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CORTE DI CASSAZIONE Sezioni Unite Civili

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CORTE DI CASSAZIONE Sezioni Unite Civili

Prestazioni - Indennità di mobilità - Proroga di dodici mesi per i dipendenti di aziende operanti nel Mezzogiorno d'Italia - Requisiti - Svolgimento della prestazione nel Mezzogiorno - Sufficienza Corte di Cassazione, SS.UU., 30.5.2005, n. 11327 - Pres. Carbone - Rel. Coletti - P.M. Maccarone (Conf.) - INPS (Avv.ti Fabiani, Jeni, Biondi) - Narda (Avv. Mangano)

Ai fini dell'insorgenza del beneficio previsto dall'art 7, comma 2, della legge n. 223 del 1991 è determinante la sola circostanza che in una delle zone "svantaggiate" di cui al D.P.R. 6 marzo 1978 n. 218, l'impresa abbia scelto di organizzare stabilmente la prestazione lavorativa di alcuni (o, al limite, anche di uno solo) dei suoi dipendenti in funzione del raggiungimento dei propri obiettivi di produzione.

FATTO - Con ricorso al giudice del lavoro del Tribunale di Catania, Jacqueline Narda, premesso di aver lavorato alle dipendenze della "Negozi Richard Ginori" s.r.L, presso la filiale della società in Catania e di essere stata collocata in mobilità a seguito di licenziamento per riduzione di personale, con attribuzione della relativa indennità per un periodo pari a ventiquattro mesi, sosteneva che, in applicazione della disposizione di cui all'art. 7, comma 2, della legge n.223 del 1991, tenuto conto dell'età e del luogo di concreto espletamento della prestazione lavorativa, avrebbe dovuto fruire della maggiorazione di dodici mesi del periodo di erogazione della prestazione e chiedeva, pertanto, l'affermazione, nei confronti dell'INPS, del diritto al suddetto beneficio, con condanna dell'Istituto al pagamento delle relative somme.

L'INPS, costituitosi, negava che, nella fattispecie, fosse invocabile l'art. 7, comma 2, della legge n.223/91, trattandosi di dipendente di un'azienda con sede in Milano e, quindi, non rientrante nelle aree di cui al d.p.r. 6 marzo 1978 n.218, cui fa riferimento la disposizione in parola.

Il Tribunale accoglieva la domanda con sentenza che era impugnata dall'INPS in via principale e dalla lavoratrice con appello incidentale (quest'ultimo riguardante la sola statuizione sulle spese).

La Corte d'appello di Catania, con sentenza depositata in data 16 maggio 2002, accoglieva l'appello incidentale e riteneva, invece, infondato l'appello principale sul rilievo che, non fornendo la lettera della legge alcun elemento a favore dell'una o dell'altra tesi, occorreva risalire alle motivazioni ispiratrici del testo normativo, ravvisabili nella esigenza di favorire le possibilità di reimpiego del lavoratore operante nelle aree svantaggiate, in considerazione delle difficoltà occupazionali nelle stesse esistenti; sì che, indipendentemente dall'ubicazione dell'impresa datrice di lavoro, andava dato rilievo al luogo di svolgimento delle prestazione lavorativa, all'essere stato, cioè, il lavoratore

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occupato in una delle zone, come il Mezzogiorno d'Italia, che il legislatore considera come ostative a una sua agevole ricollocazione.

Contro questa sentenza ha proposto ricorso l'INPS sulla base di un unico motivo, cui ha resistito la parte privata con controricorso, seguito da memoria ex art. 378 c.p.c.

La Sezione lavoro di questa Corte, con ordinanza del 14 luglio 2004, ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni unite, avendo rilevato l'esistenza di un contrasto di giurisprudenza, insorto in seno alla Sezione stessa, sulla interpretazione della ripetuta disposizione.

Per il superamento di detto contrasto il Primo Presidente ha disposto, ai sensi dell'art.374, comma 2, c.p.c., che la Corte si pronunci a Sezioni Unite.

DIRITTO - Con l'unico motivo l'INPS, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art 7, comma 2, della legge 21 luglio 1991 n.223 (in relazione all'art.360 n.3 c.p.c.), assume che l'attribuzione di un più lungo periodo di indennità di mobilità si basa sul (duplice) presupposto che l'impresa o una sua "unità produttiva in senso tecnico" (cosi nel testo del ricorso) siano ubicate nelle aree considerate dalla legge e in quelle stesse aree sia stata attivata la procedura di mobilità. Nella fattispecie non ricorrevano tali requisiti, poiché l'impresa dalla quale dipendeva il Bellia aveva sede legale in Milano e qui era stata attivata la procedura di riduzione del personale; laddove nella Regione siciliana operavano soltanto lavoratori addetti alla commercializzazione del prodotto.

Il ricorso non è fondato.

Va premesso che l'art.7 della legge n.223 del 1991, nella parte che qui interessa, testualmente recita:

(comma 1) " I lavoratori collocati in mobilità ai sensi dell'art.4, che siano in possesso dei requisiti di cui all'art. 16, comma primo, hanno diritto ad una indennità per un periodo massimo di dodici mesi, elevato a ventiquattro per i lavoratori che hanno compiuto i quarant'anni e a trentasei per i lavoratori che hanno compiuto i cinquant'anni".

(comma 2) " Nelle aree di cui al testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 6 marzo 1978 n.218, la indennità dì mobilità è corrisposta per un periodo massimo di ventiquattro mesi, elevato a trentasei per i lavoratori che hanno compiuto i quaranta anni e a quarantotto per i lavoratori che hanno compiuto i cinquanta anni."

L'interpretazione del suddetto testo normativo ha dato luogo, all'interno della Sezione lavoro, a due diversi orientamenti.

Per il primo (sostenuto dalle sentenze 27 novembre 2002 n. 16798, 22 ottobre 2003 n.15822, 8

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luglio 2004 n.12630) il comma 2 dell’art.7, nel disporre la maggiorazione di 12 mesi del periodo di erogazione della indennità di mobilità "nelle aree di cui al testo unico approvato con d.p.r. 6 marzo 1978 n.218", ha inteso avere riguardo al luogo in cui il lavoratore ha svolto la propria attività e si è iscritto, una volta licenziato, nelle liste di mobilità, piuttosto che al luogo in cui l'impresa ha la propria sede o la propria struttura produttiva principale e dove la procedura di mobilità è stata attivata. Tale orientamento si fonda sulla considerazione, ritenuta decisiva, che destinatari dell'apprestato beneficio sono i singoli lavoratori, non l'impresa in crisi, e che "ratio" della disposizione di favore è quella di approntare una più lunga assistenza ai lavoratori medesimi in ragione della maggiore difficoltà che essi incontrano per la ricerca di una nuova occupazione nelle zone cosiddette "svantaggiate".

Per il secondo (sostenuto nella sentenza 9 febbraio 2004 n.2409), la indennità di mobilità è destinata ad operare come ammortizzatore delle tensioni sociali che derivano dai processi di espulsione di manodopera " e in fondo, più come ausilio all'impresa in crisi che come garanzia di tutela economica dal bisogno del lavoratore disoccupato nelle more della ricerca di una nuova occupazione.", conseguendone che la più lunga durata della prestazione vale esclusivamente a favore dei lavoratori dipendenti da impresa o unità produttiva ubicate in territorio disagiato, siccome solo per questi si configurano quelle minori possibilità di reimpiego che costituiscono il presupposto del benefìcio; con la conseguenza che rileva nella prospettiva del prolungamento nel tempo della prestazione di previdenza, oggetto della previsione dell'art.7, comma 2 della legge n.223 del 1991 esclusivamente il luogo ove ha sede (principale o secondaria) l'impresa che riduce il personale e nel quale è stata attivata la procedura di cui all'art.4 della legge n.223 del 1991, non il luogo nel quale eseguivano la prestazione i lavoratori posti in mobilità.

Ritengono le Sezioni Unite che per una corretta interpretazione della disposizione in esame sia necessaria una lettura della stessa all'interno del sistema apprestato dalla legge n.223 del 1991 per la gestione delle eccedenze di manodopera conseguenti a licenziamenti per riduzione di personale, legge che si concreta nella sostanziale ridefinizione del sistema della mobilità in termini fortemente innovativi.

Essenziale novità rispetto ai modelli sperimentati sotto la disciplina previgente (in particolare, quella di cui agli artt. 24 e 25 della legge n.675 del 1977) che sottintendevano la conservazione, anche solo fittizia, del rapporto di lavoro, presentandosi come ipotesi di mobilità guidata "da posto a posto" , riservata, cioè, a lavoratori non licenziati, ma (solo) collocati in cassa integrazione guadagni è la istituzione di un sistema di mobilità che, realisticamente prendendo atto dell'esito fallimentare delle precedenti esperienze, assume a presupposto della iscrizione dei lavoratori nelle

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liste di mobilità l'estinzione del rapporto di lavoro; situazione, questa, cui il legislatore si preoccupa di apprestare tutela con la previsione di misure di carattere economico e di soluzioni di carattere occupazionale, specificamente indirizzate a favorire la possibilità di ricollocazione dei lavoratori licenziati.

In questo ambito si collocano le norme relative alla indennità di mobilità che, per un verso, appartengono alla regolazione "promozionale" del mercato del lavoro, considerato in termini di assetto delle opportunità di reimpiego (significativamente, la reimpostazione della mobilità su nuove basi si accompagna, nella legge n.223 del 1991, alla revisione del ruolo delle strutture pubbliche del collocamento deputate alla sua gestione) e, sotto altro profilo, sono da ricondurre alla categoria degli interventi di politica sociale funzionali al " sostegno", sul piano economico, della personale condizione di disoccupazione del lavoratore, ancorché la prestazione di nuova istituzione abbia contenuto diverso rispetto al trattamento ordinario di disoccupazione, e si distingua, altresì, per il suo carattere privilegiato, perché conseguente ai (soli) licenziamenti collettivi disposti da imprese di determinate dimensioni ed operanti in determinati settori.

Che queste siano le finalità dell'istituto, piuttosto che quella di offrire un "ausilio all'impresa in crisi" (come si sostiene nella citata sentenza n. 2409 del 2004, che costruisce la propria interpretazione del testo normativo muovendo da questa diversa prospettiva), è conclusione inequivocamente argomentabile dalle disposizioni della legge n. 223 del 1991 che, testualmente (art.7, comma 1 ), identifica come titolari del diritto all'indennità di mobilità (non le aziende, bensì)

"i lavoratori collocati in mobilità ", attuando, quindi un modello di attribuzione della prestazione condizionato nell'an, nonché proporzionato nel quantum, alla "debolezza" sul mercato del lavoro del lavoratore licenziato, che, al tempo stesso, sollecita, attraverso incentivi di varia natura, ad attivarsi nella ricerca di una nuova occupazione, non senza prescrivere a suo carico anche una serie di doveri proprio in questa direzione (art.9, comma 1, lett. A c).

Significative di una tale opzione legislativa di fondo sono, come meglio si vedrà, non solo quelle disposizioni che fissano dei limiti massimi di durata della indennità di mobilità , o che prevedono il venir meno del trattamento qualora il lavoratore si renda indisponibile ad accettare le occasioni di riqualificazione professionale o le stesse possibilità di reimpiego adeguato previste a suo favore, ma, altresì, quelle che dispongono la progressiva riduzione delta entità della prestazione inizialmente percepita in considerazione del prolungarsi dell'intervento previdenziale.

Per altro verso, e nella stessa logica, si giustifica la previsione (art.7, commi 2, 6 e 7 ) di una possibile differenziazione della durata del periodo di erogazione del trattamento indennitario in relazione al grado di difficoltà che è prevedibile che il lavoratore incontri nel reperire una nuova

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occupazione. Difficoltà che il legislatore ricostruisce in via presuntiva, assumendo quali parametri indicativi due diversi elementi: il primo, di carattere personale, costituito dall'anzianità anagrafica del soggetto beneficiario; il secondo, invece, di natura, per così dire '"territoriale", nel senso che a rilevare è anche la situazione occupazionale che caratterizza il territorio nel quale è avvenuto il licenziamento.

A questi fini, se alla età più avanzata del lavoratore licenziato corrisponde una maggiore durata del periodo massimo di possibile fruizione del trattamento di mobilità, tale periodo viene ulteriormente prolungato nelle aree del Mezzogiorno di cui al d.p.r. 6 marzo 1978 n.218, ovvero nelle aree territoriali ove risulti un tasso di disoccupazione superiore alla media nazionale, fino ad arrivare alla maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia in favore dei lavoratori in mobilità che vi siano prossimi.

Cosi riassuntivamente delineate le caratteristiche della nuova prestazione, va, poi, considerato che, coerentemente con le nuove regole di sistema, l'art.7 della legge n.223 del 1991 necessariamente presuppone perché insorga il diritto alla erogazione della indennità ( non già e non solo il mero stato di sopravvenuta disoccupazione, bensì) l'iscrizione del lavoratore nelle liste di mobilità all'esito della procedura di consultazione sindacale di cui all'art.4 della stessa legge; iscrizione che lungi dal costituire un adempimento meramente formale comporta uno status per il lavoratore da cui discendono plurime conseguenze strettamente legate alla percezione del trattamento indennitario ( in questi termini. Corte cost. sent. 27 luglio 1995 n.413 (1)).

Le liste dei lavoratori in mobilità hanno struttura territoriale regionale, prevedendosene (art.6 della legge n.223 del 1991, coordinato con i successivi interventi legislativi di riforma del collocamento, da ultimo con quelli di cui al d.lgs. 19 dicembre 2002 n.297 e al d.igs. 10 settembre 2003 n.276, attuativo delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003 n.30) la compilazione ad opera dell'Ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione (ora Centro regionale per l'impiego)sulla base di schede personali che devono contenere tutte le informazioni utili per individuare la professionalità, la preferenza per una mansione diversa da quella originaria, la disponibilità al trasferimento sul territorio dei singoli soggetti da inserire.

E' prescritto l'obbligo, per i lavoratori iscritti, di partecipare ai corsi di qualificazione e riqualificazione professionale organizzati dalle Regioni e finalizzati ad agevolare il reimpiego dei medesimi (art.6, comma 2, lett. b, legge n.223 del 1991). D'altra parte è possibile che tali lavoratori siano chiamati a svolgere temporaneamente la loro attività in opere o servizi di pubblica utilità;

utilizzo questo (al quale i lavoratori in mobilità non possono sottrarsi) che è disposto su richiesta

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delle amministrazioni pubbliche (art. 6, comma 4, cit.). Inoltre, ai lavoratori in mobilità si applica (ex art.8, comma 1, legge n.223 del 1991) il diritto di precedenza nell'assunzione ai fini del collocamento ordinario, anch'esso ridisegnato su base regionale (art.25).

Simmetricamente, gli organi regionali del collocamento procedono alla cancellazione dalla lista di mobilità del lavoratore che tenga determinati comportamenti non collaborativi (perché, in ipotesi, rifiuti di frequentare o non frequenti regolarmente i corsi di formazione, ovvero non accetti un'offerta di lavoro per mansioni riconducibili a quelle di appartenenza, ovvero non sia disponibile ad essere impiegato in opere o servizi di pubblica utilità, o, infine, non abbia provveduto a dare preventiva comunicazione alla competente sede dell'INPS della prestazione di attività lavorativa incompatibile con il mantenimento dell'iscrizione nella lista). La cancellazione comporta diverse conseguenze e, prima fra tutte, il venir meno del presupposto della prestazione previdenziale e quindi la sua perdita per il lavoratore non più iscritto.

L'insieme delle disposizioni ora elencate rende evidente la stretta connessione funzionale esistente tra la percezione della indennità e le ramificate conseguenze discendenti dalla iscrizione nelle liste di mobilità. Al tempo stesso nel momento in cui organizza la compilazione di tali liste a livello regionale e a livello regionale attiva la gestione, ad opera delle strutture pubbliche del collocamento, delle iniziative volte a fornire assistenza "concreta" sia ai lavoratori in mobilità, nella ricerca di una nuova occupazione, sia alle stesse imprese disposte eventualmente ad assumerli - appare chiaramente indicativo della volontà del legislatore di dar luogo a una fattispecie costitutiva del diritto alla prestazione previdenziale che si concretizza in una vicenda di rilevanza giuridica

"localizzata" , allo scopo di evitare, tendenzialmente, che i lavoratori collocati in mobilità siano costretti a trasferirsi in ambiti diversi dal territorio in cui aveva avuto svolgimento il cessato rapporto di lavoro per cercare altrove una opportunità di ricollocazione ( non a caso, l'art.8, comma 5, della legge n.223 del 1991 estende ai lavoratori iscritti nella lista, che siano disposti a trasferirsi in località diversa da quella di residenza, per aderire ad un'offerta di occupazione pervenuta per il tramite dei servizi di compensazione territoriale, le provvidenze di cui all'art.27 della legge 12 agosto 1977 n.675, e cioè l'indennità di nuova sistemazione e il rimborso delle spese di viaggio anche per i familiari, nonché di trasporto del mobilio).

Conforme alla complessiva logica del descritto impianto normativo e alla "ratio" che lo anima sembra, allora, essere la conclusione che, ai fini della insorgenza del diritto al beneficio previsto dall'art.7, comma 2, della legge n.223 del 1991 consistente, come già detto, nell'incremento della durata della indennità di mobilità "nelle aree di cui al testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 6 marzo 1978 n.218" diventa determinante la circostanza che in una

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delle zone "svantaggiate" di cui al suddetto provvedimento normativo l'impresa abbia scelto di organizzare stabilmente la prestazione lavorativa di alcuni (o, al limite, anche di uno solo ) dei suoi dipendenti, in funzione del raggiungimento dei propri obiettivi di produzione, cosi da dover identificare in tali aree il "luogo permanente di lavoro" , inteso, nel quadro regolativo generale della norma di cui all'art. 1182 cod.civ., come ambito territoriale entro il quale la prestazione a suo tempo dedotta in contratto doveva essere eseguita; mentre sono da ritenere irrilevanti, in quella stessa logica, altri riferimenti, come il luogo di assunzione, o quello in cui ha sede legale l'impresa o, quello di residenza del lavoratore o quello, infine, in cui è stata aperta la procedura di mobilità.

Trattasi, peraltro, di conclusione convalidata dal disposto dell'art.24, commi 1 e 2, della legge n.223 del 1991, nella parte in cui la norma individuata la fattispecie di applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 4, commi da 2 a 12, e 5 della stessa legge nelle situazioni in cui le imprese che occupino più di quindici dipendenti intendano effettuare, in conseguenza di una riduzione o trasformazione o cessazione di attività o di lavoro, almeno cinque licenziamenti che coinvolgano una o più unità produttive insistenti nel territorio di una stessa provincia prosegue, poi, imponendo al datore di lavoro di rispettare le medesime disposizioni (dunque, anche l'obbligo, imposto dal comma 9 dell'art.4, di dare comunicazione del recesso agli organi regionali del collocamento) per tutti i "licenziamenti" (non altrimenti identificati attraverso il riferimento alla loro consistenza numerica o alla tipologia dell'organizzazione del lavoro) operati anche al di fuori del suddetto ambito territoriale, quando siano causalmente riconducibili alla medesima operazione dismissiva.

Ne deriva, come ulteriore conseguenza, che, nel caso di unica procedura di mobilità che coinvolga lavoratori impiegati stabilmente in ambiti (provinciali o regionali) tra loro diversi, sono "competenti

" a ricevere la comunicazione dell'elenco di cui all'art.4, comma 9, della legge 223 del 1991, le strutture pubbliche del collocamento di tutte le regioni interessate dalla presenza di quei lavoratori, in quanto onerate della loro iscrizione nella lista di mobilità e di favorirne un'appropriata ricollocazione nello stesso ambito territoriale nel quale si esplicava l'attività lavorativa.

Resta da aggiungere che non contraddicono l'interpretazione del testo normativo nei sensi sopra esposti le disposizioni, successive alla legge n.223 del 1991, che, con riferimento a speciali situazioni di emergenza occupazionale, hanno attuato interventi di diversa tipologia e misura, tra l'altro ampliando la platea dei soggetti destinatari del prolungamento del periodo di erogazione della indennità di mobilità anche al di là dei limiti territoriali individuati nell'art.7 della legge n.223 del 1991, in ragione della natura dell'attività di impresa, ovvero della consistenza numerica della forza lavoro dell'impresa stessa e della dislocazione territoriale delle sue unità produttive ( vedi, in particolare, l'art.3, comma 4, e l'art.5, commi 5 e 6, del d.l. 16 maggio 1994 n.299, conv, in legge 19

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luglio 1994 n.451 richiamate anche nella sopra citata sentenza di questa Corte n.2409 del 2004 che estendono le disposizioni dei commi 5, 6 e 7 dell'art.7 della legge n.223 del 1991 ai dipendenti di imprese siffatte), come pure quelle disposizioni che, in una più specifica prospettiva di sostegno del reddito, hanno disposto la proroga (o hanno previsto ulteriori proroghe) dei trattamenti di mobilità già concessi (cosi le disposizioni del d.l. 1 ottobre 1996 n.510, conv. con modif. dalla legge 28 novembre 1996 n.608 riguardanti i dipendenti delle società costituite dalla GEPI e dall’INSAR e, da ultimo, quelle contenute nell'art.45, comma 17, lett. e) e f) , della legge 17 maggio 1999 n.144, menzionato nel ricorso dell'INPS).

Per tutte le ragioni su esposte non può essere sindacata la motivazione che sorregge la sentenza impugnata, nella parie in cui ha ritenuto determinante, ai fini dell'acquisizione del diritto della lavoratrice collocata in mobilità al beneficio di cui all'art.7, comma 2, della legge n.223 del 1991, il luogo di svolgimento della prestazione lavorativa.

Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, con conseguente condanna dell'INPS al pagamento, in favore della parte privata resistente, delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

(Omissis)

(1) V. in q. Riv., 1995, p. 1017

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