autorità titine non fu espellere gli italiani, ma

66

“Il massimo organo del potere popolare in Istria era rappresentato dal CPL regionale dell’Istria, a Fiume dal CP cittadino, nel Litorale sloveno dal CPL circondariale; tutti questi, a loro volta e secondo un sistema piramidale, controllavano i CP distrettuali, cittadini o locali. Durante il periodo dell’amministrazione militare (1945-1947), nei CP regionali fu accentrato ogni settore della vita sociale, politica, economia, comprese le attività legislativa e giudiziaria dell’area di loro competenza. Ben presto i CP divennero gli strumenti per l’attuazione pratica della politica del PCJ, per cui, oltre a indirizzare le proprie energie nell’emanazione di tutta una serie di misure, decreti e ordinanze finalizzate alla legittimazione del proprio potere politico e alla ristrutturazione socio-economica del territorio in questione, i CP rivolsero i maggiori sforzi, anche sul piano legislativo, all’annessione dei territori in questione. La priorità conferita all’obiettivo politico dell’annessione condizionò l’organizzazione interna dei CPL, che divennero organismi politici di partito, con un Comitato esecutivo (CE) al vertice del potere. Il nuovo potere era “popolare” solo nell’aspetto formale, dato che l’instaurazione del potere rivoluzionario comportò in effetti una realtà fondata sulla giustizia sommaria, sull’esercito e sulla polizia segreta”. In http://www.crsrv.org/it/istria_tempo/PDF/597-646.pdf, in data 13 marzo 2014, p. 610

67

Cfr. M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., p. 294. 68

(46)

45

annettere il territorio rivendicato, con qualsiasi mezzo e ad ogni costo: “In tal senso, sloveni e croati non hanno bisogno di essere incoraggiati,

in piazza ci vanno volentieri, ma non basta: ci devono essere anche gli italiani, quelli che ci credono (…) con le buone o con le cattive”69

. Le pressioni esercitate dalle autorità jugoslave in tale direzione furono percepite dagli italiani come un attacco diretto alla italianità, sebbene gli jugoslavi, come affermato in precedenza, assegnassero grande importanza a una particolare visione della politica della “fratellanza”. Secondo il leader jugoslavo e i suoi sostenitori, le aree giuliane come Trieste e Monfalcone erano territori in cui: “Le concentrazioni di

proletariato industriale – classe sociale numericamente scarsa in Jugoslavia – sarebbero state determinate nel battersi per l’inclusione di quelle terre nello Stato comunista”70

. Anche Edvard Kardelj ribadì tale concetto, sostenendo che il tessuto operaio nell’area giuliana sarebbe

stato il motore per diffondere la rivoluzione tra il proletariato del nord Italia71.

A tal riguardo, Pupo ha così descritto il comportamento politico delle autorità jugoslave verso le comunità italiane: “I leader comunisti

jugoslavi concepirono una politica che prevedesse il mantenimento di

69

R. Pupo Trieste ’45, cit., p. 235. 70 R. Pupo, Il lungo esodo, cit., p.105. 71

(47)

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una minoranza nazionale italiana, alla quale andava riconosciuta come diceva Kardelj il massimo grado di diritti nazionali (…) Sembrava

esserci spazio nel nuovo Stato anche per gli italiani”72. E tuttavia – ha precisato Pupo – tale politica era tutt’altro che accomodante nei confronti degli italiani: “la linea della fratellanza fissava in maniera anche piuttosto esigente le condizioni alle quali l’integrazione sarebbe

stata possibile. Il nuovo e rivoluzionario modello conduceva la popolazione italiana in due grandi categorie. La prima era quella che potremmo definire degli ‘onesti antifascisti’ o ‘italiani onesti e buoni’,

secondo la terminologia delle fonti del tempo. Per appartenervi era indispensabile mostrarsi impegnati nella costruzione del socialismo, amici dei sovietici, nemici dell’imperialismo americano e nemici anche dell’Italia”73. Quest’ultima era accusata di voler conservare la sovranità

sui territori giuliani, nel solco della politica fascista degli anni precedenti. “La seconda categoria – continua Pupo – “era quella dei ‘reazionari’ o ‘nemici del popolo’, ossia tutti coloro che erano refrattari a mobilitarsi per l’affermazione del regime (…) Fra i due gruppi, lo

squilibrio era evidente in partenza: se nel primo rientravano con una certa facilità i membri della classe operaia e i nuclei di intellettuali di

72

Ibidem. 73 Ibidem. p.107.

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estrazione marxista, difficilmente potevano farvi parte i componenti degli altri strati della società giuliana”74. Gli jugoslavi non ebbero la capacità di coinvolgere questi gruppi, in parte per responsabilità propria e in parte perché non riuscirono pienamente a fare breccia negli animi degli operai ed ancor meno in quelli della piccola e media borghesia, (commercianti, artigiani, liberi professionisti) e in quella parte dei ceti popolari che viveva di pesca. Queste ultime classi rimasero legate alla componente nazionale italiana e non vollero cedere alle politiche annessioniste dell’autorità jugoslava.

Tutt’altro pensiero ebbero i contadini, che videro una possibilità di

rilancio personale nelle politiche socialiste jugoslave, pur non accettando la prospettiva dell’abolizione della proprietà privata. In conclusione: “La

politica della fratellanza comportava in partenza una spaccatura manichea della componente italiana, destinata ad aggravarsi come prodotto delle conflittualità politiche del dopoguerra. Ciò premesso, non bisogna però commettere l’errore di credere che i requisiti politici

fossero condizione sufficiente e necessaria per garantire ai giuliani di lingua italiana i propri diritti nazionali oltre a quello, elementare, di rimanere insediati sul loro territorio. A entrare pesantemente in gioco

74

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nella determinazione delle politiche da tenere nei confronti degli italiani, infatti, accanto all’appartenenza di classe, alla militanza ideologica e alla

fedeltà istituzionale, era anche la dimensione etnica”75. In tal senso, i censimenti effettuati dal centro studi di Sussak furono contestati dagli italiani durante la conferenza di pace a causa delle manipolazioni, che misero in risalto un drastico calo della popolazione italiana, che passava dal 45,3% del periodo anteguerra al 24,32%. I risultati furono determinati dall’adozione di un criterio fondato non più sulla lingua d’uso, bensì sulla lingua materna. Ciò evidenziava l’adozione di una

politica di stampo etnicista, che rifiutò i processi di assimilazione cui furono sottoposte le comunità croate e slovene: si ridusse pertanto il numero degli italiani, che secondo le stime jugoslave passarono da 147.416 a 73.52176. 75 Ibidem, p. 109. 76 Cfr. ibidem.

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