RIFLESSIONI SULLA RIFORMA COSTITUZIONALE VERSO IL REFERENDUM
A cura di Ambrogio Nova
Novembre 2016Una riforma attesa e importante, anche se imperfetta. Il fallimento dei tentativi precedenti.
Da trent’anni il tema di una riforma della Parte Seconda della Costituzione è all’ordine del giorno del dibattito nazionale, ma nessuna delle proposte fin qui avanzate è stata approvata.
Un progetto organico di revisione era stato promosso dal Governo di centrodestra nel 2005.
Approvata dal Parlamento, la riforma fu però bocciata nel referendum popolare tenutosi nel 2006, con il 62% di voti contrari.
In precedenza, il Parlamento aveva costituito apposite commissioni bicamerali (Bozzi, 1983-1985;
De Mita-Iotti, 1993-1994; D’Alema, 1997) col compito di formulare proposte di revisione della Costituzione, ma i loro lavori non ebbero alcun seguito per la mancanza di un accordo fra i partiti.
Due sono state, invece, le revisioni realizzate : nel 2001 è stato modificato il Titolo V della Parte Seconda (intitolato “Le Regioni, le Province, i Comuni”), nel senso di un ordinamento più federale;
nel 2012, a seguito degli accordi siglati a livello europeo, è stato inserito il principio dell’equilibrio dei bilanci con la modifica degli articoli 81, 97, 117 e 119 della Costituzione ( Legge costituzionale n. 1/2012, efficace dal 2014).
La riforma costituzionale approvata a conclusione dell’iter parlamentare il 12 aprile 2016 e che sarà sottoposta a referendum confermativo, non è il testo presentato dal Governo, ma quello ampiamente emendato nel corso del dibattito parlamentare. Il risultato non è stato un miglioramento del testo proposto dal Governo dal momento che, ad esempio, sono stati cancellati i tratti più interessanti relativi alla composizione del Senato, non esplicitando adeguatamente quella funzione di rappresentanza degli interessi territoriali che avrebbe attribuito alla seconda Camera una funzione non lontana da quella a cui avevano pensato i Costituenti.
Comunque, la riforma di cui trattasi evita alcuni punti che hanno fatto naufragare i tentativi precedenti, in quanto :
a) Non modifica la Prima Parte della Costituzione, quella dei valori;
b) Non modifica la forma di governo, che rimane parlamentare anche se, per i disegni di legge essenziali, cambia il rapporto far Governo e Parlamento, come vedremo meglio più avanti. E’ stato così accantonato quanto riguardava la formazione del Governo e il primato del suo Presidente, obiettivi che, nella misura in cui non diminuiscono la supremazia del Parlamento, sono ottenibili anche attraverso una diversa prassi applicativa delle vigenti norme costituzionali e con alcune pertinenti riforme elettorali;
c) Non modifica la forma di Stato e, in particolare, i poteri del Presidente della Repubblica;
d) Non modifica le garanzie riguardanti i poteri della Magistratura e quelli della Corte Costituzionale ( i quali, ultimi, anzi aumentano con l’ammissione del ricorso preventivo sulle leggi elettorali).
Quello che questa riforma prevede è importante, anche se limitato. Non è certamente una riforma perfetta, ma va nella direzione della modernizzazione del Paese. Conseguentemente, il voto in occasione del prossimo referendum è un’opportunità da non sprecare. Ciò anche se questo referendum rischia di presentarsi più come uno strumento per avviare un regolamento di conti all’interno di élite politiche anziché una consultazione per far emergere la volontà popolare. Del resto, diverse esperienze referendarie di altri paesi (nel Regno Unito il 23 giugno scorso, in Francia il 29 maggio 2015, in Olanda il 1° giugno 2015) hanno dimostrato che il referendum può assumere il carattere di sostituto delle elezioni politiche generali o delle primarie di partito, essere usato cioè per portare avanti una guerra contro l’avversario politico. Non andrebbe dimenticato, invece, che, nel prossimo referendum costituzionale, saranno in gioco gli interessi del Paese e non principalmente il destino di una forza politica.
La riforma nasce su ulteriori ragioni di contesto, che le danno forza :
e) la debolezza delle istituzioni, di fronte alle crisi economiche succedutesi dal 2006;
f) l’esito elettorale del 2013, che non ha prodotto alcun vero vincitore;
g) l’aumento del populismo, uno strumento che corrode le istituzioni.
Senza voler anticipare un orientamento cui sarà bene accennare a conclusione della presente riflessione, non sembra, tuttavia, fuori luogo riconoscere nell’esistenza stessa della riforma una ragione, anche se da molti non condivisa, a favore della sua conferma referendaria.
Quadro sintetico degli aspetti qualificanti della riforma
I punti qualificanti della riforma costituzionale approvata dal Parlamento nell’aprile scorso, che, pur senza stravolgere l’ordinamento attuale, incidono sia sulla forma di governo (col rafforzamento del ruolo dell’esecutivo) che sulla forma di Stato (modificando i rapporti fra potere centrale e poteri periferici) , si possono sintetizzare nei seguenti termini, i principali dei quali saranno ripresi più avanti, nel dettaglio.
In primo luogo, il superamento del bicameralismo paritario e la trasformazione del Senato in Camera rappresentativa, almeno nelle intenzioni, degli interessi territoriali, semplificando il procedimento legislativo e riducendo anche i costi della politica. In verità, l’eliminazione del bicameralismo paritario, secondo alcuni critici, nulla avrebbe a che fare col problema della stabilità governativa e poco inciderebbe ai fini della semplificazione e dell’efficienza dei processi decisionali. Infatti, nel nostro sistema istituzionale, il governo nasce in Parlamento ed è stabile fino a quando la maggioranza non cambia. L’obiettivo di avere governi più stabili non si persegue tanto con le riforme costituzionali, quanto con le leggi elettorali.
Un altro punto fondamentale è la nuova revisione del Titolo V della Costituzione, che ridisegna il rapporto fra le Regioni e lo Stato. Il nuovo art. 117 della Costituzione elimina le materie di competenza concorrente attribuendole esclusivamente allo Stato e riduce le competenze propriamente regionali, attraverso una loro specificazione. Sulla riduzione di alcune competenze regionali si può anche convenire così come sull’opportunità della clausola per la quale la legge statale può prevalere per assicurare l’ ”unità giuridica ed economica” della Repubblica, senza ammettere però il pericoloso richiamo a un generico “interesse nazionale”, contenuto nel testo della riforma. La riforma introduce anche nuovi meccanismi di democrazia diretta, modifica la procedura per l’elezione del Presidente della Repubblica (ma non i relativi poteri, come già si è
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detto), prevede la soppressione del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) e l’attribuzione alla Corte Costituzionale del giudizio di legittimità delle leggi elettorali nazionali,
Le valutazioni del bicameralismo paritario realizzato nel nostro Paese e i tentativi di razionalizzazione della produzione legislativa
Al contrario di quanto si è detto in alcune sedi, il bicameralismo paritario o perfetto non è un lascito dell’Assemblea Costituente, che voleva piuttosto un Senato fortemente differenziato dalla Camera e legato alla rappresentanza degli interessi territoriali. In effetti, però, il Senato licenziato dai Costituenti è parso privo di un volto preciso e, successivamente, la faticosa fase di attuazione della Costituzione ha radicalmente cambiato il carattere della seconda Camera. La riforma costituzionale del 1963 (Legge cost. n.2/1963) e, in precedenza, la prassi dello scioglimento anticipato, avevano eguagliato la durata del mandato del Senato, originariamente di sei anni, a quella della Camera; inoltre, il sistema elettorale introdotto dalla legge n. 28 del 1948 ha esteso di fatto anche al Senato il sistema proporzionale.
Le valutazioni sul bicameralismo paritario italiano in tal modo realizzato, un unicum nel panorama internazionale, hanno messo in luce il suo carattere ambivalente : da un lato, esso, attraverso la doppia lettura parlamentare, avrebbe dovuto assicurare una miglior qualità legislativa anche se la procedura di approvazione delle leggi è risultata più lunga e dispendiosa. Va aggiunto che le modifiche del sistema elettorale (introdotte specie all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso) hanno fatto si che l’esistenza di una maggioranza diversa nei due rami del Parlamento rendesse ancora più problematica la governabilità. Da un altro lato, la precisazione, alquanto vaga, dell’elezione del Senato a base regionale (art. 57.1 Cost.), non è riuscita ad assicurare l’auspicato legame fra lo Stato e le Autonomie territoriali.
Sul bicameralismo paritario realizzato nel nostro Paese si sono registrate anche opinioni discordanti.
In particolate, si è osservato che esso non ha prodotto un difetto quantitativo di legislazione e neppure un’abnorme lentezza dei relativi procedimenti; ha invece inciso negativamente sulla qualità di diverse leggi poiché la duplicazione e la possibile moltiplicazione delle fasi deliberative hanno condotto a una legislazione costruita per successive “accessioni” e stratificazioni irrisolte, complessa e di non facile interpretazione.
Non sono mancate risposte intese a razionalizzare la produzione legislativa, relative sia al sistema legislativo che ai rapporti fra il potere legislativo e gli altri poteri. Fra le prime, si colloca il tentativo di razionalizzazione con leggi ordinarie e l’uso della delegazione legislativa.
Quanto al sistema dei rapporti fra potere legislativo e altri poteri, la razionalizzazione della legislazione è stata perseguita soprattutto in sede giurisdizionale, sia comune che costituzionale, con un’inedita espansione, fino alla pervasività, della giurisdizione.
Sempre ai fini della razionalizzazione della produzione legislativa, va segnalata anche l’ipotesi di introduzione della figura della “legge organica”, che si differenzia dalle legge ordinaria per un procedimento di formazione più gravoso e che, in un assetto a bicameralismo diseguale, potrebbe consistere nella deliberazione bicamerale così detta simmetrica, prevista dal progetto di riforma fra i procedimenti di formazione delle leggi, come si dirà meglio più avanti.
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La nuova figura di Senato delineata dalla riforma costituzionale. La questione dell’elezione dei senatori e la previsione di una nuova legge statale al riguardo
La riforma costituzionale recentemente approvata dal Parlamento delinea una nuova figura del Senato in collegamento con la riscrittura delle regole sulle autonomie territoriali.
Il nuovo Senato è composto da 95 senatori scelti dai Consigli regionali e dai Consigli delle Province autonome di Trento e Bolzano fra i propri membri e fra i sindaci dei comuni del proprio territorio. La partecipazione dei Comuni, enti di indubbia importanza ma che non dispongono di competenze legislative, non appare per altro consona.
Il venir meno dell’elezione diretta del Senato è stata da alcuni criticata, ma sembra essere la soluzione più coerente per riconfigurare il bicameralismo italiano con un ramo del Parlamento che rappresenti le autonomie locali. La democraticità del nuovo Senato non è in dubbio, dato che le elezioni di secondo grado dei senatori ad opera dei Consigli regionali assicurano il legame col corpo elettorale. Inoltre, va tenuto conto che il sistema di elezione potrebbe essere dalla legge, a tale scopo prevista dalla riforma, ancorato a un’indicazione popolare dei membri regionali destinati a divenire senatori.
Il testo della riforma sulle modalità di elezione dei senatori non è però chiaro. Si fa menzione dell’elezione con metodo proporzionale da parte dei Consigli regionali e si aggiunge un sibillino
“in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi”. Si tratta di una brutta previsione che sembra precludere a un Senato che si suddividerà in gruppi politici anziché sulla base degli interessi territoriali.
Ai senatori espressi dal territorio si aggiungono 5 senatori nominati dal Presidente della Repubblica per un periodo di sette anni, non rinnovabile. Si tratta di una scelta discussa vista la nuova veste del Senato, che dovrebbe rappresentare le autonomie territoriali. Resta immutata la previsione che chi è stato Presidente della Repubblica sia, alla fine del mandato, senatore a vita.
I principali compiti demandati al Senato dalla riforma (nel novellato art. 55 Cost.) possono essere ricondotti a una duplice funzione :
h) assicurare la rappresentanza degli interessi territoriali a livello di esercizio del potere legislativo statale, divenendo una sede di raccordo fra diversi livelli di governo e fra questi e l’Unione Europea ;
i) valutare le politiche pubbliche nazionali e verificare l’impatto di quelle europee sui territori, oltre a verificare l’attuazione delle leggi statali. A questo proposito, non si ritiene condivisibile la posizione di chi ravvisa, nell’attribuzione al Senato di funzioni - almeno in prevalenza - di solo controllo politico della legislazione , una diminuzione di contrappesi rispetto ad altri organi e, in particolare, rispetto alla Camera dei deputati.
Una questione che, al riguardo, merita un approfondimento è quella dell’estensione della
“valutazione e delle “verifiche” senatoriali. Solo la “verifica d’impatto delle politiche europee” è limitata all’incidenza di quelle politiche “sui territori”. E’ vero che per le altre azioni non si accenna alla connessione con l’impatto sui territori, ma non si deve dimenticare che il Senato rappresenta pur sempre le istituzioni territoriali e questo significa che, sebbene dette “altre azioni” abbiano una unitarietà che non consente di distinguere la dimensione nazionale da quelle territoriali, quella dell’impatto sui territori deve restare la principale prospettiva nella quale il nuovo Senato è tenuto a muoversi.
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E’ proprio in questa prospettiva, che la funzione di verifica conferita al Senato dovrebbe consentire a questo ramo del Parlamento di giocare una partita non secondaria per cercare quel raccordo fra dimensione nazionale e dimensioni territoriali che sinora è stato reso difficile anche dall’assenza di un punto di emersione dei territori ai livelli “alti” delle istituzioni.
L’interrogativo, a questo punto, diventa quello relativo all’adeguatezza degli strumenti di controllo parlamentare apprestati dalla riforma costituzionale per dare al Senato la possibilità di esercitare una efficace funzione di verifica e valutazione. La risposta sembra affermativa : le nuove attribuzioni si presentano come strumenti preziosi, anche se sarà la dinamica politica a dirci se e quanto riusciranno a incidere nella vita delle istituzioni.
La capacità del Senato di operare un collegamento stabile e fruttuoso fra il legislatore nazionale e quelli regionali dipende però da diversi fattori e alcuni interrogativi si pongono al riguardo.
Una Camera investita di questo ruolo di raccordo può davvero svolgere la propria funzione se i suoi componenti sono rappresentativi delle autonomie territoriali, ma perché ciò avvenga è necessario che le modalità di elezione dei senatori siano scritte avendo come criterio fondamentale proprio quello della rappresentatività territoriale, mettendo in secondo piano l’appartenenza partitica. Al contrario, l’ambiguità della nuova norma costituzionale che disciplina l’elezione dei senatori da parte dei Consigli regionali lascia la questione ancora aperta, rinviando a una legge statale che potrebbe muoversi in diverse direzioni. Il disegno che emerge dalla revisione costituzionale non dà risposte risolutive. Il dilemma fra Camera territoriale e Camera politica non viene sciolto. Tutto è ancora da definire e attualmente il “sistema delle Conferenze” è l’unico modo, sicuramente inadeguato, in cui il Governo centrale si coordina con quelli locali.
E’, inoltre, legittimo chiedersi quale impatto potrà avere sull’operatività del Senato il fatto che i suoi componenti debbano svolgere contemporaneamente due tipi di incarichi, importanti ed esigenti.
Il quadro molto articolato e complesso dei nuovi procedimenti legislativi. Riservata alla Camera dei deputati la votazione della fiducia al Governo
Nell’affrontare il nodo del superamento del bicameralismo eguale, il dibattito è stato pressoché interamente attratto dalla questione della legittimazione del Senato quanto all’investitura e alla congruenza con il circuito rappresentativo. Il tema della spettanza e del riparto della potestà legislativa è stato affrontato solo “di risulta”.
Ne è derivato un quadro molto articolato dei procedimenti legislativi. Essi perdono il loro carattere unitario per articolarsi in tre tipi principali : bicamerale paritario, monocamerale, monocamerale con ruolo rinforzato del Senato. In realtà il quadro è più complesso, al punto che in dottrina sono stati individuati ben nove distinti procedimenti legislativi, anche se alcuni di essi si configurano come possibili varianti di altri : di tipo bicamerale paritario, di tipo monocamerale, di tipo monocamerale rinforzato, relativo ai disegni di legge di cui all’art. 81.4 Cost. (che importino nuovi e maggiori spese), abbreviato per ragioni di urgenza, “a data certa”, di approvazione delle leggi di conversione dei decreti legge, conseguente alla richiesta di esame da parte del Senato (nuovo art. 70.3 Cost.), relativo alle proposte di legge di iniziativa popolare.
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La critica all’accentuata pluralità dei procedimenti legislativi previsti dalla riforma non appare però condivisibile. Ignora che già ora la Costituzione prevede vari procedimenti legislativi, con la differenza che in futuro si dovrebbe aver riguardo, nel definire il ruolo del Senato, non alle
“materie” ma a “specifiche leggi”.
Un aspetto rilevante e non sufficientemente chiaro nella riforma è, invece, quello concernente l’esercizio collettivo della funzione legislativa da parte di Camera e Senato. La lista di “leggi bicamerali”, anche se decisamente ampliata in seguito alle modifiche apportate al testo della riforma nel corso dell’iter parlamentare, è difficilmente riconducibile a una chiara logica (non è emersa alcuna precisa e apprezzabile linea istituzionale) e appare incompleto. In particolare, mancano leggi che investono competenze regionali, fra cui fondamentali quelle previste dalla lett.
m dell’art. 117.2 in materia di livelli di tutela dei diritti e delle prestazioni ai cittadini. A questo si aggiunge che la riforma prevede procedure legislative diverse secondo la natura del disegno di legge da approvare e il nuovo art.70.1 Cost. elenca ben sedici ambiti materiali, alcuni dei quali indicati in modo piuttosto indeterminato.
Questi due elementi costituiscono un potenziale rischio di contenzioso fra le due Camere, anche se un paletto costituzionale è la menzione che le leggi bicamerali debbano avere un “oggetto proprio”, ossia non trattare materie disomogenee; ma questo potrebbe non risultare sufficiente.
La domanda da porsi a questo proposito è se l’intesa fra i Presidenti delle Camere (secondo la previsione dell’art. 70.6 Cost.) costituisca un rimedio adeguato per far fronte alla possibile moltiplicazione dei casi di vizi di legittimità formale delle leggi approvate o, per essere più precisi, di vizi derivanti dalle modalità di esercizio del potere legislativo.
Una volta raggiunta l’intesa sull’interpretazione delle norme che regolano la competenza, questa non potrà più esser messa in discussione né formare oggetto del sindacato di legittimità costituzionale, come presuppone la richiamata previsione del nuovo art. 70 della Costituzione. Si tratta, per altro, di una lettura del testo costituzionale dai più non condivisa. La dottrina prevalente lamenta l’insufficienza dell’intesa a mettere in sicurezza il procedimento legislativo da un’estensione del controllo di costituzionalità per vizio formale. Sarebbe stato necessario, al riguardo, stabilire nel testo della Costituzione o l’esplicita insindacabilità in ogni sede dell’intesa presidenziale, e/o la possibilità di demandare la valutazione di detta intesa a un apposito organo, comitato o commissione. Non avendo previsto, nel testo della riforma costituzionale recentemente approvato dal Parlamento alcun controllo dell’intesa raggiunta dai due Presidenti, si potrebbe ancora provvedere inserendo una previsione al riguardo nella legge costituzionale (la n. 1 del 1948) che stabilisce le condizioni, le forme e i termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale.
Il Senato non è più chiamato a votare la fiducia al Governo e non partecipa alla funzione di indirizzo politico dell’azione governativa,
Nei casi in cui l’adozione di una legge faccia capo alle competenze della sola Camera, sono previsti dei meccanismi che assicurano al Senato la possibilità di esaminarla, se lo richiede un terzo dei suoi componenti entro dieci giorni da quando la legge è stata ad esso trasmessa. In generale, le eventuali modifiche proposte dal Senato non sono vincolanti, ma andranno prese in considerazione dalla Camera che si pronuncia, in via definitiva, a maggioranza semplice. L’unica eccezione, è costituita dai casi in cui le leggi sono adottate dalla Camera su richiesta del Governo motivata dalla tutela dell’unità giuridica o economica del Paese o dalla tutela dell’interesse nazionale
(clausola di salvaguardia inserita nel nuovo art. 117.4 Cost.). Verificandosi queste ipotesi, le eventuali modifiche proposte dal Senato a maggioranza assoluta dei suoi componenti potranno essere rigettate dalla Camera dei deputati, ma con votazione a maggioranza assoluta dei propri componenti.
La figura inedita nel panorama costituzionale dello “Stato regionale”.
Il difficoltoso avvio dell’esperienza delle Regioni a statuto ordinario e la nuova, controversa, stagione delle autonomie
La riforma costituzionale di cui si discute si fonda su due pilastri : la fine del bicameralismo paritario e la riscrittura delle norme che regolano i rapporti fra i livelli di governo centrale e periferico per semplificare l’attuale groviglio di competenze fra Stato e Regioni.
Dopo quanto già si è detto a proposito del superamento del bicameralismo perfetto, è opportuno ora cercare di approfondire il secondo fondamentale pilastro della riforma. La relativa valutazione va formulata tenendo anche presente un orizzonte più ampio, quale le ricadute a livello nazionale del processo di integrazione europea e il crescente numero di richieste di maggiore autonomia, avanzate da diversi territori in forme più o meno estese di decentramento amministrativo, costituzione di enti autonomi o passaggio a un sistema federale.
L’aspirazione regionalista risale a subito dopo l’unificazione dello Stato ed è rimasta presente fino all’avvento del fascismo e, con esso, alla soppressione delle autonomie locali. Anche in precedenza, però, contro l’istituzione delle regioni era stata posta la pregiudiziale unitaria, per la quale la fragilità del nuovo Regno d’Italia poteva correre dei pericoli proprio per via di una ripartizione di tipo regionale.
Nel 1946, i membri dell’Assemblea Costituente dovettero pensare l’assetto istituzionale del Paese a partire da un dato di fatto ereditato dal Regno d’Italia e dal fascismo : la forte concentrazione del potere politico, legislativo, amministrativo e giudiziale a livello centrale. Le opzioni al tempo conosciute erano due : mantenere l’accentramento esistente o muoversi verso un assetto di tipo federale. Di fronte a questa alternativa, i Costituenti individuarono una terza via, dando vita a una figura inedita nel panorama costituzionale comparato : lo Stato regionale. Dall’Assemblea Costituente uscirono sconfitte le posizioni di chi concepiva le regioni come entità di decentramento puramente amministrativo, ma anche la Regione descritta nel Titolo V della Carta, benché dotata di competenze legislative (un segno evidente di autonomia politica), risultava impoverita rispetto al disegno originario. Nella Costituzione, furono previste le Regioni ordinarie e fu riconosciuta la specificità di alcune Regioni, dotate di forme proprie di autonomia regolate da appositi statuti. Tuttavia, il ruolo della legge regionale risultava circoscritto entro i confini di una enumerazione modesta.
Durante il dibattito in Assemblea, le tesi che volevano le materie economiche attribuite alle regioni erano state battute da quelle centraliste, tranne che per l’artigianato, e lo stesso era accaduto per la materia scolastica. Delle grandi materie di impegno politico, erano attribuite alle regioni solo l’agricoltura, la sanità e l’urbanistica, mentre angusti erano anche i confini della materia turismo.
L’autonomia statutaria era vincolata dalla previsione dell’approvazione dello statuto regionale in Parlamento. Le funzioni amministrative seguivano il principio del parallelismo con le funzioni
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legislative, L’autonomia finanziaria, pur risultando garantita in Costituzione, era rimessa per intero alla legge statale. Da ultimo, pressoché assenti erano le forme di raccordo fra Stato e Regioni.
Tutto questo, non impediva, per altro, al Titolo V della Costituzione di esprimere una filosofia dello Stato totalmente diversa da quella della tradizione liberale e fascista. Basti pensare, al riguardo, alla possibilità che le leggi della Repubblica demandassero alle Regioni “il potere di adottare norme per la loro attuazione”; e, ancora, alla previsione che lo Stato potesse con legge delegare “alla Regione l’esercizio di altre funzioni amministrative”; in terzo luogo, la possibilità che leggi dello Stato attribuissero “alle Province, ai Comuni o ad altri enti locali le funzioni amministrative di interesse esclusivamente locale “ e, infine, la previsione che la Regione avrebbe esercitato “normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle Province, ai Comuni o ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici”.
Nonostante questo aspetto promettente del testo costituzionale, l’entrata in vigore della Carta non si tradusse però immediatamente nell’inizio della nuova esperienza delle Regioni a statuto ordinario e solo nel 1970 fu possibile procedere all’elezione dei relativi organi.
Si potrebbe attribuire la colpa di tale ritardo al meccanismo costituzionale che ha previsto di affidare la realizzazione del regionalismo alla legge statale. Tuttavia, la responsabilità non può essere attribuita sic et simpliciter al Parlamento. Anche la chiamata in causa della burocrazia statale appare fondata solo in parte. Infatti, la burocrazia statale ha avuto e ha ancora una formazione eminentemente giuridica e la sua impostazione è dipesa dalla formazione che ha ricevuto.
Se c’è una responsabilità eminente nella mancata trasformazione dello Stato e nella pessima realizzazione del regionalismo, essa va ascritta alla scienza giuridica dominante nel nostro Paese.
Lo studio del federalismo nella tradizione giuridica italiana era sempre stato trascurato. Gli studi al riguardo, superato l’iniziale idea di un agevole passaggio dal regionalismo al federalismo vero e proprio, hanno manifestato non poche perplessità sul modo di considerare le disposizioni del Titolo V della Costituzione, rivisto con le leggi costituzionali n. 1/1999 e n. 3/2001. Sono rimasti irrisolti diversi nodi istituzionali. Basti ricordare, per fare un esempio, la vicenda dell’autonomia finanziaria che non è approdata a soluzioni felici nella rivisitazione dell’art. 119 della Costituzione. Dall’intera vicenda emergeva un segnale nuovo, e cioè che la soluzione dei problemi dell’attuazione della riforma avrebbe presupposto il superamento dello schema logico, proveniente dalla tradizione istituzionale, basato sull’analisi del ruolo della regione, dal momento che lo spostamento verso il federalismo avrebbe dovuto imporre invece l’interrogativo sullo Stato e, in particolare, sull’amministrazione statale.
Agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, il quadro politico italiano cambia profondamente con conseguenze sul sistema regionale su due piani : una crescente rilevanza politica delle Regioni e il trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni stesse secondo i criteri delle così dette leggi Bassanini che, oltre a trasferire le competenze residuali dello Stato in campo amministrativo, hanno introdotto il principio di sussidiarietà (per il quale un compito deve essere svolto da un ente inferiore salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario in un ambito più ampio, debba intervenire un ente superiore), senza modificare il testo della Costituzione, tanto da essere qualificato come
“federalismo amministrativo a Costituzione invariata”.
La necessità di dare una base costituzionale alla profonda trasformazione compiuta diede luogo alla riforma del Titolo V della Costituzione, approvata con la Legge costituzionale n. 3/2001.
Questa impostazione, di chiara matrice federalista, venne applicata anche al piano legislativo con una nuova formulazione dell’art. 117 della Costituzione.
La riforma del 2001 ha aperto una nuova stagione delle autonomie nel nostro ordinamento istituzionale, una stagione però controversa : vi sono stati ancora ritardi nel dare attuazione ad alcuni punti qualificanti (come quello dell’autonomia finanziaria), non sono mancate successive battute d’arresto (a seguito, in particolare, della crisi economica) e il riparto delle competenze allora previsto ha dato luogo a una rilevante conflittualità fra Stato e Regioni, aggravata dall’assenza di idonee sedi di confronto fra il potere centrale e quello locale. In questa situazione, l’unica via possibile per comporre le divergenze è stata quella giudiziale presso la Corte costituzionale.
La conflittualità nei rapporti fra Stato e Regioni, prodotta anche dalla difficoltà di realizzare la collaborazione fra i diversi livelli istituzionali, è una delle questioni affrontate dalla nuova riforma costituzionale, attraverso la trasformazione del Senato in Camera delle autonomie. Questo, anche se l’effettiva rappresentanza nel Senato degli interessi territoriali non è un dato acquisito. Infatti, il testo della riforma rinvia, come già si è avuta occasione di dire, a una legge bicamerale le modalità di elezione dei senatori.
Riprendendo l’osservazione precedente, va precisato che il difetto più macroscopico del sistema costituzionale italiano è che siamo l’unico Paese con un governo “multilivello” (Stato, Regioni, Enti locali) che non abbia solide sedi istituzionali di cooperazione. Questo spiega perché si assista a una competizione record fra Regioni e Stato e crei anche una notevole incertezza normativa. Infatti, se viene impugnata una legge (statale o regionale), questa rimane in vigore fino alla sentenza della Corte Costituzionale. Ma, se la Corte accoglie il ricorso e annulla la legge, gli effetti prodotti nel periodo di vigenza dovranno in qualche modo essere cancellati.
Le decisioni della Corte Costituzionale in materia di diritto regionale, in assenza di interventi del potere legislativo. L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale sul riparto delle competenze
Ciò non toglie, per altro, che la Corte Costituzionale abbia prodotto anche nel campo del diritto regionale delle decisioni ragguardevoli.
Emblematica può ritenersi ancor oggi la sentenza n. 225/1983 (avente per oggetto la disciplina degli scarichi in corsi d’acqua e nelle fognature) in cui si è affermato che le Regioni sono state pressochè costrette a inserirsi, con una interpretazione estensiva ma non arbitraria della competenza loro accordata dall’art. 117 Cost., in materie (come l’urbanistica, la caccia e la pesca in acque interne) collegate con la protezione dagli inquinamenti. E la stessa metodologia è stata seguita nella sentenza n. 183/1987, per riconoscere alle Regioni una competenza in materia di protezione ambientale.
Ma, a prescindere da queste decisioni, si deve osservare che quello che in generale si ricava dalla giurisprudenza costituzionale non sembra rendere giustizia al ruolo delle Regioni.
Non potendo ripercorrere analiticamente l’intera giurisprudenza, si possono richiamare solo quelle sentenze che hanno concorso a definire la “fisionomia regionale” del nostro ordinamento. Da questo punto di vista, la prima tesi che sembra inverata, all’inizio dell’esperienza del regionalismo ordinario, è quella che, presupponendo l’esistenza di interessi regionalmente localizzati, la Costituzione ha disposto che essi siano affidati alla cura di enti di corrispondente estensione territoriale (sentenza n. 138 del 1972 ).
Dopo la revisione costituzionale operata dalla legge n. 1/1999, le Regioni iniziarono a riscrivere gli statuti regionali nella convinzione che la loro autonomia politica, organizzativa e costituzionale si fosse ampliata a un punto tale da ritenere accolta, nell’art. 114.1 Cost., una relazione paritaria fra Stato e Regioni. Fra le prime nuove prospettazioni, emerse la convinzione che le assemblee rappresentative regionali fossero paragonabili al parlamento nazionale; in particolare delibere in tal senso furono adottate dalle Regioni Liguria e Marche. Il governo nazionale però reagì e la Corte Costituzionale accolse i ricorsi governativi (sentenze n. 106 e n. 306 del 2002).
La tesi secondo cui i Consigli regionali rappresenterebbero un minus rispetto al Parlamento nazionale è stata incidentalmente ripresa anche nella sentenza n. 1 del 2014 (con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge elettorale nazionale del 2005 relativamente all’attribuzione del premio di maggioranza), osservando che le disposizioni censurate
“consentono una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della rappresentanza politica nazionale” (art. 67 Cost.).
Occorre in proposito ricordare un’altra decisione della Corte (sentenza n. 365 del 2007), con la quale è stato affrontato il tema della sovranità in relazione al regionalismo negando la pretesa della Regione sarda di equiparare, nel proprio statuto, sovranità e autonomia, una pretesa estranea alla configurazione del regionalismo delineata dalla Costituzione e dagli statuti speciali.
La prospettiva gerarchica delle relazioni Stato-Regioni aveva già conosciuto una precisa formulazione nella sentenza n. 274 del 2003, affrontando il problema se, nell’assetto derivante dalla legge costituzionale n. 3/2001, lo Stato, impugnando una legge regionale, potesse dedurre come parametro violato qualsiasi norma costituzionale o solo quelle concernenti il riparto delle competenze legislative. In base alla formulazione originaria dell’art. 117 Cost. si distingueva fra impugnativa delle Regioni contro la legge dello Stato (che avrebbe richiesto un interesse specifico della Regione derivante dall’invasione della sfera di competenza di questa) e impugnativa dello Stato (per il quale doveva riconoscersi invece un interesse generale a ricorrere per qualsiasi violazione delle disposizioni costituzionali, sia relative alla competenza che ad altri principi). La Corte non si è limitata a sottolineare che nel nuovo testo dell’art. 117 si è continuato a prevedere una diversa posizione dello Stato e delle Regioni rispetto alla questione della competenza, ma ha ricondotto la diversa posizione statale a una valutazione dell’intero regionalismo italiano. Ciò anche se ancora una volta si sono scambiate regole di disciplina della competenza con principi del regime politico dello Stato.
Dal punto di vista delle limitazioni processuali delle Regioni, va ricordata anche la sentenza n. 41 del 2014, che ha risolto un conflitto di attribuzione proposto dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, con il quale si lamentava l’attribuzione da parte dell’Ufficio elettorale centrale costituito presso la Corte di Cassazione di un numero si seggi inferiore a quello spettante. La Corte ha sostenuto che la Regione non poteva far valere l’interesse ad avere nella Camera dei deputati una rappresentanza numericamente più consistente in quanto tale interesse non si riferiva a una lesione della propria competenza costituzionale
Si arriva alla sentenza n. 282 del 2002, la prima decisione dopo il nuovo riparto delle competenze legislative operato dalla riforma del 2001, per vedere, sembra, recepita l’innovazione costituzionale, salvo poi ripercorrere un vecchio “clichè” per la definizione dei limiti della competenza concorrente. Di li a poco non sarebbe più servita la limitazione della competenza
statale alla determinazione dei principi fondamentali delle materie di competenza concorrente. La giurisprudenza costituzionale del secondo regionalismo ha forgiato categorie e strumenti di centralizzazione del potere legislativo ben più penetranti di quanto non fosse accaduto nel corso del primo regionalismo, criticando una svalutazione oltre misura delle istanze unitarie ( sentenza n. 303 del 2003). La Corte è arrivata anche ad affermare l’impossibilità di ricondurre un determinato oggetto alla legislazione regionale residuale (ex art. 117, comma 4) per il solo fatto che tale oggetto non sia immediatamente riferibile a una delle materie elencate nei commi precedenti (sentenza n. 370 de 2003).
Secondo un orientamento diffuso si ritiene che la giurisprudenza con la quale la Corte Costituzionale ha inciso sul riparto delle competenze legislative si fondi sul modo in cui la riforma costituzionale (del 2001) è stata compiuta. Al riguardo, si considerano anche le critiche espresse dalla Corte alla perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari (sentenza n. 6 del 2004 ) e alla mancata attuazione di tutto il disegno del regionalismo, come nel caso dell’art. 119 Cost. (sentenza n. 370 del 2003).
Nel più recente passato, poi, la legislazione della crisi sembra aver accentuato il “carattere di servizio” della legge regionale, con un’attenuazione del legame con le competenze regionali costituzionalmente garantite. Da questo punto di vista, vanno ricordate la sentenza n. 39 del 2014 sul controllo della Corte dei Conti della finanza e dei bilanci regionali, e la sentenza n. 19 del 2015 che indebolisce oltremodo il principio di leale collaborazione con le Regioni in nome dei vincoli europei di bilancio.
Ancora, la recente modifica della Costituzione (con la legge costituzionale n. 1 del 2012) ha comportato l’inserimento dell’ “armonizzazione dei bilanci pubblici” nella lettera e) del comma 2 dell’art. 117 Cost., con la corrispondente soppressione delle medesime parole nel comma 3 dello stesso articolo . Si è trattato di uno spostamento di competenza, rafforzato dalla perdurante situazione di crisi, di cui si è resa interprete anche la Corte Costituzionale con la sentenza n. 10 del 2010 (sulla social card), confermata dalla sentenza n. 62 del 2013.
Un sistema sbilanciato a favore dello Stato. La limitazione dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali e la nuova qualificazione del regionalismo
Il sistema delineato dall’ attuale riforma costituzionale, pur toccando diverse disposizioni della Carta tanto da poter incarnare un terzo regionalismo italiano, non v’è dubbio che risulti sbilanciato a favore dello Stato e a scapito delle Regioni.
In particolare, la nuova riforma del Tit.V, Parte Seconda, della Costituzione ha avuto l’effetto di ridurre fortemente l’autonomia tributaria regionale e locale. Essa ha previsto che gli enti sub-statali stabiliscano i tributi secondo quanto disposto dalla legge dello Stato ai fini del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Viene da chiedersi come si interpreta il comma 2 dell’art. 119, secondo il quale i tributi propri non sono più stabiliti (e applicati) dai Comuni, dalle Città Metropolitane e dalle Regioni secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, ma secondo quanto disposto dalla legge dello Stato ai fini di detto coordinamento.
E come si interpreta il comma 2, lett. e), dell’art. 117 Cost. che, a seguito dell’eliminazione dell’attuale comma 3, attribuisce alla potestà legislativa statale tutto il coordinamento …….. e non
solo la fissazione dei principi fondamentali di coordinamento ? Sembra che ogni tributo proprio della Regione debba essere comunque “derivato” e cioè stabilito da una legge dello Stato.
Viene così reintrodotta la regola della gerarchia delle fonti in luogo di quella della competenza stabilita dall’art. 114 della Costituzione. In altri termini, è completamente soppressa, a livello costituzionale, ogni potestà primaria delle Regioni in materia fiscale
Lo Stato è giusto abbia il potere di fissare i principi fondamentali di coordinamento, i tetti di spesa e le norme di armonizzazione dei bilanci pubblici; ma non anche quello di eliminare l’attuale autonomia tributaria degli enti locali e di stabilire esso in via esclusiva, nelle materie di stretta competenza regionale e locale, specifiche e assorbenti norme di dettaglio, fortemente limitative dell’autonomia finanziaria.
Questo va detto anche se non si può ignorare la considerazione che, data la situazione del debito pubblico, i governi centrali hanno sempre dovuto tenere sotto controllo la finanza degli enti territoriali, sia pure a costo di forti tensioni, ponendo limiti per altro consentiti da sentenze della Corte Costituzionale. Un’altra spiegazione del ritorno a una forma di centralizzazione della politica tributaria è che la legge del 2009 sul federalismo fiscale, al di là dei proclami, in realtà ha realizzato un notevole accentramento attraverso i costi e i fabbisogni standard, idea questa che è stata recepita nel progetto di riforma diventando precetto costituzionale.
Ma, nonostante queste realtà manifestatesi negli ultimi anni, nulla impedisce allo Stato di definire, con legge ordinaria, degli ulteriori spazi di autonomia finanziaria a favore degli enti territoriali.
Rimane, inoltre, la possibilità di attuare forme di federalismo differenziato (ex art. 116, comma 3 della Costituzione) a favore di regioni con i conti in ordine, anche se il procedimento di attribuzione alle singole Regioni dei relativi poteri dipende dalla volontà del legislatore nazionale.
Un altro rilevante aspetto della riforma costituzionale in questione riguarda la nuova disciplina del potere legislativo. Nel nuovo assetto dell’art. 117 Cost. abbiamo una bipartizione : da un lato, la legislazione esclusiva statale, la cui estensione è stata ampliata alla luce anche della giurisprudenza costituzionale recente al riguardo; dall’altro, la competenza delle Regioni per alcune materie espressamente menzionate nel comma 3 e la conferma di una competenza regionale residuale da parte della medesima norma.. Fra le materie integralmente aggiunte a quelle che il vigente art. 117 già attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato, ve ne sono alcune rilevantissime : solo per fare qualche esempio, il “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, le
“disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per le politiche sociali e per la sicurezza alimentare”, l’ “ordinamento scolastico, le disposizioni generali e comuni in tema di istruzione e formazione professionale”, la “tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici”, le disposizioni in tema di “attività culturali e del turismo”, le “disposizioni generali e comuni sul governo del territorio”, i “porti e aeroporti civili di interesse nazionale “ (e internazionale).
Non sembrano, invece, adeguatamente salvaguardate, nel testo della riforma, le competenze legislative regionali. Viene inoltre specificato che il contenuto essenziale della potestà legislativa regionale è dato dall’ “interesse regionale alla pianificazione, alla dotazione infrastrutturale del territorio regionale e alla mobilità al suo interno, all’organizzazione dei servizi alle imprese, dei servizi sociali dell’istruzione e formazione professionale”.
Ma se la competenza legislativa primaria della Regione resta residuale, che senso ha la successiva specificazione, nella citata norma, che la Regione deve aver riguardo solo all’interesse regionale relativo ai servizi e valori di rilevanza regionale ?
Una riprova dell’estrema compressione dei poteri legislativi regionali, che deriverebbe per altro non tanto da un disegno istituzionale quanto dalla congiuntura economica, può essere ricavata dall’esame di quali siano i condizionamenti che incontreranno le Regioni a esercitare quanto in apparenza è ad esse garantito dalla lettera del nuovo comma 3 dell’art. 117 della Costituzione.
Se, poi, si considera quanto è previsto relativamente alle competenze esclusive dello Stato nelle medesime materie, si può affermare che le Regioni, in realtà, non dispongono che di marginali poteri di attuazione, nel territorio regionale, della legislazione statale, per di più ulteriormente comprimibile dal legislatore statale. In altri termini, alle Regioni non è garantito alcun spazio normativo, neppure in ambiti e per interessi tipicamente regionali, salvo quanto sia permesso dalla legislazione statale in materia.
Data la drastica riduzione dell’area in cui le Regioni possono legiferare, assume paradossalmente una importanza minore la previsione, per la prima volta nel nostro ordinamento, della così detta
“clausola di salvaguardia” (che, ai sensi dell’art. 117.4 Cost., consente interventi dello Stato in materie non espressamente riservate alla sua competenza) , anche se non si può ancora dire in che termini essa potrà operare. La sua ampiezza e incisività dipenderà dall’interpretazione, più o meno estensiva, che verrà data ai concetti di unità giuridica o economica e a quello di interesse nazionale.
Lo sbilanciamento a favore delle competenze statali, che riguarda non solo le funzioni legislative ma anche quelle amministrative, apre due questioni fra loro collegate : la prima è la qualificazione del nostro regionalismo, mentre la seconda concerne il ruolo della Corte Costituzionale.
Occorre chiedersi se la forma di Stato delineata dalla riforma costituzionale mantenga o meno i tratti dello “Stato regionale”. Una risposta in proposito dipenderà dal modo in cui lo Stato eserciterà i suoi poteri in relazione ai territori. Se questi compiti saranno distribuiti e articolati in modo significativo fra Stato e Regioni, si potrà ancora parlare di regionalismo. Viceversa, se la spinta centralista della riforma prevarrà relegando le Regioni a un ruolo secondario di semplice recepimento delle scelte statali, allora verrà meno il regionalismo, pur permanendo un certo grado di decentramento amministrativo.
In questa alternativa, sarà certamente di primaria rilevanza il ruolo dal giudice costituzionale.
Infatti, fintanto che il testo costituzionale è stato formulato in termini di garanzie per le Regioni nei confronti dello Stato (a partire soprattutto dal 2001), la giurisprudenza costituzionale è stata animata dall’intento di salvaguardare l’unità dell’ordinamento giuridico. Invece, dopo la riforma, di fronte al nuovo potere che la nuova riforma concederà al governo centrale, alla Corte sarà chiesto di offrire una garanzia ai principi costituzionali del regionalismo.
La revisione delle norme sul’iniziativa legislativa e la conferma delle garanzie democratiche
Fra le modifiche della Costituzione previste dalla riforma approvata dal Parlamento il 12 aprile scorso, figura la revisione delle norme relative all’iniziativa legislativa, che è riconosciuta al Governo, alla Camera dei deputati (che la esercita da sola salvo i casi in cui in cui sia prevista l’approvazione collettiva di una legge), a ciascun membro della Camera dei deputati e al Senato in quanto tale e non ai singoli senatori (testo modificato dell’art. 71 Cost.). La stessa iniziativa è mantenuta in capo agli elettori, anche se è innalzata (da 50mila a 150mila firme) la soglia per presentare i disegni di legge. Sono poi previste altre forme di partecipazione degli elettori all’esercizio della funzione legislativa con l’introduzione delle figure di referendum propositivi e di indirizzo, oltre ad altre forme di consultazione (anche delle formazioni sociali) disciplinate da una legge bicamerale, Anche l’istituto referendario abrogativo viene modificato per quanto
riguarda il quorum da raggiungere se la relativa proposta è presentata da 800mila elettori (nuovo art. 75 Cost.).
Va ancora segnalata la revisione della decretazione d’urgenza (volta a limitare gli abusi al riguardo) e l’introduzione della possibilità per il Governo di chiedere la trattazione in termini celeri dei disegni di legge indicati come essenziali per l’attuazione del programma governativo.
Contrariamente a quanto affermato da alcuni, non vengono ridotte le garanzie democratiche.
La riforma introduce lo statuto delle opposizioni per la Camera dei deputati e la tutela dei diritti delle minoranze in entrambi i rami del Parlamento.
Queste previsioni dovranno per altro essere tradotte in nuove disposizioni dei regolamenti parlamentari.
Nell’ambito delle garanzie costituzionali va annoverata anche la nuova disciplina dell’elezione del Capo dello Stato da parte del Parlamento in seduta comune, con l’innalzamento del quorum rispetto a quello attuale.
La risposta ad alcune domande per meglio cogliere le ragioni della scelta referendaria
Per poter cogliere le ragioni sia politico-istituzionali che tecnico-giuridiche della scelta referendaria è opportuno tentare di rispondere preliminarmente ad alcune domande, che possono essere formulate nei termini sotto elencati.
La riforma costituzionale :
a) Si occupa di questioni rilevanti ? Cerca di affrontare le vere priorità costituzionali ? Di grande rilievo, nell’ordine, la trasformazione del sistema bicamerale, il tentativo di chiarire i rapporti fra Stato e Regioni attualmente insoddisfacenti, il potenziamento dell’iter legislativo per i progetti governativi, la limitazione dei decreti legge, il tentativo di rilanciare gli istituti di partecipazione popolare.
In questo quadro la priorità, ai fini della governabilità, è la soppressione della doppia fiducia.
b) Come si pone rispetto alla nostra tradizione costituzionale (elaborazioni degli studiosi e iniziative parlamentari) ?
Le soluzioni individuate sono in linea di continuità con la storia costituzionale italiana del dopoguerra. Già all’Assemblea Costituente fu avanzata la proposta di un Senato formato per un terzo da senatori eletti indirettamente dai Consigli regionali. L’idea fu poi abbandonata per la scelta prudenziale di suddividere la sovranità popolare in due assemblee quasi identiche.
Dagli anni ’80 del secolo scorso si va cercando come differenziare le due Camere per rappresentanza e funzioni. Da decenni la maggior parte degli studiosi ha identificato nella rappresentanza territoriale l’unica valida ragion d’essere di una seconda Camera.
c) Dal punto di vista tecnico appare adeguata ?
A questo interrogativo si può dare una risposta affermativa.
Il processo legislativo è più complesso, ma ciò è inevitabile se si passa da un contesto in cui le due Camere fanno le identiche cose a uno nel quale va specificato che cosa e con quali poteri differenziati può operare d’ora in poi una di esse (il Senato).
L’obiettivo strategico è quello di portare al centro del sistema parlamentare, in una delle due Camere, gli interessi delle istituzioni territoriali.
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L’altra scelta fondamentale, l’abolizione della competenza legislativa concorrente Stato- Regioni, tocca una materia molto tecnica sulla quale gli studiosi sembrano divisi.
Tuttavia, quella indicata dalla riforma sembra una buona soluzione : ci sono materie riservate allo Stato, il resto è regionale (anche se lo Stato potrà sempre intervenire).
Le ragioni di conflitto dovrebbero così essere ridotte.
d) Ha una sua coerenza interna ?
La riforma si può dire che abbia una solida coerenza interna. Questa è una delle ragioni per cui, ad avviso dei proponenti, non è sensato sottoporla a diversi referendum, opzione che, per altro, non è prevista dall’ordinamento (né dalla Costituzione, né dalla L. 352/1970 che disciplina il referendum).
I Senatori restano anche consiglieri regionali e sindaci, proprio per un mutuo scambio di interessi ed esperienze. Il Governo ottiene una corsia preferenziale per i suoi progetti, mentre è limitato il suo potere di decretazione.
Si rafforza la governabilità, si rilanciano gli istituti di partecipazione e si introducono nuove garanzie come la possibilità per le minoranze di ricorrere alla Corte Costituzionale sulle leggi elettorali.
e) Pone incertezze e dubbi interpretativi ?
La maggior incertezza riguarda l’interpretazione della norma sulla composizione del Senato : l’elezione dei senatori è indiretta ma anche in qualche modo collegata al voto popolare al momento delle elezioni regionali. La futura legge elettorale per il Senato potrà spingere verso senatori più politici o verso senatori più direttamente legati alle istituzioni territoriali e meno influenzati dai partiti.
Poco chiaro risulta, inoltre, l’esercizio collettivo da parte della Camera e del Senato della funzione legislativa .
f) Abbisogna di adempimenti successivi ? Se si, qual’ è la probabilità che siano attuati ? Di certo la riforma imporrà vari adempimenti successivi : la legge elettorale per il Senato, nuovi regolamenti parlamentari, nuova disciplina dei referendum e delle proposte di iniziativa legislativa popolare.
La realizzazione di questi adempimenti dipenderà dalla volontà politica ma sicuramente, se la riforma sarà approvata, la volontà politica potrà esprimersi più agevolmente, quale che sia.
g) In sintesi, l’ordinamento costituzionale , se la riforma venisse approvata, sarebbe più funzionale di quello attuale o viceversa ?
L’organizzazione costituzionale sarà molto probabilmente più funzionale e anche meno costosa. E il risparmio sarà non solo finanziario ma soprattutto in termini di aumentata capacità operativa
Riprendendo quanto già accennato riguardo a una delle domande affrontate per meglio cogliere le ragioni della scelta referendaria, va posta attenzione a talune norme per così dire “aperte” che, per la loro indeterminatezza, rinviano, ai fini dell’attuabilità, a successive leggi costituzionali e/o ordinarie. Tale è, ad esempio, la norma già menzionata che rinvia a una legge bicamerale la regolamentazione delle “modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato tra i consiglieri (regionali) e i sindaci”.
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Si configura, del pari, come clausola “aperta”, suscettibile di contemplare diverse opzioni, quella che demanda a una legge costituzionale la determinazione di “condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e di indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali” e demanda a una legge ordinaria bicamerale le relative “modalità di attuazione”. Questa clausola, operando un duplice rinvio a una futura legislazione , di rango costituzionale e di rango ordinario, rappresenta una fonte di ambiguità e incertezza.
Ma, soprattutto, un aspetto peculiare della riforma costituzionale di cui si tratta riguarda la sua applicazione. Se si prescinde infatti da poche norme di immediata applicazione, le principali disposizioni si applicheranno “a decorrere dalla legislatura successiva allo scioglimento di entrambe le Camere”.
Le critiche dei contrari alla riforma
Per una obiettiva valutazione della scelta referendaria non si possono ignorare le principali critiche espresse dai contrari alla riforma, che possono essere sintetizzate in tre punti :
a) Critiche di metodo
Le riforme sarebbe bene fossero fatte da tutti insieme. Invece, l’intero procedimento con il quale è stata approvata in sede parlamentare la riforma, si è concluso senza riuscire a superare le divisioni fra maggioranza e opposizioni.
Ciò anche se il Governo ha proposto e il Parlamento ha disposto, cambiando ben 27 dei 41 articoli iniziali con aggiunte significative e anche qualche peggioramento. Ma, così funziona la democrazia parlamentare.
b) Critiche sulla legittimazione
Si è detto che questo Parlamento non era legittimato ad approvare la riforma costituzionale perchè formato sulla base di una legge elettorale(del 2005) dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale.
Ciò, anche se la Corte si è pronunciata solo su una parte della legge elettorale precisando che il Parlamento restava pienamente legittimato e, inoltre, in ossequio al principio di continuità istituzionale, ha riconosciuto la perdurante legittimità delle Camere. Tuttavia, un conto è riconoscere l’idoneità del Parlamento a svolgere le ordinarie funzioni istituzionali, e un altro conto è ritenere che questo stesso Parlamento possa procedere a un’estesa revisione costituzionale
Nella stessa sentenza del 2014, la Corte Costituzionale ha ricordato che, proprio in virtù del loro carattere rappresentativo, alle Camere sono affidate funzioni fondamentali fra cui quelle connesse alla revisione costituzionale (art. 138 Cost.) . Da questo passaggio della sentenza, si può evincere un monito per un esercizio prudente del potere di revisione costituzionale, ossia solo con un consenso ampio e trasversale. Né si può superare l’obiezione con l’idea che il referendum valga a sanare questo strappo. Il referendum costituzionale si configura quale garanzia aggiuntiva, non sostitutiva, del consenso parlamentare
D’altra parte, senza il premio di maggioranza, assegnato prima della pronuncia di illegittimità della Corte, le forze che hanno approvato la riforma non avrebbero avuto i numeri per concludere positivamente la fase parlamentare di revisione.
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c) Critiche di merito
La riforma, combinata con la nuova legge elettorale, metterebbe tutto nelle mani di un solo partito, anche se è vero che essa persegue una più efficace e stabile governabilità. A questo proposito, si è posto il problema dei rapporti fra legge elettorale e riforma costituzionale e si è detto, da un lato, che la seconda senza la prima non può favorire la stabilità dei governi. D’altro canto, si è affermato che la riforma costituzionale è compatibile con qualunque sistema elettorale.
In verità, quest’ultima posizione sembra fondata, ma non coglie l’essenziale, dal momento che alcuni contenuti della riforma costituzionale (come la semplificazione del procedimento legislativo e il voto a data certa sulle proposte prioritarie del Governo) serviranno a poco se i governi non dovessero durare a lungo.
Un’altra critica riguarda il procedimento legislativo, ritenuto complicato. In realtà, i procedimenti principali sono due (bicamerale e a prevalenza della Camera) con una variante (con ruolo rafforzato del Senato per le leggi che “invadono” le competenze regionali). Poi, ci sono alcuni procedimenti speciali, come ci sono già oggi anche se diversi dagli attuali.
Un punto fondamentale della riforma è il superamento del bicameralismo paritario. Si tratta di una riforma attesa da decenni, posto che già dai tempi dell’Assemblea Costituente si era prospettato, senza successo, un Senato disegnato secondo un principio rappresentativo differente e con funzioni diversificate rispetto alla Camera dei Deputati
Ciò nondimeno, la soluzione adottata nell’attuale progetto di riforma costituzionale appare confusa e anche contraddittoria, dal momento che sembra volere un Senato delle autonomie territoriali nel solco delle riforme federali della seconda metà degli anni ’90 del secolo scorso e di quella costituzionale del 2001 mentre, invece, rispetto a quel solco, segna un deciso ripensamento, riaccentrando molte competenze legislative e introducendo una clausola di supremazia.
Si proclama il superamento della competenza legislativa concorrente Stato-Regioni, ma essa rientra dalla finestra sotto forma di materie affidate allo Stato in termini di “norme generali” o simili. Inoltre, la riforma inciderà, con effetti restrittivi, solo sulle competenze delle Regioni a statuto ordinario, con conseguente, ulteriore, accentuazione della condizione di privilegio delle Regioni a statuto speciale. Anzi, una norma transitoria prevede che la revisione degli statuti speciali dovrà avvenire sulla base di intese con le Regioni medesime e le Province autonome, come dire che i privilegi si potranno revocare solo con l’accordo del privilegiato
La rappresentanza delle Regioni nel Senato è perseguita in una modalità ambigua. Si è scelta una soluzione compromissoria per la quale i senatori saranno eletti “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri” . Siamo di fronte a un ibrido fra una sicura espressione di istituzioni territoriali e una genuina legittimazione diretta popolare.
Ancora, per quanto riguarda il bicameralismo, se può essere accolta con favore la riserva in capo alla Camera dei Deputati del rapporto di fiducia con il Governo, più di una perplessità solleva la pletora di procedimenti legislativi differenziati introdotti dalla riforma.
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Si prospetta il rischio che questa varietà di procedimenti aggiunga all’esistente conflittualità Stato- Regioni una nuova conflittualità, quella fra Camera e Senato.
Limiti ed errori della riforma
Le critiche dei contrari alla riforma che abbiamo indicato non sono di poco conto, anche se non valgono a giustificare una opposizione pregiudiziale. Lo stesso si deve dire dei limiti e degli errori della riforma costituzionale.
La riforma si qualifica essenzialmente per il superamento del bicameralismo paritario, con la revisione del Senato e il rimodellamento delle competenze delle Regioni.
Su entrambi i temi è innegabile che vi sia l’esigenza di una revisione costituzionale. Tuttavia, le soluzioni approvate dal Parlamento sono ritenute soddisfacenti solo da alcuni commentatori.
I principali difetti della soluzione proposta riguardano : a) La funzione legislativa
Al nuovo Senato non è assegnato solo un compito di raccordo con le istituzioni locali, ma anche la partecipazione alla funzione legislativa nazionale.
Ora, le leggi bicamerali sono molto eterogenee fra loro e, paradossalmente, solo in modo molto limitato si riferiscono a materie regionali. Inoltre, il riparto fra materie riservate alla sola Camera e quelle bicamerali è tutt’altro che chiaro, sicchè è facile ipotizzare dei conflitti.
b) I rapporti col Governo sono influenzati dalla clausola di salvaguardia che lascia il Governo stesso arbitro dell’autonomia regionale.
c) L’indebolimento dell’autonomia regionale
Il Senato come Camera di rappresentanza delle Regioni e dei comuni, che sembra l’approdo di idee proposte da decenni, non trova riscontro nel prodotto normativo della riforma, che limita le competenze delle Regioni secondo una logica legata più all’attuale congiuntura che a un reale disegno istituzionale. Colpisce, poi, l’introduzione della clausola che consegna al Governo il potere di intervento nel processo legislativo nell’interesse nazionale, in danno dell’autonomia regionale.
d) La natura disomogenea della riforma relativa alla democrazia e alla partecipazione
A fronte di uno scenario di profonda crisi della democrazia, della partecipazione e della fiducia nei confronti delle istituzioni, era logico attendersi che la riforma fosse diretta a rivitalizzare i processi democratici e a cercare la più ampia partecipazione possibile.
Invece, muove nella direzione opposta, in primo luogo per la disomogeneità del suo contenuto. I temi affrontati non sono di immediata comprensione e la necessaria chiarezza è difficile da raggiungere dal momento che vanno affrontati tutti nello stesso momento. I cittadini, che potrebbero avere opinioni diverse su singoli temi, sarebbero stati indotti a una maggiore partecipazione se si fosse diviso il referendum per blocco di materie.
e) La trasformazione della Costituzione in terreno di scontro fra maggioranza e minoranza La Costituzione dovrebbe essere un patrimonio comune, un terreno di composizione delle differenze. Fare invece della Costituzione l’oggetto di un plebiscito a favore o contro un gruppo dirigente, costituisce un grave errore.
Le vere domande che ci si devono porre riguardano le conseguenze del voto sull’esercizio
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della democrazia nel nostro Paese, sull’articolazione e il rapporto fra i poteri, sul bilanciamento fra autonomie locali e unità nazionali, anche se il meccanismo del referendum, ponendo la scelta tra un “si” all’intera modifica e un “no” al suo totale rigetto, finisce per porre i cittadini di fronte a un’alternativa forse troppo stretta.
Rispondendo a una domanda sulla coerenza interna della riforma, si è detto che tale coerenza era una delle ragioni per cui, ad avviso dei proponenti, non aveva senso articolare il referendum in più quesiti. Ma, d’altra parte, anche senza spingersi a ritenere violata la libertà di voto dell’elettore e incostituzionale una parte della legge n. 352 del 1970 sul referendum, sembra si possa condividere l’idea che, quando una legge sottoposta a referendum abbia contenuto plurimo ed eterogeneo, debbano essere previsti tanti quesiti quanti sono gli articoli o le parti “omogenei” della legge stessa.
Per una decisione consapevole. Il passo da compiere pensando al futuro del Paese
Anche se le osservazioni svolte a proposito del meccanismo referendario non sono irrilevanti, è innegabile che la scelta a cui gli elettori sono chiamati è fra due opzioni : mantenere lo status quo o modificare la Costituzione, entrambe legittime, entrambe con dei “pro” e dei “contro”.
A questo punto, la domanda che deve guidare nel discernimento è quale delle due alternative permette di avvicinarsi maggiormente all’ordinamento desiderato. E’ necessario concentrarsi sul futuro da costruire per l’Italia.
Affrontando i molteplici aspetti della problematica relativa alla riforma costituzionale che sarà sottoposta a referendum confermativo, si è inteso soprattutto offrire delle informazioni e dei riferimenti per favorire una decisione la più consapevole possibile, senza per altro venir meno all’indicazione, al termine, dell’alternativa ritenuta preferibile.
La riforma considerata, a voler trarre alcune conclusioni, non è priva di ambiguità e nodi irrisolti, ma è anche una riforma di cui non si possono disconoscere finalità positive volte ad aggiornare e adeguare ai tempi una Costituzione approvata quasi settant’anni fa, nonché a correggere alcune distorsioni derivare da non ben ponderate revisioni come quella del Titolo V, operata nel 2001.
Così, sotto un altro profilo, appare indispensabile intervenire sulla forma di governo, potenziando sostanzialmente, anche se indirettamente, il ruolo dell’esecutivo. E così, è anche innegabile la necessità di ripensare il regionalismo che, dopo l’accennata riforma del Tit. V della Costituzione, non solo non ha dato gli esiti sperati ma si è spesso rivelato fonte di disfunzioni nel funzionamento delle pubbliche amministrazioni, di legislazioni a volte incongrue, nonché di contenziosi fra i poteri centrale e locale che hanno indotto la Corte Costituzionale a “ridisegnare” con “letture riduttive” gli ambiti delle competenze regionali.
Occorre, inoltre, guardare alla riforma dal punto di vista dell’appartenenza del nostro Paese alla Comunità Europea, ponendosi, al riguardo, due domande :
1. Se la riforma rafforza o meno, rispetto al sistema costituzionale attuale, la posizione dell’Italia nel contesto dell’Unione.
Negli organismi intergovernativi europei contano la coesione e la credibilità di ciascuno dei paesi rappresentati che dipendono dalla continuità dell’azione di governo, e la riforma costituzionale può favorire la stabilità degli esecutivi, perché :