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Il mio paziente, Wayne Vanderhyde, seduto sul divano di cuoio del mio studio fissava la riproduzione di Edward Hopper sulla parete di fronte:

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Academic year: 2022

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Il mio paziente, Wayne Vanderhyde, seduto sul divano di cuoio del mio studio fissava la riproduzione di Edward Hopper sulla parete di fronte: Automat, 1927.

«Sei uno furbo vero?» disse.

«Cosa ci vedi, Wayne?».

«Una donna sopraffatta da quanto la sua vita è diventata uno schifo».

«E cosa sta pensando, secondo te?».

Wayne si tamburellò le dita sul mento e si protese in avanti.

«Non devi mostrare la tua arma a nessuno finché non decidi di usarla, sai?» disse.

«La mia arma?».

«Non mi riferisco al tuo acuto ingegno o al tuo intuito clinico. Alla tua pistola!».

Mai usato una pistola, io. Mai avuta una e mai sparato, gli dissi.

«Be', quell’informazione non devi darla a nessuno» ri- spose. «Ma a nessuno, nessuno!».

Wayne lavora nel reparto alimentare di Publix in Cypress Avenue e non ha ambizioni di carriera. Non gli interessa scalare la patetica gerarchia della vendita, come la definisce lui. Neppure come assistente capo-area.

«Che senso avrebbe?».

«Dipende da quello che vuoi nella vita».

«E tu cosa vuoi?».

«Essere meglio di quel che sono».

«Non dovrebbe essere difficile».

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«Ma lo è».

«Tutto ciò che voglio dalla vita è vivere come una perso- na normale. Ecco perché sono qui».

Le stesse cose le aveva dette alla nostra prima seduta tre settimane prima.

«Dammi una definizione di “persona normale”».

«Tu».

«In che modo sono normale io?».

Sorrise, guardò il soffitto, scosse la testa.

«Diplomi. Lampada da scrivania. Tavolino da caffè.

Sofà. Calze del colore giusto».

«Colpevole!» dissi.

«Io sono uno ottuso. Non mi piace la gente. Perdo subito le staffe».

«E questo come ti fa sentire?».

«Come cazzo credi che mi faccia sentire?».

Attesi che tornasse a mettersi comodo sul divano.

«Così vuoi diventare un terapeuta, vero?».

Sorrise, incrociò le braccia e alzò un sopracciglio. Indos- sava scarpe da ginnastica blu, jeans e camicia da lavoro blu con scollo a V. Gli domandai cos’era il ciondolo appeso alla catena d’argento attorno al collo che raffigurava un paio di occhi metallici. Un talismano per gli occhi, disse. Soffriva di degenerazione maculare. Eredità genetica dei genitori che ne erano entrambi affetti. Non così drammatica al mo- mento, ma una bomba a orologeria.

Di fatto non credeva in Dio se non nei momenti in cui cercava qualcuno da incolpare o qualcuno che lo curasse.

Sprecava il tempo guardando la tv e navigando in rete. In particolare siti porno. E un gioco che si chiamava The Kin- gdom of Loathing17.

«Posso stare seduto per ore senza muovere il culo. E ho quelle fantasie».

«Quali?».

«Non mi va di parlarne».

17 Il Regno dell’Odio.

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«Sessuali?».

«In un certo senso».

«Mi hai chiamato la vigilia di Natale. Un’urgenza?».

Annuì.

«Cosa ti stava succedendo?».

Mi guardava di sguincio. Strinse le labbra e sollevò il sopracciglio sinistro.

«Sono entrato in una casa vuota!».

«Vuota?».

«In DeSoto Street n. 900».

«Non capisco».

«Hai detto che dovevo uscire, no? Così esploro case sfit- te».«E una volta entrato?».

«Mi metto a curiosare. La gente dimentica sempre qual- cosa quando trasloca. Mi prendo dei souvenir. Un cucchia- io da pompelmo, il disegno di un bambino. A volte lascio cose. Ho scritto una lettera d’amore e l’ho nascosta in un cassetto di cucina. Per chi un giorno la troverà. Paroline dolci. Firmate: il tuo ammiratore segreto».

«E la vigilia di Natale?».

«In quella casa vivevano certi Parker. C’era della posta indirizzata a quel nome sul banco di cucina: bolletta tele- fonica, luce, rivista Car and driver18, una circolare di Bed Bath & Beyond19. Cosa pensi che intendano con oltre?».

«I Parker?».

«Dave e Deb. Avevano dei cani. Cani grossi. C’erano due guinzagli allungabili appesi a un gancio, in cucina. Segni di graffi sulla porta del retro, dentro e fuori. A quest’altezza».

Alzò la mano di taglio agli occhi.

«Così abituati ai cani che non erano più in grado di scin- dere la puzza del cane dall’odore della casa. Ma se dovessi andare ad abitare lì dovresti strappar via tutto. Battiscopa e tappezzeria. E ripulire tutto con lisciva e candeggina. E lo

18 Auto e Guida.

19 Letti, Bagni e Oltre.

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stesso, Klink e Schultz20 ti resterebbero addosso. Il loro tan- fo ti ricorderebbe i Parker partiti da un pezzo. Ora vivono in qualche roulotte dove la fema21 sistema gli sfrattati. Magari adesso passano in auto davanti alla casa qualche volta e la rimpiangono».

«E quando ci vai?».

«Di notte. Ma non sono così stupido da entrarci con la pila accesa. Eppure quando apro la porta della stanza da let- to è come inondata dalla luce del giorno. E la luce si ferma proprio lì sulla soglia, all’entrata. Questo è il primo fatto strano. E in fondo alla stanza, accucciato in un angolo, c’è un leone enorme che mi fissa e ringhia, pronto a saltare. Sta lì e si sferza i fianchi con la coda finché mi salta addosso».

«È un sogno».

«Non è un sogno. Lotto con il leone per non so quanto e quando mi rotolo su un fianco vedo che il leone sono io e svengo. Quando mi sveglio sono zuppo di sangue e sudore, con i jeans e la maglia a brandelli».

«È difficile credere che tu, come qualsiasi altro, possa averla vinta su un leone vero nella vita reale, no?».

«E come spieghi il sangue vero sullo scendiletto? Non ti sono mai capitate cose del genere?» chiese Wayne.

Arrivai all’Oppenheimer in New River prima di Carlos.

Il ragazzo alla cassa si stava facendo crescere il pizzetto alla Johnny Depp e portava occhialetti ovali vintage color argento da reduce della Guerra Civile, non molto in caratte- re con i jeans strappati che gli scoprivano il sedere. Presi il Journal-Gazette e ordinai un caffè. Certi lavori edili aveva- no portato alla luce quello che sembrava un cimitero degli indiani Calusa, vicino al South River, e il tribunale aveva bloccato la costruzione del nuovo supermercato fin quando gli archeologi non avessero potuto esaminare i manufatti.

20 Nomi di cani.

21 Agenzia Federale Gestione Emergenze.

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La tribù dei Tequesta aveva colto l’occasione per dichiarare il sito sacro ai nativi. Da proteggere a ogni costo.

Pagina due: a tutt’oggi c'erano ancora trentasei casi ir- risolti di persone scomparse nella contea di Everglades, incluso quello più recente di un novantenne malato di Al- zeheimer che si era allontanato dalla casa della figlia a Rid- geland e quello di una diciottenne che viveva sola e, uscita per andare a fare la spesa, non era più rientrata. Trentasei persone che un minuto prima erano lì e un minuto dopo erano scomparse.

Un caddy del Golf Club di Eden era stato aggredito da un alligatore uscito dal laghetto vicino alla tredicesima buca. Due soci si erano precipitati in aiuto e avevano af- frontato l’alligatore con le mazze ma il caddy aveva perso un braccio.

Mentre la sfida era in corso, i quattro del turno seguente erano passati alla buca successiva.

Carlos entrò, si diresse al banco, prese un caffè e mi rag- giunse.

Chiusi il giornale.

«Da un paio di settimane ho un vagabondo che vive nel mio giardino. Si è accampato sotto la siepe di confine. Gli ho chiesto gentilmente di andarsene e mi ha risposto che non ha dove andare. Gli ho detto di provare al rifugio per senzatetto e mi ha risposto che è un posto pericoloso. Ho chiamato la polizia e non è venuto nessuno. Mi tocca ve- dere questo tipo mattino e sera, non tutte le notti ma quasi, specialmente da quando ha sistemato sacco a pelo e zaino dietro l’eliconia».

«Si fida di te».

«Non lo voglio lì».

«Fa del male a qualcuno?».

«No».

«Cos’hai contro quel tipo?».

«Ma è casa mia!».

Fino allora avevo cercato di ignorarlo, raccontai a Car-

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los, ma l’ultima volta mentre andavo all’automobile mi aveva interpellato: «Perché non mi saluti?».

Seduto sul sacco a pelo, appoggiato alla staccionata, leg- geva un Harper’s preso dalla raccolta differenziata.

«Arrogante» aveva concluso.

Carlos pensava che era divertente.

«Tu lo sopporteresti?».

«No! Ma nemmeno chiederei aiuto alla polizia».

Fece scivolare sul tavolo un libro in confezione regalo.

«Buon Natale da Inez».

Una copia di Un Africano in Groenlandia, il libro di Tété-Michel Kpomassie. Aprii una pagina a caso e iniziai a leggere.

Stavo camminando verso casa da solo, la notte era si- lenziosa. Improvvisamente guardando in alto, vidi lunghe strisce bianche che turbinavano sopra di me. Sembrava il fulgore di un fuoco invisibile, da cui fuoriuscivano abba- glianti raggi di luce che si riversavano nello spazio e si propagavano fino a formare una profonda e avvolgente co- perta fosforescente che si muoveva e tremolava, cambiando rapidamente colore, da bianco a giallo, da rosa a rosso.

«Dai un bacio a Inez da parte mia».

Inez e Carlos erano sposati da vent’anni e più, ma si se- paravano circa ogni due o tre anni per sei mesi ogni volta, e Carlos temeva che alla fine la separazione sarebbe diventata definitiva. Avevo conosciuto Inez a un club del libro e una volta mi aveva detto che la letteratura ormai non riusciva più a immaginare niente di nuovo e non sperimentato, e da quel momento mi era piaciuta.

Mi regalava quel libro perché le avevo detto che prima di morire mio padre voleva vedere le luci del Nord. Da bambi- no, in Massachusetts, non era mai riuscito a vederle perché dormiva sempre.

«Quando poi mi svegliavo, mio padre mi diceva che fantastico spettacolo mi ero perso. Non posso credere che quell’idiota non mi abbia mai svegliato!» si lamentava.

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«Gli Halliday sono stati uccisi ognuno con un colpo solo, sparato dalla stessa calibro 22» disse Carlos.

«Una Colt Woodsman. Era nello studio accanto alla mano aperta di Chafin Halliday. Per tutti la morte è stata istantanea. Nessun segno di lotta. Niente impronte di estra- nei dentro casa né fuori. Nessun danno all’esterno. La por- ta d’ingresso non è stata forzata. I vicini non hanno visto estranei entrare o uscire da casa».

«E perché Halliday possedeva una pistola?».

«Per lo stesso motivo per cui lo fa chiunque altro».

Estrasse il blocchetto e guardò gli appunti.

«Halliday ha comprato la pistola al negozio di New Ri- ver, Knife and Gun», contò sulle dita, «sette anni fa».

«Io non ho la pistola».

«Una ricerca casuale in un parcheggio di qualsiasi su- permercato in Florida può rivelarti armi da fuoco in almeno metà delle auto».

«La cosa non ti preoccupa?».

«Moltissimo».

«Le armi dovrebbero essere bandite».

«Sono d’accordo con te, ma non lo sono. Viviamo in un mondo complicato. La tua ingenuità non lo rende più sem- plice».

La cameriera, Bluebelle, o almeno così diceva la targhet- ta sul petto, ci versò altro caffè. Aveva i capelli biondi ac- conciati alla rasta raccolti dietro la nuca, un occhio verde e l’altro marrone. Ci servivano alcuni minuti per decidere cosa ordinare, grazie.

«Chili» disse e ci fece l’occhiolino con quello verde.

Fuori, in Magnolia Avenue, due uomini bassi e tondi in pantaloncini blu, calzini bianchi, sandali e polo a righe, at- traversavano la strada con i sacchetti del supermercato in mano e dei fazzoletti bianchi sulle pelate.

«Nessun trascorso criminale» disse Carlos. «Nessun uso di droghe. Nessun nemico. Nessuno che poteva volere la sua morte».

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«Hai parlato con il tenente Shanks?».

«Me ne sono occupato ».

«Avevo ragione?».

«Non abbiamo trovato nulla di rilevante nel computer di Halliday».

«Quale computer?».

«Ne abbiamo trovato uno nel bagagliaio dell’auto».

«Non hai risposto alla mia domanda».

«Nessun messaggino d’amore a segretarie, nessun porno o file confidenziali nascosti. Sembra che il signor Halliday fosse un cittadino tutto d’un pezzo».

Carlos ordinò sandwich con prosciutto, uova e formag- gio, io presi il Chili Souper Bowl con salsa atomica. Due tè freddi.

«Qual è la frase di Sherlock Holmes che citi sempre?»

mi chiese.

«Una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, anche se improbabile, deve essere la verità».

«Quindi Chafin Halliday ha ucciso la sua famiglia e poi si è suicidato. Il biglietto che ha lasciato lo conferma».

La sera del ventitre dicembre Halliday aveva lavorato fino a tardi nel suo ufficio a Melancholy e aveva cenato al suo ristorante, mi disse. Halliday si era poi fermato a casa di un suo amico, dipendente statale, e lo aveva omaggiato con una bottiglia di Johnnie Walker etichetta blu in confezione natalizia.

Era arrivato a casa alle sette, aveva fatto una lunga te- lefonata a un amico che abitava a Rhode Island e la cosa aveva tutta l’aria di un addio. Il giorno dopo, ventiquattro dicembre, Halliday era uscito di casa alle sei e mezzo del mattino, si era fermato al suo ristorante per consegnare gli assegni di Natale e parlare con il gestore, poi aveva passato un paio d’ore al centro commerciale. Nel pomeriggio aveva portato la famiglia al cinema imax. Erano rientrati verso le cinque e la signora Halliday aveva programmato l'accensio- ne del forno per le tre e cinquanta.

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«Come sai tutte queste cose?».

«Scontrini, testimoni, vicini di casa».

Cosa si sapeva della signora Halliday?

«Si chiamava Krysia Plotczyk. Cattolica fervente, mam- ma modello, vice presidente dell’Associazione genitori-in- segnanti. Stiamo cercando di rintracciare la sua famiglia a Gdansk».

«E il movente di Halliday?».

«Pare che si sia sentito disperato. Aveva grossi debiti e ultimamente era stato accusato di concussione. Era stato proprietario delle Gold Coast Cruise Lines».

«Ehi! Le navi bische?».

«Per anni gli hanno fruttato una miniera d’oro. Solito espediente delle tre miglia dalle acque territoriali per elu- dere la legge. Ci portavano la gente che si sbronzava e per- deva tutto alle slot machines, al blackjack, al poker. La più grossa impresa d’azzardo dello Stato».

«Prima che aprissero il Silver Palace».

«Esatto. Prima che la contea votasse la legalizzazione di slot machines, videopoker e Texas Hold’Em negli ippodro- mi e dove si va a fare squash. Così il nostro Halliday vede i suoi introiti calare a picco, non è più in grado di pagare i conti e deve licenziare dozzine d’impiegati. Poi la banca minaccia di prendersi le navi e Halliday deve vendere e in fretta».

«E chi compra il tutto?».

«Voleva venderlo ai Tequesta ma non erano interessati.

Il lobbista della tribù lo era e, con un suo socio, gli ha fatto un’offerta che Halliday ha giudicato un insulto».

«E chi voleva sobbarcarsi un affare con quelle prospet- tive?».

«I due volevano trasformare le navi in nightclub per vip.

Nightclub è solo un eufemismo per bordello. Halliday non aveva ricevuto altre offerte e così è stato costretto a vendere per meno di quello che aveva pagato. Era pieno di debiti e stava rischiando di perdere anche il ristorante. E anche la

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famiglia forse. E allora ha pensato che quello che ha fatto era l’unica via d’uscita».

Carlos si strinse nelle spalle.

«Inglesi» disse. «Chi può dire cosa gli passa per la men- te?».

«Tuo padre è irlandese».

«Nessuno è perfetto».

«E chi erano i compratori?».

«Uno è un po’ equivoco, l’altro un pilastro della comu- nità».

Quello equivoco era un avvocato radiato dall’albo di nome Park McArthur la cui madre era stata uccisa durante una rapina malriuscita nella gioielleria del marito nel Que- ens. Il marito e patrigno di Park, Artie Berman, aveva offer- to una grossa ricompensa, e Park, in quanto avvocato, era stato incaricato da Artie di occuparsi della cosa.

Il problema era che aveva “preso in prestito” il denaro e lo aveva investito in una catena di librerie per adulti nel New Jersey. Arrestato, per restituire il denaro aveva dovuto cercarsi un altro lavoro e una nuova famiglia.

Aveva aperto una concessionaria di automobili, il Park’s Cars a Washington D.C., e aveva iniziato a farsi una pub- blicità forsennata sulle tv locali al punto da diventare una celebrità. Si presentava in camicia di forza e offriva “prezzi pazzi” e “affari folli”, finché non veniva domato dai suoi stessi dipendenti e sostituito davanti alla telecamera da un uomo con un farfallino.

«In quel periodo conobbe Jack Malacoda, suo futuro so- cio. Questo Malacoda è uno che raccoglie fondi per il Parti- to Repubblicano, lobbista influente di K Street, consigliere di almeno una dozzina di associazioni caritatevoli. Il tipo intelligente e potente che ha fatto più denaro di Dio. Fero- cemente religioso e devotissimo alla famiglia».

«Insomma due bastardi».

«Sei un cinico».

Sull’argomento religione Carlos è suscettibile. Cattolico

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fervente, diacono a St. Jude, fa la comunione tutti i giorni.

«Un religioso osservante che apre un bordello?».

«È un affare che rende».

«Lobbisti per giochi d'azzardo?».

«Giochi!».

«Sospetti?».

«Nessun movente. Nessuna possibilità. Entrambi in mare a pescare marlin nel Nuovo Messico. Dal ventuno di- cembre».

Bluebelle arrivò con il pranzo.

«Davvero, Carlos, metti ketchup sulle uova?».

Lui finì di spruzzare la salsa, diede un morso al sandwich e si pulì le labbra. Rimescolò il tè con la cannuccia e fissò un buco nel sandwich.

«Carlos, dove sei?» chiesi.

«Sono diventato poliziotto per eliminare gli uomini cat- tivi».

Allontanò una mosca dal bicchiere.

«E qui di persone cattive ne girano un sacco. Be' come sta Myles?».

«Papà sta bene. Grazie. E con bene intendo che non va peggio».

Dopo pranzo Carlos doveva andare negli Hills. Un con- dominio per anziani aveva sfrattato una coppia che non voleva assolutamente lasciare l’appartamento in cui aveva vissuto per tredici anni.

«Perché lo sfratto?».

«Hanno preso con loro la nipotina di dieci anni perché i genitori sono rimasti uccisi in un incidente stradale».

«Bastardi!».

«È la legge, Coyote. Può anche non piacerci ma sono le regole. Se non stai alle regole, paghi le conseguenze».

«Nessuno spazio per la compassione?».

«Certo. Ma l’amministrazione del condominio ha optato per l’indifferenza».

«E la giustizia?».

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«L’ordine è essenziale. La giustizia un lusso».

«Dici sul serio?».

«Non puoi guidare un paese o un affare o una scuola o una famiglia se non c’è ordine. Senza ordine se ne va tutto in pezzi, capisci?».

«Così ci accontentiamo dell’ordine perché è più facile della giustizia?».

Carlos sorrise. Poi mi disse di non voltare la testa e do- vetti trattenermi.

«Cosa c’è dietro di te?».

«Non so».

«Lo dovresti sapere, invece. Dovresti sempre saperlo cosa c’è dietro di te, perché quello che hai dietro può sem- pre approfittarsi di te, Coyote».

Tornando a casa, guidai verso la spiaggia. L’idea era di fare un salto a La Mélange per scoprire qualcosa di più su Chafin Halliday. Parcheggiai in Aviles Street accanto a una Camaro nera con la scritta cosmobiologiadimeeme dipinta sul lunotto.

Un avvoltoio dalla testa rossa che volteggiava nell’aria sopra di me, si inclinò, spiegò le ali e lasciò che la brezza lo portasse sulle onde fino alla riva acquistando velocità.

Sembrava euforico.

Bay mi telefonò che stavo passeggiando sul lungomare e gli dissi cosa avevo saputo da Carlos sulle navi Gold Coast.

Ma i giochi sulle navi erano truccati, disse Bay. Nel tallone del blackjack sei assi erano stati sostituiti con sei carte del numero sei.

«Una finta mescolata qui, un doppio gioco là, e nessuno se ne accorge».

«Ma quel tipo di cose può far arrabbiare la gente» dissi.

«Non abbastanza per uccidere cinque persone. La gente che va a giocare sulle navi prende l’autobus dai condomini Gulfstream. Pagano i loro 29 dollari e 50 e si godono la

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crociera verso il nulla. È la loro vita sociale. I veri giocatori d’azzardo non vanno a giocare sulle navi. Un’ora e mezza per raggiungere il limite delle tre miglia e una e mezza per tornare indietro? Tre ore senza giocare. E per giunta devi guidare mezz’ora per raggiungere il molo da cui si parte per arrivare sulle navi. Per cui in totale per quattro ore di gioco sprechi otto ore di tempo».

Non c’erano sedie all’interno del locale, così sedetti fuo- ri e ordinai della Galvaude22 e un tè freddo. Al cameriere dissi che mi spiaceva per quello che era successo al suo capo e mi rispose che gli ultimi tempi il capo non aveva passato molto tempo al ristorante. Era uno che andava e veniva. L’ultima volta che aveva visto Halliday era stato proprio il giorno della sua morte, verso le quattro, quando si era fermato qualche minuto per vedere il gestore. Una storia triste e senza senso. Non penseresti mai che una cosa simile possa succedere a uno come Chafin così attento alla sicurezza. Quasi paranoico.

Un tipo al tavolo accanto al mio leggeva un libro ad alta voce: «Hoy viene una noticia importante. Puede cambiar su vida23».

Imparava lo spagnolo o leggeva l’oroscopo?

Il cameriere tornò con il pranzo.

«E poi nessuno di noi sa come andrà a finire col lavoro.

Se venerdì prenderemo la paga. Che casino!» disse.

Gli chiesi se la polizia era venuta a parlare con il perso- nale e rispose di no. C’era una macchina da scrivere nell’uf- ficio del ristorante? Disse che non c’era.

Sul telefonino mi arrivò un messaggio da Phoebe: sareb- be passata da casa mia alle otto quella sera.

L’uomo al tavolo accanto diceva: «Hace poco viento, pero hace mucho sol24».

22 Piatto tipico del Québec: patatine fritte, pollo tagliato a dadini e piselli.

23 Oggi riceverà una notizia importante che può cambiarle la vita.

24 C’è un po' di vento, ma c’è molto sole.

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Parcheggiata la macchina nel vialetto di casa, mi sentii dire: «Anche se non te ne frega niente di chiedermelo, mi chiamo Red».

Così mi avvicinai all’accampamento di Red. Si era pro- curato un hibachi25 e accanto al sacco a pelo c’era un sac- chetto di carbonella.

«Perché sei qui?» chiesi.

«Red Soileau».

«Ok. Perché nel mio giardino?».

«Perché sembri un buon tipo».

«Ok, buonanotte Red».

«Buonanotte...».

«Wylie».

«Wylie».

La luce della segreteria telefonica lampeggiava. Schiac- ciai il pulsante. La voce maschile diceva: «Ascolta, testa di cazzo, tieni il naso fuori dai miei affari o t’infilo l’orologio sportivo nero che ti piace tanto su per il culo!».

Phoebe stava per arrivare. Uscivamo insieme ai tempi del liceo. Ero stato pazzamente innamorato di lei e lei di me, ma non le avevo mai garantito il tipo di relazione a lungo termine che voleva. Suo padre aveva problemi di memoria e sua madre era una donna piacevole ma sempre ubriaca. Phoebe era figlia unica. Di notte andavamo al Whi- spering Pines Golf Club e aspettavamo che gli irrigatori ci bagnassero.

Come posso dirti come sarà il futuro, Phoebe? Credo che ti amerò sempre, vorrei amarti sempre, ma posso dav- vero sapere se sarà così?

Mi comportavo come un avvocato che sta negoziando una scappatoia legale. Così ci eravamo allontanati. Alla fine avevo sposato Georgia Mears e Phoebe aveva sposato Gary Clarke che al liceo era quarterback degli Stevedores di South Everglades. Lei divenne infermiera e lui poliziotto. Poi lui

25 Dispositivo giapponese. Contenitore scoperto, costruito o rivestito con materiale resistente per bruciare carbone.

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cominciò ad abusare di lei fisicamente e psicologicamente e dopo anni d’inquietudine, scandali, umiliazioni, lesioni, di- vorziarono. A quel punto, quando ancora stava passando le pene dell’inferno con Gary, eravamo tornati amici e poi più che amici. Georgia mi aveva già lasciato. All’inizio era solo un sostegno, poi era diventato conforto e il conforto si era trasformato in passione. Ma la passione non era sufficiente per Phoebe. Così aveva sposato un chiropratico norvegese, il dottor Kai Pedersen, ed erano andati a vivere a un miglio di distanza da me sul lago di Eden. In quel periodo c’incon- travamo quando potevamo, ma lei voleva che mi facessi una vita mia. Difficilmente avrebbe lasciato Kai. Lui era molto innamorato, tanto per cominciare. E almeno per ora era negli Stati Uniti come residente con la carta verde ma per la nazionalità doveva aspettare un anno. Se si fossero separati prima di quel momento, Kai sarebbe dovuto torna- re a Hammerfest. Così Phoebe mi consigliava di trovarmi una brava ragazza con la quale costruirmi un futuro.

Andai ad aprire la porta e le chiesi se aveva fatto cono- scenza con Red.

«Il tipo nei cespugli? Non in modo formale».

Phoebe mi aveva portato il suo regalo di Natale. Un gat- tino di un mese e mezzo, nero lucente, con occhi gialli. Di nome Django. Pesava meno di settecento grammi e sem- brava un pipistrello. All’Human Society le avevano detto che era il gattino più allegro che avessero mai visto. Un biglietto sulla gabbia prometteva: un sacco di divertimen-

to! Phoebe aveva portato anche cibo per gatti, i documenti dell’Human Society, e un libretto con l’appuntamento per il controllo e la vaccinazione alla clinica veterinaria di Eden.

Tirammo fuori dal trasportino Django che corse subito a esplorare la casa.

Versai due cognac. Phoebe tirò fuori dalla borsa un cala- maro di gomma e lo lanciò a Django che cominciò a com- batterci finché non lo mise al tappeto.

Seduta sul divano raccontava della sua vacanza con Kai.

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Erano stati alle Bahamas a fare immersioni. Kai aveva cal- pestato un riccio di mare e gli era caduta in testa una noce di cocco. Intanto Django si rincorreva la coda facendo dei gran salti. Raccontai a Phoebe degli Halliday. Django s’in- trufolò in una delle mie scarpe e si addormentò.

Phoebe guardò l’orologio e disse che doveva andare.

«Prenditi cura del mio ometto».

«Conosci un poliziotto di nome Shanks?» le chiesi.

«È uno stronzo. Un amico di Gary, naturalmente. Stai alla larga».

Mi ficcai a letto ma Django miagolava. Lo sollevai e me lo posi sul petto. Starnutì. Gli colava il nasino e mi bagnò la maglia. Mi stavo per addormentare quando mi saltò sulla testa e cominciò a mordermi i capelli. Sentivo il suo respiro affannoso. Ero contento di avere di nuovo un gatto.

Sognai di essere in una stanza vuota e luminosa che non aveva entrata né uscita. Sentivo della musica gitana. Mi voltavo e c’era un ringhioso Wayne Vanderhyde che avan- zava verso di me con le mani insanguinate. Udii il mio stes- so urlo e mi svegliai.

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